Lezionario "I Padri vivi" 194

XXIV DOMENICA

194 Letture:
    
Ex 32,7-11 Ex 32,13-14
     1Tm 1,12-17
     Lc 15,1-32


1. Vera penitenza è non tornare a peccare

       Se uno che è fuori dello scoglio della troppa ricchezza o troppa povertà ed è sul facile sentiero dei beni eterni, tuttavia, dopo la liberazione dal peccato, ricade e si seppellisce in esso, questo deve essere ritenuto rigettato da Dio. Chiunque, infatti, si rivolge a Dio con tutto il cuore, gli si aprono le porte, e il Padre accoglie con tutto l’affetto il figlio veramente pentito. Ma la vera penitenza consiste nel non ricadere e nello sradicare i peccati riconosciuti come causa di morte. Se ne levi questi, Dio abiterà di nuovo in te. È una gioia immensa e incomparabile in cielo per il Padre e per gli angeli la conversione di un peccatore (Lc 15,2). Perciò è detto anche: "Voglio misericordia e non sacrificio. Non voglio la morte del peccatore, ma che si penta. Se i vostri peccati saranno come la porpora, li farò bianchi come la neve; e se saranno neri come il carbone li ridurrò come neve" (Os 6,6 Mt 9,13 Ez 18,23 Is 1,18 Lc 5,21). Solo il Signore può perdonare i peccati e non imputare i delitti e ci comanda di perdonare i fratelli pentiti (Mt 6,14). Che se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone, quanto più il Padre della misericordia, quel Padre di ogni consolazione, pieno di misericordia, avrà lunga pazienza e aspetterà la nostra conversione? (Lc 11,13). Ma convertirsi dal peccato, significa finirla col peccato e non tornare indietro.

       Dio concede il perdono del passato; il non ricadere dipende da noi. E questo è pentirsi: aver dolore del passato e pregare il Padre che lo cancelli, poiché lui solo con la sua misericordia può ritenere non fatto il male che abbiamo fatto e lavare con la rugiada dello Spirito i peccati passati. È detto, infatti: "Vi giudicherò, come vi troverò (In Evang. apocr.)", in modo che se uno ha menato una vita ottima, ma poi si è rivolto al male, non avrà alcun vantaggio del bene precedente; invece, chi è vissuto male, se si pente, col buon proposito può redimere la vita passata. Ma ci vuole una gran diligenza, come una lunga malattia vuole una dieta più rigorosa e più accortezza. Vuoi, o ladro, che il peccato ti sia perdonato? Finisci di rubare. L’adultero spenga le fiamme della libidine. Il dissoluto sia casto. Se hai rubato, restituisci un po’ di più di quanto hai preso. Hai testimoniato il falso? Impara a dir la verità. Se hai spergiurato, astieniti dai giuramenti, taglia i vizi, l’ira, la cupidigia, la paura. Forse è difficile portar via a un tratto dei vizi inveterati; ma puoi conseguirlo per la potenza di Dio, con la preghiera dei fratelli, con una vera penitenza e assidua meditazione.

       Clemente di Alessandria, Quis dives, 39 s.


2. Proprio l’umiliazione di Dio ci salva

       Per peccati più gravi ci voleva una più potente medicina: i peccati erano stragi scambievoli, adulteri, spergiuri, furiosa sodomia e idolatria, che rivolge alle creature il culto del Creatore. E poiché queste piaghe avevano bisogno d’un aiuto più energico, tale esso venne. E questo fu lo stesso Figlio di Dio, più antico del tempo, invisibile, incomprensibile, incorporeo, principio dal principio, luce da luce, fonte d’immortalità, espressione della prima Idea, sigillo intatto, immagine perfetta del Padre e questo prende carne e per la mia anima si unisce all’anima umana, per purificare il simile col simile. E prende tutte le debolezze umane, eccetto il peccato (He 4,15), concepito da una vergine nell’anima e nel corpo già purificata dallo Spirito... O meraviglia di fusione! Colui che è, vien fatto, l’increato viene creato; colui che non può essere contenuto, è contenuto tra la divinità e lo spessore della carne. Colui che fa tutti ricchi, è povero; abbraccia la povertà della mia carne, perché io acquisti la ricchezza della sua divinità. Lui che è la pienezza, si svuota; si svuota della sua gloria, perché io diventi partecipe della sua pienezza. Che ricchezza di bontà! Quale mistero mi circonda? Ho ricevuto l’immagine di Dio, non l’ho custodita; lui si fa partecipe della mia carne, per portare la salvezza all’immagine e l’immortalità alla carne. Stabilisce un nuovo consorzio e di gran lunga più meraviglioso del primo; allora diede a noi ciò ch’era più eccellente; ma ora lui stesso s’è fatto partecipe di ciò che è più deteriore. Questo consorzio è più divino del primo; questo per chi ha cuore è molto più sublime... E tu osi rinfacciare a Dio il suo beneficio? È forse piccolo, perché per te s’è fatto umile, perché quel buon Pastore, che diede la sua anima per le sue pecore (Jn 10,11), cerca la smarrita tra i monti e i colli, sui quali sacrificavi, la trova e se la pone su quelle stesse spalle, sulle quali prese il legno della croce, e la riporta alla vita soprannaturale, e ricondottala nell’ovile, dov’erano quelle che non ne uscirono mai, la tiene nello stesso luogo e numero di quelle? O è piccolo perché accende la lucerna, cioè la sua carne, e spazza la casa, purgando cioè il mondo dal peccato e cerca la dramma, cioè la regale immagine coperta di sporcizia viziosa, e, trovatala, chiama gli angeli suoi amici e li fa partecipi della sua gioia, dal momento che li aveva messi a conoscenza della sua economia?

