GP2 Discorsi 1996
1 Sala del Concistoro - Giovedì, 4 gennaio 1996
Illustri Signori,
1. Voglio porgere un cordiale benvenuto ai Rettori degli Istituti accademici di tutta la Polonia, e loro tramite vorrei salutare gli studiosi e i docenti di ogni grado, il personale non docente e i tecnici, come pure la moltitudine di studenti che frequentano gli atenei della Polonia.
Sono molto lieto dell’odierno incontro. Mi fa ricordare i miei numerosi contatti personali con il mondo accademico ai tempi quando io stesso ero impegnato attivamente nella scienza sia a Cracovia, alla Facoltà di Teologia dell’Università Iagellonica (come ultimo abilitato lì), che alla Facoltà . . . di Filosofia dell’Università Cattolica di Lublino; e più tardi, quando come Arcivescovo di Cracovia cercavo in varie occasioni di incontrare i Professori degli atenei di Cracovia. Ricordo come ci comprendevamo bene in quei difficili anni e come la sollecitudine per la scienza polacca era la nostra causa comune - quella dei Professori e del Vescovo, preoccupazione espressa dal motto dell’Università Iagellonica: “Plus ratio quam vis”.
L’usanza, istituita una volta a Cracovia, trovò il suo seguito dopo la mia elezione alla Sede di Pietro. Cerco di non perdere alcuna occasione per continuare ad incontrarmi con gli ambienti accademici di Roma e, in occasione delle visite apostoliche, di tutti i continenti. Così fu anche - come forse loro ricordano - nei miei diversi viaggi in Polonia. Qui a Roma ogni tanto c’incontriamo a Castel Gandolfo. Alcuni dei qui presenti hanno anche partecipato personalmente agli incontri a Castel Gandolfo.
2. Questo nostro odierno incontro riveste tuttavia un carattere eccezionale, direi - storico. Gli incontri sopra nominati, riguardavano soltanto ambienti scelti. Oggi invece, per la prima volta ho l’occasione di incontrarmi a Roma con i Rettori Magnifici degli Istituti accademici di tutta la Polonia. È un evento estremamente eloquente in se stesso. Voi, illustri Signori, venite dal Papa per condividere con lui la sollecitudine e l’ansia per il futuro della scienza e dell’istruzione universitaria nella nostra Patria. A nome degli ambienti accademici ha dato espressione a ciò il Prof. Michal Sewerynski, Rettore Magnifico dell’Università di Lodz e Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Polacche, al quale sono molto grato per questo.
Dandovi il benvenuto, nutro la profonda consapevolezza di quanto ci unisce: ci incontriamo qui nel nome di un comune amore per la verità, condividendo la sollecitudine per le sorti presenti e future della scienza in Polonia.
3. Dicendo: scienza, pensiamo alla cultura nella sua dimensione universale ed in quella delle singole nazioni. La scienza, infatti, costituisce uno dei pilastri fondamentali della cultura.
Ogni volta che parlo della cultura, mi viene in mente l’espressione di S. Tommaso d’Aquino: “Genus humanum arte et ratione vivit”: arte et ratione . . . “Ratione . . .” Dunque l’uomo vive di scienza! Di scienza, cioè di ricerca della verità su se stesso, sul mondo che lo circonda, sul cosmo e infine su Dio. L’uomo non è soltanto creatore della cultura, ma vive della cultura e attraverso la cultura. Lo stesso bisogna ripetere riguardo alla nazione. La nazione vive della cultura e attraverso la sua cultura. Essa è il fondamento della sua identità e della sua sovranità spirituale.
Ultimamente, a ottobre, al forum dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a New York (Giovanni Paolo II, All' Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5 ott.1995: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII, 2 (1995) 730 ss), parlavo della necessità di formulare una Carta dei Diritti delle Nazioni. Non c’è dubbio che tra questi diritti, uno dei posti di riguardo, l’occupa quello di una nazione alla propria cultura e allo sviluppo di essa. La storia insegna infatti che distruggendo la cultura di una data nazione, si distrugge la nazione nel punto più nevralgico per la sua esistenza. Questo principio viene confermato dalla nostra storia patria: iniziando dalle spartizioni, attraverso le devastazioni della seconda guerra mondiale (acquista un ruolo di simbolo il fatto che degli illustri professori dell’Università Iagellonica ed altri siano stati internati in un campo di concentramento, proprio all’inizio della guerra) sino al mezzo secolo di dittatura marxista che recò alla scienza polacca danni irreparabili.
4. Dopo anni di governo totalitario del sistema marxista, la scienza polacca deve ricuperare molte perdite e molti ritardi. Oggi però gode della libertà e questa è una grande occasione che va sfruttata. Una situazione di democrazia e di libertà esige dagli ambienti accademici molta iniziativa, si può dire molta intraprendenza e un alto senso di responsabilità. Esige anche la vigilanza, per non perdere, sotto l’influsso di varie pressioni o manipolazioni, da cui non sono libere le democrazie contemporanee, la libertà riacquistata con tanta fatica e ad un prezzo così alto.
2 Oggi appaiono nuove difficoltà e minacce. Una di esse, nel sistema della democrazia liberale e del libero mercato, è l’atteggiamento di un estremo utilitarismo. Si diffonde infatti un modo di pensare, che ritiene come norma prevalente il criterio del profitto economico e l’applica a tutti i settori della vita - anche alla sfera della cultura e della scienza. Da qui l’insufficiente finanziamento a vari settori della ricerca scientifica, o dell’istruzione accademica, ritenuti in modo arbitrario come “non redditizi” o addirittura “inutili”. L’esperienza insegna invece che in riferimento alla scienza, l’applicazione unilaterale di tale criterio è miope e dannosa. Danneggia non soltanto la scienza e la cultura, ma reca danno prima di tutto all’uomo. Alle basi di un tale approccio si trova un’antropologia sostanzialmente erronea, un’antropologia materialistica che riduce l’uomo soltanto ed esclusivamente a tali dimensioni. Il Concilio Vaticano II insegna: “la natura intellettuale della persona umana raggiunge la perfezione, com’è suo dovere, mediante la sapienza, la quale attrae con soavità la mente a cercare e ad amare il vero e il bene, e, quando l’uomo ne è ripieno, lo conduce attraverso il visibile all’invisibile. L’epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza” - così leggiamo nella Gaudium et Spes (Gaudium et Spes GS 15), n. 15.
