B. Paolo VI Omelie 30466

3 aprile 1966: SACRO RITO DELLA «DOMINICA IN PALMIS»

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II Domenica di Passione,

Ai Fratelli e figli carissimi, specialmente ai giovani della Città di Roma presenti al sacro Rito, il saluto del Padre e l’invito a sostare un momento in meditazione sul racconto, ora riascoltato, della Passione del Signore.

Esso ci introduce nella Settimana Santa, e subito ci rendiamo conto di ciò che i prossimi giorni rappresentano e vogliono produrre nelle nostre anime. Quali pensieri suscita questa Settimana, per antonomasia detta la «Grande»? Quelli intorno ai fatti conclusivi della vita temporale del Signore; cioè il ricordo della sua Passione, della sua Morte e poi della sua Risurrezione.

Conosciamo questi avvenimenti: e ce li ripresentiamo per la loro importanza e per i riflessi che essi riverberano sopra di noi.


CONTINUITÀ E PRESENZA DELLA PIÙ ALTA REALTÀ

Perciò, insieme con quanto storicamente è accaduto, logica emerge la considerazione delle verità insite negli stessi eventi: quelle appunto che riguardano le conseguenze della Passione sull’umanità e nelle nostre anime. Questo profondo riflesso è la Redenzione. Noi celebriamo la memoria e l’origine del nostro riscatto, meditiamo in quale maniera il Signore ci ha salvati, che cosa ha fatto per risollevarci dalla nostra miseria personale, redimerci dal peccato e salvare tutto il genere umano.

Occorre por mente ad un concetto importantissimo. Non si tratta qui di semplice memoria, di ricordo, di atto celebrativo, come potrebbe essere per qualsiasi altro avvenimento di cui la storia conservi la traccia. Qui è una continuità viva; è una specie di reviviscenza; è un ripetersi incessante del fatto storico, pur se già finito e consumato. Esso si riproduce, rivive spiritualmente e misticamente nelle anime, in ciascuno di noi. Questa capacità di ripetersi, di riverberarsi - è stato detto - nelle anime è definita il Mistero pasquale. Proprio tale Mistero ci dice che siamo dinnanzi a una presenza, e non soltanto ad un ricordo di cosa lontana: si tratta di una realtà sempre attuale, nostra. È simile ad un faro acceso, i cui raggi si ripercuotono negli occhi di chi lo contempla da lontano o in tanti specchi che ne riproducono le luci. Precisamente così è di noi rispetto a Cristo; ai fatti centrali della storia dell’umanità; del principio della nostra Religione; dei destini del mondo. Basta avere l’attitudine di accogliere e conservare siffatti splendori. Chi è disattento, distratto, infedele, non si accorgerà del passaggio misterioso dei raggi di Cristo. Colui, invece, che ha l’anima attenta - come noi con la nostra fedeltà - sicuramente riceve provvido beneficio, partecipando, così, alla Passione, Morte e Risurrezione di Cristo, ricevendo, perciò, il dono della salvezza.

Questa mattina abbiamo rievocato soprattutto due tratti, due momenti. Il primo, richiamato nella Cappella Sistina, è l’ingresso glorioso del Signore in Gerusalemme; il secondo la Passione secondo San Matteo, con la narrazione della condanna, delle sofferenze e del sacrificio supremo del Salvatore. Soffermiamoci alquanto - prosegue il Santo Padre - sul primo fatto. Esso è noto a tutti i cari ascoltatori.



DA BETANIA A GERUSALEMME: TRIONFO DEL MESSIA LIBERATORE

Al primo giorno della Settimana così alta e determinante, Gesù si trova in Betania con i suoi discepoli e con grande folla, ivi accorsa per avere notizie ulteriori sullo strepitoso prodigio della risurrezione di Lazzaro. Ad un certo momento il Divin Maestro dice: Andiamo a Gerusalemme; ed indica le modalità del trasferimento. Procedendo verso la città, salgono al Monte degli Ulivi e sostano nel villaggio denominato Betfage. Qui avviene qualche cosa di singolare. Gesù, che non aveva mai tenuto a comparire, ad emergere, anzi, giammai aveva desiderato esaltazioni della sua Persona, decide di entrare con solennità in Gerusalemme, in quei giorni delle ricorrenze pasquali più che mai rigurgitante di folla. I discepoli sono i primi a comprendere, e con i loro mantelli adornano l’umile cavalcatura prescelta. Altri, moltissimi, si uniscono a loro nello slancio, e drappi vengono distesi lungo il percorso dell’improvvisato corteo. È un erompere improvviso di entusiasmo: un grido unanime si leva dal cuore e dalle labbra della moltitudine. Ecco, Gesù è il Messia; il Figlio di Davide; il Desiderato e l’Atteso delle genti e dei secoli; esultiamo tutti: Osanna, osanna!

