Redemptor hominis 17
17 Il nostro secolo è stato finora un secolo di grandi calamità per l’uomo, di grandi devastazioni non soltanto materiali, ma anche morali, anzi forse soprattutto morali. Certamente, non è facile paragonare sotto questo aspetto epoche e secoli, poiché ciò dipende anche dai criteri storici che cambiano. Nondimeno, senza stabilire questi paragoni, bisogna pur constatare che finora questo secolo è stato un secolo in cui gli uomini hanno preparato a se stessi molte ingiustizie e sofferenze. Questo processo è stato decisamente frenato? In ogni caso, non si può qui non ricordare, con stima e con profonda speranza per il futuro, il magnifico sforzo compiuto per dare vita all’Organizzazione delle Nazioni Unite, uno sforzo che tende a definire e stabilire gli oggettivi ed inviolabili diritti dell’uomo, obbligandosi reciprocamente gli Stati-membri ad una rigorosa osservanza di essi. Questo impegno è stato accettato e ratificato da quasi tutti gli Stati del nostro tempo, e ciò dovrebbe costituire una garanzia perché i diritti dell’uomo diventino, in tutto il mondo, principio fondamentale dell’azione per il bene dell’uomo.
La Chiesa non ha bisogno di confermare quanto questo problema sia strettamente collegato con la sua missione nel mondo contemporaneo. Esso, infatti, sta alle basi stesse della pace sociale e internazionale, come hanno dichiarato al riguardo Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II e poi Paolo VI in particolareggiati documenti. In definitiva, la pace si riduce al rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo – “opera di giustizia è la pace” –, mentre la guerra nasce dalla violazione di questi diritti e porta con sé ancor più gravi violazioni di essi. Se i diritti dell’uomo vengono violati in tempo di pace, ciò diventa particolarmente doloroso e, dal punto di vista del progresso, rappresenta un incomprensibile fenomeno della lotta contro l’uomo, che non può in nessun modo accordarsi con un qualsiasi programma che si autodefinisca umanistico. E quale programma sociale, economico, politico, culturale potrebbe rinunciare a questa definizione? Nutriamo la profonda convinzione che non c’è nel mondo di oggi alcun programma in cui, perfino sulla piattaforma di opposte ideologie circa la concezione del mondo, non venga messo sempre in primo piano l’uomo.
Ora, se malgrado tali premesse, i diritti dell’uomo vengono in vario modo violati, se in pratica siamo testimoni dei campi di concentramento, della violenza, della tortura, del terrorismo e di molteplici discriminazioni, ciò deve essere una conseguenza delle altre premesse che minano, o spesso annientano quasi l’efficacia delle premesse umanistiche di quei programmi e sistemi moderni. S’impone allora necessariamente il dovere di sottoporre gli stessi programmi ad una continua revisione dal punto di vista degli oggettivi ed inviolabili diritti dell’uomo.
La Dichiarazione di questi diritti, unitamente all’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, non aveva certamente soltanto il fine di distaccarsi dalle orribili esperienze dell’ultima guerra mondiale, ma anche quello di creare una base per una continua revisione dei programmi, dei sistemi, dei regimi, proprio da quest’unico fondamentale punto di vista, che è il bene dell’uomo – diciamo della persona nella comunità – e che, come fattore fondamentale del bene comune, deve costituire l’essenziale criterio di tutti i programmi, sistemi, regioni. In caso contrario, la vita umana, anche in tempo di pace, è condannata a varie sofferenze e, nello stesso tempo, insieme con esse si sviluppano varie forme di dominio, di totalitarismo, di neocolonialismo, di imperialismo, che minacciano anche la convivenza tra le nazioni. Invero, è un fatto significativo e confermato a più riprese dalle esperienze della storia, come la violazione dei diritti dell’uomo vada di pari passo con la violazione dei diritti della nazione, con la quale l’uomo è unito da legami organici, come con una più grande famiglia.
Già fin dalla prima metà di questo secolo, nel periodo in cui si stavano sviluppando vari totalitarismi di Stato, i quali, come è noto, portarono all’orribile catastrofe bellica, la Chiesa aveva chiaramente delineato la sua posizione di fronte a questi regimi, che apparentemente agivano per un bene superiore, qual è il bene dello Stato, mentre la storia avrebbe invece dimostrato che quello era solo il bene di un determinato partito, identificatosi con lo Stato (Pio XII, Quadragesimo Anno: AAS 23 [1931] 213; Non abbiamo bisogno: AAS 23 [1931] 285-312; Divini Redemptoris: AAS 29 [1937] 65-106; Mit brennender Sorge: AAS 29 [1937] 145-167; Pio XII, Summi Pontificatus: AAS 31 [1939] 413-453). In realtà, quei regimi avevano coartato i diritti dei cittadini, negando loro il riconoscimento proprio di quegli inviolabili diritti dell’uomo che, verso la metà del nostro secolo, hanno ottenuto la loro formulazione in sede internazionale. Nel condividere la gioia di questa conquista con tutti gli uomini di buona volontà, con tutti gli uomini che amano veramente la giustizia e la pace, la Chiesa, consapevole che la sola “lettera” “può uccidere”, mentre soltanto “lo spirito dà vita” (cf. 2Co 3,6), deve insieme con questi uomini di buona volontà domandare continuamente se la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e l’accettazione della loro “lettera” significhino dappertutto anche la realizzazione del loro “spirito”. Sorgono, infatti, timori fondati che molto spesso siamo ancora lontani da questa realizzazione, e che talvolta lo “spirito” della vita sociale e pubblica si trova in una dolorosa opposizione con la dichiarata “lettera” dei diritti dell’uomo. Questo stato di cose, gravoso per le rispettive società, renderebbe particolarmente responsabili, di fronte a queste società ed alla storia dell’uomo, coloro che contribuiscono a determinarlo.