Vorrei augurare ai miei Connazionali tale sapienza, affinché‚ la sollecitudine per i problemi della cultura, e specialmente della scienza e dell’istruzione universitaria trovi sempre in loro il dovuto posto. Questo costituisce un grande “bene comune” della Nazione, per il quale, nonostante le difficoltà economiche esistenti, non possono mancare i mezzi.
5. So che gli Atenei accademici in Polonia sono oggi alle prese con numerosi problemi, e ciononostante, rimangono fedeli alla propria vocazione nei riguardi della Patria e della cultura. Gli scienziati polacchi, in condizioni difficili, con grande dedizione svolgono lavori e ricerche scientifiche. Non di rado conquistano posizioni che contano nella scienza mondiale, e fanno salire la fama e il prestigio della Polonia. Colgo dunque l’occasione per esprimere, a tutti gli studiosi in Polonia, il mio personale riconoscimento per il loro lavoro pieno di abnegazione e per il contributo che recano al tesoro della scienza polacca e mondiale. Sono contento del fatto che i tra i membri della Pontificia Accademia delle Scienze ci sono anche dei polacchi. Si tratta del resto di una tradizione.
Le istituzioni accademiche sono poi luogo di formazione della giovane generazione dell’intellighenzia polacca. È un servizio estremamente importante per la Nazione e per il suo futuro. Ho in mente non soltanto l’istruzione nello stretto ambito della specializzazione scientifica, ma pure l’educazione alla pienezza della personalità umana. Ciò impone a tutti i docenti una particolare responsabilità ed impegno sul condividere con gli studenti non soltanto le risorse del sapere scientifico, ma anche la ricchezza della propria umanità. Tra la gioventù universitaria esiste una grande richiesta di modelli personali, cioè di professori, che diventino per essi veri maestri e guide.
Su questo sfondo si vede chiaramente come è importante il ruolo delle Istituzioni accademiche. È su di esse che in grande misura grava la responsabilità per la vita spirituale ed intellettuale della Nazione. Oggi la Polonia si trova ad una svolta molto importante della storia. Si decidono le sorti della Nazione, la loro forma futura, ed anche la loro continuità. In questo importante processo non può mancare il contributo creativo degli studiosi polacchi, dei professori e della gioventù che studia. Non possono mancare l’impegno creativo e la fedeltà alla verità.Sappiamo quanto ciò a volte costi. Il periodo della dittatura comunista fu, sotto tale aspetto, un tempo di grande prova. Sappiamo quanto coraggio civile e quanta rettitudine di carattere furono necessari per restare fedeli alle proprie convinzioni e alla propria coscienza.
L’essere membro di una comunità universitaria obbliga! Occorre che gli ambienti accademici riacquistino il loro tradizionale prestigio morale, che diventino nuovamente la coscienza della nazione, dando esempio di virtù civiche e patriottiche.
6. Illustri Signori! Ci incontriamo nel periodo del Natale del Signore: esso ci ricorda che il Verbo della Sapienza Divina si fece carne (cf. Gv Jn 1,14) nascendo nella povertà della stalla di Betlemme. La liturgia contemplando questo grande mistero ci pone sulle labbra le parole: “O Sapienza, che esci dalla bocca dell’Altissimo, ti estendi ai confini del mondo, e tutto disponi con soavità e con forza: vieni, insegnaci la via della saggezza” (Antifona al Magnificat del 17 dicembre).
Nel periodo del Natale del Signore e del Nuovo Anno, con queste parole voglio esprimere i miei auguri a Voi tutti, Rettori Magnifici come pure a tutti gli Atenei che rappresentate. Il dono della Sapienza, di cui parla la liturgia, faccia sempre più parte dei vostri ambienti accademici, affinché‚ i professori e gli studenti - ciascuno al proprio posto - sappiano realizzare la loro vocazione a misura dei tempi in cui ci è dato di vivere - a misura del secondo millennio che volge al termine.
Illustri Signori,
Voglio aggiungere che questo nostro incontro mi commuove profondamente. Mi ritornano alla mente molti luoghi, molti momenti della mia vita, molte persone del mondo accademico di Cracovia, di Lublino che incontravo spesso e con le quali ho costruito insieme la mia vita e la mia vocazione. E non potrei concludere senza ritornare alla chiesa di Sant’Anna, frequentata dal mondo accademico, dove riposa nel suo sarcofago San Giovanni di Kety, professore dell’Università di Cracovia, dove ho passato molto tempo quando ero sacerdote, studente universitario, Vescovo, Cardinale. Ci torno molto spesso con il pensiero e con la memoria. Per questo vi sono molto grato per la vostra visita che mi ha fatto rivivere tutte quelle cose ancora una volta. Dio ve ne renda merito!