Il tripudio assume proporzioni tanto vaste che coloro i quali si opponevano a Gesù e non volevano riconoscere il suo divino Mandato, giungono perfino a sollecitare i discepoli del Signore di far tacere gli evviva e disperdere i gruppi osannanti. Il Signore in persona respinge simili proteste. Non si dovevano accogliere. Se tacessero le voci degli uomini, le pietre stesse parlerebbero. E cioè: gli avvenimenti hanno raggiunto la maturità e questa deve esplodere e manifestarsi, poiché è venuta l’ora - annunciata dai profeti - di acclamare il Personaggio centrale non solo della storia di Israele, ma della intera umanità: Cristo.

Dunque, se vi fu chi cercò di sopprimere il trionfo di Cristo; altri, molti, vollero inneggiare alla sua Persona ed al suo insegnamento. Ciò è assai importante. E spiega come la Chiesa sosti un giorno particolare e solenne su questo avvenimento. L’aver riconosciuto Cristo per Messia, il Figlio di Dio fatto Uomo, è il punto rilevantissimo nella successione dei secoli. In quel momento Gesù viene riconosciuto per quello che è: l’inviato da Dio. Quelle voci parlano nel modo più limpido: l’abbiamo aspettato e da Lui riceveremo salvezza; è il nostro Re, Profeta, Salvatore; è Colui che riassume il nostro essere e la nostra speranza.


LE MOLTITUDINI SCELGONO ACCLAMANO ADORANO GESÙ

A un certo momento ci troviamo tutti - ecco un’applicazione pratica, immediata - di fronte a una scelta. La Chiesa propone l’odierna celebrazione affinché anche noi, dopo tanti secoli, e appunto per il perpetuarsi dell’attualità del Vangelo, prendiamo la nostra decisione. Quale? Dire a Cristo sì o no; dichiarare che gli crediamo o meno; se lo consideriamo come la soluzione dei problemi del mondo o se invece guardiamo a Lui come ad un fenomeno storico interessante in vario grado; se avvertiamo quello che c’è di trascendente, di superno, nel Cristo, o se, al contrario, non ci riteniamo obbligati a rivolgerci a Lui. A Gerusalemme ci fu chi respinse il Signore, al punto da infierire contro di Lui e decretare la sua morte, presentandolo quale disturbatore, menzognero, e negando la sua identità divina. Si aspettavano un Messia fragoroso, potente, un dominatore politico, un condottiero. Gesù, invece, si presentava in forme mansuete, calme, dolci, spirituali, interiori. Non piacque, non fu accettato.

D’altra parte, già allora, vi fu chi credette in Gesù; e lo accolse. Nel giorno delle palme e degli ulivi, il Signore fu solennemente acclamato, in uno scoppio di entusiasmo spontaneo, suscitato da Dio.

Chi fu, dunque, ad accettare il Signore? Il popolo. E chi nel popolo, ebbe le prime parti? Chi accese il fervore e tradusse in gioia quell’incontro? Chi seppe interpretare la grandezza e la spiritualità unica di quel momento? Furono i giovani, i fanciulli. I primi ad avere l’intuito che la loro festa significava una cosa eccezionale, grandissima: riassumeva, nientemeno, il destino della loro patria e si proiettava misteriosamente nel futuro del mondo.

Il singolare trionfo ritorna, oggi come in ogni anno; e il popolo nostro è ancora invitato a decidere, a dire se veramente accetta Gesù come Cristo, Redentore, Salvatore, Colui che guida la storia e risolve tutti i problemi vitali della grande famiglia umana. Pertanto il Papa ripete a quanti lo ascoltano: voi, figlioli, chi scegliete? Già la loro presenza è una risposta chiara, avvivata altresì dai canti, dalle preghiere, dall’ondeggiare festoso dei rami di olivo. Esplicita è la conferma: noi scegliamo Cristo; crediamo che Gesù è veramente il nostro Redentore e Salvatore.

Che sia la gioventù a far questo non solo è stupendo ed è sempre mirabile; ma ciò ha pure un significato di attualità, oltremodo degno di essere considerato e compreso.



I GIOVANI DI FRONTE A DIO A SE STESSI ALL’UMANITÀ

La gioventù! Che cosa i giovani sentono e pensano di loro stessi? Sembra al Padre delle anime di indovinare le loro aspirazioni quando avverte quasi salire dalle loro file la coscienza che dice: adesso noi giovani vogliamo imporci; siamo noi a decidere. La società tanto si interessa di noi, che da noi attende l’iniziativa e prende disposizioni. Una volta era la società a dirigere la gioventù; adesso la gioventù, nella sua presa di coscienza, nella sua maturità, per quanto precoce, nella rapida evoluzione dovuta alla trasformazione della stessa società e ai mezzi che circondano la psicologia umana e la ridestano fin nei primi anni, ha il sopravvento. I giovani hanno, ora, la voce più forte, le energie più fresche, l’intuito delle cose nuove, l’audacia per inattesi ardimenti; la gioventù rivendica una libertà in parte ammissibile e in parte eccessiva.