       Gregorio Nazianzeno, Sermo 38, 13 s.


3. Conversione e remissione

       Ricorda quello che lo Spirito dice alle Chiese: accusa gli Efesini di aver abbandonato l’amore, riprende gli abitanti di Tiatira per i loro stupri e l’uso di carni immolate agli idoli, imputa agli abitanti di Sardi che le loro opere non sono perfette; rimprovera gli abitanti di Pergamo d’insegnare dottrine perverse; quelli di Laodicea di confidar troppo nelle loro ricchezze. Eppure esorta tutti alla penitenza, anzi, ad essa li ammonisce. Ma non ammonirebbe chi non si pente, se a chi si pente le colpe non fossero perdonate. È lui, è lui che "preferisce la misericordia ai sacrifici" (Mt 9,13).

       Si allietano i cieli, e gli angeli lassù presenti, per la penitenza dell’uomo. Orsù, peccatore: sta’ di buon animo! Vedi dove ci si allieta per il tuo ritorno. Che ci vogliono dimostrare gli argomenti delle parabole del Signore? La donna che, persa la moneta, la cerca, la ritrova e invita le amiche a rallegrarsi, non è esempio del peccatore ravveduto? Si è smarrita una sola pecorella del pastore, ma egli non ha premura maggiore per il gregge intero: ricerca quella sola, gli preme più di tutte le altre, e finalmente la trova, la porta sulle sue spalle, perché si era molto stancata vagolando. E non posso tralasciar di ricordare quel padre tenerissimo che richiama il figliol prodigo e con tanto cuore lo riaccoglie, ravveduto nella miseria: uccide il vitello ingrassato e manifesta la sua gioia con un banchetto. E perché no? Aveva trovato il figlio perduto; lo sentiva più caro, perché lo aveva riguadagnato. Chi dobbiamo intendere che sia quel padre? Dio, naturalmente: nessuno è tanto padre, nessuno è tanto affettuoso. Egli dunque riaccoglierà te, figlio suo, anche se ti sarai allontanato dopo esser già stato accolto, anche se tornerai nudo, solo per il fatto del tuo ritorno: e si allieterà più di questo ritorno che della regolatezza dell’altro figlio; ma solo se ti pentirai di cuore, se metterai a confronto la tua fame con la buona situazione degli operai di tuo padre, se abbandonerai il gregge di porci immondi, se ritornerai da lui, per quanto offeso, dicendo: "Ho peccato, padre, e non son più degno di esser chiamato tuo figlio" (Lc 15,14s). La confessione allevia il delitto, quanto la dissimulazione lo aumenta. La confessione infatti manifesta disposizione alla riparazione, la dissimulazione invece all’ostinazione.

       Tertulliano, De paenitentia, 8


4. Dio ci ha cercati per puro amore

       "Dio è amore. E chi resta nell’amore resta in Dio e Dio rimane in lui" (1Jn 4,15-16). Abitano l’uno nell’altro, chi contiene e chi è contenuto. Tu abiti in Dio ma per essere contenuto da lui; Dio abita in te, ma per contenerti e non farti cadere. Non devi ritenere che tu possa diventare casa di Dio, così come la tua casa contiene il tuo corpo. Se la casa in cui abiti crolla, tu cadi; se invece tu crolli, Dio non cade. Egli resta intatto, se tu lo abbandoni. Intatto egli resta, quando ritorni a lui. Se tu diventi sano, non gli offri nulla, sei tu che ti purifichi ti ricrei e ti correggi. Egli è una medicina per il malato, una regola per il cattivo, una luce per il cieco, per l’abbandonato una casa. Tutto dunque ti viene offerto. Cerca di capire che non sei tu a dare a Dio, allorché vieni a lui; neppure la proprietà di te stesso. Dio dunque non avrà dei servi se tu non vorrai e se nessuno vorrà? Dio non ha bisogno di servi, ma i servi hanno bisogno di Dio perciò un salmo dice: "Dissi al Signore: tu sei il mio Dio". È lui il vero Signore. Che cosa disse allora il salmista? "Tu non hai bisogno dei miei beni" (Ps 15,2). Tu, uomo, hai bisogno dei buoni uffici del tuo servo. Il servo ha bisogno dei tuoi beni, perché tu gli offra da mangiare, anche tu hai bisogno dei suoi buoni uffici perché ti aiuti. Tu non puoi attingere acqua, non puoi cucinare, non puoi guidare il cavallo, né curare la tua cavalcatura. Ecco dunque che tu hai bisogno dei buoni uffici del tuo servo, hai bisogno dei suoi ossequi. Non sei dunque un vero signore, perché abbisogni di chi ti è inferiore. Lui è il vero Signore che non cerca nulla da noi; e guai a noi se non cerchiamo lui. Niente egli chiede a noi, ma egli ci ha cercato, mentre noi non cercavamo lui. Si era dispersa una sola pecora; egli la trovò e pieno di gaudio la riportò sulle sue spalle (Lc 15,4-5). Era forse necessaria al pastore quella pecora o non era invece più necessario il pastore alla pecora?