Aula Vecchia del Sinodo - Lunedì, 8 gennaio 1996
Eminenza,
3 Cari Fratelli Vescovi,
1. Oggi il Vescovo di Roma gioisce con i Vescovi della Chiesa Siro-Malabarese, riuniti intorno all’Em.mo Arcivescovo, Cardinale Antony Padiyara, in occasione della celebrazione del loro Sinodo. Do il benvenuto ad ognuno di voi con la preghiera dell’Apostolo Paolo: “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Rm 1,7). Ho seguito la preparazione di questo Sinodo con interesse pastorale e fraterno, consapevole del fatto che il ministero petrino costituisce “il fondamento perpetuo e visibile della fede e della comunione” (Lumen Gentium LG 18). In comunione con i santi, ricordo con devozione l’Arcivescovo Mar Abraham Kattumana che ha dedicato le sue migliori energie al servizio della Chiesa, e in particolare della Chiesa Siro-Malabarese, non risparmiandosi fino all’ultimo. Serbo un vivo ricordo del nostro incontro, avvenuto poche ore prima della sua morte, tanto improvvisa e inaspettata.
2. La Chiesa Siro-Malabarese, fondata nella fede dalla predicazione dell’Apostolo Tommaso, è una delle famiglie ecclesiali nelle quali è articolata la ricca varietà dell’Oriente cristiano. La tradizione siriana orientale si è distinta per la tutela della fede cristiana, a volte esercitata al prezzo di spietate persecuzioni, per la ricchezza della sua vita monastica, per le sue scuole e le sue accademie nelle quali la dottrina cristiana è stata spiegata e proclamata con meravigliosa ispirazione, così come per l’ardore missionario che ha portato la Buona Novella della salvezza in Gesù Cristo in tutta la vostra India e persino nella lontana Cina. Per molti secoli avete conservato questo patrimonio ecclesiale con orgoglio ed entusiasmo, arricchendolo con aspetti specifici e originali della vostra cultura e della vostra sensibilità.
Quando altri cristiani dell’Occidente hanno raggiunto le vostre terre, li avete ospitati con generosità. Per voi, essi rappresentavano una nuova apertura all’universalità della Chiesa. Tuttavia, contemporaneamente, una mancata comprensione del vostro patrimonio culturale e religioso ha causato molto dolore e inflitto una ferita che si è solo parzialmente rimarginata e che oggi necessita ancora di un alto grado di santità e saggezza da parte dei Pastori della Chiesa, particolarmente responsabili dell’edificazione della pace e della fraternità fra tutti i seguaci di Cristo.
3. All’inizio di questo secolo, dopo la ricostituzione di una gerarchia formata da Pastori delle vostre terre, la Chiesa Siro-Malabarese si è impegnata con determinazione a svolgere il suo ruolo come parte del patrimonio dell’Oriente cristiano, sul quale ho recentemente riflettuto nella mia Lettera Apostolica Orientale lumen. Il riconoscimento dei risultati ottenuti dalla vostra Chiesa mi ha portato, nel dicembre del 1992, a considerare giunto il momento di elevare la vostra Chiesa al rango di Arcivescovato Maggiore. Quell’atto ha voluto essere espressione di gratitudine per ciò che siete e per il vostro impegno a crescere ulteriormente nella fedeltà al Signore Gesù Cristo, attraverso il quale siamo stati tutti riconciliati (cf. Rm Rm 5,11). In questi anni ho voluto esservi particolarmente vicino. Come colui che “presiede alla comunione universale della carità” (cf. Lumen Gentium LG 13), la mia affettuosa sollecitudine per voi ha il solo scopo di aiutarvi a compiere i passi necessari a superare le difficoltà del presente.
4. La struttura sinodale delle Chiese Orientali è un modo particolarmente eloquente di vivere e di esprimere il mistero della Chiesa come comunione. La comunione è un dono dello Spirito Santo; è partecipazione alla vita della Trinità. Essa, quindi, deve essere il frutto della preghiera e richiede grande sforzo. Viene edificata giorno per giorno. Lasciare qualcuno indietro in questo cammino è un fallimento per tutti. Avanzare insieme è invece una vittoria per tutti e una vittoria per la fede e per l’amore. Il Vescovo di Roma non vuole lasciarvi soli lungo questo cammino. Desidera essere un aiuto, un ponte, uno strumento di comunione. Egli continuerà a muovere ogni passo con voi, non per negarvi la giusta autonomia, ma per compiere pienamente il ministero che Cristo ha affidato a Pietro: rafforzare i fratelli e confermarli nella fede e nella comunione (cf. Lc Lc 22,32).
Questo Sinodo è dunque importante anche se non rappresenta uno stadio definitivo nel processo di crescita della vostra Chiesa verso un’unione e una pace maggiori, verso la condivisione di un viaggio comune. In un futuro non troppo lontano vi chiederà di ritornare qui a Roma, di condividere il frutto della vostra opera con il Papa, di valutare insieme il cammino fino ad allora percorso.
5. Durante il sinodo rivolgerete la vostra attenzione a numerose questioni fondamentali, fra cui quella del ruolo della Liturgia nell’educazione dei fedeli, in particolare nella formazione dei futuri sacerdoti, dei religiosi e delle religiose. Riguardo al vostro impegno missionario, la Chiesa universale non può che esservi grata per la dedizione di molti figli e di molte figlie della Chiesa Siro-Malabarese che si impegnano con generosità nella proclamazione del Vangelo, spesso in condizioni difficili. Essi operano attraverso gli Istituti religiosi appartenenti alla vostra Chiesa e quelli di rito latino. Ciò è feconda espressione della comunione ecclesiale, come ho ricordato nella mia Lettera ai Vescovi dell’India, il 28 maggio del 1987: “Nel processo di evangelizzazione è sempre esistita una generosa collaborazione da parte dei sacerdoti, dei religiosi e dei laici battezzati secondo il rito siro-malabarese e negli ultimi anni anche da parte della Chiesa Siro-Malabarese stessa in alcune zone del nord. Questa collaborazione non dovrebbe essere dimenticata poiché‚ denota la buona volontà, da parte di tutti, di accettare l’antico adagio: ‘salus animarum suprema lex’” (cf. Giovanni Poalo II, Lettera ai Vescovi dell'India, 28 maggio 1987).
