Sollicitudo rei socialis
Lettera Enciclica nel XX anniversario della Populorum Progressio
30/12/1987 Città del Vaticano
VOL. X/3 (1987) 1547-1664
Venerati Fratelli,
Carissimi figli e figlie,
Salute e apostolica benedizione!
1 La sollecitudine sociale della Chiesa, finalizzata ad un autentico sviluppo dell’uomo e della società, che rispetti e promuova la persona umana in tutte le sue dimensioni, si è sempre espressa nei modi più svariati. Uno dei mezzi privilegiati di intervento è stato nei tempi recenti il magistero dei Romani Pontefici, che, partendo dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII come da un punto di riferimento, ha trattato di frequente la questione, facendo alcune volte coincidere le date di pubblicazione dei vari documenti sociali con gli anniversari di quel primo documento.
Né i Sommi Pontefici hanno trascurato di illuminare con tali interventi anche aspetti nuovi della dottrina sociale della Chiesa. Pertanto, cominciando dal validissimo apporto di Leone XIII, arricchito dai successivi contributi magisteriali, si è ormai costituito un aggiornato “corpus” dottrinale, che si articola man mano che la Chiesa, nella pienezza della Parola rivelata da Cristo Gesù (Dei Verbum DV 4) e con l’assistenza dello Spirito Santo (cf. Jn 14,16 Jn 14,26 Jn 16,13-15), va leggendo gli avvenimenti mentre si svolgono nel corso della storia. Essa cerca così di guidare gli uomini a rispondere, anche con l’ausilio della riflessione razionale e delle scienze umane, alla loro vocazione di costruttori responsabili della società terrena.
2 In tale cospicuo corpo di insegnamento sociale si inserisce e distingue l’enciclica Populorum Progressio, che il mio venerato predecessore Paolo VI pubblicò il 26 marzo 1967.
La perdurante attualità di questa enciclica si riconosce agevolmente registrando la serie di commemorazioni che si sono tenute durante questo anno, in varie forme e in molti ambienti del mondo ecclesiastico e civile. A questo medesimo scopo la Pontificia Commissione “Iustitia et Pax” inviò l’anno scorso una lettera circolare ai Sinodi delle Chiese cattoliche orientali e alle Conferenze episcopali, sollecitando opinioni e proposte circa il modo migliore di celebrare l’anniversario dell’enciclica, arricchirne gli insegnamenti e all’occorrenza attualizzarli. La stessa Commissione promosse, alla scadenza del ventesimo anniversario, una solenne commemorazione, alla quale volli prender parte tenendo l’allocuzione conclusiva (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 [1987] 669ss.). Ed ora, prendendo anche in considerazione i contenuti delle risposte alla citata circolare, credo opportuno, a chiusura dell’anno 1987, dedicare un’enciclica alla tematica della Populorum Progressio.
3 Con ciò intendo raggiungere principalmente due obiettivi di non piccola importanza: da una parte, rendere omaggio a questo storico documento di Paolo VI e al suo insegnamento; dall’altra, nella linea tracciata dai miei venerati predecessori sulla Cattedra di Pietro, riaffermare la continuità della dottrina sociale e insieme il suo costante rinnovamento. In effetti, continuità e rinnovamento sono una riprova del perenne valore dell’insegnamento della Chiesa.
Questa doppia connotazione è tipica del suo insegnamento nella sfera sociale. Esso, da un lato, è costante, perché si mantiene identico nella sua ispirazione di fondo, nei suoi “principi di riflessione”, nei suoi “criteri di giudizio”, nelle sue basilari “direttrici di azione” (Libertatis Conscientia, 72; Octogesima Adveniens, 4) e, soprattutto, nel suo vitale collegamento col Vangelo del Signore; dall’altro lato, è sempre nuovo, perché è soggetto ai necessari e opportuni adattamenti suggeriti dal variare delle condizioni storiche e dall’incessante fluire degli avvenimenti, in cui si muove la vita degli uomini e delle società.
