Pastores dabo vobis 69

  Capitolo VI - Ti ricordo di ravvivare il doni di Dio che è in te

La formazione permanente dei sacerdoti

70     “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te” (2Tm 1,6).

          Le parole dell’apostolo al vescovo Timoteo si possono legittimamente applicare a quella formazione permanente alla quale sono chiamati tutti i sacerdoti in forza del “dono di Dio” che hanno ricevuto con l’ordinazione sacra. Esse ci introducono a cogliere la verità intera e l’originalità inconfondibile della formazione permanente dei presbiteri. In questo siamo aiutati anche da un altro testo di Paolo, che allo stesso Timoteo scrive: “Non trascurare il dono principale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l’imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri. Abbi premura di queste cose, dedicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso. Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano” (1Tm 4,14-16).

          L’apostolo chiede a Timoteo di “ravvivare”, ossia di riaccendere come si fa per il fuoco sotto la cenere, il dono divino, nel senso di accoglierlo e di viverlo senza mai perdere o dimenticare quella “novità permanente” che è propria di ogni dono di Dio, di colui che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5), e dunque di viverlo nella sua intramontabile freschezza e bellezza originaria.

          Ma quel “ravvivare” non è solo l’esito di un compito affidato alla responsabilità personale di Timoteo, non è solo il risultato di un impegno della sua memoria e della sua volontà. È l’effetto di un dinamismo di grazia intrinseco al dono di Dio: è Dio stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa.

          Con l’effusione sacramentale dello Spirito Santo che consacra e manda, il presbitero viene configurato a Gesù Cristo capo e pastore della chiesa e viene mandato a compiere il ministero pastorale. In tal modo, il sacerdote è segnato per sempre e in modo indelebile nel suo essere come ministro di Gesù e della chiesa ed è inserito in una condizione permanente e irreversibile di vita ed è incaricato di un ministero pastorale che, radicato nell’essere, coinvolge tutta la sua esistenza, ed è esso pure permanente. Il sacramento dell’ordine conferisce al sacerdote la grazia sacramentale, che lo rende partecipe non solo del “potere” e del “ministero” salvifici di Gesù, ma anche del suo “amore” pastorale; nello stesso tempo assicura al sacerdote tutte quelle grazie attuali che gli verranno date ogniqualvolta saranno necessarie e utili per il degno e perfetto compimento del ministero ricevuto.

          La formazione permanente trova così il suo fondamento proprio e la sua motivazione originale nel dinamismo del sacramento dell’ordine.

          Certo non mancano ragioni anche semplicemente umane che sollecitano il sacerdote a realizzare una formazione permanente. Questa è un’esigenza della sua progressiva realizzazione: ogni vita è un cammino incessante verso la maturità, e questa passa attraverso la continua formazione. È esigenza, inoltre, del ministero sacerdotale, sia pure colto nella sua natura generica e comune alle altre professioni, e quindi come servizio rivolto agli altri: ora non c’è professione o impegno o lavoro che non esiga un continuo aggiornamento, se vuole essere attuale ed efficace. L’esigenza di “tenere il passo” con il cammino della storia è un’altra ragione umana che giustifica la formazione permanente.

          Ma queste e altre ragioni vengono assunte e specificate dalle ragioni teologiche ora ricordate e che si possono ulteriormente approfondire.

          Il sacramento dell’ordine, per la natura di “segno”, che è propria di tutti i sacramenti, può considerarsi, come realmente è, parola di Dio: è parola di Dio che chiama e manda, è l’espressione più forte della vocazione e della missione del sacerdote. Mediante il sacramento dell’ordine Dio chiama “coram Ecclesia” il candidato “al” sacerdozio. Il “vieni e seguimi” di Gesù trova la sua proclamazione piena e definitiva nella celebrazione del sacramento della sua chiesa: si manifesta e si comunica attraverso la voce della chiesa, che risuona sulle labbra del vescovo che prega e impone le mani. E il sacerdote dà risposta, nella fede, alla chiamata di Gesù: “vengo e ti seguo”. Da questo momento ha inizio quella risposta che, come scelta fondamentale, deve riesprimersi e riaffermarsi lungo gli anni del sacerdozio in numerosissime altre risposte, tutte radicate e vivificate dal “sì” dell’ordine sacro.

          In questo senso si può parlare di una vocazione “nel” sacerdozio. In realtà Dio continua a chiamare e a mandare, rivelando il suo disegno salvifico nello sviluppo storico della vita del sacerdote e nelle vicende della chiesa e della società. E proprio in questa prospettiva emerge il significato della formazione permanente: essa è necessaria in ordine a discernere e a seguire questa continua chiamata o volontà di Dio. Così l’apostolo Pietro è chiamato a seguire Gesù anche dopo che il Risorto gli ha affidato il suo gregge: “Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle. In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”” (Jn 21,17-19). C’è, dunque, un “seguimi” che accompagna la vita e la missione dell’apostolo. È un “seguimi” che attesta l’appello e l’esigenza della fedeltà sino alla morte (cf. Jn 21,22), un “seguimi” che può significare una sequela Christi con il dono totale di sé nel martirio.