La libertà dei giovani: essi sono liberi di scegliere. Che fanno di fronte a Cristo? Anzitutto essi sanno che, rivendicando a se stessi una libertà assoluta, sono come certi alunni di collegio i quali, usciti impreparati dal loro istituto, si trovano, francati da ogni disciplina e guida, sulla strada della vita, del mondo: ma non sanno dove andare. È facile, in tal modo, perdere totalmente il senso dei fini, ignorare come dirigere la vita. Non poche volte si assiste allo spettacolo di giovani, che sono la bellezza, la forza, l’idealità, la speranza, la coscienza della società e dell’avvenire, eppur rimangono attratti da particolari futili, da mète effimere, sciocche, da esteriorità senza alcuna importanza, ed ivi fanno convergere i loro intenti e ideali. Si credono autorizzati a pronunciarsi su tutto, anche su ciò che non conoscono e non possono apprezzare e valutare: ed ecco allora che, tante volte, la gioventù si presenta con un aspetto infelice e spiacevole; gode di vasto credito, ma lascia quanti la guardano - genitori, educatori, responsabili del vivere pubblico - in grave e dolorosa perplessità. Incombe il pericolo che i ragazzi diventino superficiali, opachi, privi di luminosi orizzonti, scettici, perfino cinici; non sono sicuri di niente e trascorrono la vita come gente sfaccendata e anarchica.

È gioventù questa? A ben riflettere, si direbbe che, in mezzo alle file giovanili di notevole parte della generazione presente, manca Qualcuno, manca Uno che sappia, che parli, guidi, impersoni la virtù e l’esistenza stessa; Uno che intoni il vero canto della vita. Manca il Messia acclamato dai giovani palestinesi; manca il Cristo; Colui cioè che può dare energie spirituali moltiplicate, che trae dalle anime elette - e le conosciamo, sottolinea il Santo Padre - forze straordinarie di sacrificio, di eroismo, di grandezza morale, di fermezza nelle contrarietà, di speranza là ove gli altri sono disperati e vinti. La gioventù può, dunque, realmente conseguire la salvezza se la sollecita e la chiede ove essa si trova.



SAREMO TUOI SEGUACI: SEMPRE VICINI A TE

Da qui scaturisce la riflessione che io vi lascerò, o figlioli, - conclude Sua Santità - e che depongo sulla soglia delle vostre menti. Studiate, amate Gesù; conversate con Lui. Egli non vi promette nulla di terreno: è un Messia dolce e soave; non v’incanta con parole vane; non intende dominare mediante la potenza e la coercizione. Enuncia la verità: conosce perfettamente gli uomini. Sa perdonare e ricondurre le coscienze alla integrità; rendere lieti i cuori nel profondo; è l’unico ad avere parole di vita eterna.

Pensateci, pensateci; e fate, illuminati da Dio, la vostra scelta. Dite anche voi, con i fanciulli, i giovani di Gerusalemme: Tu sei il Cristo! Tu benedetto che vieni nel nome del Signore! Noi saremo tuoi seguaci; sentiremo elevarsi le nostre anime, diverremo giganti vicino a Te. Sentiremo che Tu sei la fonte della bontà, di ogni armonia e duratura letizia. Tu la speranza delle nostre anime! Purché, ripeto, sappiate scegliere. E voglia Dio, voglia Cristo Gesù, e vogliano i vostri cuori buoni e vigorosi, aperti alle autentiche idealità, accogliere questa Pasqua festante che vi porta, in pienezza, la Via, la Verità, la Vita: Nostro Signore Gesù Cristo.




Giovedì Santo, 7 aprile 1966: SANTA MESSA «IN COENA DOMINI» NELL'ARCIBASILICA LATERANENSE

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Fratelli e Figli!

Signori ed Amici!

Perché siamo noi questa sera di Giovedì Santo riuniti in questa Basilica? La Nostra domanda non si riferisce ora al grande rito religioso, che stiamo celebrando, ma risale più indietro; cerca la ragione che ha dato origine in passato, e che adesso giustifica l’atto misterioso e solenne, che stiamo compiendo. Da che cosa deriva la nostra sinassi, cioè la nostra riunione ecclesiale, e quale ne è il motivo primitivo ed essenziale?