6. Molto importante è anche la questione dell’assistenza spirituale ai fedeli della Chiesa Siro-Malabarese che vivono al di fuori del territorio su cui esercitate la vostra diretta giurisdizione. Nella Lettera che ho sopra citato, ho ricordato quanto sia importante fornire tale assistenza, nel dialogo costante con i Vescovi della Chiesa cattolica romana in India. Sono indispensabili grande disponibilità e comprensione reciproca. La prima forma di comunione è quella che unisce tutti i credenti in Cristo, figli dell’unica Chiesa di Cristo. Bisogna fare ogni cosa in un’atmosfera di fiducia e di finalità comuni, esaminando le varie situazioni con obiettività e cercando di risolverle con uno spirito di sentita collaborazione. Devono essere banditi i conflitti, poiché‚ il bene non può scaturire che dall’amore. Soltanto così il Signore benedirà i nostri sforzi.
È mia intenzione condividere questi e altri aspetti della vostra opera pastorale con voi, come Sinodo, ma anche con ognuno di voi individualmente in occasione della vostra visita ad limina Apostolorum. Che Maria, Madre della Chiesa, vi protegga e vi aiuti! Che Elias Kuriakose e Alphonsa, che ho avuto la gioia di aggiungere al numero di beati nella terra che diede loro i natali, intercedano per voi e per gli amati sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa Siro-Malabarese!
Dio benedica i vostri lavori sinodali!
4 Sala del Concistoro - Lunedì, 8 gennaio 1996
1. Con grande gioia e commozione vi saluto, cari pellegrini provenienti dalla Lettonia. In modo particolare saluto l’Arcivescovo Metropolita di Riga, insieme con i Vescovi Antons Justs, Vescovo di Jelgava e Arvaldis Andrejs Brumanis, Vescovo di Liepaja, i quali sabato scorso, nella solennità dell’Epifania, hanno ricevuto la consacrazione episcopale. Saluto anche i loro familiari, parenti ed amici. Cordiali saluti rivolgo alle autorità locali, ai rappresentanti del clero e dei fedeli della Chiesa che è in Lettonia. In voi e per vostro tramite desidero salutare tutta la Nazione lettone.
2. L’incontro odierno e gli eventi, di cui siamo stati testimoni nella solennità dell’Epifania del Signore nella Basilica vaticana, possiedono una profonda eloquenza storica perché solo alcuni anni fa, un incontro di questo genere era impensabile. Per lunghi anni la Chiesa di Lettonia, costretta al silenzio e ad agire nelle catacombe, fu sottoposta contemporaneamente ad umilianti prove e ad ingiuste persecuzioni. Chi può contare tutte le sofferenze sopportate dai fedeli laici, dai sacerdoti, dai religiosi e dalle religiose della terra lettone? Oggi la vostra Chiesa gode della libertà e può compiere la sua missione di annunziare la Buona Novella! Segno eloquente di tutto ciò è la presenza tra noi di due nuovi Vescovi, che hanno ricevuto l’ordinazione episcopale dalle mie mani.
Siete venuti dunque a Roma, presso le tombe dei Santi Apostoli per ringraziare Dio della grazia della fede, che avete conservato nel tempo delle persecuzioni, e del grande coraggio con cui avete difeso le tradizioni dei vostri padri. Siete venuti, altresì, a rendere grazie per il dono della fedeltà nei momenti di prova e di oppressione, e a consolidare la forza e l’entusiasmo evangelico sincero per continuare ogni giorno a “rendere ragione della speranza che è in voi” (cf. 1P 3,15).
3. Porto nel cuore il ricordo intenso della mia visita nel vostro Paese, avvenuta nel settembre del 1993. Ho potuto constatare personalmente, come sia sincero l’attaccamento del Popolo lettone alla Chiesa di Cristo, e come sia viva la sua pietà. A Riga, durante la S. Messa, pronunciai delle parole che desidero ripetervi ancora una volta: “Vogliamo ( . . .) lodare ( . . .) il Signore per la fortezza d’animo con cui i cristiani di Lettonia hanno affrontato la croce della persecuzione, dell’esilio, del martirio in unione alla Croce di Cristo, rinnovando in un passato recente le sofferenze della passione del Signore. Ringrazio Iddio con tutto il cuore perché ancora una volta, secondo la legge misteriosa del piano salvifico divino, alla Croce è seguita la risurrezione, al peccato la grazia, al pianto la gioia” (8 settembre 1993). Insieme a voi rendo grazie al Creatore per questi “Magnalia Dei” - grandi opere di Dio - compiutisi nella vostra Patria in questi ultimi anni e per la vostra fedeltà a Dio e al Vangelo.
4. All’inizio del Nuovo Anno, auguro alla Chiesa di Lettonia di fissare incessantemente lo sguardo su Cristo Signore, chiedendo il suo aiuto per risolvere i problemi della Nazione e per attivare, insieme a nuove vie di evangelizzazione, iniziative pastorali più incisive in vista del terzo millennio. Cristo, “la luce delle nazioni”, è “la via, la verità e la vita” (Jn 14,6) di ogni uomo e dell’intera società. Il Padre l’ha donato al mondo perché l’umanità non sbagli, non si smarrisca e non cammini nelle tenebre, ma abbia la vita eterna (cf. Gv Jn 3,16). Che la Madre Santissima, Signora di Aglona, Protettrice, Ausiliatrice e segno di sicura speranza e consolazione, accompagni tutta la vostra Nazione nel pellegrinaggio alla Casa del Padre.
Vi prego, portate queste parole, che qui avete udito, alle vostre famiglie, comunità, diocesi, villaggi e città; a tutte le sorelle e i fratelli dell’amata Nazione lettone.
Portate anche la Benedizione Apostolica, che vi imparto di cuore.
Sala del Trono - Giovedì, 11 gennaio 1996
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!