          I padri sinodali hanno espresso la ragione che giustifica la necessità della formazione permanente e che nello stesso tempo ne rivela la natura profonda, qualificandola come “fedeltà” al ministero sacerdotale e come “processo di continua conversione”. È lo Spirito Santo, effuso con il sacramento, che sostiene il presbitero in questa fedeltà e che lo accompagna e lo stimola in questo cammino di incessante conversione. Il dono dello Spirito non dispensa, ma sollecita la libertà del sacerdote, perché cooperi responsabilmente e assuma la formazione permanente come compito che gli è affidato. In tal modo la formazione permanente è espressione ed esigenza della fedeltà del sacerdote al suo ministero, anzi al suo stesso essere. È dunque amore a Gesù Cristo e coerenza con se stessi. Ma è anche atto di amore verso il popolo di Dio, al cui servizio il sacerdote è posto. Anzi, atto di vera e propria giustizia: egli è debitore verso il popolo di Dio, essendo chiamato a riconoscerne e a promuoverne il “diritto”, quello fondamentale, di essere destinatario della parola di Dio, dei sacramenti e del servizio della carità, che sono il contenuto originale e irrinunciabile del ministero pastorale del sacerdote. La formazione permanente è necessaria perché il sacerdote sia in grado di rispondere, nel modo dovuto, a tale diritto del popolo di Dio.

          Anima e forma della formazione permanente del sacerdote è la carità pastorale: lo Spirito Santo, che infonde la carità pastorale, introduce e accompagna il sacerdote a conoscere sempre più profondamente il mistero di Cristo che è insondabile nella sua ricchezza (cf. Ep 3,14ss.) e, di riflesso, a conoscere il mistero del sacerdozio cristiano. La stessa carità pastorale spinge il sacerdote a conoscere sempre più le attese, i bisogni, i problemi, le sensibilità dei destinatari del suo ministero: destinatari colti nelle loro concrete situazioni personali, familiari, sociali.

          A tutto questo tende la formazione permanente intesa come cosciente e libera proposta al dinamismo della carità pastorale e dello Spirito Santo, che ne è la sorgente prima e l’alimento continuo. In questo senso la formazione permanente è un’esigenza intrinseca al dono e al ministero sacramentale ricevuto e si rivela necessaria in ogni tempo. Oggi però risulta essere particolarmente urgente, non solo per il rapido mutarsi delle condizioni sociali e culturali degli uomini e dei popoli entro cui si svolge il ministero presbiterale, ma anche per quella “nuova evangelizzazione” che costituisce il compito essenziale e indilazionabile della chiesa alla fine del secondo millennio.


71     La formazione permanente dei sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, è la continuazione naturale e assolutamente necessaria di quel processo di strutturazione della personalità presbiterale che si è iniziato e sviluppato in seminario o nella casa religiosa con il cammino formativo in vista dell’ordinazione.

          È di particolare importanza avvertire e rispettare l’intrinseco legame che esiste tra la formazione precedente l’ordinazione e quella successiva. Se, infatti, ci fosse una discontinuità o perfino una difformità tra queste due fasi formative, deriverebbero immediatamente gravi conseguenze sull’attività pastorale e sulla comunione fraterna tra i presbiteri, in particolare tra quelli di differente età. La formazione permanente non è una ripetizione di quella acquisita in seminario, semplicemente riveduta o ampliata con nuovi suggerimenti applicativi. Essa si sviluppa con contenuti e soprattutto attraverso metodi relativamente nuovi, come un fatto vitale unitario che, nel suo progresso – affondando le radici nella formazione seminaristica – richiede adattamenti, aggiornamenti e modifiche, senza però subire rotture o soluzioni di continuità.

          E viceversa, fin dal seminario maggiore occorre preparare la futura formazione permanente, e aprire a essa l’animo e il desiderio dei futuri presbiteri, dimostrandone la necessità, i vantaggi e lo spirito, e assicurando le condizioni del suo realizzarsi.

          Proprio perché la formazione permanente è una continuazione di quella del seminario, il suo fine non può essere un puro atteggiamento per così dire professionale, ottenuto con l’apprendimento di alcune tecniche pastorali nuove. Deve essere piuttosto il mantenere vivo un generale e integrale processo di continua maturazione, mediante l’approfondimento sia di ciascuna delle dimensioni della formazione – umana, spirituale, intellettuale e pastorale –, sia del loro intimo e vivo collegamento specifico, a partire dalla carità pastorale e in riferimento ad essa.


72     Un primo approfondimento riguarda la dimensione umana della formazione sacerdotale. Nel contatto quotidiano con gli uomini, nella condivisione della loro vita di ogni giorno, il sacerdote deve crescere e approfondire quella sensibilità umana che gli permette di comprendere i bisogni e accogliere le richieste, di intuire le domande inespresse, di spartire le speranze e le attese, le gioie e le fatiche del vivere comune; di essere capace di incontrare tutti e di dialogare con tutti. Soprattutto conoscendo e condividendo, cioè facendo propria, l’esperienza umana del dolore nella molteplicità del suo manifestarsi, dall’indigenza alla malattia, dall’emarginazione all’ignoranza, alla solitudine, alle povertà materiali e morali, il sacerdote arricchisce la propria umanità e la rende più autentica e trasparente in un crescente e appassionato amore all’uomo.

          Nel portare a maturità la sua formazione umana, il sacerdote riceve un particolare aiuto dalla grazia di Gesù Cristo: la carità del buon pastore, infatti, si è espressa non solo con il dono della salvezza agli uomini, ma anche con la condivisione della loro vita, della quale il Verbo, che si è fatto “carne” (cf.
Jn 1,14), ha voluto conoscere la gioia e la sofferenza, sperimentare la fatica, spartire le emozioni, consolare la pena. Vivendo da uomo fra gli uomini e con gli uomini, Gesù Cristo offre la più assoluta, genuina e perfetta espressione di umanità: lo vediamo far festa alle nozze di Cana, frequentare una famiglia di amici, commuoversi per la folla affamata che lo segue, restituire figli malati o morti ai genitori, piangere la perdita di Lazzaro...

          Del sacerdote, maturato sempre più nella sua sensibilità umana, il popolo di Dio deve poter dire qualcosa di analogo a quanto di Gesù dice la Lettera agli ebrei: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (He 4,15).