«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»

Nessuno si stupisca per questa Nostra domanda, così semplice e di così facile risposta: nulla è più importante e nulla più fecondo di luce e di gaudio, che la rievocazione della causa iniziale della nostra celebrazione. Noi siamo qui, in questa fausta e pia ricorrenza del Giovedì Santo, per virtù d’una parola, due volte ripetuta dal Signore (cfr.
1Co 11,24-25), nell’ultima Cena, dopo che altre parole di preciso e immenso significato, quelle istitutive del sacrificio eucaristico, erano state pronunciate; e la parola che ora direttamente ci riguarda è questa: «Fate questo in memoria di Me» (Lc 22,19). Noi siamo riuniti questa sera per causa ed in ossequio di questa parola di Gesù Cristo; noi stiamo obbedendo ad un suo ordine, noi stiamo eseguendo una sua ultima volontà, noi stiamo rievocando, com’Egli ha voluto, la sua memoria.

È una cerimonia commemorativa la nostra. Noi vogliamo occupare il nostro spirito col ricordo di Lui, del nostro Fratello divino, del nostro sommo Maestro, del nostro unico Salvatore. La figura di Lui - oh, ne potessimo, noi così curiosi oggi delle immagini visive, averne le vere sembianze! - deve esserci davanti agli occhi dell’anima nelle forme che ci sono più care ed espressive, più umane e più ieratiche, Lui mite ed umile, Lui forte e grave, Lui, nostro Signore e nostro Dio (cfr. Jn 20,28); dobbiamo in un certo senso, vederlo, sentirlo, ma soprattutto saperlo presente. La parola di Lui, il suo Vangelo, deve, come per incanto, salire dalla nostra subcoscienza, e risuonare tutta insieme al nostro spirito, come la ascoltassimo, come la potessimo in un atto solo tutta ricordare e comprendere: non è Lui la Parola di Dio fatto uomo, e perciò fatta nostra? E tutto l’alone immenso della profezia e della teologia, che lo circonda e lo definisce, e che a noi tanto lo avvicina e quasi di Lui c’investe e ci inebria, ed insieme ci umilia e ci abbaglia, noi lo dobbiamo contemplare questa sera, come quando ci lasciamo incantare dalla maestosa icone di Cristo sovrano, dominante dall’abside delle nostre antiche basiliche, pieno di interiorità e di potestà. Dobbiamo ricordarlo, questa sera, Lui il nostro Signore e Redentore. È un dovere di memoria, che stiamo compiendo. È la reviviscenza nei nostri spiriti della sua figura e della sua missione, che vogliamo in questo momento, più che in ogni altro, suscitare.

LA PASQUA PERENNE DEL SALVATORE

Ci facilita il compimento di questo dovere il pensare l’importanza che la memoria assume nella religione vera, positiva e rivelata, come la nostra. Essa si fonda su fatti concreti, che bisogna ricordare. Il loro ricordo forma il tessuto della fede e alimenta la vita spirituale e morale del credente. Tutto il racconto biblico si svolge sulla memoria di avvenimenti e di parole, che non devono dissolversi nel tempo, ma devono rimanere sempre presenti. Quella che noi chiamiamo oggi coscienza storica può farci comprendere qualche cosa circa la funzione della memoria nella tradizione sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. Non possiamo dimenticare che la Cena stessa, durante la quale Gesù ordinò di tener viva la sua memoria mediante la rinnovazione di ciò ch’Egli aveva allora compiuto, era un rito commemorativo; era il convito pasquale, che doveva ripetersi ogni anno per trasmettere alle generazioni future il ricordo indelebile della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù dell’Egitto: «Habebitis autem hunc diem in monumentum et celebrabitis eam solemnem Domino in generationibus vestris cultu sempiterno» (Ex 12,14). L’Antico Testamento si svolge lungo il filo di fedeltà al ricordo di quella prima Pasqua liberatrice. Gesù, quella sera, sostituisce all’Antico il Nuovo Testamento: «Questo è il mio Sangue. Egli dirà, del Nuovo Testamento . . .» (Mt 26,28); all’antica Pasqua storica e figurativa Egli collega e fa succedere la sua Pasqua, anch’essa storica, definitiva questa, ma figurativa anch’essa d’un altro ultimo avvenimento, la parusia finale: «donec veniat» (1Co 11,26): memoria risolutiva e profetica è la Cena del Signore.



LA SS.MA EUCARISTIA ALIMENTO E VITA DEI CRISTIANI

Ma come questa memoria fedele e perenne di Cristo possa rinnovarsi e di quale contenuto essa sia piena ci è pur obbligo ripensare. Quel comando di Gesù: «Fate questo» è una parola creatrice, miracolosa: è una trasmissione d’un potere, ch’Egli solo possedeva; è l’istituzione d’un sacramento, il conferimento cioè del sacerdozio di Cristo ai suoi discepoli; è la formazione dell’organo costituente e santificante del Corpo mistico, la sacra gerarchia, resa capace di rinnovare il prodigio dell’ultima Cena.

