L'ATTO MORALE:
ELEMENTI PER UNA SUA
VALUTAZIONE NEL CONTESTO
DELLA PROBLEMATICA ATTUALE.
IL PENSIERO
DELLA VERITATIS SPLENDOR
Giovanni Benvenuto
L'idea di svolgere questo lavoro di etica è nata principalmente da una preoccupazione di tipo "pastorale".
Mi chiedevo cioè: è possibile dialogare con l'uomo d'oggi di moralità, di atti buoni e di atti in ogni caso cattivi, di ciò che è giusto fare, e di ciò che non è giusto fare, senza però chiamare in causa la volontà di Dio o la legge della Chiesa?
Tale domanda non intende affatto essere un rifiuto della trascendenza della legge morale e del legittimo ministero del Magistero della Chiesa riguardo all'insegnamento sul bene e sul male, ma prende spunto da una situazione concreta e molto diffusa: non tutti gli uomini accettano un discorso che parta da presupposti di fede, anzi la maggioranza ne è estranea o addirittura ostile.
D'altra parte, però, tutti hanno una preoccupazione e una certezza morale potremmo dire "innata": il concetto di bene come cosa che va fatta e di male come cosa che va evitata è presente in tutti, seppure a livelli diversi e con motivazioni diverse.
La via della moralità, inoltre, come afferma il Concilio Vaticano II, è già strumento di salvezza per gli uomini che, pur non conoscendo Dio, si sforzano di seguire i dettami della propria coscienza.
Come poter dunque parlare di bene e di male a tutti gli uomini di buona volontà, cercando una base comune, filosofica, naturale, universale, a partire dalla quale poter imbastire un discorso sulla moralità dell'uomo e degli atti che egli compie?
Il presente lavoro, quindi, pur tentando di ragionare in modo logico e rigoroso, cercherà di mantenere sempre "i piedi per terra", servendosi anche di esempi concreti che possano servire come rimandi esistenziali riguardo ai temi che verranno trattati, al fine di non dimenticare la preoccupazione da cui questa tesina è nata e ha lentamente preso forma.
Nel primo capitolo cercheremo di rispondere implicitamente alle critiche di chi afferma che l’etica di ispirazione cristiana non è attenta alla situazione concreta in cui si trova chi deve decidere ed agire moralmente. Se ciò è avvenuto a tratti nella storia della teologia morale, non bisogna neppure dimenticare che la virtù della prudenza è sempre stata considerata come virtù cardine che ogni uomo deve sviluppare nella sua vita morale.
Nel secondo capitolo focalizzaremo l’attenzione sulla funzione del giudizio morale: esso tende alla costruzione della persona come persona, inerisce quindi alla piena identità con se stesso ricercata dall’uomo.
Nel terzo capitolo rifletteremo sulla ragione pratica, facoltà dell’uomo che gli permette di gustare e porre il bene morale.
Nel quarto capitolo cercheremo di ristipulare l’alleanza tra verità e libertà, oggi in crisi, fondamento di una moralità fedele alla costituzione intima della realtà e della natura dell’uomo.
Nel quinto capitolo affronteremo il tema classico delle fonti della moralità, alla ricerca di una sintesi armonica tra oggetto e soggetto.
Nel sesto capitolo daremo uno sguardo al pensiero dell’enciclica Veritatis splendor di Giovanni Paolo II, relativamente al tema del nostro studio, cioè l’atto morale.
PRIMO CAPITOLO
IL GIUDIZIO MORALE E' DI UNA PERSONA
CHE VIVE STORICAMENTE
1.1 L'agire morale nei manuali classici
Questo nostro lavoro intende analizzare l'atto morale, meglio, l'agire morale dell'uomo.
Cominciamo quindi col chiederci come l'agire morale era inteso nei manuali classici di teologia morale, non per criticarli, ma per renderci conto del cammino fatto e del sentire comune cambiato. In passato i moralisti non ponevano l'accento sull'agire umano, quanto piuttosto sugli atti umani, singolarmente presi:
"In tale concezione l'uomo è visto come soggetto che produce responsabilmente singoli atti umani, capaci di ricevere il valore di moralità. La responsabilità, come cosciente e libera volontà nel porre l'atto, costituirebbe la sola umanità dell'atto; umanità che è considerata solo come condizione psicologica, perché l'entità fisica dell'atto possa ricevere la specificazione di atto morale.
Da che cosa dipende allora la moralità dell'atto umano? Dipende, secondo la maggior parte dei moralisti, dalla relazione dell'atto concreto alla norma morale. Questa è costituita dalla razionalità del rapporto di convenienza dell'atto con la natura metafisica dell'uomo. La convenienza dell'atto è dedotta dalla considerazione dell'oggetto fisico, specifico, di tale atto, sempre sotto la ragione e rapporto di razionalità".
Il soggetto è considerato nella sua natura metafisica di animale razionale; la razionalità è il costitutivo formale della legge morale naturale. L'atto è buono se è conforme a un ordine oggettivo di moralità, è cattivo se ne è difforme.
"L'oggetto quindi è il fattore determinante, principale (fons) della moralità. Le circostanze dell'atto, che formano la situazione concreta, sono fattori secondari, per sé accidentali. Anche il fine soggettivo di chi agisce (finis operantis), per sé è circostanza, benché determini un secondo rapporto di moralità, se esso è distinto dall'oggetto specifico dell'atto in sé (finis operis)".
L'etica deve quindi determinare i rapporti di convenienza o no dell'atto specifico con l'essenza metafisica dell'uomo da cui discende la norma: si interessa primariamente dell'universale. La coscienza deve applicare in singolare ciò che dice la norma universale, salvo qualche modificazione accidentale derivante dalle circostanze.
Il compito della coscienza è quello di mediare tra norma universale e caso particolare; in ciò è aiutata dalla virtù della prudenza. Tale compito è però molto difficile.
Per aiutare la coscienza in difficoltà, già i Padri della Chiesa, interrogati su questioni pratiche particolari (servizio militare, persecuzioni, menzogna,...), incominciarono ad immaginare e studiare tutta una serie di casi in cui può venirsi a trovare la persona che deve prendere una decisione in quella situazione particolare. La casistica, quindi, non come nome ma come fatto, è antica quanto la Chiesa.
Verso il XIII secolo
"all’evo speculativo della Teologia successe un altro, nel quale uomini insigni per dottrina si sforzarono di adattare i principi morali alle azioni o attività umane. (...) Coloro che in questo periodo trattarono di cose morali vennero chiamati sommisti, dalle summe, quasi riunione o collezione di dottrine morali rispecchianti i diversi casi di coscienza; da ciò nacque il barbaro nome di casuisti, per distinguerli da coloro che trattarono questioni canoniche che ebbero il nome di canonisti o decretisti".
Il procedimento di tali teologi moralisti verrà poi chiamato casistica; esso vuole offrire alla coscienza nozioni su cui appoggiarsi nel caso concreto; la casistica nasce quindi come aiuto alla coscienza in difficoltà e per facilitare il compito della prudenza.
Da un punto di vista positivo la casistica rivela quindi una grande attenzione alla situazione: visto che concretamente l'uomo solitamente non si trova a decidere in una situazione che corrisponda in tutto e per tutto al caso astratto, puro e semplice, essa ha il compito di aiutare l'uomo in situazione ad emettere un giudizio di coscienza che tenga conto delle circostanze particolari che si possono verificare.
Di fronte al caso in astratto (ad esempio: è bene che un chierico frequenti certe compagnie?) vengono proposte varie soluzioni a seconda della diversità di circostanze o conseguenze o finalità possibili (ad esempio: di giorno sì, di notte no; se lo sanno i superiori sì, se non lo sanno no; se è una compagnia femminile no, se è maschile sì; se c'è possibilità di fare del bene sì, se è per divertimento solo no, e così via; e poi tutte le varie combinazioni possibili di circostanze o conseguenze o finalità).
Ma il metodo casistico in realtà non aiuta l'uomo a progredire nel discernimento morale pratico. La casistica infatti è un procedimento speculativo e aiuta ed abitua la persona ad un discernimento solo speculativo e non pratico; essa non aiuta a cogliere la realtà da fare da un punto di vista pratico, non fa progredire nell'amore pratico del bene.
Basarsi solo sulla scienza speculativa dei casi lascia la persona in una situazione di perenne "infantilismo morale". L'uomo maturo infatti, in tutti i campi, è l'uomo indipendente, autonomo; non nel senso che essendo legge a se stesso si comporta secondo il suo capriccio, ma nel senso che è capace di autodeterminarsi in vista di un fine assunto responsabilmente.
Inoltre la persona in situazione difficilmente sarà in grado di decidere autonomamente se la sua situazione non rientra in nessuno dei casi già previsti dai moralisti.
Arriviamo quindi ad una conseguenza paradossale: la casistica, sorta per aiutare ad abbracciare il bene sempre e comunque, a lungo andare impedisce lo sbocciare e il progredire della virtù della prudenza, a cui voleva andare in aiuto.
La casistica tende anche a deresponsabilizzare di fronte all'imprevisto: dopo aver ponderato il ponderabile, come mi devo comportare quando nella situazione che sto vivendo c'è qualcosa di mai ponderato e di assolutamente nuovo? Da un certo punto di vista se il caso che sto vivendo e a partire dal quale devo prendere una decisione morale da seguire non rientra in quelli previsti dalla casistica, allora posso considerare la mia scelta, qualunque essa sia, non imputabile se in coscienza sbaglio.