4 Nella convinzione che gli insegnamenti dell’enciclica Populorum Progressio, indirizzata agli uomini e alla società degli anni Sessanta, conservano tutta la loro forza di richiamo alla coscienza oggi, sullo scorcio degli anni Ottanta, nello sforzo di indicare le linee portanti del mondo odierno – sempre nell’ottica del motivo ispiratore, lo “sviluppo dei popoli”, ancora ben lontano dall’essere raggiunto –, mi propongo di prolungarne l’eco, collegandoli con le possibili applicazioni al presente momento storico, non meno drammatico di quello di vent’anni fa.
Il tempo – lo sappiamo bene – scorre sempre secondo il medesimo ritmo; oggi, tuttavia, si ha l’impressione che sia sottoposto a un moto di continua accelerazione, in ragione soprattutto della moltiplicazione e complessità dei fenomeni in mezzo ai quali viviamo. Di conseguenza, la configurazione del mondo, nel corso degli ultimi vent’anni, pur conservando alcune costanti fondamentali, ha subìto notevoli cambiamenti e presenta aspetti del tutto nuovi.
Questo periodo di tempo caratterizzato alla vigilia del terzo millennio cristiano da una diffusa attesa, quasi di un nuovo “avvento” (Redemptoris Mater RMA 3 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X/1 [1987] 3ss.), che in qualche modo tocca tutti gli uomini, offre l’occasione di approfondire l’insegnamento dell’enciclica, per vederne anche le prospettive. La presente riflessione ha lo scopo di sottolineare, con l’aiuto dell’indagine teologica sulla realtà contemporanea, la necessità di una concezione più ricca e differenziata dello sviluppo, secondo le proposte dell’enciclica, e di indicare alcune forme di attuazione.
5 Già al suo apparire, il documento di Papa Paolo VI richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica per la sua novità. Si ebbe modo di verificare, in concreto e con grande chiarezza, dette caratteristiche della continuità e del rinnovamento all’interno della dottrina sociale della Chiesa. Perciò, l’intento di riscoprire numerosi aspetti di questo insegnamento, mediante una rilettura attenta dell’enciclica, costituirà il filo conduttore delle presenti riflessioni.
Ma prima desidero soffermarmi sulla data di pubblicazione: l’anno 1967. Il fatto stesso che il Papa Paolo VI prese la decisione di pubblicare una sua enciclica sociale in quell’anno, invita a considerare il documento in relazione al Concilio Ecumenico Vaticano II, che si era chiuso l’8 dicembre 1965.
6 In tale fatto dobbiamo vedere qualcosa di più che una semplice vicinanza cronologica. L’enciclica Populorum Progressio si pone, in certo modo, quale documento di applicazione degli insegnamenti del Concilio. E ciò non tanto perché essa fa continui riferimenti ai testi conciliari, quanto perché scaturisce dalla preoccupazione della Chiesa, che ispirò tutto il lavoro conciliare – in particolar modo la costituzione pastorale Gaudium et Spes – nel coordinare e nello sviluppare non pochi temi del suo insegnamento sociale.
Possiamo affermare, pertanto, che l’enciclica Populorum Progressio è come la risposta all’appello conciliare, col quale ha inizio la costituzione Gaudium et Spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è più genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1). Queste parole esprimono il motivo fondamentale che ispirò il grande documento del Concilio, il quale parte dalla constatazione dello stato di miseria e di sottosviluppo, in cui vivono milioni di esseri umani.
Questa miseria e sottosviluppo sono, sotto l’altro nome, “le tristezze e le angosce” di oggi, “dei poveri soprattutto”: di fronte a questo vasto panorama di dolore e di sofferenza, il Concilio vuole prospettare orizzonti di gioia e di speranza. Al medesimo obiettivo punta l’enciclica di Paolo VI, in piena fedeltà all’ispirazione conciliare.