E quale sia il prodigio dell’ultima Cena noi sappiamo. Il ricordo sarà realtà. Bisogna ripensare al momento e al modo con cui Cristo ha istituito l’Eucaristia. Essa è scaturita dal suo cuore nell’imminenza e nella chiaroveggenza della sua passione. Essa rappresenta tale passione e contiene Colui che l’ha sofferta. Gesù ha sigillato la sua presenza paziente e morente nei simboli - ormai non più altro che simboli e segni - del pane e del vino. Ha voluto essere ricordato così. Ha voluto, si può dire, sopravvivere e rimanere fra noi nel supremo suo atto d’amore, il suo sacrificio, la sua morte. Ha voluto rendersi presente, lungo il corso del tempo, fra noi nello stato simultaneo di sacerdote e di vittima, sostituendo alla sua presenza storica e sensibile quella non meno reale della presenza sacramentale, perché solo i credenti, solo i volontari della fede e dell’amore, potessero venire in comunione vitale con Lui. Gesù, sapendo di essere alla fine della sua presenza naturale sulla terra, ha fatto in modo che gli uomini non si dimenticassero di Lui. L’Eucaristia è appunto il memoriale perenne di Gesù Cristo. Celebrare l’Eucaristia vuol dire celebrare la sua memoria. Ed Egli ha voluto che questa forma singolarissima di ricordarlo, anzi di riaverlo presente, diventasse cibo, cioè alimento, cioè principio interiore d’energia e di vita, per le anime dei suoi veri seguaci.

La liturgia ben sa e bene ci insegna questa finalità del mistero eucaristico; e le dà un nome, che nel suono greco ed arcaico del vocabolo dice come sempre nei secoli, fin da principio, fin dal Vangelo così fu onorata l’Eucaristia; e cioè il nome di anàmnesi, che vuol appunto dire reminiscenza, rimembranza, e che trova il suo posto rituale immediatamente dopo la consacrazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, in connessione e quasi a sviluppo ed a commento delle parole citate dal Signore stesso: «Fate questo in memoria di me»: è a questo punto ineffabile che la liturgia della Messa aggancia nuovamente la storia nostra al Vangelo con le famose parole: «Unde et memores . . ., perciò noi ricordando . . .».



ADORARE, RINGRAZIARE, AMARE CRISTO PRESENTE TRA NOI

Perciò, Fratelli e Figli, come il grande rito vuole, un grande sforzo di memoria a noi questa sera è domandato. Dobbiamo ricordare Gesù Cristo con tutte le forze del nostro spirito. Questo è l’amore che ora gli dobbiamo. Ricorda chi ama. La nostra grande colpa è l’oblio, è la dimenticanza. È la colpa ricorrente nella vicenda biblica: mentre Dio non si dimentica mai di noi . . . . «Potrà mai una donna dimenticarsi del suo bambino, da non sentire più compassione per il figlio delle sue viscere? . . .» (Is 49,15), noi ci dimentichiamo così facilmente di Lui. Siamo giunti a tanto, nel nostro tempo, da credere una liberazione lo scordarci di Dio, da volere scordarci di Lui; come fosse liberazione lo scordarci del sole della nostra vita! Noi spingiamo sovente la giusta distinzione dei vari ordini sia del sapere, che dell’azione, la quale non vuole confusione fra il sacro e il profano e rivendica a ciascuno la loro relativa autonomia, fino alla negazione dell’ordine religioso, e alla diffidenza e alla resistenza nei suoi confronti, per l’errata convinzione che nel laicismo radicale sia prestigio umano e vera sapienza. Così la dimenticanza di Cristo si fa abituale anche in una società che tanto da Lui ha ricevuto e tuttora riceve; e si insinua qualche volta anche nella comunità ecclesiale: «Tutti cercano, lamenta l’Apostolo, le cose proprie, non quelle di Gesù Cristo» (Ph 2,21).

Dobbiamo ricordarci invece di Lui, come Lui con la moltiplicata, silenziosa, amorosa presenza eucaristica si ricorda di noi, di ciascuno di noi. E se nella quotidiana celebrazione della Messa questa memoria si riaccende e risplende nelle nostre sacre assemblee e nel foro interiore delle nostre anime, quest’oggi un’ultima dimenticanza noi dobbiamo vincere, quella che l’abitudine produce e che rende la nostra memoria appena formale e insensibile. Oggi la pienezza della memoria si ravviva nella fede alla realtà del fatto eucaristico, nella meraviglia, nella riconoscenza, nell’amore: qui è il Cristo venuto, qui è il Cristo presente, qui è il Cristo che verrà; a Lui onore e gloria, oggi e per sempre.