       Agostino, In I Ep. Ioan. Tract., 8, 14




XXV DOMENICA

195 Letture:
    
Am 8,4-7
     1Tm 2,1-8
     Lc 16,1-13


1. Quelli che fanno il bene dovrebbero impegnarsi almeno quanto quelli che fanno il male

       È una parabola molto chiara e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dica lo stesso Signore perché inventò questa parabola. "Perché", egli dice, "i figli di questo mondo son più avveduti dei figli della luce" (Lc 16,8). Il Signore non loda, certo, la malizia dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che fa, ma per l’ingegno col quale provvede al suo futuro. Non sapendo, infatti, come vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava di chieder l’elemosina, trovò un aiuto singolare, aggiungendo una frode alla malversazione dei beni del suo padrone. Non viene lodato per la moralità della sua azione, ma per l’astuta trovata. E a questa avvedutezza applaude il Signore, quando dice: "I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce". Quelli sono più avveduti nel male che questi nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni santi che mettano tanta accortezza nell’acquisto dei beni eterni, quanta furbizia hanno questi nell’accaparrarsi i beni temporali. Per questi essi vegliano giorno e notte, lavorano, s’angustiano, e con frodi, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi non cessano mai d’accumular tali ricchezze. E chi può dire quanta furbizia mettano nell’ingannarsi l’un l’altro? Sentano i figli della luce e si vergognino di farsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte proprio perché diventiamo più accorti senza tuttavia imitarli nell’ingiustizia. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: "Fatevi degli amici col mammona d’iniquità" (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore infedele. Non frodando l’altrui, ma dando il vostro. Tutte le ricchezze che sono avaramente conservate, sono inique. E non sono equamente distribuite, se, dopo aver messo da parte ciò che serve a te, non dai il resto agli indigenti. Perciò l’Apostolo: Ci vuole - dice - una certa uguaglianza; la vostra abbondanza colmi la loro indigenza e la loro abbondanza supplisca alla vostra necessità (2Co 8,13). Dalle quali parole si vede bene che non ci viene ordinato di dare il necessario, ma il di più. L’Apostolo non vuole che diamo al punto da ridurci in penuria. Le ricchezze, allora, che per sé sono inique se son divise a questo modo, generano amici e il premio eterno. Le ricchezze non divise sono ingiuste, ma se son divise, diventano giuste. Né c’è più affatto ricchezza, se i beni son ridotti alla necessità. Tolto il superfluo, finisce il problema dell’iniquità della ricchezza. Il Maestro continua: "Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto, chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto ()". Questo vale particolarmente per gli apostoli e per i dispensatori dei beni della Chiesa. Non sono dunque da affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli, e di quel poco che avevano non fecero opere di misericordia e di pietà. Ma non dobbiamo dubitare della fedeltà amministrativa di coloro che generosamente sovvengono gli altri col poco che hanno. Perciò l’Apostolo ammonisce che i vescovi non devono essere cupidi di danaro né procacciatori di lucro ingiusto. Bisogna tener presente nella elezione dei capi come si siano diportati nel poco e quanto abbiano di misericordia e di pietà. Perciò è detto ancora: "Se non siete stati fedeli nell’amministrare le ricchezze di questo mondo, chi vi affiderà le vere?" Se non avete usato in misericordia dei beni transitori, chi potrà affidarvi l’amministrazione dei beni della Chiesa, che sono veri e santi?

       "E se non siete stati fedeli nel bene altrui, ciò che è vostro chi ve lo darà?" Non son beni nostri le cose che possono essere perdute a ogni momento della vita, come tutti i beni temporali. Son nostri invece i beni che non possiamo perdere. Son ricchezze altrui le ricchezze temporali; essere buoni e non mettere la nostra speranza nei beni temporali, questa è, invece, la nostra vera ricchezza. Ma questa ricchezza veramente nostra non ci sarà data, se non saremo fedeli nell’amministrare i beni temporali; a questa condizione i veri beni ci sono stati predestinati.