Comunque, come dice chiaramente il Capone, tale ragionamento lassista non è stato portato avanti da tutti i moralisti, ma solo da una frangia di essi di ispirazione nominalistica e giuridista:
"Mentre S. Tommaso e poi S. Alfonso fanno dipendere il giudizio di coscienza, oltre che dalla scienza oggettiva, anche dalla prudenza, i moralisti casisti eliminavano la prudenza e facevano dipendere la coscienza solo dalla scienza della legge. Però gli oggettivisti essenzialisti erano rigoristi con la coscienza di fronte alla legge o alla regola casistica; gli oggettivisti, di ispirazione nominalistica e giuridista, erano abbastanza elastici, fino al lassismo; essi, infatti, reagendo all'essenzialismo in morale, consideravano ogni legge, anche la naturale, come limitazione, più o meno positiva, della libertà".
La casistica infine ha spesso tralasciato di occuparsi dei principi della vita morale incentrando invece la propria attenzione soprattutto su ciò che si richiede per evitare il peccato: ha messo l'accento quasi esclusivamente sulla funzione negativa della morale, tralasciando invece quella positiva, che, come vedremo, è invece molto importante.
1.3 Necessità di un ripensamento
Sotto la spinta di movimenti di pensiero avvenuti sia a livello sociale, sia a livello ecclesiale, il modo di pensare l'uomo e il suo agire è cambiato, almeno in questo secolo, in senso più personalistico.
Occorre quindi ricuperare un concetto importante per comprendere e fare in modo che la persona sia in grado di dirigere i propri atti al bene in modo non semplicemente essenzialista, ma veramente personalistico: il concetto di "situazione".
L'uomo si esperimenta nella sua autorealizzazione come soggetto volente, colui che nell'attualizzazione di questo volere dispone di sé volontariamente, liberamente per il bene o per il male. Tale autorealizzazione è ricercata non da un concetto, non da un'essenza, non da una sostanza, ma da una persona che vive ed agisce in storicamente, in situazione.
Quando si enuncia una norma etica, lo si fa troppe volte a partire da una riflessione sull'uomo in generale, sull'uomo in astratto, sulla natura umana. Si dimentica spesso che tale natura è comunque sempre esistente e deve quindi sottostare ad esigenze a volte non riconducibili a norme astratte.
Ad un lettore attento e profondo conoscitore del Magistero, tale ultima riflessione avrà fatto senz'altro venire in mente una teoria etica condannata dal Santo Uffizio con un documento del 1956: l'etica della situazione.
La sua apparizione sul panorama culturale contemporaneo non è riconducibile ad un trattato sistematico di un grande pensatore, ma è legata ad una serie di interventi di autori vari.
Essa nasce nel periodo tra le due guerre mondiali e dopo la seconda guerra mondiale. E’ un’epoca di rapidi cambiamenti: lo sviluppo moderno della società ha profondamente mutato i termini delle scelte che quotidianamente si impongono ad ogni uomo; ha mutato ad esempio i rapporti all'interno della vita familiare, tra coniugi e di essi con i figli. Anche la guerra ha determinato il nascere di situazioni nuove irriducibili a quelle previste nei manuali classici.
"In questo contesto nasce viva l'impressione che le norme generali non siano in grado di giudicare e illuminare la situazione singola, e quindi di suggerire la scelta buona. Sicché, nella prassi concreta dei cristiani prima, nella riflessione dei teologi poi, si insinua l'atteggiamento di semplice preterizione della norma generale: il fossato tra questa norma e la scelta concreta è così profondo, che di fatto essa diventa per me irrilevante"
Per assegnare un contenuto preciso a tale teoria è utile riferirsi al documento pontificio di condanna.
Secondo tale teoria non esistono principi oggettivi e universali che fungano da norme ultime della libertà.
"Non ci sono che situazioni concrete, particolari, irriducibili e irripetibili in cui risuona ogni volta un appello nuovo e personale di Dio. La morale, almeno nel suo apice, concerne la persona come tale, che è sempre singola; essa non può dunque formularsi in termini di natura, in termini universali".
I principi universali sono quindi sostituiti da un
"certo giudizio e lume interiore di ciascun individuo, mediante il quale, una volta che questi è posto in situazione concreta, gli diventa chiaro quello che deve essere fatto".
Tale giudizio non ha una norma obiettiva a cui commisurarsi, ma basta a se stesso. Per tale etica il concetto di natura umana è insufficiente; esiste invece la natura esistente, quindi per molti aspetti mutevole e relativa al tempo; la morale concerne la persona come tale, che è sempre singola, non la natura universalmente intesa.
"Alla considerazione classica dell'uomo come uomo, si sostituisce quindi la considerazione di quest'uomo qui, in questo momento qui".
Nonostante i limiti e le conclusioni errate cui si può giungere abbracciando fino in fondo l'etica della situazione, essa però
"mette a fuoco una profonda insoddisfazione di fronte alla metodologia morale tradizionale. Rifiuta l'etica delle essenze, una normativa universale che sembra non tener conto del soggetto e della storia, una morale lontana dalla vita e dal quotidiano".
Un giusto ricupero del concetto di "situazione" relativa all'uomo che giudica moralmente non parte quindi da questa teoria, che nega il concetto di natura umana e l'esistenza di leggi morali universali e immutabili, ma cerca di ricuperarne alcune esigenze ed intuizioni di fondo.
1.5 La virtù della prudenza: virtù dell'uomo in situazione
L'uomo non è mai puramente esistenza, ma anche e sempre natura; l'individuo non è solo tale, ma anche espressione e realizzazione di un'essenza; esso è libero riguardo alla possibilità di realizzarsi o meno nel tempo, non è però libero riguardo alla sua natura né riguardo al suo fine.
Ecco perché non possiamo accettare una pura etica della situazione, che neghi natura e leggi ed imperativi riferiti a questa natura. Un atto la cui struttura intrinseca contraddicesse la retta ragione e le esigenze della natura umana, non potrebbe mai essere scusato, anzi non bisogna farlo mai.
Ma è pur vero che le regole universali non sempre bastano per determinare ciò che si debba fare in un dato caso.
L'uomo, come natura esistente nel tempo
"esiste in uno stato di apertura, in un "futuro" dalle possibilità infinite. Suo compito è di non scomparire anonimo in esse, ma di realizzarle, di coglierle come possibilità proprie della sua esistenza. Ma ciò avviene in quanto egli le afferra nella definitività della decisione storicamente unica ed irrevocabile".
Mediante la decisione morale egli si determina storicamente, dandosi un volto invece che un altro. E' attraverso questa decisione che egli diventa ciò che sarà; se decidesse diversamente, diventerebbe diversamente.
Ora la morale non ha solo una funzione negativa; essa non deve soltanto indicare ciò che assolutamente non va fatto; non ha solo il compito di mettere paletti, o di essere una ringhiera che impedisce all'uomo di cadere in un baratro, tanto per usare due immagini classiche applicate spesso alla funzione della legge morale.
Essa ha anche una funzione positiva: indicare come quella decisione mediante la quale l'uomo fissa il suo essere storicamente sia perfettamente adeguata a tutte le esigenze del momento. La morale ha il compito di condurre la persona ad un agire quanto più consono alla sua dignità, perché attinga ad un perfezione sempre più piena. Ma in questo senso la norma morale non è mai adeguata al particolare, poiché necessariamente ragiona in termini universali:
"[La morale] deve indicare la condotta da seguire perché l'azione abbia tutta la "rifinitezza" desiderabile. E qui le norme universali, anche moltiplicate indefinitamente, restano inadeguate alle questioni poste dal caso concreto".
La casistica intendeva proprio combinare leggi universali diverse al fine di determinare concretamente la situazione da adottare.
"Tuttavia il perfetto adattamento dell'atto alla situazione richiede qualcosa di più: un habitus specializzato a tale effetto, e facente la mediazione tra la legge generale e la particolarità del caso. Tale è il ruolo della prudenza, che non si limita a discernere quali regole debbano giocare hic et nunc, ma indica in che modo debbano essere interpretate e applicate per rispondere pienamente alle esigenze della situazione".
Eccoci dunque al punto nodale: una conoscenza speculativa non può essere la fonte della maturità morale. Io posso conoscere alla perfezione tutte le norme morali e tutti i casi possibili ed immaginabili, ma finché tale conoscenza resta a livello di testa e non invece di cuore, finché il bene da me conosciuto non è amato e ricercato al di sopra di tutto, vana rimarrà la mia scienza.
Il prudente, interiormente orientato al bene, è capace di mediare tra norma universale e situazione concreta. La prudenza è la virtù dell'uomo adulto, che non ha sempre bisogno di casi già previsti per giudicare o del parere di un libro o di un'altra persona; il prudente, persona in situazione matura moralmente, comprende come comportarsi in quella data situazione per essere pienamente alla sequela delle esigenze della sua natura, del bene e della situazione stessa, appello alla ragione perché indirizzi la volontà libera verso il bene.
Per riprendere l'esempio di cui sopra, il chierico prudente terrà conto di tutto e deciderà se in quel momento è bene oppure no frequentare quella compagnia; non sarà né lassista né scrupoloso; non tralascerà l'esperienza di chi ha già riflettuto su quella situazione; deciderà di conseguenza seguendo i dettami della retta coscienza prudente in situazione.
Per Aristotele la prudenza è il retto discernimento intorno al bene e al male. S. Tommaso, tra le varie definizioni che ne dà, la ritiene "l'attitudine a scegliere i mezzi opportuni per il conseguimento del fine".