Venerdì Santo, 8 aprile 1966: «VIA CRUCIS» DAL COLOSSEO AL PALATINO

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Il Santo Padre desidera concludere la pia cerimonia con una riflessione riassuntiva, che rimanga in ogni anima quale ricordo e proposito. Eccola: è necessario portare la croce. L’affermazione proprio in questo momento, non suscita un’impressione, come di solito, sfavorevole; anzi, dopo il devoto esercizio compiuto, ne avvertiamo quasi la logica naturale; sentiamo cioè il senso doloroso che essa porta con sé e, quasi quasi, anche il contenuto onorifico. Non è forse un onore portare la croce? non desideriamo noi tutti tale ventura?

Eppure tale non è il nostro stato d’animo abituale perché, ordinariamente, siamo restii, e cerchiamo di eludere l’invito che la croce, con le sue braccia aperte, a noi rivolge. In realtà è arduo addossarci la croce. Perciò, adesso, l’invito del Padre a riflettere per un istante: che cosa significa portare la croce?



DOLOROSO STRUMENTO DELLA NOSTRA SALVEZZA

Vuol dire, innanzitutto, - e lo hanno confermato le nostre preghiere, le nostre meditazioni, i nostri canti -, riconoscere che dalla Croce siamo stati salvati. Questo pensiero ci è abituale al punto che non sempre desta la dovuta meraviglia, ma oltremodo propizia è quest’ora per chiederci come mai il Signore, che poteva in cento altre maniere salvarci, lo ha fatto, invece, mediante questa dolorosissima, disonorante, straziante, paradossale maniera: con la croce! Attraverso l’amore, l’obbedienza, il dolore, il sangue, l’infamia subita, il disonore e finalmente la morte, noi siamo stati salvati: «et livore eius sanati sumus», come dice il Profeta Isaia.

Siamo stati salvati dalla sua sofferenza. È quanto noi dobbiamo riconoscere come un punto attraente, meraviglioso, su cui la nostra meditazione, sia ascetica che teologica, dovrà soffermarsi: come mai la Redenzione è avvenuta attraverso la tragedia del sangue e della morte di Cristo?

La grande realtà significa ancora: accostarsi, partecipare, unirsi alla Croce di Cristo. E qui comincia il discorso che atterrisce e pone in molte anime riluttanza e timore. Eppure, e prima d’ogni altra cosa, partecipare alla Croce di Cristo vuol dire ricevere il beneficio che la Croce ci ha ottenuto, e cioè la misericordia di Dio, e quindi la nostra salvezza. La bontà del Signore in questa maniera ci si è rivelata; Egli l’ha prescelta per redimerci. Ci ha aperto il suo Cuore, e la carità di Dio si è manifestata, insieme con il suo desiderio di sostituirsi a noi nelle nostre responsabilità e nelle pene che avremmo dovuto sopportare per le nostre mancanze. È, dunque, il dono della misericordia che noi accettiamo quando diciamo che vogliamo prendere tra le nostre braccia la Croce di Cristo.



LE SOFFERENZE INERENTI ALLA VITA UMANA

Né va dimenticato un successivo modo di partecipare ai dolori del Signore. Cristo ci ha redenti? Sì. Egli però non ci ha dispensati dalla sofferenza inerente alla vita umana. Ha dato anzi a tale sofferenza la possibilità di diventare in certo qual modo redentrice, di acquisire la virtù propria della Croce di Cristo nel salvare, nel redimere, nel farci incontrare e rincontrare il Signore ed introdurci così nella nostra salvezza completa ed eterna. Nessuno perciò deve sfuggire all’invito espresso da Gesù medesimo nel suo Vangelo: Se qualcuno vuol essere mio seguace e veramente mio fedele, prenda la sua croce e mi segua. Quando? L’Evangelista San Luca aggiunge: «cotidie»: ogni giorno. Portare la croce è, pertanto, una attitudine, è uno stato, una condizione propria della vita cristiana. Non possiamo esimerci, se vogliamo essere cristiani, dall’assumere, in qualche maniera, la Croce del Signore. E se ci domandiamo ancora in che consiste questa partecipazione, vedremo che i dolori, i doveri, i sacrifici impostici dalla vita ci vengono incontro per dirci: ecco la croce che il Signore ti ha preparato.

Consegue per tutti un alto impegno. Invece di essere sempre ribelli, gente che non sa né rassegnarsi né vedere la provvidenza implicita nel dolore, occorre, al contrario, diventare forti, saggi, e pazienti e ripetere le grandi parole che il Signore ha pronunciato prima di salire al Calvario: Si compia, o Padre, la tua volontà.