          La formazione del presbitero nella sua dimensione spirituale è un’esigenza della vita nuova ed evangelica alla quale egli è chiamato in modo specifico dallo Spirito Santo effuso nel sacramento dell’ordine. Lo Spirito, consacrando il sacerdote e configurandolo a Gesù Cristo capo e pastore, crea un legame che, situato nell’essere stesso del sacerdote, chiede di essere assimilato e vissuto in maniera personale, cioè cosciente e libera, mediante una comunione di vita e di amore sempre più ricca e una condivisione sempre più ampia e radicale dei sentimenti e degli atteggiamenti di Gesù Cristo. In questo legame tra il Signore Gesù e il sacerdote, legame ontologico e psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e nello stesso tempo la forza per quella “vita secondo lo Spirito” e per quel “radicalismo evangelico” al quale è chiamato ogni sacerdote e che viene favorito dalla formazione permanente nel suo aspetto spirituale. Questa formazione risulta necessaria anche in ordine al ministero sacerdotale, alla sua autenticità e fecondità spirituale. “Eserciti la cura d’anime?”, si chiedeva san Carlo Borromeo. E così rispondeva nel discorso rivolto ai sacerdoti: “Non trascurare per questo la cura di te stesso, e non darti agli altri fino al punto che non rimanga nulla di te a te stesso. Devi avere certo presente il ricordo delle anime di cui sei pastore, ma non dimenticarti di te stesso. Comprendete, fratelli, che niente è così necessario a tutte le persone ecclesiastiche quanto la meditazione che precede, accompagna e segue tutte le nostre azioni: Canterò, dice il profeta, e mediterò (cf. Ps 101,1). Se amministri i sacramenti, o fratello, medita ciò che fai. Se celebri la messa, medita ciò che offri. Se reciti i salmi in coro, medita a chi e di che cosa parli. Se guidi le anime, medita da quale sangue siano state lavate; e tutto si faccia tra voi nella carità (1Co 16,14). Così potremo superare le difficoltà che incontriamo, e sono innumerevoli, ogni giorno. Del resto ciò è richiesto dal compito affidatoci. Se così faremo avremo la forza per generare Cristo in noi e negli altri”.

          In particolare la vita di preghiera dev’essere continuamente “riformata” nel sacerdote. L’esperienza, infatti, insegna che nell’orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, soprattutto a quelli destinati alla celebrazione della liturgia delle ore e a quelli lasciati alla scelta personale e non sostenuti da scadenze e orari del servizio liturgico, ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito.

          Quanto l’apostolo Paolo dice di tutti i credenti, che devono giungere “a formare l’uomo maturo, al livello di statura che attua la pienezza del Cristo” (Ep 4,13), può essere applicato in modo specifico ai sacerdoti chiamati alla perfezione della carità e quindi alla santità, anche perché il loro stesso ministero pastorale li vuole modelli viventi per tutti i fedeli.

          Anche la dimensione intellettuale della formazione chiede di essere continuata e approfondita durante tutta la vita del sacerdote, in particolare mediante lo studio e l’aggiornamento culturale serio e impegnato. Partecipe della missione profetica di Gesù e inserito nel mistero della chiesa maestra di verità, il sacerdote è chiamato a rivelare in Gesù Cristo agli uomini il volto di Dio, e con ciò il vero volto dell’uomo. Ma questo esige che il sacerdote stesso ricerchi tale volto e lo contempli con venerazione e amore (cf. Ps 26,8 Ps 41,2): solo così lo può far conoscere agli altri. In particolare la continuazione dello studio teologico risulta anche necessaria perché il sacerdote possa adempiere con fedeltà il ministero della parola, annunciandola senza confusioni e ambiguità, distinguendola dalle semplici opinioni umane, anche se rinomate e diffuse. Così potrà porsi veramente al servizio del popolo di Dio, aiutandolo a rendere ragione, a quanti lo chiedono, della speranza cristiana (cf. 1P 3,15). Inoltre, “il sacerdote, nell’applicarsi con coscienza e costanza allo studio teologico, è in grado di assimilare in forma sicura e personale la genuina ricchezza ecclesiale. Può quindi compiere la missione, che lo impegna nel rispondere alle difficoltà circa l’autentica dottrina cattolica, e superare l’inclinazione, propria e altrui, al dissenso e all’atteggiamento negativo riguardo al magistero e alla tradizione”.

          L’aspetto pastorale della formazione permanente è bene espresso dalle parole dell’apostolo Pietro: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio” (1P 4,10). Per vivere ogni giorno secondo la grazia ricevuta occorre che il sacerdote sia sempre più aperto ad accogliere la carità pastorale di Gesù Cristo, donatagli dal suo Spirito con il sacramento ricevuto. Come tutta l’attività del Signore è stata il frutto e il segno della carità pastorale, così deve essere anche per l’operosità ministeriale del sacerdote. La carità pastorale è un dono e, insieme, un compito, una grazia e una responsabilità alla quale occorre essere fedeli: occorre cioè accoglierla e viverne il dinamismo sino alle esigenze più radicali. Questa stessa carità pastorale, come si è detto, spinge e stimola il sacerdote a conoscere sempre meglio la condizione reale degli uomini ai quali è mandato, a discernere nelle circostanze storiche nelle quali è inserito gli appelli dello Spirito, a ricercare i metodi più adatti e le forme più utili per esercitare oggi il suo ministero. Così la carità pastorale anima e sostiene gli sforzi umani del sacerdote per un’operosità pastorale che sia attuale, credibile ed efficace. Ma ciò esige una permanente formazione pastorale.