       Bruno di Segni, In Luc., 2, 7


2. La corona della vittoria

       Lottiamo, dunque, o fratelli miei, sapendo che il combattimento è vicino a che molti partecipano alle gare corruttibili. Non tutti sono coronati, ma solo quelli che si sono molto allenati e lottano bene. Lottiamo, dunque, per essere tutti coronati. Corriamo sulla strada retta (2P 2,15) per l’agone incorruttibile e partiamo in molti a gareggiare per essere incoronati. Se poi non possiamo tutti conseguire la corona, ne siamo almeno vicini. Bisogna sapere che chi affronta una gara corruttibile, se viene trovato manchevole, viene fustigato, preso e cacciato dallo stadio. Che vi sembra? Cosa patirà chi è manchevole nella gara della incorruttibilità? (La Scrittura) dice di quelli che non hanno salvaguardato il Battesimo: "Il loro verme non finirà e il loro fuoco non si spegnerà e saranno di spettacolo ad ogni carne" (Is 66,21).

       Sino a quando stiamo sulla terra, pentiamoci. Siamo come l’argilla nella mano dell’artigiano. Il vasaio se gli si sforma o gli si rompe il vaso che sta lavorando, lo plasma di nuovo, ma se l’ha messo già nella fornace, nulla può farci. Così anche noi. Sino a quando stiamo su questo mondo pentiamoci con tutto il cuore dei peccati che abbiamo commesso nella carne, per essere salvati dal Signore, mentre c’è tempo per la penitenza. Dopo che siamo usciti dal mondo, di là non possiamo più confessarci e pentirci. Così, fratelli, facendo la volontà del Padre e conservando pura la carne ed osservando i comandamenti del Signore potremo conseguire la vita eterna. Dice il Signore nel Vangelo: "Se non avete custodito il poco chi vi darà il molto? Vi dico che chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto" (Lc 16,10-12). Questo, dunque, dice: conservate pura la vostra carne e intatto il Battesimo per conseguire la vita eterna.

       E qualcuno di voi non dica che questa carne non sarà giudicata e non risorgerà. Di grazia, in che foste salvati, in che otteneste la vista se non essendo in questa carne? Bisogna dunque, che noi, come tempio di Dio, custodiamo la carne. Nel modo con cui foste chiamati nella carne, nella carne anche vi presenterete. Se Cristo nostro Signore che ci ha salvati, da Spirito che era si è incarnato e così ci ha chiamati, allo stesso modo anche noi in questa carne riceveremo il premio. Amandoci l’un l’altro perché tutti possiamo entrare nel Regno di Dio. Avendo ancora tempo per essere curati, affidiamoci a Dio che guarisce, dandogli la ricompensa. Quale? Il pentirsi con cuore sincero. Egli prevede tutto e sa ciò che è nel nostro cuore. Lodiamolo non solo con la bocca, ma col cuore perché ci riceva come figli. Dice, infatti, il Signore: "Sono miei fratelli quelli che fanno la volontà del Padre mio" (Mt 12,50 Mc 3,35 Lc 8,21).

       Fratelli miei, facciamo la volontà del Padre che ci ha chiamati per vivere e seguire sempre più la virtù.

       Pseudo Clemente, Epist. II Cor., 7-10


3. L’amministratore infedele

       "Se non siete stati fedeli nei beni che vi sono estranei, chi vi darà ciò che è vostro?" (Lc 16,12). Le ricchezze ci sono estranee, perché esse sono fuori della nostra natura: non nascono con noi, né trapassano con noi. Cristo, invece, è nostro, perché è la vita. "Così egli venne nella sua casa, e i suoi non lo ricevettero" (Jn 1,11). Ebbene, nessuno vi darà ciò che è vostro, perché voi non avete creduto a ciò che è vostro, non l’avete ricevuto.

       Cerchiamo dunque di non essere schiavi dei beni che ci sono estranei, dato che non dobbiamo conoscere altro Signore che Cristo; "infatti uno è Dio Padre, da cui tutto deriva e in cui noi siamo, e uno è il Signore Gesù, per cui mezzo tutte le cose sono" (1Co 8,6).

       Ma allora? Il Padre non è Signore e il Figlio non è Dio? Certo, il Padre è anche il Signore, perché "per mezzo della Parola del Signore i cieli sono stati creati" (Ps 32,6). E il Figlio è anche Dio, "che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli" (Rm 9,5).

       In qual modo allora, nessuno «può servire a due padroni»? È perché non c’è che un solo Signore, dato che non c’è che un solo Dio.