Il senso essenziale dello Stato, come comunità politica, consiste nel fatto che la società o chi la compone, il popolo, è sovrano della propria sorte. Questo senso non viene realizzato, se, al posto dell’esercizio del potere con la partecipazione morale della società o del popolo, assistiamo all’imposizione del potere da parte di un determinato gruppo a tutti gli altri membri di questa società. Queste cose sono essenziali nella nostra epoca, in cui è enormemente aumentata la coscienza sociale degli uomini ed insieme con essa il bisogno di una corretta partecipazione dei cittadini alla vita politica della comunità, tenendo conto delle reali condizioni di ciascun popolo e del necessario vigore dell’autorità pubblica (cf. Gaudium et Spes GS 31, AAS 58 [1966] 1050). Questi sono, quindi, problemi di primaria importanza dal punto di vista del progresso dell’uomo stesso e dello sviluppo globale della sua umanità.
La Chiesa ha sempre insegnato il dovere di agire per il bene comune e, così facendo, ha educato altresì buoni cittadini per ciascuno Stato. Essa, inoltre, ha sempre insegnato che il dovere fondamentale del potere è la sollecitudine per il bene comune della società: da qui derivano i suoi fondamentali diritti. Proprio nel nome di queste promesse attinenti all’ordine etico oggettivo, i diritti del potere non possono essere intesi in altro modo che in base al rispetto dei diritti oggettivi e inviolabili dell’uomo. Quel bene comune, che l’autorità serve nello Stato, è pienamente realizzato solo quando tutti i cittadini sono sicuri dei loro diritti. Senza questo si arriva allo sfacelo della società, all’opposizione dei cittadini all’autorità, oppure ad una situazione di oppressione, di intimidazione, di violenza, di terrorismo, di cui ci hanno fornito numerosi esempi i totalitarismo del nostro secolo. È così che il principio dei diritti dell’uomo tocca profondamente il settore della giustizia sociale e diventa metro per la sua fondamentale verifica nella vita degli Organismi politici.
Fra questi diritti si annovera, e giustamente, il diritto alla libertà religiosa accanto al diritto alla libertà di coscienza. Il Concilio Vaticano II ha ritenuto particolarmente necessaria l’elaborazione di una più ampia Dichiarazione su questo tema. È il documento che s’intitola Dignitatis Humanae (cf. Dignitatis Humanae, AAS 58 [1966] 929-946), nel quale è stata espressa non soltanto la concezione teologica del problema, ma anche la concezione dal punto di vista del diritto naturale, cioè dalla posizione “puramente umana”, in base a quelle premesse dettate dall’esperienza stessa dell’uomo, dalla sua ragione e dal senso della sua dignità. Certamente, la limitazione della libertà religiosa delle persone e delle comunità non è soltanto una loro dolorosa esperienza, ma colpisce innanzitutto la dignità stessa dell’uomo, indipendentemente dalla religione professata o dalla concezione che esse hanno del mondo. La limitazione della libertà religiosa e la sua violazione contrastano con la dignità dell’uomo e con i suoi diritti oggettivi. Il sunnominato documento conciliare dice con bastante chiarezza che cosa sia una tale limitazione e violazione della libertà religiosa. Indubbiamente, ci troviamo in questo caso di fronte a una ingiustizia radicale riguardo ai ciò che è particolarmente profondo nell’uomo, riguardo a ciò che è autenticamente umano. Infatti, perfino lo stesso fenomeno dell’incredulità, areligiosità e ateismo, come fenomeno umano, si comprende soltanto in relazione al fenomeno della religione e della fede. È pertanto difficile, anche da un punto di vista “puramente umano”, accettare una posizione, secondo la quale solo l’ateismo ha diritto di cittadinanza nella vita pubblica e sociale, mentre gli uomini credenti, quasi per principio, sono appena tollerati, oppure trattati come cittadini di categoria inferiore, e perfino – il che è già accaduto – sono del tutto privati dei diritti di cittadinanza.
Occorre, pur se brevemente, trattare anche questo tema, perché anch’esso rientra nel complesso delle situazioni dell’uomo nel mondo attuale, perché anch’esso testimonia quanto questa situazione sia gravata da pregiudizi e da ingiustizie di vario genere. Se ci asteniamo dall’entrare nei particolari proprio in questo campo – in cui avremmo uno speciale diritto e dovere di farlo – ciò è soprattutto perché, insieme con tutti coloro che soffrono i tormenti della discriminazione e della persecuzione per il nome di Dio, siamo guidati dalla fede nella forza redentrice della croce di Cristo. Tuttavia, in virtù del mio ufficio, desidero, a nome di tutti i credenti del mondo intero, rivolgermi a coloro da cui, in qualche modo, dipende l’organizzazione della vita sociale e pubblica, domandando ad essi ardentemente di rispettare i diritti della religione e dell’attività della Chiesa. Non si chiede alcun privilegio, ma il rispetto di un elementare diritto. L’attuazione di questo diritto è una delle fondamentali verifiche dell’autentico progresso dell’uomo in ogni regime, in ogni società, sistema o ambiente.