          Il cammino verso la maturità non richiede solo che il sacerdote continui ad approfondire le diverse dimensioni della sua formazione, ma anche e soprattutto che sappia integrare sempre più armonicamente tra loro queste stesse dimensioni, raggiungendone progressivamente l’unità interiore: ciò sarà reso possibile dalla carità pastorale. Questa, infatti, non solo coordina e unifica i diversi aspetti, ma li specifica connotandoli come aspetti della formazione del sacerdote in quanto tale, ossia del sacerdote come trasparenza, immagine viva, ministro di Gesù buon pastore.

          La formazione permanente aiuta il sacerdote a superare la tentazione di ricondurre il suo ministero a un attivismo fine a se stesso, a una impersonale prestazione di cose, sia pure spirituali o sacre, a una funzione impiegatizia al servizio dell’organizzazione ecclesiastica. Solo la formazione permanente aiuta il prete a custodire con vigile amore il “mistero” che porta in sé per il bene della chiesa e dell’umanità.


73     Le diverse e complementari dimensioni della formazione permanente ci aiutano a coglierne il significato profondo: essa tende ad aiutare il prete a essere e a fare il prete nello spirito e secondo lo stile di Gesù buon pastore.

          La verità è da farsi! Così ci ammonisce san Giacomo: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (
Jc 1,22). I sacerdoti sono chiamati a “fare la verità” del loro essere, ossia a vivere “nella carità” (cf. Ep 4,15) la loro identità e il loro ministero nella chiesa e per la chiesa. Sono chiamati a prendere coscienza sempre più viva del dono di Dio, a farne continua memoria. È questo l’invito di Paolo a Timoteo: “Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tm 1,14).

          Nel contesto ecclesiologico più volte ricordato si può considerare il significato profondo della formazione permanente del sacerdote in ordine alla sua presenza e azione nella chiesa “mysterium, communio et missio”.

          Entro la chiesa “mistero” il sacerdote è chiamato, mediante la formazione permanente, a conservare e sviluppare nella fede la coscienza della verità intera e sorprendente del suo essere: egli è ministro di Cristo e amministratore dei ministeri di Dio (cf. 1Co 4,1). Paolo chiede espressamente ai cristiani che lo considerino secondo questa identità; ma lui stesso, per primo, vive nella consapevolezza del dono sublime ricevuto dal Signore. Così dev’essere di ogni sacerdote, se vuole rimanere nella verità del suo essere. Ma ciò è possibile solo nella fede, solo con lo sguardo e con gli occhi di Cristo.

          In questo senso si può dire che la formazione permanente tende a far sì che il prete sia un credente e lo diventi sempre più: che si veda sempre nella sua verità, con gli occhi di Cristo. Egli deve custodire questa verità con amore grato e gioioso. Deve rinnovare la sua fede quando esercita il ministero sacerdotale: sentirsi ministro di Gesù Cristo, sacramento dell’amore di Dio per l’uomo, ogni qualvolta è tramite e strumento vivo del conferimento della grazia di Dio agli uomini. Deve riconoscere questa stessa verità nei confratelli: è il principio della stima e dell’amore verso gli altri sacerdoti.


74     La formazione permanente aiuta il sacerdote, entro la chiesa “comunione”, a maturare la coscienza che il suo ministero è ultimamente ordinato a riunire la famiglia di Dio come fraternità animata dalla carità e a condurla al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo.

          Il sacerdote deve crescere nella consapevolezza della profonda comunione che lo lega al popolo di Dio: non è soltanto “davanti” alla chiesa, ma anzitutto “nella” chiesa. È fratello tra fratelli. Con il battesimo, insignito della dignità e della libertà dei figli di Dio nel Figlio unigenito, il sacerdote è membro dello stesso e unico corpo di Cristo (cf.
Ep 4,16). La coscienza di questa comunione sfocia nel bisogno di suscitare e sviluppare la corresponsabilità nella comune e unica missione di salvezza, con la pronta e cordiale valorizzazione di tutti i carismi e i compiti che lo Spirito offre ai credenti per l’edificazione della chiesa. È soprattutto nel compimento del ministero pastorale, per sua natura ordinato al bene del popolo di Dio, che il sacerdote deve vivere e testimoniare la sua profonda comunione con tutti, come scriveva Paolo VI: “Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso che vogliamo essere loro pastori, padri e maestri. Il clima del dialogo è l’amicizia. Anzi il servizio”.

          In modo più specifico il sacerdote è chiamato a maturare la coscienza dell’essere membro della chiesa particolare nella quale è incardinato, ossia inserito con un legame insieme giuridico, spirituale e pastorale. Una simile coscienza suppone e sviluppa l’amore particolare alla propria chiesa. Questa, in realtà, è il termine vivo e permanente della carità pastorale che deve accompagnare la vita del prete e che lo conduce a condividere di questa stessa chiesa particolare la storia o esperienza di vita nelle sue ricchezze e fragilità, nelle sue difficoltà e speranze, a lavorare in essa per la sua crescita. Sentirsi, dunque, insieme arricchiti dalla chiesa particolare e impegnati attivamente alla sua edificazione, prolungando, ciascun sacerdote e con gli altri, quell’operosità pastorale che ha contraddistinto i confratelli che li hanno preceduti. Un’esigenza insopprimibile della carità pastorale verso la propria chiesa particolare e il suo domani ministeriale è la sollecitudine che il sacerdote deve avere di trovare, per così dire, qualcuno che lo sostituisca nel sacerdozio.

          Il sacerdote deve maturare nella coscienza della comunione che sussiste tra le diverse chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di chiese che vivono in loco la chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale favorirà lo “scambio dei doni”, a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti. Di qui la disponibilità, anzi l’impegno generoso per il realizzarsi di un’equa distribuzione del clero. Tra queste chiese particolari sono da ricordarsi quelle che “prive di libertà, non possono avere vocazioni proprie”, come pure le “chiese recentemente uscite dalla persecuzione e quelle povere alle quali sono stati dati già per lungo tempo e da parte di molti degli aiuti con animo grande e fraterno, e tuttora vengono dati”.