       Ambrogio, In Luc., 7, 246-248




XXVI DOMENICA

196 Letture:
    
Am 6,1a Am 6,4-7
     1Tm 6,11-16
     Lc 16,19-31


1. Fate dei poveri i vostri avvocati

       "Un tale era ricco e si vestiva di porpora e bisso e banchettava ogni giorno splendidamente. E c’era un mendicante, di nome Lazzaro, pieno di piaghe, che se ne stava per terra alla porta del ricco" (Lc 16,19). Alcuni credono che il Vecchio Testamento sia più severo del Nuovo ma si sbagliano. Nel Vecchio, infatti, non è condannato il non dare, ma la rapina. Qui, invece, questo ricco non è condannato per aver preso l’altrui, ma per non aver dato il suo. Non si dice ch’egli abbia fatto violenza a qualcuno, ma che faceva pompa dei beni ricevuti. Si può capire, quindi, quale pena dovrebbe meritare colui che ruba l’altrui, se è già condannato all’inferno colui che non dona il proprio. Nessuno perciò si assicuri dicendo: Non ho rubato nulla, mi godo ciò che m’è stato legittimamente assegnato, poiché questo ricco non è stato punito per aver rubato, ma perché si abbandonò malamente alle cose che aveva ricevuto. Lo ha condannato all’inferno quel suo non essere guardingo nella prosperità, il piegare i doni ricevuti al servizio della sua arroganza, il non aver voluto redimere i suoi peccati, pur avendone tutti i mezzi...

       Ma bisogna far bene attenzione anche al modo di narrare usato dalla Verità, quando indica il ricco superbo e l’umile povero. Si dice infatti: "Un tale era ricco", e poi si aggiunge subito: "E c’era un povero di nome Lazzaro". Certo, tra il popolo son più noti i nomi dei ricchi, che quelli dei poveri. Perché allora il Signore, parlando di un ricco e di un povero, tace il nome del ricco e ci dà quello del povero? Certo, perché il Signore riconosce e approva gli umili e ignora i superbi. Perciò dice anche ad alcuni che s’insuperbivano dei miracoli da loro operati: "Non vi conosco; andate via da me, gente malvagia" (Mt 7,23). Invece di Mosè è detto: "Ti conosco per nome" (Ex 33,12). Del ricco, dunque, dice: "Un tale ricco"; del povero, invece: "Un mendicante di nome Lazzaro", come se volesse dire: Conosco il povero, umile, non conosco il ricco, superbo; quello lo approvo riconoscendolo, questo lo condanno rifiutando di conoscerlo.

       Bisogna anche osservare con quanta attenzione il nostro Creatore disponga tutte le cose. Il fatto è uno solo, ma non dice una cosa sola. Lazzaro, coperto di piaghe, sta innanzi alla porta del ricco. Da questo unico fatto il Signore ricava due giudizi. Forse il ricco avrebbe avuto una scusa, se Lazzaro povero e piagato non fosse stato proprio alla sua porta, se fosse stato lontano, se la sua indigenza non avesse dato perfino fastidio ai suoi occhi. E se il ricco fosse stato lontano dagli occhi del povero malato, questi avrebbe dovuto sopportare una tentazione meno grave. Ma ponendo il povero e malato alla porta del ricco e gaudente, il Signore, allo stesso tempo, aggrava il titolo di condanna del ricco, che non si commuove alla vista del povero, e fa vedere quanto grande sia la tentazione del povero, che vede ogni giorno lo scialacquio del ricco. Non vedete, infatti, che dura tentazione dovesse essere per il povero non aver neanche il pane, esser malato, e vedere il ricco far feste tra porpora e bisso; sentirsi mordere dalle piaghe e veder quello scialarsela tra tanti beni, aver bisogno di tutto e veder quello che non voleva dar nulla? Che tumulto di tentazioni dev’essere stato nel cuore del povero, per il quale poteva essere già abbastanza la sola pena della povertà, anche se fosse stato sano; e poteva essere abbastanza la malattia, anche se avesse avuto dei mezzi. Ma perché il povero fosse maggiormente provato, fu afflitto contemporaneamente dalla malattia e dalla povertà. Vedeva il ricco muoversi sempre in mezzo a uno stuolo di gente, e lui nessuno lo visitava. E che nessuno lo avvicinasse lo attestano i cani che ne leccavano le piaghe.

       "Morì poi il mendicante e fu portato dagli angeli tra le braccia di Abramo. Morì anche il ricco e fu gettato nell’inferno" (Lc 16,22). Così proprio quel ricco, che in questa vita non volle aver compassione del povero, ora, condannato, ne cerca l’aiuto. Viene aggiunto, infatti: "Alzando gli occhi dai suoi tormenti, vide lontano Abramo e Lazzaro tra le sue braccia e gridò: Padre Abramo, abbi pietà di me. Di’ a Lazzaro che metta il suo dito nell’acqua e ne faccia cadere una goccia sulla mia bocca, perché io brucio in questa fiamma" (Lc 16,23-24). Oh, quant’è sottile il giudizio di Dio! E quant’è misurata la distribuzione dei premi e delle pene! Lazzaro avrebbe voluto le briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora il ricco, nel supplizio, vorrebbe che Lazzaro facesse cadere dal dito una goccia d’acqua sulla sua bocca. Vedete, vedete, allora, fratelli, quanto sia stretta la giustizia di Dio. Il ricco non volle dare al povero piagato la più piccola porzione della sua mensa, e nell’inferno è ridotto a chiedere la più piccola delle cose. Negò le briciole e chiede una goccia d’acqua...