La prudenza è quindi la virtù dell'uomo in situazione in quanto deve agire moralmente.
"L'esigenza della situazione, ben lungi dal poter mai sospendere una legge veramente universale (perché fondata sulla natura vera e immutabile dell'uomo), implica invece tale legge. La natura infatti è un elemento essenziale della situazione".
Se la preoccupazione principale di chi agisce è quella di mantenersi nella moralità, è proprio a partire dalla natura che l'uomo in situazione può giudicare, evitando di contraddire le esigenze intrinseche di essa.
SECONDO CAPITOLO
LA FUNZIONE DEL GIUDIZIO MORALE:
E' IN ORDINE AL FARSI DELLA PERSONA
Come nella storia della teologia morale l'atto umano è stato oggettivizzato, così nella storia della riflessione filosofica e teologica il concetto di natura umana è stato quasi sempre considerato sotto l'aspetto, senz'altro legittimo, ma a volte limitato, essenzialista.
L'elaborazione del concetto di persona si sviluppò soprattutto in ambito cristiano: nella società greca tale concetto non esisteva; il cristianesimo in questo senso è stato una rivoluzione, in quanto, sotto la spinta della Rivelazione che afferma che Dio crea, ama e redime ogni uomo singolarmente, la persona è stata colta nella sua dignità unica ed irripetibile, nel suo valore assoluto ed inalienabile, senza che ci possa essere fra gli uomini
"distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione".
Oltre a questo concetto potremmo dire "pratico" (l'uomo è persona e quindi va rispettato come tale nella sua dignità assoluta), la riflessione cristiana ha esplorato anche gli elementi costitutivi della persona, le sue proprietà, le sue relazioni, il suo costitutivo ontologico profondo; in una parola, la sua essenza; ciò diventa anzi il principio per cui la persona va rispettata nella sua dignità.
Aristotele ha definito la persona come "animale razionale". E' così colto in modo semplice e comprensibile a tutti il costitutivo formale della persona, quello cioè che specifica il genere animale dell'uomo: la razionalità, che da una parte è possibilità di autocoscienza, dall'altra apertura all'Assoluto:
"[la razionalità] importa la presenza di sé a sé nell'atto intellettivo, ed insieme l'apertura alla totalità dell'essere".
Boezio ha definito la persona come "rationalis naturae individua substantia incommunicabilis": una sostanza individua e incomunicabile di natura ragionevole.
Quella di Boezio è una definizione che coglie la persona nella sua essenza, nella sua essenzialità. Ma la persona non può essere colta solo sul versante dell'essere, sul versante statico. L'essere individuo, incomunicabile e ragionevole della persona è piuttosto la condizione e la possibilità necessaria della sua apertura, della sua comunicabilità.
La razionalità permette alla persona di autotrascendersi, cioè di cogliersi e di conoscersi come unità e come principio unitario, immutato e costante di tutte le sue varie esperienze. La persona si conosce anche come appartenente a se stessa e come impossibilitata ad essere posseduta da un altro. Infatti può anche essere acquistata e posseduta come schiavo, ma il padrone non esercita il suo potere sulla persona, ma sul suo essere psico-fisico.
L'autotrascendenza permette poi alla persona di comunicare con gli altri: essa si percepisce come natura individua e quindi capace di entrare in relazione con altre nature individue, anch'esse capaci di autotrascendenza e di dialogo.
2.2 Persona, libertà, responsabilità e moralità
A differenza delle nature irrazionali, che sono determinate ad agire in vista di un fine che non conoscono, la persona, proprio in forza della sua razionalità ed autotrascendenza, possiede la libertà, che è la:
"proprietà peculiare ed esclusiva che l'uomo ha di essere padrone dei propri atti e pertanto responsabile delle proprie azioni".
Tale citazione ci introduce in un altro concetto molto importante e che ci riguarda più da vicino, concetto strettamente derivante da quello di libertà. In quanto la persona è libera di fronte ai propri atti, ne può anche rispondere, nel bene e nel male: la persona è responsabile, meglio, è chiamata a responsabilità.
""Persona" è l'essere formato, interiore, creatore, in quanto è in sé e dispone di sé".
Essendo la libertà dell'uomo una libertà creaturale, essa è data all'uomo come compito da portare avanti nella storia. Non è quindi una libertà raggiunta una volta per tutte, per natura o per conquista, ma un qualcosa di dinamico e progressivo:
"La nostra libertà, in quanto libertà solo umana, è più una liberazione che si realizza continuamente che uno stato definitivamente acquisito. Essa è un punto di partenza, ma non assoluto, perché non è una libertà divina".
Entriamo così in un concetto di persona dinamico. Se in passato la persona era considerata sotto un aspetto statico ed essenzialista, durante l'ultimo secolo tale concezione è stata rivista in quanto si è compreso come l'uomo non sia semplicemente e solamente natura (vedi paragrafo sulla virtù della prudenza), ma anche esistenza; la persona è persona, ma anche deve diventare pienamente persona.
2.3 Una domanda: in che modo la persona diventa ciò che è?
Ci possiamo allora chiedere: cosa rende la persona veramente persona?
Tale domanda non verte sul costitutivo formale della persona: la concezione di persona che poco sopra abbiamo tentato di delineare, senza pretesa di completezza ed organicità, in quanto è un discorso che ci interessa solo per le sue implicazioni etiche, vuole andare al centro stesso della persona, delineandone l'incomparabile dignità, sempre e comunque. Ogni uomo è persona e va trattato e rispettato e amato come persona semplicemente perché è persona. Tale dignità è primaria, essenziale, indipendente da qualunque parametro, sussistente comunque. Va riconosciuta all'uomo in quanto tale, semplicemente, anche se non ha modo di emergere dagli atti.
Possono infatti esserci casi in cui la personalità non emerge per diversi motivi, come nel caso di un malato di mente; altre volte la personalità può rimanere nascosta come nell'embrione, ma essa è data fin dall'inizio in lui. E' persona il genio quanto lo stupido, il santo quanto il genocida, l'ateo quanto il mistico, il vecchio quanto il bambino, l'embrione quanto il malato terminale.
La dignità di persona non proviene da un'attribuzione estrinseca, ma dalla sua natura spirituale.
Ma resta vero che l'essenza chiede di essere vissuta, attuata, "messa in pratica" in un'esistenza; la libertà richiama l'idea della responsabilità.
Eccoci allora a specificare meglio la domanda di cui sopra: non tanto ci chiediamo cosa rende la persona persona, domanda che richiama la natura stessa della persona, quanto piuttosto: quando la persona diventa veramente persona? O ancora meglio, per fugare qualsiasi malinteso che discrimini la dignità della persona: quando la persona è veramente fedele al suo essere persona?
Se è vero che, come pensava Aristotele, proprio dell'uomo è vivere secondo ragione, se l'uomo ha da attingere una perfezione riguardo la sua personalità, egli lo fa mediante un giudizio di valore che indica un bene o un valore liberamente e liberamente lo assume come oggetto della volontà. Infatti
"il valore può essere definito in un primo momento come quel "carattere delle cose che consiste in ciò che le rende più stimate o desiderate". (...) Ma c'è anche un altro approccio più oggettivo al valore, situato questa volta sul piano del diritto. Si tratta del "carattere delle cose che fa loro meritare un certo apprezzamento". Qui viene lasciato il livello soggettivo e si entra in un livello dove, di diritto e oggettivamente, tutte le persone devono concedere una stima a tale realtà".
Ma quali sono i valori cui "tutte le persone devono concedere una stima"? Se il valore appare come un "dover essere" e per il soggetto come un "dover fare", ci sono valori che "debbono essere" per ciascuna e per tutte le persone?
Appare chiaro che non ogni valore, incontrato dall'uomo nella libertà, lo perfeziona, in quanto la sua libertà non è fine a se stessa, non è una libertà divina, ma creaturale: l'uomo è libero, ma si vede tale in vista di un progetto che parta dalla natura stessa della persona: egli non è assolutamente libero, ma lo è riguardo ai mezzi della sua realizzazione, ma non riguardo al fine.
Ma quali sono i mezzi, cioè i valori che "personificano"?.
I valori che si presentano all'uomo come tali sono innumerevoli: l'auto o la famiglia, la carriera o il piacere, la vita o i soldi, la verità o l'abilità sportiva, la laboriosità o la bontà, e così via.
Ogni uomo, poi, che lo sappia o no, che lo voglia o no, in sé ordina gerarchicamente questi valori e fa dipendere dal raggiungimento di essi la propria felicità e realizzazione e dal loro non perseguimento la sua infelicità e frustrazione.
Ma poiché la specificità dell'uomo è la sua natura spirituale, tra le diverse possibilità di classificare gerarchicamente i valori, con De Finance scegliamo una classificazione che li ordina secondo che concernano o meno il soggetto spirituale come tale.
Del resto nel concetto di valore è incluso il riferimento al soggetto spirituale:
"Poiché il valore include un rapporto al soggetto spirituale, è legittimo prendere questo stesso rapporto come principio ordinatore".
Al primo livello mettiamo i valori infraumani, che non riguardano specificamente soltanto la persona. Sono i valori della sensibilità e i valori biologici (piacere, dolore, malattia,...).
Seguono poi i valori umani inframorali: sono valori che possono valere soltanto per l'uomo, ma non determinano in ultima analisi la sua perfezione personale specifica. Sono i valori economici ed eudemonici (ricchezza, riuscita, prosperità,...) ed i valori più propriamente spirituali, come i valori noetici (concernono l'intelletto: verità), i valori estetici ed artistici (concernono il bello e la capacità dell'uomo di coglierlo: bellezza), i valori sociali (concernono la capacità di relazione) e i valori concernenti la volontà (forza di carattere,...).