5 1. Sono molto lieto di incontrarmi con voi, Membri e Consiglieri della Commissione Interdicasteriale permanente per una più equa distribuzione dei sacerdoti nel mondo, a conclusione della vostra seconda Assemblea plenaria. Saluto il Presidente, Card. Pio Laghi, che ringrazio per l’indirizzo che mi ha rivolto, e insieme saluto il Co-Presidente, Card. José Sanchez, e tutti i convenuti.
Desidero innanzitutto esprimervi la mia riconoscenza per la disponibilità e l’impegno che ponete in questo servizio, che sta molto a cuore a me e a tutta la Chiesa, specialmente nell’attuale momento storico, alle soglie del terzo millennio cristiano.
2. Nella Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente ho invitato la Chiesa universale a preparare il grande evento del Giubileo dell’Anno Duemila, auspicando che esso diventi occasione propizia di “rinvigorimento della fede e della testimonianza dei cristiani” (Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente TMA 42). Noi siamo grati a Dio per la diffusione del Vangelo, che ha ormai raggiunto ogni angolo della terra. Si è trattato di un’irradiazione straordinaria, che è riuscita a superare ostacoli e difficoltà di ogni tipo.
Tuttavia, le sfide che ci stanno davanti non sono poche né piccole. La sfida più impegnativa è costituita, ovviamente, dall’umanità a cui non è ancora giunto il messaggio cristiano. Negli ultimi decenni, infatti, l’espansione missionaria non è riuscita a stare al passo con l’espansione demografica ed è contrastata, specie in America Latina, dall’azione disgregatrice delle sette. Altre sfide sono presenti nei Paesi dell’Europa dell’Est, dove si fa sentire pesantemente l’azione demolitrice svolta per lunghi decenni dal comunismo ateo nei confronti dei valori cristiani. In Occidente, poi, la secolarizzazione ha portato spesso all’oblio nei confronti di Dio ed alla ricerca affannosa del solo benessere materiale.
3. La risposta a queste sfide deve venire dal concorde impegno di tutte le Chiese locali, che per loro natura sono missionarie e corresponsabili della crescita della fede in tutto il mondo. È perciò da respingere la tentazione particolaristica, che induce le singole Chiese a limitarsi ai problemi presenti entro i propri confini. Ciò avrebbe come conseguenza lo svilimento dell’apostolato missionario e l’impoverimento dello “scambio di doni” tra Chiese sorelle. Occorre riconoscere a questo riguardo che, di fronte alle numerose richieste di sacerdoti, sono poche le diocesi che hanno comunicato alla Commissione Interdicasteriale la loro disponibilità ad offrire un aiuto. So, peraltro, che molte hanno già stabilito rapporti diretti con Chiese sorelle, e tra queste non mancano anche le cosiddette Chiese “di missione”. Tuttavia, non possiamo dimenticare che la percentuale dei sacerdoti “fidei donum” supera di poco l’un per cento del totale. Pare legittimo pensare che, insieme, si possa fare di più e meglio!
In preparazione al grande Giubileo del Duemila, vorrei perciò lanciare un accorato appello ai Vescovi ed ai sacerdoti, ma anche ai religiosi, alle religiose ed alle Comunità cristiane di ogni Paese e Continente, perché si assumano, in spirito di profonda comunione e di viva sensibilità per la missione ricevuta da Dio, una maggiore responsabilità nell’opera di evangelizzazione.
4. I Vescovi, in quanto membri del Collegio Episcopale, “sono stati consacrati non soltanto per una Diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo” (Ad gentes AGD 38). La fedeltà a questa indicazione del Concilio esige che tutti noi, Vescovi della Chiesa Cattolica, sensibilizziamo le nostre Comunità e promuoviamo azioni concrete, affinché il Vangelo possa essere proclamato fino agli estremi confini della terra.
Nell’esortare tutti i Fratelli nell’Episcopato ad una fattiva generosità, vorrei rammentare quanto scriveva san Paolo ai Corinzi riguardo alle Chiese della Macedonia: “Nonostante la lunga prova della tribolazione, la loro grande gioia e la loro estrema povertà si sono tramutate nella ricchezza della loro generosità” (2Co 8,2). Non dobbiamo dimenticare che la generosità, nella logica di Dio, è sorgente di fecondità! I sacerdoti e i religiosi, dal canto loro, abbiano cuore e mentalità missionari, siano aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico, sentano la sollecitudine della Chiesa per tutta l’umanità (cf. Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio RMi 67). Se avranno profondamente radicato nel cuore questo atteggiamento spirituale, renderanno possibile la risposta “a quell’esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero” (Giovanni Paolo II, Pastores dabo vobis PDV 32). Quando c’è autentica disponibilità interiore, facilmente si trova il modo di tradurla in scelte concrete. L’avvenire della Chiesa nel terzo millennio dipenderà molto da questa disponibilità e dalle scelte che ne seguiranno.
5. La parola conclusiva di questo nostro incontro non può essere che l’invito ad incrementare ulteriormente la collaborazione tra tutte le Chiese e tutti i cristiani nell’opera di evangelizzazione. In un’epoca di grande dinamismo operativo, com’è la nostra, è più che mai necessario il coordinamento nella collaborazione. È questo il compito della Commissione di cui fate parte, che ho voluto istituire perché segnalasse le richieste e le disponibilità di clero delle Chiese particolari, sensibilizzasse le forze disponibili per intervenire dove c’è più bisogno, coordinasse il flusso dello “scambio dei doni” tra Chiese sorelle.
San Paolo, esortando i cristiani di Corinto ad essere generosi, diceva loro: “Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Co 8,9). Questo dovrebbe diventare lo stile di tutte le Chiese, in modo che, come sta scritto, “colui che raccolse molto non abbondò, e colui che raccolse poco non ebbe di meno” (2Co 8,15).