7 Ma anche nell’ordine tematico l’enciclica, attenendosi alla grande tradizione dell’insegnamento sociale della Chiesa, riprende in maniera diretta la nuova esposizione e la ricca sintesi, che il Concilio ha elaborato segnatamente nella costituzione Gaudium et Spes. Quanto ai contenuti e temi, riproposti dall’enciclica, sono da sottolineare: la coscienza del dovere che ha la Chiesa, “esperta in umanità”, di “scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo” (Gaudium et Spes GS 4 Populorum Progressio PP 13); la coscienza, egualmente profonda, della sua missione di “servizio”, distinta dalla funzione dello Stato, anche quando essa si preoccupa della sorte delle persone in concreto (cf. GS 31 PP 13); il riferimento alle differenze clamorose nelle situazioni di queste stesse persone (cf. GS 63 PP 9); la conferma dell’insegnamento conciliare, eco fedele della tradizione secolare della Chiesa, circa la “destinazione universale dei beni” (cf. GS 69 PP 22); l’apprezzamento della cultura e della civiltà tecnica che contribuiscono alla liberazione dell’uomo (cf. GS 57 PP 41); senza trascurare di riconoscere i loro limiti (cf. GS 19 PP 41); infine, sul tema dello sviluppo, che è proprio dell’enciclica, l’insistenza sul “dovere gravissimo” che incombe sulle Nazioni più sviluppate, di “aiutare i Paesi in via di sviluppo” (cf. GS 86 PP 48). Lo stesso concetto di sviluppo, proposto dall’enciclica, scaturisce direttamente dall’impostazione che la costituzione pastorale dà a questo problema (cf. GS 69 );.
Questi e altri espliciti riferimenti alla costituzione pastorale portano alla conclusione che l’enciclica si presenta come applicazione dell’insegnamento conciliare in materia sociale al problema specifico dello sviluppo e del sottosviluppo dei popoli.
8 La breve analisi, ora fatta, ci aiuta a valutare meglio la novità dell’enciclica, che si può precisare in tre punti.
Il primo è costituito dal fatto stesso di un documento, emanato dalla massima autorità della Chiesa cattolica e destinato, a un tempo, alla stessa Chiesa e “a tutti gli uomini di buona volontà” (cf. Populorum Progressio), sopra una materia che a prima vista è solo economica e sociale: lo sviluppo dei popoli. Qui il termine “sviluppo” è desunto dal vocabolario delle scienze sociali ed economiche. Sotto tale profilo l’enciclica Populorum Progressio si colloca direttamente nel solco dell’enciclica Rerum Novarum, che tratta della “condizione degli operai”. Considerati superficialmente, entrambi i temi potrebbero sembrare estranei alla legittima preoccupazione della Chiesa vista come istituzione religiosa; anzi, lo “sviluppo” ancor più della “condizione operaia”.
In continuità con l’enciclica di Leone XIII, al documento di Paolo VI bisogna riconoscere il merito di aver sottolineato il carattere etico e culturale della problematica relativa allo sviluppo e, parimenti, la legittimità e la necessità dell’intervento in tale campo da parte della Chiesa.
Con ciò la dottrina sociale cristiana ha rivendicato ancora una volta il suo carattere di applicazione della parola di Dio alla vita degli uomini e della società così come alle realtà terrene, che ad esse si connettono, offrendo “principi di riflessione”, “criteri di giudizio” e “direttrici di azione” (Libertatis Conscientia, 72; Octogesima Adveniens, 4). Ora, nel documento di Paolo VI si ritrovano tutti i tre elementi con un orientamento prevalentemente pratico, ordinato cioè alla condotta morale. Di conseguenza, quando la Chiesa si occupa dello “sviluppo dei popoli”, non può essere accusata di oltrepassare il suo campo specifico di competenza e, tanto meno, il mandato ricevuto dal Signore.
9 Il secondo punto è la novità della Populorum Progressio, quale si rivela dall’ampiezza di orizzonte aperto a quella che comunemente è conosciuta come la “questione sociale”. In verità, l’enciclica Mater et Magistra di Papa Giovanni XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte e il Concilio se ne era fatto eco nella costituzione Gaudium et Spes (GS 63). Tuttavia il magistero sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale (cf. Populorum Progressio PP 3 PP 9), né aveva fatto di questa affermazione, e dell’analisi che l’accompagna, una “direttrice di azione”, come fa Papa Paolo VI nella sua enciclica. Una simile presa di posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è opportuno indicare.
Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la “questione sociale” abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto che sia venuta meno la sua forza d’incidenza; o che abbia perduto la sua importanza nell’ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall’influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali.
Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molto di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono. Siamo, dunque, di fronte a un grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni naturali o dall’insieme delle circostanze.
L’enciclica di Paolo VI, nel dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento nell’analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell’enciclica, “ognuno deve prender coscienza” di questo fatto (cf. Populorum Progressio PP 3), appunto perché tocca direttamente la coscienza; ch’è fonte delle decisioni morali.
