Dives in misericordia 6
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Questa precisa immagine dello stato d'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in che cosa consista la misericordia divina.
Non vi è alcun dubbio che in quella semplice, ma penetrante analogia, la figura del genitore ci svela Dio come Padre. Il comportamento del padre della parabola e tutto il suo modo di agire, che manifestano il suo atteggiamento interiore, ci consentono di ritrovare i singoli fili della visione vetero-testamentaria della misericordia in una sintesi totalmente nuova, piena di semplicità e di profondità.
Il Padre del figliol prodigo è fedele alla sua paternità, fedele a quell'amore, che da sempre elargiva al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto con la prontezza immediata nell'accoglierlo in casa, quando ritorna dopo aver sperperato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con quella gioia, con quella festosità così generosa nei confronti del dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l'opposizione e l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal padre e non ne aveva abbandonato la casa.
La fedeltà a se stesso da parte del padre - un tratto già noto dal termine vetero-testamentario "hesed" - viene al tempo stesso espressa in modo particolarmente carico di affetto. Leggiamo, infatti, che, quando il padre vide il figliol prodigo tornare a casa, "commosso gli corse incontro, gli si getto al collo e lo bacio" (Lc 15,20). Egli agisce certamente sotto l'influsso di un profondo affetto, e così può essere spiegata anche la sua generosità verso il figlio, quella generosità che tanto indigna il fratello maggiore. Tuttavia, le cause di quella commozione vanno ricercate più in profondità. Ecco, il padre è consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene dell'umanità del suo figlio. Sebbene questi abbia sperperato il patrimonio, è pero salva la sua umanità. Anzi, essa è stata, in qualche modo, ritrovata. Lo dicono le parole che il padre rivolge al figlio maggiore: "Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato" (Lc 15,32). Nello stesso capitolo XV del Vangelo secondo Luca leggiamo la parabola della pecora ritrovata (cfr. Lc 15,3-6) e, successivamente, la parabola della dramma ritrovata (cfr. Lc 15,8s). Ogni volta vi è posta in rilievo la medesima gioia, presente nel caso del figliol prodigo. La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità. così si spiega soprattutto la gioiosa commozione al momento del suo ritorno a casa.
Proseguendo, si può dunque dire che l'amore verso il figlio, l'amore che scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver sollecitudine della dignità del figlio. Questa sollecitudine costituisce la misura del suo amore, l'amore di cui scriverà poi san Paolo: "La carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della verità..., tutto spera, tutto sopporta" e "non avrà mai fine" (1Co 13,4-8). La misericordia - come l'ha presentata Cristo nella parabola del figliol prodigo - ha la forma interiore dell'amore, che nel Nuovo Testamento è chiamato agape. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e "rivalutato". Il padre gli manifesta, innanzitutto, la gioia che sia stato "ritrovato" e che sia "tornato in vita". Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica, inoltre, un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il ritorno alla verità su se stesso.
Ciò che si è verificato nel rapporto del padre col figlio nella parabola di Cristo non si può valutare "dall'esterno". I nostri pregiudizi sul tema della misericordia sono per lo più il risultato di una valutazione soltanto esteriore.
Alle volte, seguendo un tale modo di valutare, accade che avvertiamo nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siamo pronti a dedurre che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità dell'uomo. La parabola del figliol prodigo dimostra che la realtà è diversa: la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria. Questa comune esperienza fa si che il figliol prodigo cominci a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità (tale visione nella verità è un'autentica umiltà); e per il padre, proprio per questo motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede con così limpida chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa irradiazione della verità e dell'amore, che sembra dimenticare tutto il male che il figlio aveva commesso.
La parabola del figliol prodigo esprime in modo semplice, ma profondo, la realtà della conversione. Questa è la più concreta espressione dell'opera dell'amore e della presenza della misericordia nel mondo umano. Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male, esistenti nel mondo e nell'uomo. così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione. Allo stesso modo intendevano e praticavano la misericordia i suoi discepoli e seguaci. Essa non cesso mai di rivelarsi, nei loro cuori e nelle loro azioni, come una verifica particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia "vincere dal male", ma vince "con il bene il male" (Rm 12,21). Occorre che il volto genuino della misericordia sia sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai nostri tempi.
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Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mysterium paschale, se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell'Enciclica "Redemptor Hominis". Se, infatti, la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inaudita dell'uomo, qui talem ac tantum meruit habere Redemptorem, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e "storico", di svelare la profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal "principio" scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.