A CRISTO SEMPRE E VERAMENTE FEDELI

Oggi rileviamo scarsa disposizione ad ammettere la grande verità. Se ben si considera, tutto l’indirizzo della educazione moderna è interamente orientato ad un certo edonismo, verso la vita facile, verso lo sforzo di eliminare la croce dal programma quotidiano. Non si vorrebbe soffrire mai. E anche quando le contrarietà giungono, una rivolta interiore le respinge: ritenendole quasi un insulto alla Provvidenza e al nostro destino. L’uomo arriva a toccare la Croce del Signore, ma rifiuta di portarla. Anche nella interpretazione del Vangelo, quante volte si cerca di eliminare le pagine della Passione di Gesù per cogliere dal Libro divino soltanto quel che può rendere bella, serena, poetica, lirica, splendida la vita. Nel contempo la pagina sanguinante e tragica della Croce incute paura e non la si vorrebbe leggere mai. Anche oggi, dopo il Concilio, spesso si affaccia la tentazione di considerare facile il Cristianesimo, di accoglierlo nei suoi conforti, ma senza alcun sacrificio, cercando di renderlo conformista a tutti gli agi abituali del vivere mondano.

Non è così! Non deve essere così! Se è vero che la nuova disciplina della Chiesa cerca di rendere agevole la vita cristiana e mostrarne i valori positivi, stiamo attenti: il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere, non può nemmeno ritenersi tale senza il passaggio, il mistero pasquale del sacrificio. Chiunque cerca di togliere tale realtà dalla vita, illude se stesso; e snatura il Cristianesimo; fa del Cristianesimo una interpretazione molle e comoda della vita, mentre il Divino Maestro, nostro Signore, ha detto a tutti che bisogna portare la croce: nelle sue asprezze; nei suoi dolori; nella sua esigenza assoluta e, se necessario, anche tragica.

Il Santo Padre affida dunque a tutti gli ascoltatori questo pensiero, a ricordo del pio incontro, della preghiera del Venerdì Santo. Non temiamo la Croce di Cristo, non abbiamo paura della Croce che il Signore ha portato per noi e che ci offre per la nostra salvezza! Se noi siamo solerti e volenterosi nel portare la croce, dice l’Imitazione di Cristo, vedremo che è la stessa Croce a portare noi. La Croce, infatti, è sorgente di forza, di energie spirituali; la Croce è rivelatrice del cuore umano; la Croce dà valore a tutte le nostre fatiche e a tutte le nostre sofferenze; la Croce è la chiave per entrare nel Regno dei Cieli e dà il premio del gaudio eterno. Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam Crucem tuam vedemisti mundum.

Diamo ora - conclude Sua Santità - la Nostra Benedizione a conferma di questa escursione spirituale, dei buoni sentimenti che essa certamente ci ha ispirati, e dei propositi che, davanti a Cristo, a Lui offriamo per essergli, veramente e sempre, fedeli.






Sabato Santo, 9 aprile 1966: VEGLIA PASQUALE NELLA BASILICA VATICANA

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Nel rivolgersi ai Fratelli, ai figli e fedeli presenti, il Santo Padre dichiara, anzitutto, che il Rito della Veglia Pasquale è già di per sé tanto esteso e particolareggiato da non richiedere commenti. Tuttavia, dovendo onorare, anche con un breve cenno soltanto, la liturgia della Parola, Egli inviterà gli ascoltatori a meditare sopra uno degli aspetti prevalenti, non l’unico, del Rito medesimo, cioè il suo carattere vigiliare.


VIGILIA SACRA

È una vigilia quella che celebriamo; essa tocca pure la solennità di cui è degna prefazione. Le grandi cose non avvengono mai all’improvviso nella nostra storia umana. Non siamo mai così bravi da comprendere tutto per via di intuito e senza la fatica di qualche predisposizione voluta. La Quaresima, oggi terminata, è appunto il ciclo preparatorio all’epilogo di quest’ora notturna, ricca d’una forza ed intensità particolari.

La vigilia, e cioè l’attenzione ascetica, l’esercizio della nostra volontà, l’impegno di tutte le nostre facoltà: memoria, sentimenti, propositi, rivolge ogni elemento verso il punto più alto del Mistero Pasquale. Questo aspetto ascetico diviene evidente per il fatto che il Rito dovrebbe essere celebrato nel tempo destinato al riposo, al sonno, durante la notte. Perciò è molto lungo. Deve occupare tutte le ore che vanno dal tramonto all’alba, ed è frammisto di letture, di canti e di preghiere, proprio per alternare, con la diversità degli atti e riferimenti, la nostra attenzione e tenerla vigile, desta e interessata. Lo sforzo per vincere il sonno assume in questa notte uno spiccato aspetto penitenziale, e cioè di grande, buona volontà, nel desiderio di andare al Mistero Pasquale preparati con qualche sacrificio e rinunzia, con un raffronto fra ciò che ci è abituale e caro e quel ch’è insolito e ancor più soave: l’incontro con Cristo Risorto.