          All’interno della comunione ecclesiale, il sacerdote è chiamato in particolare a crescere, nella sua formazione permanente, nel e con il proprio presbiterio unito al vescovo. Il presbiterio nella sua verità piena è un “mysterium”: infatti è una realtà soprannaturale perché si radica nel sacramento dell’ordine. Questo è la sua fonte, la sua origine. È il “luogo” della sua nascita e della sua crescita. Infatti, “i presbiteri mediante il sacramento dell’ordine sono collegati con un vincolo personale e indissolubile con Cristo unico sacerdote. L’ordine viene conferito a essi come singoli, ma sono inseriti nella comunione del presbiterio congiunto con il vescovo (Lumen gentium LG 28 Presbyterorum ordinis PO 7-8)”.

          Questa origine sacramentale si riflette e si prolunga nell’ambito dell’esercizio del ministero presbiterale: dal “mysterium al ministerium”. “L’unità dei presbiteri con il vescovo e tra di loro non si aggiunge dall’esterno alla natura propria del loro servizio, ma ne esprime l’essenza in quanto è la cura di Cristo sacerdote nei riguardi del popolo adunato dall’unità della santissima Trinità”. Questa unità presbiterale, vissuta nello spirito della carità pastorale, rende i sacerdoti testimoni di Gesù Cristo, che ha pregato il Padre “perché tutti siano una cosa sola” (Jn 17,21).

          La fisionomia del presbiterio è, dunque, quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma sono dalla grazia dell’ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali. La fraternità presbiterale non esclude nessuno, ma può e deve avere le sue preferenze: sono quelle evangeliche, riservate a chi ha più grande bisogno di aiuto o di incoraggiamento. Tale fraternità “ha una cura speciale per i giovani presbiteri, tiene un cordiale e fraterno dialogo con quelli di media e maggior età e con quelli che per ragioni diverse sperimentano difficoltà; anche i sacerdoti che hanno abbandonato questa forma di vita o che non la seguono, non solo non li abbandona ma li segue ancor più con fraterna sollecitudine”.

          Dell’unico presbiterio fanno parte, a titolo diverso, anche i presbiteri religiosi residenti e operanti in una chiesa particolare. La loro presenza costituisce un arricchimento per tutti i sacerdoti e i vari carismi particolari da essi vissuti, mentre sono un richiamo perché i presbiteri crescano nella comprensione del sacerdozio stesso, contribuiscono a stimolare e ad accompagnare la formazione permanente dei sacerdoti. Il dono della vita religiosa, nella compagine diocesana, quando è accompagnato da sincera stima e da giusto rispetto delle particolarità di ogni istituto e di ogni tradizione spirituale, allarga l’orizzonte della testimonianza cristiana e contribuisce in vario modo ad arricchire la spiritualità sacerdotale, soprattutto in riferimento al corretto rapporto e al reciproco influsso tra i valori della chiesa particolare e quelli dell’universalità del popolo di Dio. Da parte loro, i religiosi saranno attenti a garantire uno spirito di vera comunione ecclesiale, una partecipazione cordiale al cammino della diocesi e alle scelte pastorali del vescovo, mettendo volentieri a disposizione il proprio carisma per l’edificazione di tutti nella carità.

          Infine, nel contesto della chiesa comunione e del presbiterio si può meglio affrontare il problema della solitudine del sacerdote, sulla quale si sono fermati i padri sinodali. Si dà una solitudine che fa parte dell’esperienza di tutti e che è qualcosa di assolutamente normale. Ma si dà anche una solitudine che nasce da difficoltà varie e che a sua volta provoca ulteriori difficoltà. In questo senso, “l’attiva partecipazione al presbiterio diocesano, i contatti regolari con il vescovo e con gli altri sacerdoti, la mutua collaborazione, la vita comune o fraterna tra sacerdoti, come anche l’amicizia e la cordialità con i fedeli laici che sono attivi nelle parrocchie, sono mezzi molto utili per superare gli effetti negativi della solitudine che alcune volte il sacerdote può sperimentare”.

          La solitudine non crea però solo difficoltà, offre anche opportunità positive per la vita del sacerdote: “Accettata in spirito di offerta e ricercata nell’intimità con Gesù Cristo Signore, la solitudine può essere un’opportunità per l’orazione e lo studio, come pure un aiuto per la santificazione e la crescita umana”.

          Senza dire che una certa forma di solitudine è elemento necessario per la formazione permanente. Gesù sapeva ritirarsi, spesso, da solo a pregare (cf. Mt 14,23). La capacità di reggere una buona solitudine è condizione indispensabile alla cura della vita interiore. Si tratta di una solitudine abitata dalla presenza del Signore, che ci mette in contatto, nella luce dello Spirito, con il Padre. In questo senso, la cura del silenzio e la ricerca di spazi e tempi di “deserto” sono necessari alla formazione permanente sia in campo intellettuale, sia in campo spirituale e pastorale. In questo senso ancora, si può affermare che non è capace di vera e fraterna comunione chi non sa vivere bene la propria solitudine.