18 Questo sguardo, necessariamente sommario, alla situazione dell’uomo nel mondo contemporaneo ci fa indirizzare ancor più il pensiero e il cuore a Gesù Cristo, al mistero della Redenzione, in cui il problema dell’uomo è inscritto con una speciale forza di verità e di amore. Se Cristo “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et Spes GS 22, AAS 58 [1966] 1042), la Chiesa, penetrando nell’intimo di questo mistero, nel suo ricco e universale linguaggio, vive anche più profondamente la propria natura e missione. Non invano l’Apostolo parla del Corpo di Cristo, che è la Chiesa (cf. 1Co 6,15 1Co 11,3 1Co 12,12ss; Ep 1,22ss; Ep 2,15ss; Ep 4,4ss; Ep 5,30 Col 1,18 Col 3,15 Rm 12,4ss; Ga 3,28). Se questo Corpo mistico di Cristo è Popolo di Dio – come dirà in seguito il Concilio Vaticano II, basandosi su tutta la tradizione biblica e patristica – ciò significa che ogni uomo è in esso penetrato da quel soffio di vita che proviene da Cristo. In questo modo anche il volgersi verso l’uomo, verso i suoi reali problemi, verso le sue speranze e sofferenze, conquiste e cadute, fa sì che la Chiesa stessa come corpo, come organismo, come unità sociale, percepisca gli stessi impulsi divini, i lumi e le forze dello Spirito che provengono da Cristo crocifisso e risorto, ed è proprio per questo che essa vive la sua vita. La Chiesa non ha altra vita all’infuori di quella che le dona il suo Sposo e Signore. Difatti, proprio perché Cristo nel mistero della sua Redenzione si è unito ad essa, la Chiesa deve essere saldamente unita con ciascun uomo.
Questa unione del Cristo con l’uomo è in se stessa un mistero, dal quale nasce “l’uomo nuovo”, chiamato a partecipare alla vita di Dio (cf. 2P 1,4), creato nuovamente in Cristo per ricevere la pienezza della grazia e della verità (cf. Ep 2,10 Jn 1,14 Jn 1,16). L’unione del Cristo con l’uomo è la forza e la sorgente della forza, secondo l’incisiva espressione di S. Giovanni nel prologo del suo Vangelo: “(Il Verbo) ha dato potere di diventare figli di Dio” (Jn 1,12). Questa è la forza che trasforma interiormente l’uomo, quale principio di una vita nuova che non svanisce e non passa, ma dura per la vita eterna (cf. Jn 4,14). Questa vita, promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, eterno ed unigenito Figlio, incarnato e nato “quando venne la pienezza del tempo” (Ga 4,4) dalla Vergine Maria, è il compimento finale della vocazione dell’uomo. È in qualche modo compimento di quella “sorte”, che dall’eternità Dio gli ha preparato. Questa “sorte” divina si fa strada, al di sopra di tutti gli enigmi, le incognite, le tortuosità, le curve della “sorte umana” nel mondo temporale. Se, infatti, tutto ciò porta, pur con tutta la ricchezza della vita temporale, per inevitabile necessità, alla frontiera della morte ed al traguardo della distruzione del corpo umano, appare a noi il Cristo oltre questo traguardo: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me..., non morrà in eterno” (Jn 11,25ss.). In Gesù Cristo crocifisso, deposto nel sepolcro e poi risorto, “rifulge per noi la speranza della beata risurrezione..., la promessa dell’immortalità futura”, verso la quale l’uomo va attraverso la morte del corpo, condividendo con tutto il creato visibile questa necessità, alla quale è soggetta la materia. Noi intendiamo e cerchiamo di approfondire sempre di più il linguaggio di questa verità, che il Redentore dell’uomo ha racchiuso nella frase: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Missale Romanum, Praefatio I in Missis Defunctorum). Queste parole, malgrado le apparenze, esprimono la più alta affermazione dell’uomo: l’affermazione del corpo, che lo Spirito vivifica!