In tale quadro, la novità dell’enciclica non consiste tanto nell’affermazione, di carattere storico, circa l’universalità della questione sociale quanto nella valutazione morale di questa realtà. Perciò i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l’obbligo morale – secondo il rispettivo grado di responsabilità – di tenere in considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggior precisione l’enciclica paolina traduce l’obbligo morale come “dovere di solidarietà” (PP 48), e una tale affermazione, anche se nel mondo molte situazioni sono cambiate, ha oggi la stessa forza e validità di quando fu scritta.
D’altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità dell’enciclica consiste anche nell’impostazione di fondo, secondo cui la concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva dell’interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell’essere umano (cf. PP 14).
10 Come terzo punto l’enciclica fornisce un considerevole apporto di novità alla dottrina sociale della Chiesa nel suo complesso e alla concezione stessa di sviluppo. Questa novità è ravvisabile in una frase, che si legge nel paragrafo conclusivo del documento e che può esser considerata come la sua formula riassuntiva, oltre che la sua qualifica storica: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (cf. PP 87).
In realtà, se la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, è perché l’esigenza di giustizia può essere soddisfatta solo su questo stesso piano. Disattendere tale esigenza potrebbe favorire l’insorgere di una tentazione di risposta violenta da parte delle vittime dell’ingiustizia, come avviene all’origine di molte guerre. Le popolazioni escluse dall’equa distribuzione dei beni, destinati originariamente a tutti, potrebbero domandarsi: perché non rispondere con la violenza a quanti ci trattano per primi con la violenza? E se si esamina la situazione alla luce della divisione del mondo in blocchi ideologici – già esistente nel 1967 – e delle conseguenti ripercussioni e dipendenze economiche e politiche, il pericolo risulta ben maggiore.
A questa prima considerazione sul drammatico giunge un’altra, a cui lo stesso documento fa allusione (cf. PP 53): come giustificare il fatto che ingenti somme di danaro, che potrebbero e dovrebbero esser destinate a incrementare lo sviluppo dei popoli, sono invece utilizzate per l’arricchimento di individui o di gruppi, ovvero assegnate all’ampliamento degli arsenali di armi, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo, sconvolgendo così le vere priorità? Ciò è ancor più grave attese le difficoltà, che non di rado ostacolano il passaggio diretto dei capitali destinati a portare aiuto ai Paesi in condizione di bisogno. Se “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”, la guerra e i preparativi militari sono il maggior nemico dello sviluppo integrale dei popoli.
In tal modo, alla luce dell’espressione di Papa Paolo VI, siamo invitati a rivedere il concetto di sviluppo, che non coincide certamente con quello che si limita a soddisfare le necessità materiali mediante la crescita dei beni, senza prestare attenzione alle sofferenze dei più e facendo dell’egoismo delle persone e delle Nazioni la principale motivazione. Come acutamente ci ricorda la Lettera di san Giacomo, è da qui che “derivano le guerre e le liti... Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere” (Jc 4,1-2).
Al contrario, in un mondo diverso, dominato dalla sollecitudine per il bene comune di tutta l’umanità, ossia dalla preoccupazione per lo “sviluppo spirituale e umano di tutti”, anziché dalla ricerca del profitto particolare, la pace sarebbe possibile come frutto di una “giustizia più perfetta tra gli uomini” (Populorum Progressio PP 76). Anche questa novità dell’enciclica ha un valore permanente e attuale, considerata la mentalità di oggi che è così sensibile all’intimo legame esistente tra il rispetto della giustizia e l’instaurazione della vera pace.
11 L’insegnamento fondamentale dell’enciclica Populorum Progressio ebbe a suo tempo grande risonanza per il suo carattere di novità. Il contesto sociale, nel quale viviamo oggi, non si può dire del tutto identico a quello di vent’anni fa. E perciò vorrei ora soffermarmi, con una breve esposizione, su alcune caratteristiche del mondo odierno al fine di approfondire l’insegnamento dell’enciclica di Paolo VI, sempre sotto il punto di vista dello “sviluppo dei popoli”.