Auspicando che il vostro impegno possa essere coronato da quella fioritura di generosità che tutti attendiamo e speriamo, vi imparto con affetto e riconoscenza l’Apostolica Benedizione.
6 Sala Regia - Sabato, 13 gennaio 1996
Eccellenze, Signore e Signori,
1. Vi ringrazio per la vostra presenza e per gli auguri formulati dal vostro Decano con grande delicatezza di sentimenti e di espressione. Vogliate accogliere a vostra volta i fervidi voti augurali che formulo affinché‚ Dio benedica voi, le vostre famiglie e le vostre nazioni. Egli accordi a tutti un anno felice!
Vedo con gioia aumentare di anno in anno il numero di Paesi che intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Attualmente sono più di centosessanta. Un simile sviluppo sembra mostrarci la reale considerazione che molti nutrono nei confronti della Sede Apostolica e della sua missione in seno alle nazioni. Ciò costituisce per il Papa ed i suoi collaboratori un richiamo costante a cooperare sempre più intensamente con il maggior numero di persone e di organizzazioni che, nel rispetto della morale e del diritto, si sforzano di far sì che sulla terra regnino la giustizia e la pace. Questo per dire quanto abbia apprezzato le parole del Signor Ambasciatore Joseph Amichia, il quale, a nome vostro, ha voluto sottolineare alcune delle iniziative grazie alle quali il Papa, e con lui la Santa Sede, si sono fatti interpreti di coloro che nel mondo aspirano ardentemente alla pace, alla serenità ed alla solidarietà.
2. Non possiamo che rallegrarci oggi nel vedere qui tra noi, per la prima volta, il Rappresentante del Popolo palestinese.
Da più di un anno ormai, come sapete, la Santa Sede intrattiene relazioni diplomatiche con lo Stato d’Israele. Attendevamo questo felice stato di cose, poiché‚ è il segno eloquente che il Medio Oriente ha risolutamente imboccato la via della pace annunciata agli uomini dal Bambino nato a Betlemme. Voglia Dio aiutare Israeliani e Palestinesi a vivere finalmente gli uni a fianco degli altri, in pace, nella stima reciproca e in una collaborazione sincera! Lo chiedono le generazioni future e tutta la regione ne trarrà beneficio.
Ma consentitemi di confidarvi che questa speranza si potrebbe rivelare effimera, se non venisse data una soluzione equa ed adeguata al problema particolare di Gerusalemme. La dimensione religiosa ed universale della Città Santa esige il coinvolgimento da parte di tutta la Comunità internazionale affinché‚ essa conservi la sua specificità e rimanga una realtà viva. I Luoghi Santi, cari alle tre religioni monoteiste, sono senza dubbio importanti per i credenti, ma perderebbero molto del loro significato, se non fossero circondati in modo permanente da comunità vive di Ebrei, di Cristiani e di Musulmani, che godano di un’autentica libertà di coscienza e di religione, e possano sviluppare le loro attività di carattere religioso, educativo e sociale. Il 1996 dovrebbe vedere l’inizio dei negoziati per lo statuto definitivo dei territori sotto amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese, ed ugualmente sulla delicata situazione della città di Gerusalemme. Auspico che la Comunità internazionale offra ai partner politici più direttamente coinvolti in questo problema gli strumenti giuridici e diplomatici atti a garantire che Gerusalemme, unica e santa, sia veramente un “crocevia di pace”.
Tale ricerca serena e risoluta della pace e della fraternità contribuirà senza dubbio ad offrire ad altri problemi regionali, che persistono, soluzioni che rispondano alle aspirazioni dei popoli ancora inquieti riguardo alla loro sorte ed al loro avvenire. Penso in particolare al Libano, la cui sovranità è tuttora minacciata, ed all’Iraq, le cui popolazioni attendono sempre di condurre un’esistenza normale, al riparo da ogni arbitrio.
3. Un clima di pace sembra ugualmente instaurarsi in certe parti dell’Europa. La Bosnia ed Erzegovina ha potuto beneficiare di un accordo che dovrebbe - noi lo speriamo - salvaguardare la sua fisionomia, pur tenendo conto della sua composizione etnica. Sarajevo, in particolare, altra città simbolo, dovrebbe diventare anch’essa un crocevia di pace. D’altra parte, non viene essa chiamata la “Gerusalemme d’Europa”? Se lo scoppio della prima guerra mondiale è legato a questa città, occorre che il suo nome divenga finalmente sinonimo di città della pace, e che gli incontri e gli scambi culturali, sociali e religiosi ne fecondino la convivenza plurietnica. Si tratta di un processo che sarà lungo e non senza difficoltà. A tale proposito, vorrei rilevare che una pace duratura nella regione dei Balcani non potrà essere stabilita se non saranno rispettate alcune condizioni: libera circolazione delle persone e delle idee; libero ritorno dei rifugiati alle loro case; preparazione di elezioni veramente democratiche; e, infine, una perseverante ricostruzione materiale e morale, alla quale sono chiamate a contribuire senza riserve non solo la Comunità internazionale, ma anche le Chiese e le comunità religiose. Se questa guerra, che ho spesso qualificato come “inutile”, sembra essere terminata, l’opera della pace da costruire e da consolidare appare come un’immensa sfida lanciata in primo luogo agli europei - ma non solo ad essi -, affinché‚ l’indifferenza o l’egoismo non vengano a travolgere un intero lembo d’Europa in un naufragio dalle conseguenze imprevedibili.