La Chiesa vive questa realtà, vive di questa verità sull’uomo, che le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, simultaneamente, di pensare con particolare amore e sollecitudine a tutto ciò che, nelle dimensioni di questa temporaneità, incide sulla vita dell’uomo, sulla vita dello spirito umano, in cui si esprime quella perenne inquietudine, secondo le parole di S. Agostino: “Ci hai fatto, o Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore, finché non riposa in te” (S. Agostino, Confessiones, I, 1: CSEL 33, p. 1). In questa inquietudine creativa batte e pulsa ciò che è più profondamente umano: la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la fame della libertà, la nostalgia del bello, la voce della coscienza. La Chiesa, cercando di guardare l’uomo quasi con “gli occhi di Cristo stesso”, si fa sempre più consapevole di essere la custode di un grande tesoro, che non le è lecito sciupare, ma deve continuamente accrescere. Infatti, il Signore Gesù ha detto: “Chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30). Quel tesoro dell’umanità, arricchito dall’ineffabile mistero della figliolanza divina (cf. Jn 1,12), della grazia di “adozione a figli”(Ga 4,5) dell’unigenito Figlio di Dio, mediante il quale diciamo a Dio “Abbà, Padre” (Ga 4,6 Rm 8,15), è insieme una forza potente che unifica la Chiesa soprattutto dal di dentro e dà senso a tutta la sua attività. Per tale forza la Chiesa si unisce con lo Spirito di Cristo, con quello Spirito Santo che il Redentore aveva promesso, che comunica continuamente, e la cui discesa, rivelata il giorno della Pentecoste, perdura sempre. Così negli uomini si rivelano le forze dello Spirito (cf. Rm 15,13 1Co 1,24), i doni dello Spirito (cf. Is 11,2ss; Ac 2,38), i frutti dello Spirito Santo (cf. Ga 5,22ss.). E la Chiesa del nostro tempo sembra ripetere con sempre maggior fervore e con santa insistenza: “Vieni, o Santo Spirito!”. Vieni! Vieni! “Lava ciò che è sordido! Feconda ciò che è arido! Risana ciò che è ferito! Piega ciò che è rigido! Riscalda ciò che è gelido! Raddrizza ciò che è sviato!” (Missale Romanum, Sequentia in sollemnitate Pentecostes).
Questa supplica allo Spirito, intesa appunto ad ottenere lo Spirito, è la risposta a tutti i “materialismi” della nostra epoca. Sono essi che fanno nascere tante forme di insaziabilità del cuore umano. Questa supplica si fa sentire da diverse parti e sembra che fruttifichi anche in modi diversi. Si può dire che in questa supplica la Chiesa non sia sola? Sì, si può dire, perché “il bisogno” di ciò che è spirituale è espresso anche da persone che si trovano al di fuori dei confini visibili della Chiesa (cf. Lumen Gentium LG 16, AAS 57 [1965] 20). Non è ciò confermato forse da quella verità sulla Chiesa, messa in evidenza con tanta acutezza dal recente Concilio nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, laddove insegna che la Chiesa è “sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1: loc. cit. 5)? Questa invocazione allo Spirito e per lo Spirito non è altro che un costante introdursi nella piena dimensione del mistero della Redenzione, in cui Cristo, unito al Padre e con ogni uomo, ci comunica continuamente quello Spirito che mette in noi i sentimenti del Figlio e ci orienta verso il Padre (cf. Rm 8,15 Ga 4,6). È per questo che la Chiesa della nostra epoca – epoca particolarmente affamata di Spirito, perché affamata di giustizia, di pace, di amore, di bontà, di fortezza, di responsabilità. di dignità umana – deve concentrarsi e riunirsi intorno a quel mistero, ritrovando in esso la luce e la forza indispensabili per la propria missione. Se infatti – come è stato detto in precedenza – l’uomo è la via della vita quotidiana della Chiesa, è necessario che la stessa Chiesa sia sempre consapevole della dignità dell’adozione divina che l’uomo ottiene, in Cristo, per la grazia dello Spirito Santo (cf. Rm 8,15), e della destinazione alla grazia e alla gloria (Rm 8,30). Riflettendo sempre di nuovo su tutto questo, accettandolo con una fede sempre più cosciente e con un amore sempre più fermo, la Chiesa si rende, al tempo stesso, più idonea a quel servizio dell’uomo, a cui Cristo Signore la chiama, quando dice: “Il Figlio dell’uomo... non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28). La Chiesa esplica questo suo ministero, partecipando al “triplice ufficio” ch’è proprio dello stesso suo Maestro e Redentore. Questa dottrina, appoggiata sul suo fondamento biblico, è stata messa in piena luce dal Concilio Vaticano II, con grande vantaggio per la vita della Chiesa. Quando, infatti, diventiamo consapevoli della partecipazione alla triplice missione del Cristo, al suo triplice ufficio – sacerdotale, profetico e regale (Lumen Gentium LG 31-36, AAS 57 [1965] 37-42) – diventiamo parimenti più consapevoli di ciò a cui deve servire tutta la Chiesa, come società e comunità del Popolo di Dio sulla terra, comprendendo, altresì quale debba essere la partecipazione di ognuno di noi a questa missione e servizio.
19 Così alla luce della sacra dottrina del Concilio Vaticano II, la Chiesa appare davanti a noi come soggetto sociale della responsabilità per la verità divina. Con profonda commozione ascoltiamo Cristo stesso, quando dice: “La parola che voi udite non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (Jn 14,24). In questa affermazione del nostro Maestro non si avverte forse quella responsabilità per la verità rivelata, che è “proprietà” di Dio stesso, se perfino Lui, “Figlio unigenito” che vive “in seno al Padre” (Jn 1,18), quando la trasmette come profeta e maestro, sente il bisogno di sottolineare che agisce in piena fedeltà alla sua divina sorgente? La medesima fedeltà deve essere una qualità costitutiva della fede della Chiesa, sia quando essa la insegna, sia quando la professa. La fede, come specifica virtù soprannaturale infusa nello spirito umano, ci fa partecipi della conoscenza di Dio, come risposta alla sua Parola rivelata. Perciò si esige che la Chiesa, quando professa ed insegna la fede, sia strettamente aderente alla verità divina (cf. Dei Verbum DV 5 DV 10 DV 21, AAS 58 [1966] 819; 822; 827ss.), e la traduca in comportamenti vissuti di ossequio consentaneo alla ragione (cf. Dei Filius, can. 3: Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Ed. Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1973; p. 807). Cristo stesso, allo scopo di garantire la fedeltà alla verità divina, ha promesso alla Chiesa la particolare assistenza dello Spirito di verità, ha dato il dono dell’infallibilità (cf. Pastor aeternus: ed. cit. , pp. 811-816; Lumen Gentium, LG 25: AAS 57 [1965] 30ss.) a coloro, ai quali ha affidato il mandato di trasmettere tale verità e di insegnarla (cf. Mt 28,19) –come aveva già chiaramente definito il Concilio Vaticano I (cf. Pastor aeternus: loc. cit.) e, in seguito, ha ripetuto il Concilio Vaticano II (cf. Lumen Gentium LG 18-27, AAS 57 [1965] 21-33) – ed ha dotato, inoltre, tutto il Popolo di Dio di un particolare senso della fede (cf. LG 12 LG 35: AAS 57 [1965] 16-17; 40-41).