       Ma voi, fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro.

       Gregorio Magno, Hom., 40, 3 s.10


2. Ricchezza e povertà

       Perché mai un uomo è ricco e un altro è povero? Non lo so; e ti dico subito che l’ignoro, per insegnarti che non tutte le cose possono essere controllate e che niente è abbandonato al capriccio del caso. D’altra parte, se si ignora la vera ragione delle cose, non si ha ugualmente il diritto di inventare una spiegazione fantastica. È meglio infatti non conoscere, piuttosto che conoscere male. Chi riconosce di non sapere, si lascia con facilità istruire; chi invece, non conoscendo la ragione delle cose, inventa una falsa scienza, si allontana ancor più dal vero, in quanto per essere poi istruito è necessario dapprima che le sue false idee siano cancellate. Senza fatica si può scrivere ciò che si vuole su un foglio di carta bianca; ma se il foglio è già scritto, è molto più faticoso scrivervi di nuovo, perché occorre prima cancellare quanto è stato scritto male. È preferibile il medico che non dà alcuna ricetta a quello che prescrive rimedi dannosi. Un architetto che costruisce malamente è peggiore di colui che non posa neppure una pietra. Infine vale di più una terra che non produce di quella che produce spini. Non cerchiamo quindi di conoscere tutto; rassegniamoci a ignorare qualcosa, di modo che se troviamo un maestro non gli daremo doppio lavoro. Vi sono persone cadute in dottrine false, che è pressoché impossibile correggere. Non è lo stesso lavoro seminare in un campo pieno di vecchie radici che dobbiamo strappare, anziché in una terra che non è stata mai coltivata. Così, quando si hanno erronee concezioni, è necessario sradicarle dalla mente, prima di poter ricevere la verità, ma, se non si hanno pregiudizi, l’intelletto è ben preparato ad accogliere la verità. Detto questo, rispondo alla vostra domanda: alcuni sono ricchi perché Dio ha donato loro queste ricchezze, oppure ha permesso che ne dispongano; altri ancora le posseggono per un’altra sua segreta disposizione. Questa spiegazione, come vedete, è breve e semplice. Ma voi insistete a chiedermi: Come mai Dio rende ricco quest’uomo malvagio, adultero, frequentatore di luoghi malfamati e che fa cattivo uso dei suoi beni? Non è che Dio - vi rispondo - rende ricco quest’uomo, è che lo permette. La differenza che esiste tra fare e permettere è assai grande, anzi immensa. Ma perché - voi direte ancora - Dio tollera questo? Perché non è ancora giunto il momento del giudizio, quando ciascuno riceverà ciò che merita. Quale colpa è più odiosa di quella del ricco che non volle dare al povero Lazzaro nemmeno le briciole della sua mensa? (cf. Lc 16,19ss). Ebbene, egli ha ricevuto la punizione più terribile di tutti, dato che, essendo stato crudele nella sua ricchezza, non ottenne neppure una goccia d’acqua. Così, se due persone sono ugualmente malvagie, ma non godono qui in terra degli stessi beni, essendo l’una ricca e l’altra povera, non saranno ugualmente punite all’inferno, ma il ricco soffrirà molto più del povero.

       Non vedete, infatti, che questo ricco malvagio è punito nell’altra vita assai più severamente, in quanto durante la sua vita ha ricevuto la sua parte di beni? Ebbene, quando voi vedete un ricco malvagio godere di ogni sorta di piaceri, piangete e compatite la sua sorte, perché tutta quella ricchezza serve ad accrescere il suo castigo.

       Crisostomo Giovanni, In Matth., 75, 4 s.


3. Di chi è la ricchezza?

       A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio? Ma, dimmi, che cosa è tua? Che cosa hai portato tu alla vita? Come se uno, avendo preso prima un posto in un teatro, poi cacci via quelli che entrano, pretendendo che sia suo ciò che è fatto a beneficio di tutti; così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre? Non tornerai nudo nella terra? Da che parte ti son venuti i beni che hai? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. Può essere ingiusto Dio, che darebbe inegualmente le cose necessarie alla vita? Perché, mentre tu sei ricco, l’altro è povero? Non forse perché tu possa avere la mercede del giusto e fedele dispensatore e l’altro acquisti il grande premio della pazienza? Tu invece abbracci tutto nelle insaziabili pieghe dell’avarizia e mentre privi tanta gente, credi di non far torto a nessuno. Chi è l’avaro? Colui che non è contento di quanto basta. Chi è il saccheggiatore? Chi prende la roba degli altri. Non sei avaro? non sei un saccheggiatore? Tu ti appropri di ciò che hai ricevuto per dispensarlo. Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? È dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti son coloro cui fai torto.