12 Il primo fatto da rilevare è che le speranze di sviluppo, allora così vive, appaiono oggi molto lontane dalla realizzazione. In proposito, l’enciclica non si faceva illusioni. Il suo linguaggio grave, a volte drammatico, si limitava a sottolineare la pesantezza della situazione e a proporre alla coscienza di tutti l’obbligo urgente di contribuire a risolverla. In quegli anni era diffuso un certo ottimismo circa la possibilità di colmare, senza sforzi eccessivi, il ritardo economico dei popoli poveri, di dotarli di infrastrutture e assisterli nel processo di industrializzazione.
In quel contesto storico, al di là degli sforzi di ogni Paese, l’Organizzazione delle Nazioni Unite promosse consecutivamente due decenni di sviluppo. Furono prese, infatti, alcune misure, bilaterali e multilaterali, per venire in aiuto a molte Nazioni, alcune indipendenti da tempo, altre – per la maggior parte – nate appena come Stati dal processo di decolonizzazione. Da parte sua, la Chiesa sentì il dovere di approfondire i problemi posti dalla nuova situazione, pensando di sostenere con la sua ispirazione religiosa e umana questi sforzi, per dar loro un’“anima” e un impulso efficace.
13 Non si può dire che queste diverse iniziative religiose, umane, economiche e tecniche siano state vane, dato che hanno potuto raggiungere alcuni risultati. Ma in linea generale, tenendo conto dei diversi fattori, non si può negare che la presente situazione del mondo, sotto questo profilo dello sviluppo, offra un’impressione piuttosto negativa.
Per questo desidero richiamare l’attenzione su alcuni indici generici, senza escluderne altri specifici. Tralasciando l’analisi di cifre o statistiche, è sufficiente guardare la realtà di una moltitudine innumerevole di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, vale a dire di concrete e irripetibili persone umane, che soffrono sotto il peso intollerabile della miseria. Sono molti milioni coloro che sono privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione si è sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e bisogno, in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle; è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci (cf. Mt 25,31-46).
14 La prima constatazione negativa da fare è la persistenza, e spesso l’allargamento del fossato tra l’area del cosiddetto Nord sviluppato e quella del Sud in via di sviluppo. Questa terminologia geografica è soltanto indicativa, perché non si può ignorare che le frontiere della ricchezza e della povertà attraversano al loro interno le stesse società sia sviluppate che in via di sviluppo. Difatti, come esistono diseguaglianze sociali fino a livelli di miseria nei Paesi ricchi, così, parallelamente, nei Paesi meno sviluppati si vedono non di rado manifestazioni di egoismo e ostentazioni di ricchezza, tanto sconcertanti quanto scandalose.
All’abbondanza di beni e di servizi disponibili in alcune parti del mondo, soprattutto nel Nord sviluppato, corrisponde nel Sud un inammissibile ritardo, ed è proprio in questa fascia geo–politica che vive la maggior parte del genere umano. A guardare la gamma dei vari settori – produzione e distribuzione dei viveri, igiene, salute e abitazione, disponibilità di acqua potabile, condizioni di lavoro, specie femminile, durata della vita e altri indici economici e sociali –, il quadro generale risulta deludente, a considerarlo sia in se stesso sia in relazione ai dati corrispondenti dei Paesi più sviluppati. La parola “fossato” ritorna spontanea sulle labbra.
Forse non è questo il vocabolario appropriato per indicare la vera realtà, in quanto può dare l’impressione di un fenomeno stazionario. Non è così. Nel cammino dei Paesi sviluppati e in via di sviluppo si è verificata in questi anni una diversa velocità di accelerazione, che porta ad allargare le distanze. Così, i Paesi in via di sviluppo, specie i più poveri, vengono a trovarsi in una situazione di gravissimo ritardo.
Occorre aggiungere ancora le differenze di cultura e dei sistemi di valori tra i vari gruppi di popolazione, che non sempre coincidono col grado di sviluppo economico; ma contribuiscono a creare distanze. Sono questi gli elementi e gli aspetti che rendono molto più complessa la questione sociale, appunto perché ha assunto dimensione universale.