Di conseguenza, siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme con lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi ed agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità ed insieme semplicità. Questo amore e questa aspirazione a comprendere la verità debbono camminare congiuntamente, come confermano le storie dei Santi della Chiesa. Essi erano più illuminati dall’autentica luce, che rischiara la verità divina ed avvicina la realtà stessa di Dio, perché si accostavano a questa verità con venerazione ed amore: amore soprattutto verso Cristo, Parola vivente della verità divina e, insieme, amore verso la sua espressione umana nel Vangelo, nella tradizione, nella teologia. Anche oggi sono necessarie, innanzitutto, tale comprensione e tale interpretazione della Parola divina; è necessaria tale teologia. La teologia ebbe sempre e continua ad avere una grande importanza, perché la Chiesa, Popolo di Dio, possa in modo creativo e fecondo partecipare alla missione profetica di Cristo. Perciò i teologi, come servitori della verità divina, dedicando i loro studi e lavori ad una sempre più penetrante comprensione di essa, non possono mai perdere di vista il significato del loro servizio nella Chiesa, racchiuso nel concetto dell’“intellectus fidei”. Questo concetto funziona, per così dire, a ritmo bilaterale, secondo l’espressione di S. Agostino: “Comprendi per credere; credi per capire” (cf. S. Agostino, Sermo 43, 7-9: PL 38,257ss.), e funziona in modo corretto allorché essi cercano di servire il Magistero, affidato nella Chiesa ai Vescovi, uniti dal vincolo della comunione gerarchica col Successore di Pietro, ed ancora quando si mettono a servizio della loro sollecitudine nell’insegnamento e nella pastorale, come pure quando si mettono a servizio degli impegni apostolici di tutto il Popolo di Dio.
Come nelle epoche precedenti, così anche oggi – e forse ancora di più – i teologi e tutti gli uomini di scienza nella Chiesa sono chiamati ad unire la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire ad una loro reciproca compenetrazione, come leggiamo nella preghiera liturgica per la memoria di Sant’Alberto, dottore della Chiesa. Questo impegno si è oggi enormemente ampliato per il progresso della scienza umana, dei suoi metodi e delle conquiste nella conoscenza del mondo e dell’uomo. Ciò riguarda tanto le scienze esatte, quanto anche le scienze umane, come pure la filosofia, i cui stretti legami con la teologia sono stati ricordati dal Concilio Vaticano II (cf. Gaudium et Spes GS 44 GS 57 GS 59 GS 62, AAS 68 [1966] 1064ss.; 1077ss.; 1079ss.; 1082ss.; Optatam Totius OT 15, AAS 58 [1966] 722).
In questo campo dell’umana conoscenza, che di continuo si allarga ed insieme si differenzia, anche la fede deve costantemente approfondirsi, manifestando la dimensione del mistero rivelato e tendendo alla comprensione della verità, che ha in Dio l’unica suprema sorgente. Se è lecito – e bisogna perfino augurarselo – che quell’enorme lavoro da svolgere in questo senso prenda in considerazione un certo pluralismo di metodi, tuttavia tale lavoro non può allontanarsi dalla fondamentale unità nell’insegnamento della Fede e della Morale, quale fine che gli è proprio. È, pertanto, indispensabile una stretta collaborazione della teologia col Magistero. Ogni teologo deve essere particolarmente cosciente di ciò che Cristo stesso ha espresso, quando ha detto: “La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato” (Jn 14,24). Nessuno, dunque, può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa.
La partecipazione all’ufficio profetico di Cristo stesso plasma la vita di tutta la Chiesa, nella sua dimensione fondamentale. Una speciale partecipazione a questo ufficio compete ai Pastori della Chiesa, i quali insegnano e, di continuo e in diversi modi, annunciano e trasmettono la dottrina della fede e della morale cristiana. Questo insegnamento, sia sotto l’aspetto missionario che sotto quello ordinario, contribuisce ad adunare il Popolo di Dio attorno a Cristo, prepara alla partecipazione dell’Eucaristia, indica le vie della vita sacramentale. Il Sinodo dei Vescovi nel 1977 ha dedicato la sua specifica attenzione alla catechesi nel mondo contemporaneo, e il frutto maturo delle sue deliberazioni, esperienze e suggerimenti troverà, fra breve, la sua espressione – conformemente alla proposta dei partecipanti al Sinodo – in un apposito documento pontificio. La catechesi costituisce, certamente, una perenne e insieme fondamentale forma di attività della Chiesa, in cui si manifesta il suo carisma profetico: testimonianza e insegnamento vanno di pari passo. E benché qui si parli in primo luogo dei sacerdoti, non è possibile però non ricordare anche il grande numero di religiosi e di religiose, che si dedicano all’attività catechistica per amore del Maestro divino. Sarebbe, infine, difficile non menzionare tanti laici, che in questa attività trovano l’espressione della loro fede e della responsabilità apostolica.