Questi valori, benché non sottovalutabili e in certi casi difficilmente distinguibili da quelli morali, non determinano ancora
"la perfezione dell'uomo in quanto tale. E ciò perché, malgrado tutto, essi restano ancora esteriori al soggetto come tale, non lo riguardano in ciò che egli ha di più "proprio". I valori intellettuali stessi, benché sicuramente interiori, - l'intellezione non è forse il tipo dell'azione immanente? - non penetrano fino al centro intimo della personalità, non l'affettano: sono della natura (spirituale) piuttosto che della persona, dell'Io. (...) In quanto conoscente, il soggetto non è valorizzato dal suo oggetto: è lui, invece, che lo valorizza. Conoscere il bello non rende belli, conoscere il bene non rende buoni".
"I valori finora considerati possono essere chiamati "valori naturali", quanto concernono la natura (sensibile o spirituale) del soggetto, non il soggetto stesso come tale".
Eccoci finalmente al valore morale, che, sempre secondo il De Finance,
"affetta il soggetto in quel che ha di più "suo": nell'esercizio della sua libertà. (...) Esso concerne l'azione umana stessa - e non solamente né direttamente l'opera che ne è il frutto - in quanto tale azione procede dalla volontà libera. E' esso che misura veramente il valore della persona umana".
Il valore morale è il metro di giudizio dell'uomo e della sua azione libera, è il valore supremo cui la libera volontà può conformarsi.
Ma per quale motivo abbiamo scelto questa scala di valori e non un'altra? Perché abbiamo messo il valore morale ad un livello più alto, ad un gradino più degno dell'uomo di quanto lo siano invece i valori infraumani o i valori umani inframorali? Un motivo l'abbiamo sicuramente già detto: parlare di valore è possibile solo per un soggetto spirituale, e ciò che concerne il soggetto spirituale, ciò che è più suo, è la libertà, la volontà libera, da cui scaturiscono atti morali.
Sempre su questa linea, notiamo ora come tutto ciò, chiaro a livello teorico, lo sia anche a livello di esperienza fenomenologicamente mostrabile. Questo dato corrisponde all'esperienza comune che ogni uomo fa nel suo intimo, corrisponde alla coscienza comune il fatto che il valore morale sia il valore più alto, quello più desiderabile. Ciò non è dimostrabile, ma è solamente mostrabile:
"Non si dimostra un dato di coscienza: tutto ciò che si può fare è orientare opportunamente l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore per renderlo capace di percepire da sé il dato in questione, in tal caso il valore morale".
Il De Finance indica a questo proposito tre tipi di "argomenti", tre livelli fenomenologici riguardo al giudizio morale:
"Nel primo il soggetto e l'oggetto del giudizio sono al di fuori di noi; nel secondo, l'oggetto è ancora al di fuori, ma il soggetto siamo noi stessi; nel terzo, soggetto e oggetto sono in noi, siamo noi".
Nel primo "argomento" l'autore nota come sia un dato incontestabile
"nella società umana, la presenza di giudizi di valore riguardanti le azioni degli individui. Di queste, talune arrecano ai loro autori approvazione, elogi, ricompense, altre invece attirano su di loro rimproveri, biasimi, castigo; altre infine restano apparentemente senza significato assiologico, indifferenti".
Certi atti vengono riconosciuti come buoni, altri come cattivi, e ciò avviene in ogni popolo, razza e cultura, pur essendoci differenze sul cosa sia effettivamente considerato buono o cattivo.
Tali giudizi di valore sulla persona non si riferiscono a qualità o difetti naturali, ma
"al fatto di avere o non avere agito come si "doveva", secondo le norme di valore ricevuto".
Ancora, tale giudizio non riguarda persone che non sono capaci di intendere e di volere, come i malati di mente: se ad esempio uno di essi compie un'azione che va contro la dignità di una persona, come una violenza, li si scusa dicendo: "non è colpa loro". Tale ragionamento certo non si porta nei riguardi di chi invece può e deve rispondere delle proprie azioni. Un atto buono viene considerato come meritorio, un atto cattivo come degno di punizione.
"Questi giudizi di valore (...) manifestano, sembra, il fatto che noi percepiamo, e riconosciamo in tali azioni e nel loro soggetto, reale o fittizio, un valore che sveglia in noi un interesse e che da noi esige un omaggio a cui i valori naturali non possono aspirare. Esso infatti non concerne semplicemente dei fini particolari, utilitaristici (...); esso concerne l'uomo in quanto uomo; lo affetta secondo che egli faccia o non faccia ciò che si attende da un uomo; costituisce la misura più decisiva della sua umanizzazione".
Nel secondo "argomento" il De Finance comincia a "scendere nell'intimo": non solo esistono giudizi morali come dato di fatto della realtà umana, ma spesso ne facciamo esperienza in noi stessi.
Quando per esempio riconosciamo che un nostro nemico ha rischiato la vita per salvare un suo mortale nemico: nonostante sia nostro nemico, non possiamo non riconoscere che egli ha fatto qualcosa di lodabile, e ciò senza alcun calcolo da parte nostra; nuovamente, tale azione non sarebbe altrettanto da lodare se fosse compiuta sotto costrizione fisica o psichica irresistibile.
Finalmente, nel terzo argomento, sia il soggetto che l'oggetto dell'atto sono dentro di noi: noi giudichiamo noi stessi. L'esempio del De Finance è molto attuale: se, di fronte ad un concorso, ci piegassimo alla tentazione di vincerlo con frode, ad esempio procurandoci i temi in anticipo, e riuscissimo effettivamente a vincerlo, non potremmo non pensare: "ciò non è bene":
"Ciò che sentiamo o piuttosto ciò che comprendiamo, è che, frodando, ci diminuiremmo, discenderemmo, secondo un ordine di valori senza confronto con gli altri (ad esempio, con l'ordine dei valori economici), saremmo degni di biasimo, degni di punizione: e ciò è tutt'altra cosa che essere semplicemente in pericolo di biasimo o di punizione, tutt'altra cosa quindi e incomparabilmente più grave che essere effettivamente puniti".
Se, al contrario, rifiutassimo la frode,
"comprenderemo che, mediante la nostra lealtà, la nostra esistenza guadagna in pienezza e si eleva ad un livello superiore; siamo più uomini, più conformi alla verità della nostra essenza, in una parola più noi stessi".
Ancora, il nostro autore tematizza l'esperienza del pentimento, in cui si riconosce una colpa liberamente commessa, e la indica come un caso in cui il valore morale si presenta con particolare forza; distingue tre elementi:
"1. E' fatto e non posso farci niente. (...)
2. Sono io che l'ho fatto. (...)
3. Ho fatto male, ho fatto quel che non avrei dovuto fare, ho meritato biasimo, ecc., un biasimo che colpisce me stesso, secondo il mio centro personale, secondo la mia ipseità, non secondo una determinazione esteriore (come accade per una goffaggine o per una "gaffe"). Mi sento giudicato da me stesso o piuttosto dall'ideale che porto in me ma che non dipende da me. E nuovamente, non posso farci niente".
Eccoci quindi arrivati con chiarezza al centro della "personificazione della persona".
Essere persona richiama l'idea di spiritualità, e quindi di trascendenza, e quindi di libertà in vista di una realizzazione ancora da attingere. L'uomo attinge tale perfezione e rimane fedele a se stesso nel suo essere un "animale etico". Il fatto che l'uomo sia in grado di discernere il bene e il male, di volerlo attuare, di sceglierlo effettivamente e praticarlo, il tutto con atto libero e responsabile, ciò fa sì che sia fedele a se stesso. E tale compimento non è impossibile ad alcuno.
Se dunque il valore morale ha un aspetto assoluto, incondizionato e categorico, è perché concerne l'uomo nell'esercizio della sua libertà e, precisiamolo, della sua libertà in quanto libertà, non della sua libertà in quanto capacità tecnica".
A livello di mentalità e linguaggio della gente comune, tale convinzione si esprime a livello atematico in frasi del tipo: "Quel ragazzo è proprio una bestia! Ha ucciso i suoi genitori!", che esprimono la convinzione che un uomo può abbruttirsi e quasi perdere il suo volto di uomo attraverso opere cattive; nessuno, invece, si sognerebbe di dire che un uomo è meno uomo perché è povero, o ignorante, o sofferente.
Mentre i valori infraumani e quelli umani inframorali rendono l'uomo buono "secundum quid", secondo un aspetto particolare, quelli morali perfezionano la persona "secundum se totum" o "simpliciter", nella sua totalità.
Essere un buon medico è diverso dall'essere un medico buono; nel primo caso il medico è ineccepibile nell'esercizio della sua professione, nel secondo caso, alla competenza medica, senz'altro richiesta, si aggiunge una bontà e perfezione che riguarda la persona nella sua profondità. Quando diciamo di una persona: "Come pattina bene! Come canta bene! Come dipinge bene!", non ci riferiamo certo ad una sua perfezione sic et simpliciter, ma ad una particolare attività sportiva o artistica; un pessimo pittore, il peggior pattinatore, il cantante più stonato può invece, attraverso la sua moralità, essere un uomo perfetto secondo la totalità del suo essere e della sua natura.
La finalità del giudizio morale è dunque la costruzione della persona in quanto dotata di libertà e responsabilità.