Osservando le varie parti del mondo separate dalla crescente distanza di un tale fossato, notando come ognuna di esse sembra seguire una propria rotta con proprie realizzazioni, si comprende perché nel linguaggio corrente si parli di mondi diversi all’interno del nostro unico mondo: Primo Mondo, Secondo Mondo, Terzo Mondo, e talvolta Quarto Mondo. Simili espressioni, che non pretendono certo di classificare in modo esauriente tutti i Paesi, appaiono significative: esse sono il segno della diffusa sensazione che l’unità del mondo, in altri termini l’unità dei genere umano, sia seriamente compromessa. Tale fraseologia, al di là del suo valore più o meno obiettivo, nasconde senza dubbio un contenuto morale, di fronte al quale la Chiesa, che è “sacramento o segno e strumento... dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium LG 1), non può rimanere indifferente.
15 Il quadro precedentemente tracciato sarebbe, però, incompleto, se agli “indici economici e sociali” del sottosviluppo non si aggiungessero altri indici egualmente negativi, anzi ancor più preoccupanti, a cominciare dal piano culturale. Essi sono: l’analfabetismo, la difficoltà o impossibilità di accedere ai livelli superiori d’istruzione, l’incapacità di partecipare alla costituzione della propria Nazione, le diverse forme di sfruttamento e di oppressione economica, sociale, politica e anche religiosa della persona umana e dei suoi diritti, le discriminazioni di ogni tipo; specialmente quella più odiosa fondata sulla differenza razziale. Se qualcuna di queste piaghe si lamenta in aree del Nord più sviluppato, senza dubbio esse sono più frequenti, più durature e difficili da estirpare nei Paesi in via di sviluppo e meno avanzati.
Occorre rilevare che nel mondo d’oggi, tra gli altri diritti, viene spesso soffocato il diritto di iniziativa economica. Eppure si tratta di un diritto importante non solo per il singolo individuo, ma anche per il bene comune. L’esperienza ci dimostra che la negazione di un tale diritto, o la sua limitazione in nome di una pretesa “eguaglianza” di tutti nella società riduce, o addirittura distrugge di fatto, lo spirito d’iniziativa, cioè la soggettività creativa del cittadino. Di conseguenza sorge, in questo modo, non tanto una vera eguaglianza, quanto un “livellamento in basso”. Al posto dell’iniziativa creativa nasce la passività, la dipendenza e la sottomissione all’apparato burocratico che, come unico organo “disponente” e “decisionale” – se non addirittura “possessore” – della totalità dei beni e mezzi di produzione, mette tutti in una posizione di dipendenza quasi assoluta, che è simile alla tradizionale dipendenza dell’operaio–proletario dal capitalismo. Ciò provoca un senso di frustrazione o disperazione e predispone al disimpegno dalla vita nazionale, spingendo molti all’emigrazione e favorendo, altresì, una forma di emigrazione “psicologica”.
Una tale situazione ha le sue conseguenze anche dal punto di vista dei “diritti delle singole Nazioni”. Infatti, accade spesso che una Nazione viene privata della sua soggettività, cioè della “sovranità” che le compete nel significato economico e anche politico–sociale e in certo qual modo culturale, perché in una comunità nazionale tutte queste dimensioni della vita sono collegate tra di loro. Bisogna ribadire, inoltre, che nessun gruppo sociale, per esempio, un partito, ha diritto di usurpare il ruolo di guida unica, perché ciò comporta la distruzione della vera soggettività della società e delle persone–cittadini, come avviene in ogni totalitarismo. In questa situazione l’uomo e il popolo diventano “oggetto”, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario e le assicurazioni verbali.
A questo punto conviene aggiungere che nel mondo d’oggi ci sono molte altre forme di povertà. In effetti, certe carenze o privazioni non meritano forse questa qualifica? La negazione o la limitazione dei diritti umani – quali, ad esempio, il diritto alla libertà religiosa, il diritto di partecipare alla costruzione della società, la libertà di associarsi, o di costituire sindacati, o di prendere iniziative in materia economica – non impoveriscono forse la persona umana altrettanto, se non maggiormente della privazione dei beni materiali? E uno sviluppo, che non tenga conto della piena affermazione di questi diritti, è davvero sviluppo a dimensione umana?
In breve, il sottosviluppo dei nostri giorni non è soltanto economico, ma anche culturale, politico e semplicemente umano, come già rilevava vent’anni fa l’enciclica Populorum Progressio. Sicché, a questo punto, occorre domandarsi se la realtà così triste di oggi non sia, almeno in parte, il risultato di una concezione troppo limitata, ossia prevalentemente economica, dello sviluppo.