75     La formazione permanente è destinata a far crescere nel sacerdote la coscienza della sua partecipazione alla missione salvifica della chiesa. Nella chiesa “missione” la formazione permanente del sacerdote entra non solo come necessaria condizione, ma anche come mezzo indispensabile per rimettere costantemente a fuoco il senso della missione e per garantirne una realizzazione fedele e generosa. Con tale formazione il sacerdote è aiutato ad avvertire tutta la gravità, ma nello stesso tempo la splendida grazia, da un lato, di un’obbligazione che non lo può lasciare tranquillo – come Paolo deve poter dire: “Per me evangelizzare non è un titolo di gloria, ma un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo!” (1Co 9,16) – e, dall’altro lato, di una richiesta, esplicita o implicita, che prepotente viene dagli uomini, che Dio instancabilmente chiama alla salvezza.

          Solo un’adeguata formazione permanente riesce a sostenere il sacerdote in ciò che è essenziale e decisivo per il suo ministero, ossia la fedeltà, come scrive l’apostolo Paolo: “Ora, quanto si richiede negli amministratori (dei misteri di Dio) è che ognuno risulti fedele” (1Co 4,2). Il sacerdote dev’essere fedele, nonostante le più diverse difficoltà incontrate, anche nelle condizioni più disagiate o di comprensibile stanchezza, con tutte le energie di cui dispone, e sino alla fine della vita. La testimonianza di Paolo dev’essere di esempio e di stimolo per ogni sacerdote: “Da parte nostra – scrive ai cristiani di Corinto – non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto” (2Co 6,3-10).


76     La formazione permanente, proprio perché “permanente”, deve accompagnare i sacerdoti sempre, quindi in ogni periodo e condizione della loro vita, come pure a ogni livello di responsabilità ecclesiale: evidentemente con quelle possibilità e caratteristiche che si collegano al variare dell’età, della condizione di vita e dei compiti affidati.

          La formazione permanente è dovere, anzitutto, per i giovani sacerdoti: deve avere quella frequenza e quella sistematicità di incontri che, mentre prolungano la serietà e la solidità della formazione ricevuta in seminario, introducono progressivamente i giovani a comprendere e a vivere la singolare ricchezza del “dono” di Dio – il sacerdozio – e ad esprimere le loro potenzialità e attitudini ministeriali, anche mediante un inserimento sempre più convinto e responsabile nel presbiterio, e quindi nella comunione e nella corresponsabilità con tutti i confratelli.

          Se si può comprendere un certo senso di “sazietà” che può prendere il giovane prete appena uscito dal seminario di fronte a nuovi momenti di studio e di incontro, si deve respingere come assolutamente falsa e pericolosa l’idea che la formazione presbiterale si concluda con il terminare della presenza in seminario.

          Partecipando agli incontri della formazione permanente i giovani sacerdoti potranno offrirsi un reciproco aiuto con lo scambio di esperienze e di riflessioni sulla traduzione concreta di quell’ideale presbiterale e ministeriale che hanno assimilato negli anni del seminario. Nello stesso tempo la loro attiva partecipazione agli incontri formativi del presbiterio potrà essere di esempio e di stimolo agli altri sacerdoti che sono più avanti negli anni, testimoniando così il proprio amore all’intero presbiterio e la propria passione per la chiesa particolare bisognosa di sacerdoti ben formati.

          Per accompagnare i sacerdoti giovani in questa prima delicata fase della loro vita e del loro ministero, è quanto mai opportuno, se non addirittura necessario oggi, creare un’apposita struttura di sostegno, con guide e maestri appropriati, nella quale essi possano trovare, in modo organico e continuativo, gli aiuti necessari a iniziare bene il loro servizio sacerdotale. In occasione di incontri periodici, sufficientemente lunghi e frequenti, possibilmente condotti in un ambiente comunitario, in modo residenziale, saranno loro garantiti momenti preziosi di riposo, di preghiera, di riflessione e di scambio fraterno. Sarà così per loro più facile dare, fin dall’inizio, un’impostazione evangelicamente equilibrata alla loro vita presbiterale. E se le singole chiese particolari non potessero offrire questo servizio ai propri giovani sacerdoti, sarà opportuno che si uniscano tra loro le chiese vicine e insieme investano risorse ed elaborino programmi adatti.


77     La formazione permanente costituisce un dovere anche per i presbiteri di mezza età. In realtà, sono molteplici i rischi che possono correre, proprio in ragione dell’età, come ad esempio un attivismo esagerato e una certa routine nell’esercizio del ministero. Così il sacerdote è tentato di presumere di sé, come se la propria personale esperienza, ormai collaudata, non dovesse più confrontarsi con nulla e con nessuno. Non di rado, il sacerdote adulto soffre di una specie di stanchezza interiore pericolosa, segno di una delusione rassegnata di fronte alle difficoltà e agli insuccessi. La risposta a questa situazione è data dalla formazione permanente, da una continua ed equilibrata revisione di sé e del proprio agire, dalla ricerca costante di motivazioni e di strumenti per la propria missione: così il sacerdote manterrà lo spirito vigile e pronto alle perenni e pur sempre nuove istanze di salvezza che ciascuno pone al prete, “uomo di Dio”.

          La formazione permanente deve interessare anche quei presbiteri che per l’età avanzata sono indicati come anziani e che in alcune chiese sono la parte più numerosa del presbiterio. Questo deve riservare loro gratitudine per il fedele servizio che hanno riservato a Cristo e alla chiesa e concreta solidarietà per la loro condizione. Per questi presbiteri la formazione permanente non comporterà tanto impegni di studio, di aggiornamento e di dibattito culturale, quanto la conferma serena e rassicurante del ruolo che ancora sono chiamati a svolgere nel presbiterio: non solo per il proseguimento, sia pure in forme diverse, del ministero pastorale, ma anche per la possibilità che essi hanno, grazie alla loro esperienza di vita e di apostolato, di diventare loro stessi validi maestri e formatori di altri sacerdoti.