TERZO CAPITOLO
IL GIUDIZIO MORALE E' OPERA DELLA RAGIONE PRATICA
Dopo aver precisato l'importanza che la situazione riveste per la persona che giudica moralmente, e dopo aver visto che tramite il giudizio morale la persona si fa mantenendosi fedele a se stessa, ci chiediamo ora: con quale strumento la persona in situazione giudica moralmente? Da dove deriva per la persona l'esigenza di assecondare il giudizio morale?
Il giudizio morale è il giudizio che distingue il bene e il male, ciò che va fatto e ciò che va evitato. Ora in quanto giudizio fa appello alla facoltà che nell'uomo ha proprio il compito di giudicare: la ragione.
Se il determinarsi dell'uomo attraverso il giudizio morale avviene nella libertà, tuttavia
"la libertà "ha la sua radice nella ragione" [S. Tommaso, De Ver., 24, 2]; non si esercita che nella luce; suppone una presa dei valori. Altrimenti, non avrebbe niente di umano; sarebbe insignificante, senza valore (...); essa dipenderebbe dall'irrazionale, dal caso; la si dovrebbe attribuire all'imperfezione dell'essere materiale. Come situare in questa pura contingenza la fonte dei valori?".
Se allora la libertà è sottoposta alla ragione, è la ragione la facoltà che giudica del valore morale.
Ma quale ragione?
3.1 Ragione speculativa e ragione pratica
Tralasciando la distinzione che fa S. Tommaso tra ragione ed intelletto, e tra ragione superiore e ragione inferiore, si possono distinguere due tipi di ragione a seconda dell'ambito della realtà cui ineriscono: la ragione speculativa e la ragione pratica.
La ragione speculativa riguarda il settore dell'essere, e si esprime attraverso la scienza, che studia la natura, e la sapienza, che studia la metafisica.
La ragione pratica riguarda invece il settore dell'agire, concerne l'attività umana.
"L'ambito della ragione pratica viene ulteriormente suddiviso in due grandi aree: quello della produzione di cose o strumenti e quello della formazione di se stessi. La prima è l'area dei factibilia e appartiene all'arte; la seconda è l'area degli agibilia e appartiene alla morale".
Il giudizio morale non è allora opera della ragione speculativa, che contempla speculativamente la natura, ma della ragione pratica, che giudica e anche costituisce il valore morale. La ragione pratica non incontra una verità cui conformarsi speculativamente, ma una verità pratica, una verità che obbliga e che va posta.
3.2 Kant e La critica alla ragione pura
Dopo tali riflessioni il riferimento a Kant è obbligato.
Egli infatti ha dedicato alla ragione speculativa e pratica ben due libri, Critica alla ragione pura e Critica alla ragione pratica.
Il primo ci interessa poco, in quanto abbiamo già notato come il giudizio morale sia opera della ragione pratica; tuttavia un accenno ad esso può rivelarsi utile. Quest'opera inerisce alla prima delle famose tre domande di Kant: che cosa posso conoscere? Tale domanda è di ordine speculativo. Kant risponde a questa domanda affermando che per l'uomo è impossibile una conoscenza speculativa pura che non parta da presupposti soggettivi; egli ritiene impossibile conoscere la cosa in sé, non invece ciò che la cosa è per me. Egli opera così la celebre "rivoluzione copernicana":
"Come Copernico aveva capovolto l'astronomia del suo tempo suggerendo che è la terra che gira intorno al sole e non il contrario, Kant vuole capovolgere la teoria della conoscenza fondando l'oggettività della scienza non sulle proprietà delle cose conosciute, ma sulla struttura del soggetto conoscente".
Egli fonda così tutta la conoscenza speculativa su un apriori universale e necessario del soggetto che conosce. Per Kant tale conoscenza può riferirsi solo agli oggetti sensibili: metafisica e conoscenza di Dio sono impossibili.
"In altre parole, solo la ragione "impura", se così si può dire, cioè la ragione legata con l'esperienza, quella scientifica, produce un'autentica conoscenza".
"Invece con la ragione pratica oppure morale succede il contrario. Qui solo la ragione pura, non legata con l'esperienza, è realmente morale e quindi veramente pratica".
Il motivo adotto da Kant è il seguente: una norma pratica parla all'imperativo: dice ciò che deve essere.
"Ora una norma morale, un'esigenza etica non sono mai, come tali, un fatto dato a posteriori, ma un ideale che si impone a priori. Una morale fondata sull'esperienza sarà una contraddizione. (...) Se quindi la ragione pratica non fosse pura, farebbe irruzione nell'agire morale il dominio corrotto della sensibilità egoista. (...) Agisce moralmente bene solo colui che agisce nell'unico interesse della ragione, senza nessuna motivazione sensibile, solo per obbedire alla ragione pura".
La sensibilità, che spesso va al passo con l'egoismo, abbraccia il singolare, impedendo di conformarsi all'assolutezza della ragione. Agisce bene solo chi obbedisce alla ragione pura, facoltà dell'assoluto.
Kant situa la bontà dell'atto non nella conformità della ragione e dell'atto ad un oggetto buono, ma nella sola buona volontà, nell'agire conformemente al dovere perché è dovere; morale non è l'azione buona in sé, ma quella compiuta per puro rispetto della legge. Da ciò il famoso imperativo categorico: "Tu devi in tutte le circostanze compiere il tuo dovere per il dovere", che è in noi il primo dato della ragione pratica.
"In questa prospettiva il dovere si comprende come l'espressione della distanza, all'interno della persona stessa, tra la ragione pratica universale e la mia libertà particolare. (...) Essa comanda in modo imperativo alla volontà empirica: "Apriti all'universalità della ragione in te". Il grande successo di Kant è stato di mostrare in modo molto adeguato come questa voce della ragione è in noi insieme trascendente e intima. E' trascendente perché è la voce della ragione che supera nella sua universalità la singolarità dell'io. E' intima perché non è la voce di una legge estranea, ma l'espressione di ciò che ci costituisce specificamente, l'espressione della nostra essenza, cioè della ragione".
Ma per Kant il contenuto dell'imperativo categorico resta assente; egli svuota la morale di ogni contenuto; l'unico comandamento della ragione pratica pura è agire in modo razionale, e cioè aperto all'assoluto: "Agisci secondo una massima tale da poter volere nello stesso tempo che essa divenga una legge universale"; questo criterio, applicato al singolo giudizio morale, lo rende moralmente buono, indipendentemente da ogni suo contenuto concreto.
Quello di Kant è un formalismo etico della ragione pura pratica. Anche nella seconda formulazione dell'imperativo categorico: "Agisci in maniera tale da trattare l'umanità, nella tua persona e in quella altrui, sempre anche come fine e mai solo come mezzo",
"il formalismo della ragione pura pratica non viene superato, perché la persona non si prende qui in considerazione che nella misura in cui essa è la sede della ragione, il luogo fenomenico della sua manifestazione. (...) L'individuo non vale che per la ragione che lo abita. Come dice Kant: "L'autonomia (della ragione) è dunque il fondamento della dignità della natura umana e di ogni natura razionale"".
Ma questo formalismo puro ha in sé una contraddizione: mentre vuole astrarre totalmente dai contenuti, di fatto si richiama ad essi nel determinare il valore etico dell'azione:
"Come osserva Hegel, nel caso dell'esempio della restituzione di un deposito, che Kant giustifica in base al principio dell'universalità, non c'è una vera inconvenienza nel caso che la nozione della proprietà privata perdesse il suo senso. Infatti si può pensare un sistema sociale in cui non c'è proprietà privata; considerazione che ha portato i suoi frutti in Marx. Se dunque, conclude Hegel, Kant si ferma davanti alla massima che universalizza la non restituzione di un deposito, è perché presuppone che la nozione di proprietà privata debba avere un senso. Così introduce surrettiziamente un contenuto empirico all'interno della sua morale formale".
Di fatto l'universalità assunta come criterio di giudizio morale trae la forza da un dato dell'esperienza, da un giudizio non puro, da un contenuto morale assegnato alla situazione oggettiva presa in esame.
Allora il formalismo kantiano puro, sebbene molte sue esigenze siano da lodare (stima della buona volontà, della legge e del dovere, disinteresse nella morale, esigenza interiore dell'obbligazione morale, grande attenzione al valore della persona), non è sufficiente per fondare il contenuto concreto dell'obbligo morale:
"Per fondare un obbligo concreto la ragione pratica deve rinunciare alla sua purezza e aprirsi alla struttura del reale e agli insegnamenti dell'esperienza. Ma aprirsi all'essere significa per la ragione pratica abbandonare il suo formalismo e accogliere una dimensione propriamente ontologica o metafisica. Ecco perché, per superare il formalismo kantiano, è necessario che la morale si fondi sulla metafisica. In altre parole, la ragione pratica non sarà concretamente pratica se la ragione pura non diventa ragione retta, cioè ragione aggiustata sulle esigenze oggettive dell'essere di cui promulga la portata morale tramite il suo giudizio".
Il giudizio morale è formulato dalla ragione pratica, che riconosce nell'atto umano la conformità dell'atto alla ragione.
Ma tale giudizio non è formulato da una ragione pratica qualunque, ma dalla ragione pratica retta. Che cos'è la retta ragione.