Inoltre, bisogna sempre più procurare che le varie forme della catechesi ed i diversi suoi campi – a cominciare da quella forma fondamentale, che è la catechesi “familiare”, cioè la catechesi dei genitori nei riguardi dei loro propri figli – attestino la partecipazione universale di tutto il Popolo di Dio all’ufficio profetico di Cristo stesso. Bisogna che, in dipendenza da questo fatto, la responsabilità della Chiesa per la verità divina sia sempre più, e in vari modi, condivisa da tutti. E che cosa dire qui degli specialisti delle diverse discipline, dei rappresentanti delle scienze naturali e delle lettere, dei medici, dei giuristi, degli uomini dell’arte e della tecnica, degli insegnanti dei vari gradi e specializzazioni? Tutti loro – come membri del Popolo di Dio – hanno la propria parte nella missione profetica di Cristo, nel suo servizio alla verità divina, anche con l’atteggiamento onesto di fronte alla verità, a qualsiasi campo essa appartenga, mentre educano gli altri nella verità e insegnano loro a maturare nell’amore e nella giustizia. Così, dunque, il senso di responsabilità per la verità è uno dei fondamentali punti d’incontro della Chiesa con ogni uomo, ed è parimenti una delle fondamentali esigenze, che determinano la vocazione dell’uomo nella comunità della Chiesa. La Chiesa dei nostri tempi, guidata dal senso di responsabilità per la verità, deve perseverare nella fedeltà alla propria natura, alla quale spetta la missione profetica che proviene da Cristo stesso: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo” (Jn 20,21ss.).
20 Nel mistero della Redenzione, cioè dell’opera salvifica operata da Gesù Cristo, la Chiesa non soltanto partecipa al Vangelo del suo Maestro mediante la fedeltà alla Parola ed il servizio alla verità, ma parimenti mediante la sottomissione, piena di speranza e di amore, partecipa alla forza della sua azione redentrice, che Egli ha espresso e racchiuso in forma sacramentale, soprattutto nella Eucaristia (cf. Sacrosanctum Concilium SC 10, AAS 56 [1964] 102). Questo è il centro e il vertice di tutta la vita sacramentale, per mezzo della quale ogni cristiano riceve la forza salvifica della Redenzione, iniziando dal mistero del Battesimo, in cui siamo immersi nella morte di Cristo, per diventare partecipi della sua Risurrezione (cf. Rm 6,3ss.), come insegna l’Apostolo. Alla luce di questa dottrina, diventa ancor più chiara la ragione per cui tutta la vita sacramentale della Chiesa e di ciascun cristiano raggiunge il suo vertice e la sua pienezza proprio nell’Eucaristia. In questo Sacramento, infatti, si rinnova continuamente, per volere di Cristo, il mistero del sacrificio, che Egli fece di se stesso al Padre sull’altare della Croce: sacrificio che il Padre accettò, ricambiando questa totale donazione di suo Figlio, che si fece “obbediente fino alla morte” (Ph 2,8), con la sua paterna donazione, cioè col dono della nuova vita immortale nella risurrezione, perché il Padre è la prima sorgente e il datore della vita fin dal principio. Quella vita nuova che implica la glorificazione corporale di Cristo crocifisso, è diventata segno efficace del nuovo dono elargito all’umanità, dono che è lo Spirito Santo, mediante il quale la vita divina, che il Padre ha in sé e che dà al suo Figlio (cf. Jn 5,26 1Jn 5,11), viene comunicata a tutti gli uomini che sono uniti con Cristo.
L’Eucaristia è il Sacramento più perfetto di questa unione. Celebrando ed insieme partecipando all’Eucaristia, noi ci uniamo a Cristo terrestre e celeste, che intercede per noi presso il Padre (cf. He 9,24 Jn 2,1); ma ci uniamo sempre mediante l’atto redentore del suo sacrificio, per mezzo del quale Egli ci ha redenti, così che siamo stati “comprati caro prezzo” (cf. 1Co 6,20). Il “caro prezzo” della nostra redenzione comprova, parimenti, il valore che Dio stesso attribuisce all’uomo, comprova la nostra dignità in Cristo. Diventando infatti “figli di Dio” (Jn 1,12), figli di adozione (cf. Rm 8,23), a sua somiglianza noi diventiamo al tempo stesso “regno di sacerdoti”, otteniamo “il sacerdozio regale” (Ap 5,10 1P 2,9), cioè partecipiamo il quell’unica e irreversibile restituzione dell’uomo e del mondo al Padre, che Egli, Figlio eterno (cf. Jn 1,1-4 Jn 1,18 Mt 3,17 Mt 11,27 Mt 17,5 Mc 1,11 Lc 1,32 Lc 1,35 Lc 3,22 Rm 1,4 2Co 1,19 1Jn 5,5 1Jn 5,20 2P 1,17 He 1,2) e insieme vero uomo, fece una volta per sempre. L’Eucaristia è il Sacramento, in cui si esprime più compiutamente il nostro nuovo essere, in cui Cristo stesso, incessantemente e sempre in modo nuovo, “rende testimonianza” nello Spirito Santo al nostro spirito (cf. Jn 5,5-11) che ognuno di noi, come partecipe del mistero della Redenzione, ha accesso ai frutti della filiale riconciliazione con Dio (cf. Rm 5,10-11 2Co 5,18ss; Col 1,20 Col 1,22), quale egli stesso aveva attuato e sempre attua fra noi mediante il ministero della Chiesa.