          Anche i sacerdoti, che per le fatiche o le malattie si trovano in una condizione di debilitazione fisica o di stanchezza morale, possono essere aiutati da una formazione permanente che li stimoli a proseguire in modo sereno e forte il loro servizio alla chiesa, a non isolarsi né dalla comunità né dal presbiterio, a ridurre l’attività esterna per dedicarsi a quegli atti di relazione pastorale e di personale spiritualità capaci di sostenere le motivazioni e la gioia del loro sacerdozio. La formazione permanente li aiuterà, in particolare, a mantenere viva quella convinzione che essi stessi hanno inculcato nei fedeli, la convinzione cioè di continuare ad essere membri attivi nell’edificazione della chiesa anche e specialmente in forza della loro unione a Gesù Cristo sofferente e a tanti altri fratelli e sorelle che nella chiesa prendono parte alla passione del Signore, rivivendo l’esperienza spirituale di Paolo che diceva: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa” (
Col 1,24).


78     Le condizioni in cui spesso e in più parti si svolge attualmente il ministero dei presbiteri non rendono facile un impegno serio di formazione: il moltiplicarsi dei compiti e dei servizi, la complessità della vita umana in genere e di quella delle comunità cristiane in particolare, l’attivismo e l’affanno tipico di tante aree della nostra società privano spesso i sacerdoti del tempo e delle energie indispensabili a “vigilare su se stessi” (cf. 1Tm 4,16).

          Questo deve far crescere in tutti la responsabilità, cosicché le difficoltà siano superate, anzi diventino una sfida per elaborare e realizzare una formazione permanente che risponda in modo adeguato alla grandezza del dono di Dio e alla gravità delle richieste ed esigenze del nostro tempo.

          I responsabili della formazione permanente dei sacerdoti sono da ricercare nella chiesa “comunione”. In tal senso, è l’intera chiesa particolare che, sotto la guida del vescovo, viene investita della responsabilità di stimolare e di curare in vari modi la formazione permanente dei sacerdoti. Questi non sono per se stessi, ma per il popolo di Dio: per questo, la formazione permanente, mentre assicura la maturità umana, spirituale, intellettuale e pastorale dei sacerdoti, si risolve in un bene di cui è destinatario lo stesso popolo di Dio. Del resto, lo stesso esercizio del ministero pastorale conduce a un continuo e fecondo scambio reciproco tra la vita di fede dei presbiteri e quella dei fedeli. Proprio la condivisione di vita tra il presbitero e la comunità, se sapientemente condotta e utilizzata, costituisce un fondamentale contributo alla formazione permanente, peraltro non riconducibile a qualche episodio o iniziativa isolata, ma estesa e attraversante tutto il ministero e la vita del presbitero.

          Infatti, l’esperienza cristiana delle persone semplici e umili, gli slanci spirituali delle persone innamorate di Dio, le applicazioni coraggiose della fede alla vita da parte dei cristiani impegnati nelle varie responsabilità sociali e civili, vengono accolti dal presbitero che, mentre li illumina con il suo servizio sacerdotale, ne ricava un prezioso alimento spirituale. Anche i dubbi, le crisi e i ritardi di fronte alle più svariate condizioni personali e sociali, le tentazioni di rifiuto o di disperazione nel momento del dolore, della malattia, della morte: insomma, tutte le circostanze difficili, che gli uomini incontrano sul cammino della fede, vengono fraternamente vissute e sinceramente sofferte nel cuore del presbitero che, nel cercare le risposte per gli altri, è continuamente stimolato a trovarle innanzitutto per sé.

          Così l’intero popolo di Dio, in tutti i suoi membri, può e deve offrire un prezioso aiuto alla formazione permanente dei suoi sacerdoti. In questo senso deve lasciare ai sacerdoti spazi di tempo per lo studio e per la preghiera, chiedere loro ciò per cui sono stati mandati da Cristo e non altro, offrire collaborazione nei vari ambiti della missione pastorale, specialmente in quelli attinenti la promozione umana e il servizio della carità, assicurare rapporti cordiali e fraterni con loro, agevolare nei sacerdoti la coscienza di non essere “padroni della fede” ma “collaboratori della gioia” di tutti i fedeli (cf. 2Co 1,24).

          La responsabilità formativa della chiesa particolare nei riguardi dei sacerdoti si concretizza e si specifica in rapporto ai diversi membri che la compongono, a cominciare dal sacerdote stesso.


79     In un certo senso, è proprio lui, il singolo sacerdote, il primo responsabile nella chiesa della formazione permanente: in realtà su ciascun sacerdote incombe il dovere, radicato nel sacramento dell’ordine, di essere fedele al dono di Dio e al dinamismo di conversione quotidiana che viene dal dono stesso. I regolamenti o le norme dell’autorità ecclesiastica al riguardo, come pure lo stesso esempio degli altri sacerdoti, non bastano a rendere appetibile la formazione permanente, se il singolo non è personalmente convinto della sua necessità e non è determinato a valorizzarne le occasioni, i tempi, le forme. La formazione permanente mantiene la “giovinezza” dello spirito, che nessuno può imporre dall’esterno, ma che ciascuno deve ritrovare continuamente dentro se stesso. Solo chi conserva sempre vivo il desiderio di imparare e di crescere possiede questa “giovinezza”.