I tomisti la definiscono come "la ragione informata dalla legge divina e dalla legge naturale". Ma chi mi assicura che la legge naturale e la legge divina abbiano un valore? Certamente la legge divina trae la sua autorità da chi l'ha formulata; ma la legge naturale? Sicuramente si deduce dalle inclinazioni stesse della natura, ma è sempre la ragione che le riconosce e conferisce loro un valore morale. La retta ragione è allora la ragione esercitata nella fedeltà a se stessa:
"La rettitudine della ragione non è definibile o conoscibile per comparazione con una regola esteriore: la sua regola è nella ragione stessa. La retta ragione è la ragione fedele alla sua essenza e a ciò che chiameremo il suo Ideale, la ragione esercitantesi razionalmente, secondo la sua propria legge, anziché subordinarsi a una legge estranea, alienarsi seguendo, ad esempio, la legge dei sensi".
Siamo dunque ben lontani dal togliere valore alla persona e alla dignità della sua scelta morale esercitata secondo la retta ragione, ragione fedele a se stessa; il valore morale è riconosciuto dalla retta ragione, addirittura è costituito tale da essa. La ragione tuttavia può riconoscere come conveniente e come realizzante la persona nella fedeltà a se stessa un certo atto, senza che ci sia ancora valore morale.
"Questo non si mostra che là dove appaia "assolutamente conveniente" agire secondo tale convenienza naturale. Il carattere proprio del valore morale è infatti l'assoluto. Ma, è alla ragione che spetta proclamare tale convenienza assoluta; ed essa la proclama riconoscendo tale convenienza come convenientele in quanto è facoltà dell'assoluto; e riconosce questa seconda convenienza nell'esercizio stesso della sua attività giudicativa, per la quale e nella quale essa si afferma come facoltà dell'assoluto".
Tuttavia la ragione retta non parte dal nulla nel giudicare come conveniente a se stessa un certo atto; il riferimento alla natura resta, ma alla natura in quanto natura che si determina razionalmente.
Sia la ragione speculativa, sia quella pratica, nel loro giudizio non partono da zero, ma si conformano ad alcuni principi primi cui fanno costante riferimento per non cadere in contraddizione.
"La ragione giudica sempre secondo certe norme. Nel giudizio speculativo tali norme saranno, da una parte i principi razionali (identità, non contraddizione, ragion sufficiente, ecc.), da un'altra parte - se si tratta di verità di fatto -, l'esperienza.
Quando si tratta di giudizi assiologici e pratici, la norma sarà in una certa convenienza dell'oggetto con le tendenze, con i fini, con l'orientamento intrinseco del soggetto".
Tale orientamento della natura sarà sempre comunque riconosciuto dalla ragione in quanto facoltà dell'assoluto che si conforma a se stessa e al suo ideale, valore che vale assolutamente; al di fuori del giudizio della ragione pratica retta non si dà valore morale.
QUARTO CAPITOLO
ESAME DEL RAPPORTO LIBERTA'-VERITA'
Dal secondo capitolo è emerso che una caratteristica peculiare della persona è la libertà, attraverso la quale essa si autodetermina continuamente.
Nel pensiero e nella cultura attuale la libertà è tenuta in grande conto: passati come siamo da forme di governo assolutistiche a forme democratiche, e da un sapere a volte dogmatistico, fondato su certe verità incontestabili, a una libertà di pensiero e di azione inimmaginabili fino a qualche tempo fa, la libertà è diventata un valore veramente fondamentale.
Ma tali conquiste, che per certi versi sono una ricchezza insostituibile per l'umanità, per altri versi hanno determinato un impoverimento ed un pericolo per l'uomo stesso.
In nome della libertà finalmente raggiunta in molti campi, l'uomo ha voluto affrancarsi da qualsiasi riferimento oggettivo.
La cultura attuale concepisce spesso in termini antitetici il rapporto tra libertà e verità. Pare non esista più una verità oggettiva cui tutti devono sottomettersi; la dignità della persona libera spesso viene concepita come un non sottomettersi a nessuna verità, vista e intesa come imposizione e limitazione della libertà stessa.
La democrazia, sicuramente positiva in quanto spinge tutti a una maggiore partecipazione e coinvolgimento nella vita sociale e nelle scelte che determinano il bene comune, ha portato come conseguenza una mentalità il cui nome etico è il relativismo.
La verità molte volte non è più intesa come un qualcosa di dato cui l'uomo deve conformarsi, ma spesso è l'opinione della maggioranza in un certo momento; comunque io resto sempre libero di pensare ciò che voglio e di fare ciò che voglio. L'unico limite che si mette alla libertà è la libertà degli altri: la mia libertà si infrange sulla sponda della libertà degli altri, finisce dove inizia quella degli altri, non può andare contro alla libertà degli altri; al di fuori di questo limite non si vede perché qualcosa debba essere vietato: la mia dignità e la dignità della mia libertà non possono essere limitate da niente e da nessuno, purché io non faccia lo stesso nei confronti degli altri.
L'uomo d'oggi è rispettoso della libertà altrui e delle sue scelte libere, qualunque esse siano; ma in realtà dietro tale rispetto si cela a volte una forma di relativismo, la consapevolezza cioè che non esiste niente di assoluto che non possa essere messo in discussione.
Per esempio: un ragazzo può decidere di entrare in Seminario, può abbracciare i principi del marxismo e del materialismo, può gettarsi in esperienze quali lo spinello o il sesso libero e sfrenato, può passare le vacanze in Corsica o facendo servizio in mezzo agli handicappati: raramente troverà qualcuno che si sentirà di contestare tale scelta. Qualcuno forse gli chiederà il perché del suo comportamento o lo avviserà sulle possibili conseguenze; ma poi concluderà dicendo: in fondo sei tu che devi decidere, sei libero, hai il diritto di fare ciò che vuoi.
Non si sta qui dicendo che meglio sarebbe costringere tutti ad una certa vita ed ad un certo livello di vita morale, né che non si debba rispettare una scelta libera e ponderata di chicchessia, solo si vuole rilevare che oggi la libertà ha rotto l'alleanza con la verità, non è più concepita come libertà di fare il bene, ma come libertà di essere libera da tutto, di essere libera senza nessun condizionamento o limite esterno.
Frasi del tipo: è giusto, non è giusto; è vero, non è vero, vengono spesso bollate come dogmatiche, non sono più accettate dalla maggioranza delle persone, che non accettano ragionamenti assoluti neanche in campo morale.
Ad una qualsiasi affermazione ormai è quasi d'obbligo aggiungere "secondo me", "a mio parere", se non si vuole passare come degli inquisitori o dei dogmatici con i quali è impossibile discutere. Questo è spesso vero anche a livello morale: le mie azioni sono le mie, non ne devo rispondere di fronte a nessuno, sono libero di fare come più mi piace o ritengo giusto, sempre che ciò non abbia conseguenze negative per qualcuno.
4.2 L'etica della libertà: la libertà crea il valore
Già dicevamo delle intuizioni positive insite nell'esaltazione attuale della libertà: essa è infatti una caratteristica peculiare e imprescindibile dell'uomo; la libertà dell'uomo ne dice la sua dignità inalienabile. Mentre si possono possedere e si può disporre delle cose e degli animali, non altrettanto può essere detto dell'uomo, egli è un essere libero e nessuno può togliergli tale libertà mediante, ad esempio, la schiavitù, fisica o morale.
Mediante la libertà l'uomo ha in mano se stesso e nessuno può quindi pretendere di averlo in mano senza il suo consenso libero.
Se libertà significa quindi impossibilità di pretendere di possedere una persona, per la persona stessa libertà significa possibilità di autodeterminarsi. L'uomo, che ricerca la sua realizzazione nel tempo, ha di fronte a sé e alla sua volontà indefinite possibilità di scelta. Egli è aperto di fronte a tali possibilità e spetta proprio alla sua libera volontà il decidere di dirigersi verso un oggetto invece che verso un altro, attraverso il quale la persona desidera realizzarsi.
Riguardo alla moralità, rileviamo che la libertà ha un valore assolutamente incontestabile: non si parla di atto morale se non in riferimento alla libertà.
La libertà deve quindi avere un legame con la verità per avere un carattere morale? Non se ne deve piuttosto slegare?
"[La libertà,] che dice essenzialmente autodeterminazione, causa sui, potrebbe lasciarsi determinare dal di fuori? Per essa significherebbe rinnegarsi. E' sua prerogativa (e quella del soggetto spirituale) potere a suo piacimento rifiutarsi a qualsiasi valore oggettivo. Noi lo proviamo come una infinita potenza di negazione e di trascendenza su tutto il mondo degli oggetti. La sola determinazione che possa accettare è quella che si dà essa stessa".
In questo senso parrebbe allora la libertà l'unico, o quanto meno il più importante fattore che delinea il valore morale dell'atto umano. Infatti, una libertà che si lascia determinare da un qualcosa di esterno, non smette di essere vera libertà? Non cadiamo nel determinismo? Dopotutto non si scusa una persona se non ha agito liberamente, non importa se sotto l'influsso di agenti esteriori od interiori? Se la libertà deve sottomettersi alla verità, non ne diventa una schiava, non perde essa il suo carattere di libertà?
Tale posizione che esalta la libertà come fonte di moralità e creatrice di valore è stata teorizzata in modo particolarmente deciso nel nostro secolo da Jean Paul Sartre. Secondo il filosofo francese, l'uomo e la realtà umana sono radicalmente libertà; non c'è natura, soprattutto non c'è natura umana; la libertà ha il compito di determinare il corso della vita temporale dell'uomo, ma non in modo irrevocabile: tale scelta radicale può essere confermata da una scelta particolare, o essere revocata da un'altra scelta radicale, attraverso la quale l'uomo sceglie nuovamente il modo di esistere e i suoi valori. Per Sartre è importante raggiungere una situazione in cui la libertà è slegata da qualsiasi riferimento oggettivo, uno stato in cui
"la libertà si vuole come libertà, si considera essa stessa come valore, rifiutando di lasciarsi assorbire da qualsiasi valore oggettivo o trascendente. Ciò Sartre chiama anche "rinunciare allo spirito di serietà" (che crede, giustamente, a valori valenti in sé)".