Anche l’Irlanda del Nord continua a camminare verso un avvenire più sereno, e il processo in corso permette di sperare in una pace stabile e durevole. Tutti sono ormai chiamati a bandire per sempre due mali che non sono affatto ineluttabili: l’estremismo settario e la violenza politica. Possano i cattolici e i protestanti di quella terra rispettarsi, costruire insieme la pace e collaborare nella vita quotidiana! Tra i segni incoraggianti, non posso mancare di menzionare l’evoluzione politica in America del Sud, dove vivono popolazioni a maggioranza cattolica, la vivacità spirituale delle quali costituisce una ricchezza per la Chiesa. Numerose vicende elettorali hanno avuto luogo nei mesi scorsi e si sono svolte in condizioni che gli osservatori internazionali hanno giudicato normali. Ma le ineguaglianze sociali sono ancora molto stridenti e il problema della produzione e del commercio della droga resta irrisolto. Ecco altrettanti fattori che devono spingere i responsabili politici ed economici di quel Continente ad una gestione della cosa pubblica e dell’economia sempre più attenta alle aspirazioni ed alle necessità reali delle popolazioni. Tale tipo di condotta, non dimentichiamolo, ha consentito l’avanzamento dei processi di pace nell’America centrale. In Nicaragua e nel Salvador, le armi tacciono. In Guatemala, la riconciliazione è sulla buona strada. Certo, la cessazione delle ostilità non significa sempre la pacificazione della società. La smilitarizzazione è difficile da imporre ed il rispetto dei diritti dell’uomo non è ancora totale. Tuttavia un nuovo clima si instaura poco a poco. Da parte sua, la Chiesa cattolica non manca di contribuirvi.
E’ necessario che questo nuovo clima foriero di speranza, che si sviluppa grazie al lavoro tenace di negoziatori coraggiosi ai quali va la nostra gratitudine, non sia solo una tregua. Tra estremismi minacciosi, la pace deve essere una realtà. E se così è, essa sarà contagiosa.
7 4. Ma vi sono ancora troppi focolai di conflitti più o meno larvati, che mantengono certe popolazioni sotto il giogo insopportabile della violenza, dell’odio, dell’incertezza e della morte.
Penso certamente, proprio vicino a noi, all’Algeria ove il sangue scorre quasi tutti i giorni: non possiamo che vivamente auspicare di vedere finalmente instaurarsi, nel giusto rispetto delle differenze, una logica dell’intesa e un progetto nazionale in cui ciascuno possa essere considerato come un partner.
Sempre nell’area mediterranea, vorrei ricordare un’isola divisa dal 1974: Cipro. Non è stata ancora trovata alcuna soluzione. Una simile situazione, che impedisce alle popolazioni, separate o private dei loro beni, di costruire il loro avvenire, non può essere mantenuta indefinitamente. Che i negoziati tra le parti in causa si intensifichino e siano animati da una sincera volontà di riuscita!
La cooperazione nel Mediterraneo è un fattore indispensabile per la stabilità e la sicurezza europee, come hanno affermato i partecipanti al recente summit europeo di Barcellona. In tale contesto, non possiamo dimenticare le identità, i territori e le relazioni di vicinato, come pure le religioni: tanti elementi da conciliare per fare di questa zona uno spazio di cooperazione culturale, religiosa ed economica, da cui tutti i popoli che si affacciano sulle sponde di questo mare non potranno che trarre beneficio.
5. Se volgiamo lo sguardo verso l’Oriente, dobbiamo constatare ancora, purtroppo, che i combattimenti continuano in Cecenia. L’Afghanistan è sempre politicamente in un vicolo cieco, mentre la popolazione viene trattata senza rispetto ed è immersa nella più grande miseria. Nel Kashmir e nello Sri Lanka, i combattimenti hanno continuato a decimare le popolazioni civili. Gli abitanti di Timor orientale continuano anch’essi ad attendere proposte capaci di permettere la realizzazione delle loro legittime aspirazioni, tese a veder riconosciuta la loro specificità culturale e religiosa.
Bisogna ammirare e sostenere il coraggio di tanti uomini e donne che riescono a salvare l’identità dei loro popoli e che trasmettono alle giovani generazioni la fiamma della memoria e della speranza.
6. Volgendoci verso l’Africa, siamo costretti a deplorare la persistenza di focolai di guerra, di conflitti etnici che costituiscono un costante impedimento allo sviluppo del continente. La situazione in Liberia e in Somalia, che l’aiuto internazionale non è ancora riuscito a pacificare, permane regolata dalla legge della violenza e degli interessi particolari. Un’azione armata diffusa ha fatto piombare anche la Sierra Leone in un clima di tensione, che aggrava l’insicurezza. Il Sudan meridionale resta una regione in cui il dialogo e il negoziato non hanno diritto di cittadinanza. Parimenti vorremmo poter constatare progressi più decisivi in Angola, dove i conflitti politici e la disgregazione sociale impediscono di parlare di normalizzazione. Il Rwanda ed il Burundi sono ancora tentati da una spirale etnico-nazionalista, di cui le popolazioni hanno pure provato le tragiche conseguenze.
L’anno scorso, nella medesima occasione, avevo sollecitato un po’ più di solidarietà internazionale per l’Africa e, nelle presenti circostanze, non posso che rinnovare con insistenza tale appello. Ma, oggi, vorrei indirizzarmi in modo tutto particolare alla coscienza dei responsabili politici africani: se voi non vi impegnate più risolutamente in favore di un dialogo nazionale democratico, se non rispettate più chiaramente i diritti dell’uomo, se non gestite in modo rigoroso i fondi pubblici ed i crediti esteri, se non denunciate l’ideologia etnica, il continente africano rimarrà sempre ai margini della comunità delle nazioni. Per essere aiutati, i governi africani devono essere politicamente credibili. I Vescovi africani riuniti in Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi hanno sottolineato l’urgenza di una buona gestione degli affari pubblici e della buona formazione dei responsabili politici - uomini e donne - che “amino il proprio popolo fino in fondo e che desiderino servire piuttosto che servirsi” (cf. Giovanni Paolo II, Ecclesia in Africa, n. 111).