Gli eventi del Venerdi santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono in tutto il corso della rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che "passo beneficando e risanando" (Ac 10,38) e "curando ogni malattia e infermità" (Mt 9,35) sembra ora egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti (cfr. Mc 15,37 Jn 19,30). E' allora che merita particolarmente la misericordia dagli uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia, pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: "Per le sue piaghe noi siamo stati guariti" (Is 53,5).
Cristo, come uomo che soffre realmente e in modo terribile nell'Orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al Padre, a quel Padre, il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata - proprio a lui - la tremenda sofferenza della morte in croce: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo tratto da peccato in nostro favore" (2Co 5,21), scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo - nel fatto che il Padre non risparmio il suo Figlio, ma "lo tratto da peccato in nostro favore" (2Co 5,21) - si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una "sovrabbondanza" della giustizia, perché i peccati dell'uomo vengono "compensati" dal sacrificio dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia "su misura" di Dio, nasce tutta dall'amore: dall'amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore. Proprio per questo la giustizia divina, rivelata nella croce di Cristo, è "su misura" di Dio, perché nasce dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità, che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.
Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell'ordine salvifico, che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e, mediante l'uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell'amore, di cui l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato gratificato secondo l'eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. E' l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama desidera donare se stesso.
La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quell'admirabile commercium, di quel mirabile comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all'uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sé tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, e affinché come figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell'amore, che è in Dio e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell'eterna elezione dell'uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come "luce da luce, Dio vero da Dio vero", è venuto a dare l'ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo - con ogni uomo.
Questa alleanza, antica come l'uomo - risale al mistero stesso della creazione - e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l'alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno.
Che cosa, dunque, ci dice la croce di Cristo, che è, in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e della sua missione messianica? Eppure, questa non è ancora l'ultima parola del Dio dell'alleanza: essa sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta l'annuncio: "E' risorto". Essi lo ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la quale - attraverso tutta la testimonianza messianica dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte - parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, poiché "ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Jn 3,16). Credere nel Figlio crocifisso significa "vedere il Padre" (cfr. Jn 14,9), significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male, in cui l'uomo, l'umanità, il mondo sono coinvolti.
Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa, infatti, è la dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo "perire nella Geenna" (Mt 10,28).
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La croce di Cristo sul Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza "fino alla morte" (Ph 2,8).
Colui, che era senza peccato, "Dio lo tratto da peccato in nostro favore" (2Co 5,21). Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della storia dell'uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui, che era senza peccato e che unico poteva - mediante la propria morte - infliggere morte alla morte (cfr. 1Co 15,54s). In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio, consostanziale al Padre, rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell'amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e alla morte.
La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulo una volta nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4,18-21) e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista (cfr. Lc 7,20-23). Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia (cfr. Is 35,5 Is 61,1ss), tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male, di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo, infatti, ci fa comprendere le più profonde radici del male, che affondano nel peccato e nella morte, e così diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa.
Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo "è risuscitato il terzo giorno" (1Co 15,4) costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male.
Ciò costituisce al tempo stesso il segno, che preannuncia "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap 21,1), quando Dio "tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate" (Ap 21,4).
Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo- programma di misericordia- diviene il programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che "le cose di prima" non passeranno (cfr. Ap 21,4), la croce rimarrà quel "luogo", al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di Giovanni: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verro da lui, cenero con lui ed egli con me" (Ap 3,20). In modo particolare, Dio rivela anche la sua misericordia, quando sollecita l'uomo alla "misericordia" verso il suo proprio Figlio, verso il Crocifisso.
Cristo, appunto come Crocifisso, è il Verbo che non passa (cfr. Mt 24,35), è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo (cfr. Ap 3,20), senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà l'amore, che è non soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell'uomo, ma anche, in certo modo, "misericordia" manifestata da ognuno di noi al Figlio dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui che contemporaneamente "manifesta la misericordia"? In definitiva, Cristo non prende forse tale posizione nei riguardi dell'uomo, quando dice: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me"? (Mt 25,40). Le parole del Discorso della montagna: "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia" (Mt 5,7), non costituiscono, in un certo senso, una sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il "mirabile scambio" (admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed insieme "dolce" dell'economia stessa della salvezza? Queste parole del Discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del "cuore umano" ("essere misericordiosi"), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che, a sua volta, rivela la perfezione della giustizia? Il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell'inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel Cenacolo: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Jn 14,9).
Infatti Cristo, che il Padre "non ha risparmiato" (Rm 8,32) in favore dell'uomo e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. "Non è un Dio dei morti, ma dei viventi" (Mc 12,27). Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla risurrezione. Ed è per questo che - quando ricordiamo la croce di Cristo, la sua passione e morte - la nostra fede e la nostra speranza s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo, che "la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato... si fermo in mezzo a loro" nel Cenacolo, "dove si trovano i discepoli, ...alito su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi" (Jn 20,19-23).
Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine - e, in certo senso, già oltre il termine - della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del Salmo: Cantero in eterno le misericordie del Signore (Ps 89[88],2).
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In queste parole pasquali della Chiesa risuonano, nella pienezza del loro contenuto profetico, quelle già pronunciate da Maria durante la visita fatta a Elisabetta, moglie di Zaccaria: "Di generazione in generane la sua misericordia" (Lc 1,50). Esse, già dal momento dell'incarnazione, aprono una nuova prospettiva della storia della salvezza. Dopo la risurrezione di Cristo questa prospettiva è nuova sul piano storico e, al tempo stesso, lo è sul piano escatologico. Da allora si susseguono sempre nuove generazioni di uomini nell'immensa famiglia umana, in dimensioni sempre crescenti; si susseguono anche nuove generazioni del Popolo di Dio, segnate dallo stigma della croce e della risurrezione, e "sigillate" (cfr.2Co 1,21s) con il segno del mistero pasquale di Cristo, rivelazione assoluta di quella misericordia che Maria proclamo sulla soglia di casa della sua parente: "Di generazione in generazione la sua misericordia" (Lc 1,50).
Maria è anche colei che, in modo particolare ed eccezionale - come nessun altro -, ha sperimentato la misericordia e al tempo stesso, sempre in modo eccezionale, ha reso possibile col sacrificio del cuore la propria partecipazione alla rivelazione della misericordia divina. Tale sacrificio è strettamente legato alla croce del Figlio, ai piedi della quale ella doveva trovarsi sul Calvario.
Questo suo sacrificio è una singolare partecipazione al rivelarsi della misericordia, cioè alla fedeltà assoluta di Dio al proprio amore, all'alleanza che egli ha voluto fin dall'eternità ed ha concluso nel tempo con l'uomo, con il popolo, con l'umanità; è la partecipazione a quella rivelazione, che si è definitivamente compiuta attraverso la croce. Nessuno ha sperimentato, al pari della Madre del Crocifisso, il mistero della croce, lo sconvolgente incontro della trascendente giustizia divina con l'amore: quel "bacio" dato dalla misericordia alla giustizia (cfr. Ps 85[84],11). Nessuno al pari di lei, Maria, ha accolto col cuore quel mistero: quella dimensione veramente divina della redenzione, che ebbe attuazione sul Calvario mediante la morte del Figlio, insieme al sacrificio del suo cuore di madre, insieme al suo definitivo "fiat".
Maria, quindi, è colei che conosce più a fondo il mistero della misericordia divina. Ne sa il prezzo, e sa quanto esso sia grande. In questo senso la chiamiamo anche Madre della misericordia: Madonna della misericordia, o Madre della divina misericordia; in ciascuno di questi titoli c'è un profondo significato teologico, perché essi esprimono la particolare preparazione della sua anima, di tutta la sua personalità, nel saper vedere, attraverso i complessi avvenimenti di Israele prima, e di ogni uomo e dell'umanità intera poi, quella misericordia di cui "di generazione in generazione" (Lc 1,50) si diviene partecipi secondo l'eterno disegno della SS. Trinità.
I suddetti titoli, che attribuiamo alla Madre di Dio, parlano, pero, soprattutto di lei come della Madre del Crocifisso e del Risorto; come di colei che, avendo sperimentato la misericordia in modo eccezionale, "merita" in egual modo tale misericordia lungo l'intera sua vita terrena e, particolarmente, ai piedi della croce del Figlio; ed infine, come di colei che, attraverso la partecipazione nascosta e, al tempo stesso, incomparabile alla missione messianica del suo Figlio, è stata chiamata in modo speciale ad avvicinare agli uomini quell'amore, che egli era venuto a rivelare: amore, che trova la più concreta espressione nei riguardi di coloro che soffrono, dei poveri, di coloro che son privi della propria libertà, dei non vedenti, degli oppressi e dei peccatori, così come ne parlo Cristo secondo la profezia di Isaia, prima nella sinagoga di Nazaret (cfr. Lc 4,18) e poi in risposta alla richiesta degli inviati di Giovanni Battista (cfr. Lc 7,22).