       Basilio di Cesarea, Hom., 12, 7




XXVII DOMENICA

197 Letture:
    
Ha 1,2-3 Ha 2,2-4
     2Tm 1,6-8 2Tm 1,13-14
     Lc 17,5-10


1. Avere la stessa fede è grande grazia

       Gli apostoli avevano ben compreso che tutto ciò che riguarda la salvezza viene da Dio come un dono, perciò domandarono al Signore anche la fede: "Signore, aumenta la nostra fede" (Lc 17,5). Non si aspettavano questa virtù dal loro libero arbitrio; credevano, invece, di poterla ricevere esclusivamente dalla magnificenza di Dio. Inoltre, lo stesso autore della nostra salvezza insegna a riconoscere quanto sia fragile, malata e non bastevole a se stessa la nostra fede, senza l’aiuto divino: "Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno" (Lc 22,31-32). Un altro, sentendo in sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso sicuro naufragio, si rivolse al Signore, dicendo: "Signore, aiuta la mia incredulità" (Mc 9,23).

       Gli apostoli e gli altri uomini che figurano nel Vangelo avevano capito che nessun bene si compie in noi senza il divino aiuto; erano persino convinti di non poter conservare la fede, affidandosi alle sole forze della ragione, o alla libertà dell’arbitrio, da chiedere che questa fede venisse posta e conservata in loro. Se la fede di Pietro, infatti, aveva bisogno di Dio per non venir meno, chi sarà cosi presuntuoso e cieco da credere di poterla serbare senza quell’aiuto? Non è forse il Signore stesso a dichiarare la nostra insufficienza quando afferma: "Come il tralcio non può produrre frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me" (Jn 15,4)? E ancora: "Senza di me non potete far nulla" (Jn 15,5)? Quanto insulso e sacrilego sia, dunque, attribuire alcunché delle nostre azioni al nostro saper fare, e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una sentenza accusatoria del Signore, che afferma che nessuno può senza la sua ispirazione e il suo aiuto cogliere frutti spirituali: "Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce" (Jc 1,17). E del pari Zaccaria: "Cosa c’è di buono o di bello che non gli appartenga? (Za 9,17). Per Paolo, poi, è una nota costante: "Che cos’hai che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne glori come se non l’avessi ricevuto?" (1Co 4,7).

       Persino le possibilità di tolleranza che possiamo dispiegare nel sostenere le tentazioni, non dipendono dalla nostra virtù quanto piuttosto dalla misericordia di Dio e dalla sua moderazione, come si esprime in proposito il beato Apostolo: "Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti, Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla" (1Co 10,13). Il medesimo Apostolo insegna che Dio adatta e consolida i nostri spiriti per ogni buon operare, ed opera in noi quelle cose che sono secondo il suo beneplacito: "Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che è a lui gradito per mezzo di Gesù Cristo" (He 13,20-21). Perché poi lo stesso avvenga per i Tessalonicesi, così prega, dicendo: "E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene" (2Th 2,16-17).

       Il profeta Geremia, da persona di Dio, afferma senza mezzi termini che anche il timore di Dio ci è infuso dal Signore. Così egli dice, infatti: "Darò loro un solo cuore e un solo modo di comportarsi perché mi temano tutti i giorni per il loro bene e per quello dei loro figli dopo di essi. Concluderò con essi un’alleanza eterna e non mi allontanerò più da loro per beneficarli; metterò nei loro cuori il mio timore perché non si distacchino da me" (Jr 32,39-40). Del pari Ezechiele: "Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio" (Ez 11,19-20).

       Da tutto ciò siamo più che edotti che l’inizio della buona volontà in noi si ha per ispirazione di Dio, vuoi perché egli stesso ci attrae verso la via della salvezza, vuoi perché si serve delle esortazioni di una persona qualsiasi o della necessità o della perfezione delle virtù o di cose simili. La nostra parte sta in questo: noi possiamo, con più fervore o con più tiepidità eseguire l’esortazione di Dio e appoggiare il suo aiuto, e qui risiede la nostra possibilità di merito o di castigo appropriato. Quindi, ciò che per sua elargizione e provvidenza è stato a noi dato con benignissima degnazione, sarà per noi causa di premio o di castigo in dipendenza di quanto lo avremo trascurato o ci saremo studiati di aderirvi con la nostra devota obbedienza.