7. Queste situazioni di conflitto, alle quali ho brevemente accennato, non sono delle fatalità.Gli sviluppi positivi che hanno conosciuto alcune regioni, prese anch’esse nella rete della violenza, mostrano che è possibile ritrovare la fiducia nell’altro, il che è in realtà fiducia nella vita. La pace assicurata e coraggiosamente salvaguardata è vittoria sulle forze della morte sempre in agguato.
In questo spirito, non posso che incoraggiare la ripresa dei lavori a Ginevra, tra qualche giorno, della Conferenza di revisione della Convenzione sulle armi convenzionali che causano sofferenze eccessive, e la conclusione, nel corso del 1996, del trattato sul divieto degli esperimenti nucleari. A questo proposito, la Santa Sede è del parere che, nel campo delle armi nucleari, la cessazione degli esperimenti e del perfezionamento di tali armi, il disarmo e la non-proliferazione sono strettamente legati e devono essere al più presto realizzati sotto un controllo internazionale effettivo. Sono, queste, tappe verso un disarmo generale e completo al quale la Comunità internazionale nel suo insieme dovrebbe giungere senza ritardi.
8. Come ho avuto modo più volte di richiamare, ciò che la Comunità internazionale riunisce, non sono solamente degli Stati ma delle Nazioni, formate da uomini e donne che intessono una storia personale e collettiva. Sono i loro diritti che si tratta di definire e di garantire. Ma è necessario, sul modello di ciò che avviene in una famiglia, sfumarli richiamando l’importanza dei doveri correlativi. In occasione della mia recente visita alla sede delle Nazioni Unite a New York, ho usato l’espressione “famiglia delle nazioni”. Facevo allora notare che “il concetto di ‘famiglia’ evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti” (Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea generale dell’ONU, 5 ottobre 1995, n. 14).
8 È il vero senso di ciò che il diritto internazionale erige a teoria, mediante la nozione di “reciprocità”.Ciascun popolo deve essere disposto ad accogliere l’identità del suo vicino: siamo agli antipodi dei nazionalismi dominatori che hanno lacerato e lacerano ancora l’Europa e l’Africa! Ciascuna nazione deve essere disposta a condividere le sue risorse umane, spirituali e materiali per venire incontro a coloro che ne sono più sprovvisti che i propri membri. Roma si prepara ad accogliere, nel novembre prossimo, il Vertice mondiale dell’alimentazione, convocato dall’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura. Auspico che il senso della solidarietà e della condivisione ne ispirino i lavori, tanto più che il 1996 è stato proclamato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite “anno dello sradicamento della povertà”.
9. Il riconoscimento dell’altrui e del proprio patrimonio, intendendo quest’ultimo termine in senso ampio, si applica evidentemente anche ad un ambito particolare dei diritti della persona umana: quello cioè della libertà di coscienza e di religione. Considero in effetti mio dovere di ritornare ancora una volta su questo aspetto fondamentale della vita spirituale di milioni di uomini e donne, poiché la situazione - e questo dico con profonda tristezza - è lontana dall’essere soddisfacente.
Come i paesi di tradizione cristiana accolgono le comunità musulmane, certi paesi a maggioranza musulmana accolgono anch’essi generosamente le comunità non islamiche, permettendo loro di costruirsi i propri edifici di culto e di vivere secondo la loro fede. Altri paesi, però, continuano ad esercitare una discriminazione nei riguardi degli Ebrei, dei Cristiani e di altre famiglie religiose, giungendo persino a negare il diritto di radunarsi in privato per pregare. Non lo si potrà dire mai abbastanza: si tratta di una violazione intollerabile ed ingiustificata non solo di tutte le norme internazionali in vigore, ma della libertà umana più fondamentale, quella di manifestare la propria fede, che è per l’essere umano ragione di vita.
In Cina e nel Viêt Nam, in contesti certamente differenti, i cattolici sono esposti ad ostacoli costanti, soprattutto in quello che riguarda la manifestazione visibile del legame di comunione con la Sede apostolica.
Non si può opprimere indefinitamente milioni di credenti, sottoporli ad un regime di sospetti o dividerli senza che ciò non comporti conseguenze negative, non solamente per la credibilità internazionale di questi Stati, ma anche all’interno stesso delle società in questione: un credente perseguitato si troverà sempre in difficoltà nel dare fiducia allo Stato che vuole spadroneggiare sulla sua coscienza. Al contrario, buoni rapporti tra le Chiese e lo Stato contribuiscono all’armonia di tutti i membri della società.
10. Signore, Signori, queste semplici riflessioni hanno come scopo di attualizzare gli auguri che ci scambiamo. Esse hanno tracciato un quadro fatto di luci e di ombre, a somiglianza dell’anima umana.
Ma è impellente dovere del Successore di Pietro di ricordare ai responsabili delle nazioni, che qui voi rappresentate con competenza, che la stabilità mondiale non può fare economia su certi valori come quelli del rispetto della vita, della coscienza, dei diritti umani più fondamentali, dell’attenzione ai più bisognosi, della solidarietà, per citarne solo alcuni.
La Santa Sede, sovrana ed indipendente in mezzo alle nazioni e, per questo, membro della Comunità internazionale, desidera offrire il proprio contributo specifico a tale impegno comune. Senza ambizione politica, Essa è sollecita prima di tutto a che il cammino dell’umanità sia illuminato dalla luce di Colui che, venendo nel mondo, si è fatto nostro compagno di viaggio, lui in cui “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3).
A Lui, ancora una volta, affido le vostre persone, le vostre famiglie e le vostre nazioni, in particolare le giovani generazioni alle quali ho pensato nel lanciare questo appello: “Diamo ai bambini un futuro di pace” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la celebrazione della Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 1996). Su tutti invoco, per l’anno che comincia, l’abbondanza delle Benedizioni divine.
GP2 Discorsi 1996