È verità essenziale, non soltanto dottrinale ma anche esistenziale, che l’Eucaristia costruisce la Chiesa (cf. Lumen Gentium LG 11, AAS 57 [1965] 15ss.; Paolo VI, Allocutio d. 15 m. Sept. a. 1965 habita: Insegnamenti di Paolo VI, III [1965] 1036),e la costruisce come autentica comunità del Popolo di Dio, come assemblea dei fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere di unità, di cui furono partecipi gli apostoli ed i primi discepoli del Signore. L’Eucaristia costruisce sempre nuovamente questa comunità e unità; sempre la costruisce e la rigenera sulla base del sacrificio di Cristo stesso, perché commemora la sua morte sulla Croce (cf. Sacrosanctum Concilium SC 47, AAS 56 [1964] 113), a prezzo della quale siamo stati redenti da Lui. Perciò, nell’Eucaristia tocchiamo, si potrebbe dire, il mistero stesso del Corpo e del Sangue del Signore, come testimoniano le stesse parole al momento della istituzione, le quali, in virtù di essa, sono diventate le parole della perenne celebrazione dell’Eucaristia da parte dei chiamati a questo ministero nella Chiesa.
La Chiesa vive dell’Eucaristia, vive della pienezza di questo Sacramento, il cui stupendo contenuto e significato han trovato spesso la loro espressione nel Magistero della Chiesa, dai tempi più remoti fino ai nostri giorni (cf. Paolo VI, Mysterium Fidei, AAS 57 [1965] 553-574). Tuttavia, possiamo dire con certezza che questo insegnamento – sorretto dalla acutezza dei teologi, dagli uomini di profonda fede e di preghiera, dagli asceti e mistici, in tutta la loro fedeltà al mistero eucaristico – rimane quasi sulla soglia, essendo incapace di afferrare e di tradurre in parole ciò che è l’Eucaristia in tutta la sua pienezza, ciò che essa esprime e ciò che in essa si attua. Infatti, essa è il Sacramento ineffabile! L’impegno essenziale e, soprattutto, la visibile grazia e sorgente della forza soprannaturale della Chiesa come Popolo di Dio, è il perseverare e progredire costantemente nella vita eucaristica, nella pietà eucaristica, è lo sviluppo spirituale nel clima dell’Eucaristia. A maggior ragione, dunque, non ci è lecito né nel pensiero, né nella vita, né nell’azione togliere a questo Sacramento, veramente santissimo, la sua piena dimensione ed il suo essenziale significato. Esso è nello stesso tempo Sacramento-Sacrificio, Sacramento-Comunione e Sacramento-Presenza. E benché sia vero che l’Eucaristia fu sempre e deve essere tuttora la più profonda rivelazione e celebrazione della fratellanza umana dei discepoli e confessori di Cristo, non può essere trattata soltanto come un’“occasione” per manifestare questa fratellanza. Nel celebrare il Sacramento del Corpo e del Sangue del Signore, bisogna rispettare la piena dimensione del mistero divino, il pieno senso di questo segno sacramentale, nel quale Cristo, realmente presente, è ricevuto, “l’anima è ricolmata di Grazia e a noi vien dato il pegno della gloria futura” (cf. Sacrosanctum Concilium SC 47, AAS 56 [1964] 113). Di qui deriva il dovere di una rigorosa osservanza delle norme liturgiche e di tutto ciò che testimonia il culto comunitario reso a Dio stesso, tanto più perché, in questo segno sacramentale, Egli si affida a noi con fiducia illimitata, come se non prendesse in considerazione la nostra debolezza umana, la nostra indegnità, le abitudini, la “routine” o, addirittura, la possibilità di oltraggio. Tutti nella Chiesa, ma soprattutto i Vescovi e i Sacerdoti, debbono vigilare perché questo Sacramento di amore sia al centro della vita del Popolo di Dio, perché, attraverso tutte le manifestazioni del culto dovuto, si faccia in modo da rendere a Cristo “amore per amore”, perché Egli diventi veramente “vita delle nostre anime” (cf, Jn 6,52 Jn 6,58 Jn 14,6 Ga 2,20). Né, d’altra parte, potremmo mai dimenticare le seguenti parole di San Paolo: “Ciascuno, pertanto, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice” (1Co 11,28).