16 È da rilevare che, nonostante i lodevoli sforzi fatti negli ultimi due decenni da parte delle Nazioni più sviluppate o in via di sviluppo e delle Organizzazioni internazionali, allo scopo di trovare una via d’uscita alla situazione, o almeno di rimediare a qualcuno dei suoi sintomi, le condizioni si sono notevolmente aggravate. Le responsabilità di un simile peggioramento risalgono a cause diverse. Sono da segnalare le indubbie, gravi omissioni da parte delle stesse Nazioni in via di sviluppo e, specialmente, da parte di quanti ne detengono il potere economico e politico. Né tanto meno si può fingere di non vedere le responsabilità delle Nazioni sviluppate, che non sempre, almeno non nella debita misura, hanno sentito il dovere di portare aiuto ai Paesi separati dal mondo del benessere, al quale esse appartengono.
Tuttavia è necessario denunciare l’esistenza di meccanismi economici, finanziari e sociali, i quali, benché manovrati dalla volontà degli uomini, funzionano spesso in maniera quasi automatica, rendendo più rigide le situazioni di ricchezza degli uni e di povertà degli altri. Tali meccanismi, azionati – in modo diretto o indiretto – dai Paesi più sviluppati, favoriscono per il loro stesso funzionamento gli interessi di chi li manovra, ma finiscono per soffocare o condizionare le economie dei Paesi meno sviluppati. Sarà necessario sottoporre più avanti questi meccanismi a un’attenta analisi sotto l’aspetto etico–morale.
Già la Populorum Progressio prevedeva che con tali sistemi potesse aumentare la ricchezza dei ricchi, rimanendo confermata la miseria dei poveri (PP 33). Una riprova di questa previsione si è avuta con l’apparizione del cosiddetto Quarto Mondo.
17 Quantunque la società mondiale offra aspetti di frammentazione, espressa con i nomi convenzionali di Primo, Secondo, Terzo e anche Quarto Mondo, rimane sempre molto stretta la loro interdipendenza che, quando sia disgiunta dalle esigenze etiche, porta a conseguenze funeste per i più deboli. Anzi, questa interdipendenza, per una specie di dinamica interna e sotto la spinta di meccanismi che non si possono non qualificare come perversi, provoca effetti negativi perfino nei Paesi ricchi. Proprio all’interno di questi Paesi si riscontrano, seppure in misura minore, le manifestazioni specifiche del sottosviluppo. Sicché dovrebbe esser pacifico che lo sviluppo o diventa comune a tutte le parti del mondo, o subisce un processo di retrocessione anche nelle zone segnate da un costante progresso. Fenomeno, questo, particolarmente indicativo della natura dell’autentico sviluppo: o vi partecipano tutte le Nazioni del mondo, o non sarà veramente tale.
Tra gli indici specifici del sottosviluppo, che colpiscono in maniera crescente anche i Paesi sviluppati, ve ne sono due particolarmente rivelatori di una situazione drammatica. In primo luogo, la crisi degli alloggi. In questo Anno internazionale dei senzatetto, voluto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’attenzione si rivolge ai milioni di esseri umani privi di un’abitazione adeguata o addirittura senza abitazione alcuna, al fine di risvegliare la coscienza di tutti e trovare una soluzione a questo grave problema, che ha conseguenze negative sul piano individuale, familiare e sociale.
La carenza di abitazioni si verifica su un piano universale ed è dovuta, in gran parte, al fenomeno sempre crescente della urbanizzazione (Octogesima Adveniens, 8–9). Perfino gli stessi popoli più sviluppati presentano il triste spettacolo di individui e famiglie che si sforzano letteralmente di sopravvivere, senza un tetto o con uno così precario che è come se non ci fosse. La mancanza di abitazioni, che è un problema di per se stesso assai grave, è da considerare segno e sintesi di tutta una serie di insufficienze economiche, sociali, culturali o semplicemente umane e, tenuto conto dell’estensione del fenomeno, non dovrebbe essere difficile convincersi di quanto siamo lontani all’autentico sviluppo dei popoli.
Sollicitudo rei socialis