          Fondamentale è la responsabilità del vescovo, e con lui del presbiterio. Quella del vescovo si fonda sul fatto che i presbiteri ricevono attraverso di lui il loro sacerdozio e condividono con lui la sollecitudine pastorale verso il popolo di Dio. Egli è responsabile di quella formazione permanente che è destinata a far sì che tutti i suoi presbiteri siano generosamente fedeli al dono e al ministero ricevuto, così come il popolo di Dio li vuole e ha “diritto” di averli. Questa responsabilità conduce il vescovo, in comunione con il presbiterio, a delineare un progetto e a stabilire una programmazione capaci di configurare la formazione permanente non come qualcosa di episodico, ma come una proposta sistematica di contenuti, che si snoda per tappe e si riveste di modalità precise. Il vescovo vivrà la sua responsabilità, non soltanto assicurando al suo presbiterio luoghi e momenti di formazione permanente, ma rendendosi presente personalmente e partecipandovi in modo convinto e cordiale. Spesso sarà opportuno, o anche necessario, che i vescovi di più diocesi confinanti o di una regione ecclesiastica si accordino tra loro e uniscano le loro forze per poter offrire iniziative più qualificate e veramente stimolanti per la formazione permanente, come sono i corsi di aggiornamento biblico, teologico e pastorale, le settimane residenziali, i cicli di conferenze, i momenti di riflessione e di verifica sul cammino pastorale del presbiterio e della comunità ecclesiale.

          Il vescovo assolverà la sua responsabilità sollecitando anche l’apporto che può venire dalle facoltà e dagli istituti teologici e pastorali, dai seminari, dagli organismi o federazioni che riuniscono persone – sacerdoti, religiosi e fedeli laici – impegnate nella formazione presbiterale.

          Nell’ambito della chiesa particolare un posto significativo è riservato alle famiglie: ad esse, infatti, nella loro dimensione di “chiese domestiche”, fa riferimento concreto la vita delle comunità ecclesiali animate e guidate dai sacerdoti. In particolare è da rilevarsi il ruolo della famiglia d’origine. Questa, in unione e in comunione di intenti, può offrire alla missione del figlio un proprio specifico importante contributo. Portando a compimento il piano provvidenziale che l’ha voluta culla del germe vocazionale, indispensabile aiuto per la sua crescita e il suo sviluppo, la famiglia del sacerdote, nel più assoluto rispetto di questo figlio che ha scelto di donarsi a Dio e al prossimo, deve rimanere sempre come fedele, incoraggiante testimone della sua missione, affiancandola e condividendola con dedizione e rispetto.


80     Se ogni momento può essere un “tempo favorevole” (cf. 2Co 6,2) nel quale lo Spirito Santo conduce il sacerdote a una diretta crescita nella preghiera, nello studio e nella coscienza delle proprie responsabilità pastorali, ci sono però momenti “privilegiati”, anche se più comuni e prestabiliti.

          Sono qui da ricordarsi, anzitutto, gli incontri del vescovo con il suo presbiterio, siano essi liturgici (in particolare la concelebrazione della messa crismale del giovedì santo), siano essi pastorali e culturali, in ordine cioè al confronto sull’attività pastorale o allo studio su determinati problemi teologici.

          Ci sono poi gli incontri di spiritualità sacerdotale, come gli esercizi spirituali, le giornate di ritiro e di spiritualità, ecc. Sono un’occasione per una crescita spirituale e pastorale, per una preghiera più prolungata e calma, per un ritorno alle radici dell’essere prete, per ritrovare freschezza di motivazioni per la fedeltà e lo slancio pastorale.

          Importanti sono anche gli incontri di studio e di riflessione comune: impediscono l’impoverimento culturale e l’arroccamento su posizioni di comodo anche in campo pastorale, frutto di pigrizia mentale; assicurano una sintesi più matura tra i diversi elementi della vita spirituale, culturale e apostolica; aprono la mente e il cuore alle nuove sfide della storia e ai nuovi appelli che lo Spirito rivolge alla chiesa.


81     Molteplici sono gli aiuti e i mezzi di cui ci si può servire perché la formazione permanente diventi sempre più una preziosa esperienza vitale per i sacerdoti. Tra questi ricordiamo le diverse forme di vita comune tra i sacerdoti, sempre presenti, anche se in modalità e intensità differenti, nella storia della chiesa: “Oggi non si può non raccomandarle, soprattutto tra coloro che vivono o sono impegnati pastoralmente nello stesso luogo. Oltre che a giovare alla vita e all’azione apostolica, questa vita comune del clero offre a tutti, compresbiteri e laici, un esempio luminoso di carità e di unità”.

          Altro aiuto può essere dato dalle associazioni sacerdotali, in particolare dagli istituti secolari sacerdotali, che presentano come nota specifica la diocesanità, in forza della quale i sacerdoti si uniscono più strettamente al vescovo e costituiscono “uno stato di consacrazione nel quale i sacerdoti mediante voti o altri legami sacri sono consacrati a incarnare nella vita i consigli evangelici”. Tutte le forme di “fraternità sacerdotale” approvate dalla chiesa sono utili non solo per la vita spirituale, ma anche per la vita apostolica e pastorale.

          Anche la pratica della direzione spirituale contribuisce non poco a favorire la formazione permanente dei sacerdoti. È un mezzo classico, che nulla ha perso di preziosità non solo per assicurare la formazione spirituale, ma anche per promuovere e sostenere una continua fedeltà e generosità nell’esercizio del ministero sacerdotale. Come scriveva il futuro Paolo VI, “la direzione spirituale ha una funzione bellissima e si può dire indispensabile per l’educazione morale e spirituale della gioventù, che voglia interpretare e seguire con assoluta lealtà la vocazione, qualunque essa sia, della propria vita; e conserva sempre importanza benefica per ogni età della vita, quando al lume e alla carità d’un consiglio pio e prudente si chieda la verifica della propria rettitudine e il conforto al compimento generoso dei propri doveri. È mezzo pedagogico molto delicato, ma di grandissimo valore; è arte pedagogica e psicologica di grave responsabilità in chi la esercita; è esercizio spirituale di umiltà e di fiducia in chi la riceve”.


Pastores dabo vobis 69