Questo invito dell’Apostolo indica, almeno indirettamente, lo stretto legame fra l’Eucaristia e la Penitenza. Difatti, se la prima parola dell’insegnamento di Cristo, la prima frase del Vangelo-Buona Novella, era “Convertitevi e credete al Vangelo” (metanoèite) (Mc 1,15), il Sacramento della Passione, della Croce e Risurrezione sembra rafforzare e consolidare in modo del tutto speciale questo invito nelle nostre anime. L’Eucaristia e la Penitenza diventano così, in un certo senso, una dimensione duplice e, insieme, intimamente connessa dell’autentica vita secondo lo spirito del Vangelo, vita veramente cristiana. Cristo, che invita al banchetto eucaristico, è sempre lo stesso Cristo che esorta alla penitenza, che ripete il “Convertitevi” (Mc 1,15). Senza questo costante e sempre rinnovato sforzo per la conversione, la partecipazione all’Eucaristia sarebbe priva della sua piena efficacia redentrice, verrebbe meno o, comunque, sarebbe in essa indebolita quella particolare disponibilità di rendere a Dio il sacrificio spirituale (cf. 1P 2,5), in cui si esprime in modo essenziale e universale la nostra partecipazione al sacerdozio di Cristo. In Cristo, infatti, il sacerdozio è unito col proprio sacrificio, con la sua donazione al Padre; e tale donazione, appunto perché è illimitata, fa nascere in noi – uomini soggetti a molteplici limitazioni – il bisogno di rivolgerci verso Dio in forma sempre più matura e con una costante conversione, sempre più profonda.
Negli ultimi anni è stato fatto molto per mettere in evidenza – in conformità, del resto, alla più antica tradizione della Chiesa – l’aspetto comunitario della penitenza e soprattutto del sacramento della Penitenza nella pratica della Chiesa. Queste iniziative sono utili e serviranno certamente ad arricchire la prassi penitenziale della Chiesa contemporanea. Non possiamo, però, dimenticare che la conversione è un atto interiore di una profondità particolare, in cui l’uomo non può essere sostituito dagli altri, non può farsi “rimpiazzare” dalla comunità. Benché la comunità fraterna dei fedeli, partecipanti alla celebrazione penitenziale, giovi grandemente all’atto della conversione personale, tuttavia, in definitiva, è necessario che in questo atto si pronunci l’individuo stesso, con tutta la profondità della sua coscienza, con tutto il senso della sua colpevolezza e della sua fiducia in Dio, mettendosi davanti a Lui come il Salmista, per confessare: “Contro di te, contro te solo ho peccato” (Ps 51,6). La Chiesa, quindi, osservando fedelmente la plurisecolare prassi del sacramento della Penitenza – la pratica della confessione individuale, unita all’atto personale di dolore e al proposito di correggersi e di soddisfare – difende il diritto particolare dell’anima umana. È il diritto ad un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: “Ti sono rimessi i tuoi peccati” (Mc 2,5); “Va’, e d’ora in poi non peccare più” (Jn 8,11). Come è evidente, questo è nello stesso tempo il diritto di Cristo stesso verso ogni uomo da lui redento. È il diritto ad incontrarsi con ciascuno di noi in quel momento-chiave della vita dell’anima, che è quello della conversione e del perdono. La Chiesa, custodendo il sacramento della Penitenza, afferma espressamente la sua fede nel mistero della Redenzione, come realtà viva e vivificante, che corrisponde alla verità interiore dell’uomo, corrisponde all’umana colpevolezza ed anche ai desideri della coscienza umana. “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5,6). Il sacramento della Penitenza è il mezzo per saziare l’uomo con quella giustizia, che proviene dallo stesso Redentore.
Nella Chiesa che, soprattutto nei nostri tempi, si raccoglie specialmente intorno all’Eucaristia, e desidera che l’autentica comunità eucaristica diventi segno dell’unità di tutti i cristiani, unità che sta gradualmente maturando, deve essere vivo il bisogno della penitenza, sia nel suo aspetto sacramentale (cf. S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Normae pastorales circa absolutionem generali modo impertiendam: AAS 64 [1972] 510-514; Paolo VI, Allocutio ad nonnullos Episcopus e Foederatis Civitatibus Americae Septentrionalis, oblata occasione eorum visitationis “Ad limina” habita, 20 aprile 1978: AAS 70 [1978] 328-332; Giovanni Paolo II, Allocutio ad quosdam sacros Praesules nationis Canadensis habita, eorum visitationis “Ad limina” oblata occasione, 17 novembre 1978: AAS 71 [1979] 32-36), come anche in quello concernente la penitenza come virtù. Questo secondo aspetto fu espresso da Paolo VI nella Costituzione Apostolica Paenitemini (Paolo VI, Paenitemini: AAS 58 [1966] 177-198). Uno dei compiti della Chiesa è di mettere in pratica l’insegnamento in essa contenuto; si tratta di argomento che dovrà esser di certo da noi approfondito ancora nella riflessione comune, e fatto oggetto di molte ulteriori decisioni, in spirito di collegialità pastorale, rispettando le diverse tradizioni a questo proposito e le diverse circostanze della vita degli uomini del nostro tempo. Tuttavia, è certo che la Chiesa del nuovo Avvento, la Chiesa che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore, deve essere la Chiesa della Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo profilo spirituale della sua vitalità e della sua attività, essa è la Chiesa della missione divina, la Chiesa in stato di missione, così come ce ne ha rivelato il volto il Concilio Vaticano II.
Redemptor hominis 17