Appunto a questo amore "misericordioso", che viene manifestato soprattutto a contatto con il male morale e fisico, partecipava in modo singolare ed eccezionale il cuore di colei che fu Madre del Crocifisso e del Risorto, partecipava Maria. Ed in lei e per mezzo di lei, esso non cessa di rivelarsi nella storia della Chiesa e dell'umanità. Tale rivelazione è specialmente fruttuosa, perché si fonda, nella Madre di Dio, sul singolare tatto del suo cuore materno, sulla sua particolare sensibilità, sulla sua particolare idoneità a raggiungere tutti coloro che accettano più facilmente l'amore misericordioso da parte di una madre. Questo è uno dei grandi e vivificanti misteri del cristianesimo, tanto strettamente connesso con il mistero dell'incarnazione.
"Questa maternità di Maria nell'economia della grazia - come si esprime il Concilio Vaticano II - perdura senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell'annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti, assunta in cielo non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci le grazie della salute eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata" (LG 62).
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Abbiamo ogni diritto di credere che anche la nostra generazione è stata compresa nelle parole della Madre di Dio, quando glorificava quella misericordia di cui "di generazione in generazione" sono partecipi coloro che si lasciano guidare dal timore di Dio. Le parole del Magnificat mariano hanno un contenuto profetico, che riguarda non soltanto il passato di Israele, ma anche l'intero avvenire del Popolo di Dio sulla terra. Siamo infatti noi tutti, che viviamo al presente sulla terra, la generazione che è consapevole dell'approssimarsi del terzo Millennio e che sente profondamente la svolta che si sta verificando nella storia.
La presente generazione avverte di essere privilegiata, perché il progresso le offre molte possibilità, appena qualche decennio fa insospettate.
L'attività creatrice dell'uomo, la sua intelligenza e il suo lavoro, hanno causato profondi cambiamenti sia nel campo della scienza e della tecnica, come nella vita sociale e culturale. L'uomo ha esteso il suo potere sulla natura ed ha acquistato una conoscenza più approfondita delle leggi del proprio comportamento sociale.
Egli ha visto crollare o restringersi gli ostacoli e le distanze, che separano uomini e nazioni, grazie ad un accresciuto senso universalistico, ad una più chiara coscienza dell'unità del genere umano e all'accettazione della reciproca dipendenza in un'autentica solidarietà e grazie, infine, al desiderio - e alla possibilità - di venire a contatto con i propri fratelli e sorelle al di là delle divisioni artificialmente create dalla geografia o dalle frontiere nazionali o razziali. I giovani d'oggi, soprattutto, sanno che il progresso della scienza e della tecnica può procurare non solo nuovi beni materiali, ma anche una più vasta partecipazione alla reciproca conoscenza. Ad esempio, lo sviluppo dell'informatica moltiplicherà le capacità creatrici dell'uomo e gli permetterà di accedere alle ricchezze intellettuali e culturali degli altri popoli. Le nuove tecniche di comunicazione favoriranno una maggiore partecipazione agli avvenimenti e un crescente scambio di idee. Le acquisizioni della scienza biologica, psicologica o sociale aiuteranno l'uomo a penetrare meglio nelle ricchezze del proprio essere. E se è vero che un tale progresso resta ancora troppo spesso privilegio dei Paesi industrializzati, non si può negare tuttavia che la prospettiva di farne beneficiare tutti i popoli e tutti i Paesi non sarà più a lungo un'utopia, quando vi sia una reale volontà politica a questo fine.
Ma, a fianco di tutto questo - o piuttosto entro a tutto questo - esistono nello stesso tempo difficoltà, che si dimostrano anzi in aumento.
Esistono inquietudini e impotenze, che costringono ad una risposta radicale che l'uomo sente di dover dare. Il quadro del mondo contemporaneo presenta anche ombre e squilibri non sempre superficiali. La Costituzione pastorale "Gaudium et Spes" del Concilio Vaticano II non è certamente l'unico documento che tratta della vita della generazione contemporanea, ma è un documento di importanza particolare. "In verità gli squilibri, di cui soffre il mondo contemporaneo - leggiamo in essa - si collegano con quel più profondo squilibrio, che è radicato nel cuore dell'uomo. E' proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società" (GS 10).
Verso la fine dell'esposizione introduttiva leggiamo: "...di fronte alla presente evoluzione del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: che cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che, malgrado ogni progresso, continuano a sussistere? Che cosa valgono queste conquiste raggiunte a così caro prezzo?" (GS 10).
Nell'arco di ormai quindici anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, quel quadro di tensioni e di minacce proprie della nostra epoca è forse divenuto meno inquietante? Sembra di no. Al contrario, le tensioni e le minacce, che nel documento conciliare sembravano soltanto delinearsi e non manifestare sino in fondo tutto il pericolo che celavano in sé, nello spazio di questi anni si sono maggiormente rivelate, hanno confermato in modo diverso quel pericolo e non permettono di nutrire le illusioni di un tempo.
Dives in misericordia 6