Alla preparazione ascetica si unisce quella della mente, interessata alle lezioni, ai grandi quadri biblici che sono stati posti davanti a noi con la lettura delle «profezie». Cosa vuol dire questo quadro, questa sintesi della storia della salvezza, come oggi si dice, cioè nel procedimento seguito da Dio nel concedersi a noi, in una rivelazione graduale che ha avuto i momenti, i periodi, le stagioni, gli istanti di luce e anche le pause, ma sempre con una coerenza, una progressione che dalla comparsa dell’uomo sulla terra, l’antico Adamo, giunge fino all’avvento di Gesù Cristo, il nuovo Adamo, sintesi della lunga escursione divinamente predisposta per segnare la storia della umanità?


IL SIGNORE E L'UOMO

È il fulcro della meditazione proposta durante la Santa Notte, la quale ha il suo riflesso precipuo anche su come l’uomo, con tutte le sue vicende ed alternative, con tutte le sue sconfitte e le vittorie; con i suoi momenti di pienezza e altri di depressione; di fedeltà e di infedeltà, abbia partecipato al dialogo proposto dal Signore. È la storia spirituale del mondo, che ha poi il suo riscontro, si può dire soggettivamente, nella piccola, ma per noi unica, interessante, storia della nostra anima. Anche ciascuno di noi ha ricevuto graduali rivelazioni.

Il Signore ha usato una pedagogia progressiva per noi e ci ha amati, ci ha istruiti; e finalmente ecco la Pasqua in cui ancora Egli si concede, ci viene incontro, e ci vuole idonei a ricordare degnamente le preparazioni celesti e ad esaltare i grandi Misteri vitali. Possiamo guardare in che cosa si riassuma tale celebrazione nel suo significato finale. Abbiamo poco fa acceso il Cero pasquale, abbiamo benedetto l’acqua del battesimo, e rinnovate le promesse battesimali: infine prorompe l’Alleluja . . . Vediamo il contrasto notturno fra le tenebre esteriori e la luce, fra la morte e la vita, fra il peccato e la grazia, fra la beatitudine di chi è in contatto con la vita stessa, Dio, e l’oscurità di chi non lo è. Ora questo dualismo, in una parola, è il grande tema della Vigilia Pasquale.


CANTO SUBLIME

Chi ha seguito il canto dell’Exultet, che è forse il più lirico, il più bello dei canti della liturgia cristiana, avrà sentito echeggiare le parole e gli insegnamenti della primissima teologia, quella di S. Paolo, che ha trovato nelle formule di Sant’Agostino e di Sant’Ambrogio le sue espressioni più alte e più paradossali: O felix culpa! Era necessario che l’uomo cadesse per avere un tanto Redentore! Non sarebbe servito a nulla avere la vita naturale se non ci fosse stata poi largita la vita soprannaturale. Il dualismo, dunque, fra tenebre e luce, tra la vita e la morte, tra la storia di Cristo che soffre e dà la vita per noi e quindi la riprende per aprirci il cammino verso l’eternità. Tutto questo deve offrire alle nostre anime argomento di riflessione e davvero colmare i nostri spiriti di una moltitudine di pensieri, che riprendono il loro ordine risalendo precisamente al dualismo del bene e del male, della grazia e del peccato, della vita e della morte.

Ed ecco la conclusione da queste premesse: noi riconosciamo con letizia e gratitudine di essere stati salvati. E cioè: tutta la nostra storia, la nostra salvezza è guidata da un prodigio unico: la misericordia di Dio, la quale gratuitamente ci redime per effondere in noi la rivelazione suprema di ciò che Egli è: Bontà infinita. Con indicibile amore ha voluto salvare l’umanità concedendosi senza alcun limite, anche dopo che l’uomo avrebbe meritato ben altro; e cioè la condanna, l’ira e la morte perpetua.

Il nostro inno alla bontà divina non toglie, anzi mette in rilievo, quel che noi dobbiamo compiere per meritare la grazia del Signore. Abbiamo poco fa rinnovato le promesse battesimali, cioè abbiamo proclamato di voler porre a disposizione di Dio la nostra persona, perché Egli agisca in noi, compia in noi la salvezza. Ed anche qui Sant’Agostino, pare a Noi, ha la parola ardita, sintetica e sublime che riassume tutto l’eccelso poema, benché spesso è in noi un dramma continuo. Enuncia i due poli, due parole immense: una riferita a Dio e si chiama misericordia; l’altra riferita all’uomo e si chiama miseria. Nell’incontro di queste due entità - conclude il Santo Padre -, e cioè della infinità di Dio che salva, e della nostra povertà che ha bisogno di essere salvata, sta la Pasqua, la risurrezione, la nostra gioia; e da ciò deriva il nostro impegno. Sarà quello che porteremo nel cuore appunto come ricordo di questa santa celebrazione.






B. Paolo VI Omelie 30466