       Cassiano Giovanni, Collationes, 3, 16-19


2. Fede nei dogmi e fede carismatica

       Lazzaro morì e trascorsero uno, due e tre giorni: i suoi tendini si dissolvevano e la putrefazione divorava il corpo. Uno che era morto già da quattro giomi come poteva credere e invocare in proprio favore un liberatore? Ma quanto mancava al morto, fu supplito dalle sorelle. Quando venne il Signore, la sorella si prostrò ai suoi piedi e, alla richiesta di lui: «Dove l’avete messo?», rispose: «Signore, già puzza, perché è di quattro giorni». Dice allora il Signore: "Se crederai, vedrai la gloria di Dio" (Jn 11,14ss), come se dicesse: Supplisci tu alla fede che manca al morto. E la fede delle sorelle fu tanto valida da richiamare il morto dalle porte dell’Averno. Se alcuni, credendo per altri, riuscirono a risuscitarli dai morti, non ne avrai tu profitto ancor maggiore credendo sinceramente per te stesso? Qualora poi tu fossi infedele o povero di fede, il misericordioso Iddio ti seguirà nella via del pentimento. Di’ solamente con semplicità: "Credo, Signore; aiuta la mia infedeltà" (Mc 9,23). Che se invece ti credi fedele, non hai ancora la perfezione della fede, ma ti è necessario dire, come gli apostoli: "Signore, aumenta in noi la fede" (Lc 17,5), poiché essa in piccola parte proviene da te stesso, ma la parte più grande la ricevi da lui.

       Il termine «fede» è unico come vocabolo, ma la realtà che esso significa è duplice. V’è una specie di fede, quella dei dogmi, che consiste nell’assenso dell’anima a una verità, essa è utile all’anima, secondo la parola del Signore: "Chi ascolta le mie parole e crede in colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non viene alla condanna" (Jn 5,24); e ancora: "Chi crede in lui non è condannato" (Jn 3,18): "ma è passato da morte a vita" (Jn 5,24). Oh, il grande amore di Dio per gli uomini! Gesù ti dona gratuitamente, nel corso di una sola ora, quello che essi guadagnarono meritandosi per molti anni le sue compiacenze, operando rettamente. Se tu crederai che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo risuscitò dai morti, sarai salvo (Rm 10,9) e verrai trasportato in paradiso da colui che vi ha introdotto il buon ladrone. Non credere che sia cosa impossibile. Colui che, su questo santo Golgota, ha salvato il ladrone (Lc 23,43) che credeva da una sola ora, salverà te pure, se credi.

       V’è una seconda specie di fede, quella che ci è donata da Cristo come puro dono gratuito. "Dallo Spirito a uno è dato il linguaggio della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza secondo il medesimo Spirito; a uno la fede, nel medesimo Spirito; a un altro il dono delle guarigioni" (1Co 12,8-9). Questa fede, che è dono gratuito dello Spirito, non riguarda solamente i dogmi, ma anche l’efficacia di operare cose che superano le umane possibilità. Chi possiede questa fede, dirà a questo monte: «Trasferisciti da qui a lì»; ed esso si trasferirà (Mt 17,20). Quando uno dice questo, mosso dalla fede, e crede che ciò avvenga e non ne dubita in cuor suo (Mc 11,23), riceve la grazia. È a questa fede che si riferisce la frase: "Se avete fede come un chicco di senape" (Mt 17,20). Un grano di senape è piccolo di mole, ma ha la forza di bruciare; seminato in un piccolo recinto, emette grandi rami e, una volta cresciuto, è capace di fornire ombra agli uccelli (Mt 13,32). Così anche la fede ha la forza di operare grandissime cose buone in pochissimo tempo. Essa rappresenta Iddio con immagini e lo intuisce, per quanto le è concesso, illuminata dalla fede dei dogmi. Essa gira attorno ai confini del mondo e, prima ancora della fine del secolo presente, vede il giudizio e la retribuzione dei beni promessi. Abbi quella fede che è in tuo potere e conduce a lui, per ricevere da lui anche quella che supera le possibilità dell’uomo.

       Cirillo di Gerusalemme, Catech., 5, 9-11


3. Il superbo che si fa creditore di Dio

       Quanto è bene adatta questa similitudine per colui che diceva: "Dio, ti ringrazio, perché non sono come tutti gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri o come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana, pago le decime di tutti i miei beni" (Lc 18,11). Quanto sarebbe stato meglio se avesse detto umilmente: Signore, sono un servo inutile, ho fatto solo ciò che dovevo fare. Infatti, poiché il servo fa il suo ufficio per dovere e per necessità, il padrone non gli deve nessuna gratitudine, se egli fa ciò che gli vien comandato. Così noi quando osserviamo i comandamenti; via, dunque, la superbia, la vanagloria, il fumo della mente, e inginocchiamoci tra gli umili servi inutili, come quello che diceva: "La mia anima è innanzi a te come terra senz’acqua" (Ps 142,6). È terra senza acqua, secca, infeconda, sterile, inutile. Ma è uno che aveva fatto tutto ciò che gli era stato comandato, com’è detto: "Non mi sono allontanato dai tuoi precetti" (Ps 118,51) e: "Non ho dimenticato la tua giustizia" (Ps 118,141).

       Bruno di Segni, In Luc., 2, 39





Lezionario "I Padri vivi" 194