L'etica della libertà (come la chiama il De Finance) che abbiamo tentato di delineare, vede nella libertà la fonte del valore morale, il suo costitutivo formale: il valore morale è costituito dall'esperienza libera della persona.
Ma ciò corrisponde ai dati fondamentali dell'esperienza morale della persona? Per vari motivi, che ora cercheremo di enunciare, parrebbe di no.
Innanzitutto la libertà richiama l'idea della responsabilità; attraverso la libertà la persona si autodetermina, ma è chiamata insieme a rispondere delle proprie azioni, proprio in quanto messe in atto a partire dalla sua libertà e non dal determinismo della natura. La persona è responsabile nel bene e nel male; è vero che solo a partire dalla libertà si può parlare di bene o di male: al di fuori di essa c'è solo il determinato, il prestabilito, l'istintuale. Ma è altrettanto vero che la persona libera è chiamata a responsabilità: e ciò significa che la libertà è preceduta da una norma, un valore che giudica di essa.
Si potrà obiettare che tale responsabilità è soltanto di fronte alla società, che, attraverso leggi positive, deve tutelare il bene comune e la libertà di tutti; tali leggi chiamano a responsabilità in quanto la tua libertà non può andare contro la libertà degli altri, ma ciò non costituirebbe ancora il valore morale vero e proprio.
Ma la responsabilità che l'uomo libero prova di fronte al valore è un'esperienza interiore che prescinde dalla legge dello Stato o della società in cui vive. E’ una responsabilità a lui interiore, che lo guida alla ricerca personale della stima di sé attraverso la scelta del bene. Tutto ciò costituisce l'esperienza della coscienza, esperienza assolutamente interiore e personale nella quale la persona si trova giudicata da se stessa. Di fronte alle ragioni della coscienza potrà trovare delle scuse, ma saprà comunque in grado di capire che tali scuse in realtà non lo scusano. Di fronte al valore morale, in un certo senso, non sono libero di ritenere che non abbia valore.
La libertà infatti trova il valore come un qualcosa cui deve conformarsi:
"Nell'esperienza morale, il valore si presenta come un dato assiologico che la libertà trova davanti a sé. Essa può realizzarlo o meno, ma non può cambiarne l'ordine interno, facendo che il bene sia male e che il male sia bene. Ma questo - senza cui l'esperienza morale non ha alcun senso - esclude che il valore morale sia posto dalla libertà".
La libera volontà non determina il valore morale, lo deve soltanto riconoscere in quanto conforme alla retta ragione pratica e quindi attuarlo.
Inoltre, il pensiero di Sartre riguardo la libertà è facilmente criticabile. Per il filosofo francese la libertà, attraverso le sue negazioni, intende affermare se stessa, esprimersi ed affermarsi come libertà. Ma la negatività ha senso solo se raffrontata ad una positività. Posso dire di no per dimostrare, a me stesso o agli altri, di essere libero, ma tale negazione
"non ha senso e prezzo se non quando la libertà si afferma come libertà per il Valore, libertà per l'Assoluto in vista del quale essa riserva se stessa... La libertà è così poco la fonte dei valore che non vale essa stessa se non nella misura in cui permette al soggetto di appropriarsi il valore aderendovi e realizzandolo. Il che richiede un ordine assiologico davanti al quale la libertà deve prendere posizione ponendolo per se stessa, ma senza costituirlo".
Nel precedente paragrafo, mostrando che la libertà non realizza il valore, ma lo trova davanti a sé come un qualcosa di già costituito, abbiamo voluto dimostrare che anche il relativismo morale più assoluto, che mette al di sopra di tutto la libertà e la sua possibilità di scegliere autonomamente, di fatto non può negare una verità cui la libertà si conforma perché la persona si autorealizzi.
Ma ciò non basta: il relativismo, infatti, concede solo una verità comunque personale, comunque libera; io posso, è anzi pienamente mio diritto che la mia libertà si conformi a ciò che io ritengo più giusto, alla mia verità, quindi. Ma ciò che il relativismo non accetterà mai è una verità che valga per tutti, un valore che tutte le libertà devono perseguire.
4.5 Difficoltà nel riconoscere una verità morale assoluta
Affermare che esiste un valore morale che tutti devono perseguire, è riconoscere che possono esistere leggi morali universali e immutabili.
Ciò non è accettato da tutti e spesso non per superficialità o desiderio di comodo, ma per obiezioni effettivamente oneste.
La storia ci insegna che comportamenti che oggi vengono ritenuti aberranti, come la schiavitù, l'uccisione sacrificale, la prostituzione sacra, la soppressione di bambini malformati, un tempo non solamente erano praticati senza rimorso, ma erano anzi giudicati come azioni convenienti e lodevoli. Non sono neanche mancati teologi che hanno tentato di giustificare come lecita la schiavitù.
La scoperta di popolazioni rimaste a un livello di civiltà praticamente primitivo e i loro relativi codici morali non ha fatto che rinsaldare l'opinione di chi fatica a trovare una norma morale assoluta: si pensa piuttosto che il contenuto della morale sia una convenzione sociale, un prodotto della cultura e della storia di un popolo, più che una serie di esigenze che derivano dalla natura umana.
Anche all'interno della nostra società e cultura le opinioni morali sono assai disparate, anche su questioni capitali come il rispetto della vita umana: per alcuni l'aborto è abominevole delitto, per altri è diritto inalienabile che scaturisce dalla libertà di autodeterminazione della donna. Così non pagare il biglietto dell'autobus o le tasse dello stato per alcuni è lecito, considerata la palese ingiustizia di certe tariffe o leggi fiscali; per altri l'onestà sempre e comunque è un valore irrinunciabile, anche quando è assolutamente controcorrente e può apparire perfino stupida.
Di fronte a questi fatti è lecito il sorgere di un dubbio: esiste veramente un'obbligazione morale e una legge che sia valida per tutti, che sia condivisibile da tutti, che si imponga per il suo splendore all'osservanza degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi?
Certamente le condizioni sociali e culturali pesano nella determinazione dei singoli precetti morali, per cui certe cose che un tempo erano ritenute immorali, oggi sono praticate senza nessun problema di coscienza, come ad esempio il prestito ad interesse.
D'altronde l'approfondimento della riflessione sulla dignità della persona ha portato a stigmatizzare certe pratiche come la schiavitù che un tempo erano accettate comunemente, ad esclusione di qualche spirito veramente illuminato e quasi "fuori dal suo tempo".
Ma allora è possibile parlare di qualche principio morale "atemporale", "astorico", "ageografico", che si imponga sempre e comunque?
4.6 Il primo principio morale: fare il bene, evitare il male
Prima di ogni norma morale particolare, prima di ogni valore e ideale cui conformarsi, presupposto di ogni esperienza morale, nel cuore di ogni uomo è inscritto un principio morale assolutamente incontrovertibile, che si impone nella sua evidenza a tutti gli uomini, la libertà dei quali non può assolutamente invertire.
""Il bene deve essere fatto; il male deve essere evitato". Esso è, per la ragione pratica, ciò che è, per la ragione speculativa, il principio di non contraddizione".
Nella nozione di bene, infatti, è insita l'esigenza dell'essere posto, nella nozione di male, l'esigenza di essere evitato. Il bene, per definizione, è ciò che va fatto, il male ciò che va evitato. Non è possibile invertire questo principio, pena il cadere in evidente contraddizione. Se il male per qualcuno va fatto, può significare o che non è in fondo considerato come male ma come bene, o che per quella persona non ha più senso parlare di bene o di male. Ma in questo caso non c'è più l'esperienza morale. Il rifiutare tale primo principio della ragione pratica significa sopprimere la moralità dell'uomo, ma ciò va contro l'esperienza stessa, che, come dicevamo nel quinto paragrafo del secondo capitolo, attesta l'esistenza di giudizi morali assoluti.
Tutti i principi morali, tutte le determinazioni singole, traggono la loro forza da questo principio primo ed in esso trovano la loro giustificazione. Se ad esempio si afferma che bisogna fare ciò che fa crescere la persona, è perché si presuppone che è bene fare ciò che fa crescere la persona, e quindi va fatto.
Il primo principio della ragione pratica è presente in tutte le popolazioni, anche culturalmente e geograficamente lontane da noi:
"L'etnologia ci ha mostrato all'opera, presso tutti i popoli e i gruppi umani, le categorie del bene e del male".
Se certi soggetti, malati psichicamente o no, non percepiscano la nozione stessa di bene o di male, ciò significa semplicemente che
"l'uomo, in taluni circostanze, spesso patologiche, sotto l'effetto di certe pressioni psichiche o sociali, ecc., può essere impedito di percepire riflessivamente le esigenze della ragione pratica o, più esattamente forse, di tematizzarle. Ciò non prova affatto che gli altri abbiano torto quando dicono di percepirle! Vediamo chiaramente che la ragione richiede una vita in accordo con il suo Ideale, che tale è il senso (direzione e significato contemporaneamente) della sua esistenza: ciò basta. Che altri non vedano non deve intaccare questa certezza come il fatto che non distinguere da parte di alcuni tra la Nona Sinfonia e un concerto di casseruole non intacca la nostra ammirazione per Beethoven".
Comunque non è il principio stesso che viene messo in questione da certi soggetti, ma semplicemente in essi non è presente la nozione stessa di bene e di male.
4.7 Il concetto di natura umana fonte di normatività.
La legge naturale
Dopo aver accertato l’esistenza del primo principio della ragione pratica, il problema della coniugazione tra libertà e verità non è ancora stato risolto. Il vero problema è ancora questo: è possibile parlare di determinazioni di questo primo principio che valgano per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo?
Se riteniamo possibile parlare di universalità e immutabilità di una norma morale, è perché pensiamo che tutte le persone, esistenti qui o là, ieri o domani, hanno qualcosa in comune, che chiamiamo natura umana. Esiste una natura umana, fonte di normatività per tutti?
Il concetto di natura umana e quello conseguente da esso di legge naturale oggi è molto contestato. Ad esempio, Sartre lo nega esplicitamente; per questo pensatore non c'è natura, soprattutto non c'è natura umana; è l'uomo stesso che, attraverso la libertà che opera una scelta radicale, peraltro sempre revocabile, sceglie di essere in un modo o nell'altro, sceglie certi valori o certi altri, sceglie quindi la sua natura.
E’ senz'altro vero che l'uomo si scopre libero, capace di autocoscienza e di trascendenza, capace di scelte le più opposte e contraddittorie. Ma nello stesso tempo l’uomo capisce che la sua libertà non è assoluta:
"[L’uomo] è "ciò che è". E' ogni cosa, ma non non importa come: precisamente alla maniera di un uomo. Egli è finito ed ha un corpo. La sua libertà è sempre "in situazione". Bisogna qui vedere un limite, un ostacolo che la libertà avrebbe il dovere di negare e di oltrepassare? No: tali limiti sono la condizione d'esercizio della libertà, la condizione di esistenza del soggetto. L'uomo non può volere essere una pura coscienza senza organismo e non di più un organismo senza coscienza. Né angelo né bestia. Pretendere di sorpassare i suoi limiti, ostentare d'essere ciò che non è, sarebbe per lui rinnegare la ragione".
L'uomo cioè è libero, ma già la sua libertà è un dato della sua natura, è insita nella sua natura: è della natura dell'uomo essere libero. E questa libertà dovrà sempre fare i conti con la sua limitatezza della natura. L’uomo aspira ad una liberazione totale, a mete infinite; aspira anche a non avere limiti, ma è impensabile che tutto ciò possa avvenire se non prescindendo dalla sua natura che è intrinsecamente limitata, creaturale; ma ciò non è pensabile; non è pensabile cioè che l'uomo possa in tutto e per tutto trascendersi; il corpo d'altra parte lo limita come esistente in un tempo e in uno spazio, e ciò non deve essere vissuto come frustrazione, essendo un dato della stessa natura.
L'uomo non è potenza passiva pura, materia prima, pura capacità di essere e di essere ad un modo o ad un altro; è invece potenza passiva mista; è potenza, ma a partire da un atto, da una perfezione, che è la sua natura, come la riscopre attuata in sé.
Quando si parla di natura dell'uomo, non si intende certo il solo aspetto biologico o fisico; la natura dell'uomo è sempre e comunque razionale, perché sta nella natura dell'uomo la razionalità, la spiritualità, la libertà, la trascendenza, anzi queste caratteristiche la specificano come tale. Queste proprietà della persona, che ne determinano la dignità, devono essere esercitate razionalmente, non possono cioè prescindere dalla natura tutta intera dell'uomo.
L'uomo riconosce di avere una natura razionale.
"La dignità eminente per la quale il soggetto ha coscienza di valere più dell'intero mondo degli oggetti, gli deriva da questa stessa natura, in cui egli riconosce l'immagine del suo Ideale. Nei suoi confronti, egli dunque non è moralmente libero. Deve soddisfarne le esigenze essenziali, rispettarne la gerarchia interna, non assoggettare la ragione al desiderio, lo spirito alla carne".
L'uomo che riconosce la sua ragione come aperta all'assoluto, sia dal punto di vista speculativo (Verità) che pratico (Ideale della ragione pratica), non può non comportarsi secondo la stessa ragione, non può non assecondarne le esigenze assolute. Come del resto non deve svilire e contraddire neanche le esigenze del proprio corpo, parte integrante di sé e della sua natura, purché siano subordinate alle "ragioni assolute" della ragione.
Ma tali esigenze che l'uomo scopre in sé a partire dalla sua natura, non può che rispettarle anche negli altri uomini, in cui riconosce la stessa natura razionale e corporea. L'odio e l'ingiustizia, che vogliono e attuano il male per un essere che ha la nostra stessa natura aperta all'Assoluto, saranno sempre e comunque un male. Bene sarà invece ciò che promuove l'uomo considerato nella sua natura razionale e corporea, sempre in subordine e al servizio dell'apertura all'Assoluto.
Infine, l'uomo ha dei doveri anche nei confronti di Dio, essendo egli la sorgente del suo essere e il suo fine ultimo: l'amore, il rispetto e l'obbedienza nei suoi confronti.
I tre ambiti di doveri che l’uomo scopre intimamente derivanti dalla propria natura sintetizzano tutta la sua vita morale:
"Così, mediante la sua struttura interna, mediante le sue relazioni con gli altri soggetti nei quali essa sussiste, mediante la sua profonda relazione con Dio, la natura umana ci fornisce il quadro generale dell'etica speciale, che ritorna alla distinzione tradizionale del catechismo: doveri verso se stessi, verso gli altri, verso Dio".
Queste tre classi di doveri sono il contenuto più generale della legge naturale, legge al servizio della verità dell'uomo e della sua natura globalmente intesa.
Tale contenuto fondamentale e generale della legge naturale lo si può veramente considerare universale e immutabile, in quanto verità discendente immediatamente dalla natura umana; le determinazione pratiche secondarie possono cambiare da tempo a tempo e da luogo a luogo, e diventare opinabili, tanto più quanto più ci si allontana dal nucleo. Il cambiamento può avvenire per ragioni oggettive, perché cambiano le circostanze, fra cui la cultura di un dato gruppo umano; oppure per ragioni soggettive, in quanto il soggetto ignora o sbaglia nella conoscenza della legge naturale, magari invincibilmente e incolpevolmente, o perché giudica ed opera sotto la spinta della passione.
4.8 La libertà senza la verità muore
Il relativismo morale attuale insegna che l'uomo si realizza come uomo se può fare tutto ciò che vuole. La scoperta di una natura umana che precede la libertà e che è la fonte e la norma del suo esercizio ci tranquillizza riguardo alle esigenze della verità: esse non sono alienanti, sono anzi le uniche che possono veramente liberare l'esercizio della libertà al servizio di un'autentica realizzazione della persona.
La persona è libera, ma non riguardo alla sua natura e al suo fine; se vuole esercitare la sua libertà a prescindere da questi due dati smette di essere una libertà veramente umana e rischia di impelagarsi nella ricerca di qualcosa che non potrà mai soddisfarla nella sua esigenza fondamentale, che è l'apertura all'Assoluto.
L'uomo può determinarsi altrimenti rispetto a questa apertura, ma rischierebbe di fare la fine di un uccello che decide di diventare pesce: chiamato a volare in alto, annegherebbe dopo pochi minuti.
Si può allora adesso comprendere perché senza la verità la libertà muoia e come la legge naturale sia l'alleanza tra la libertà e la verità.
4.9 Esiste un ruolo creativo della libertà?
Da come abbiamo descritto il rapporto tra verità e libertà, ci pare che quest'ultima non debba né possa sentirsi svilita nel suo esercizio se fa continuamente appello alla verità della natura umana.
Resta pur vero che è possibile ricuperare, "evangelizzandole" a dovere, alcune istanze ed intuizioni presenti nell'etica della libertà, che vede nella libertà la fonte del valore morale, e nel relativismo morale, che giudica impossibile l'esistenza di una norma morale oggettiva.
Riguardo alla prima corrente, possiamo ripetere ancora una volta che non c'è valore morale se non nel riferimento alla libertà del soggetto che liberamente lo sceglie nel tentativo di raggiungere la propria realizzazione. Inoltre si può anche parlare, entro certi limiti, di una creatività della libertà rispetto all'ordine morale:
"Nell'ordine morale non meno che nell'ordine estetico, c'è posto per invenzioni in cui si manifesta l'originalità degli individui. (...) I santi, in particolare i fondatori di ordine o di scuola spirituale, sono creatori di valori. Infine, qualunque siano le determinazioni assiologiche proposte all'uomo per guidare la sua azione, questa, nel suo esercizio concreto, apporta un valore proprio e differente dal valore considerato. C'è così una invenzione dei valori nell'uso della libertà. Come l'uomo non precisa il suo pensiero che attraverso la sua parola e mediante il contraccolpo della propria espressione, così egli non precisa la sua presa dei valori che mediante il contraccolpo della sua azione".
Nel relativismo, inoltre, grande è la stima per la persona singola con le sue esigenze e nelle circostanze particolari in cui si trova. Tutto ciò, portato all'estremo, s’avvicina e rischia di sconfinare con l'etica della situazione, di cui abbiamo già parlato.
Tuttavia, come abbiamo già rilevato nel primo capitolo, ciò può essere colto come l’istanza di non dimenticare la dignità della persona e della sua situazione; in questa ottica la fantasia della libertà ha nella situazione particolare, che esige dal soggetto una risposta adeguata, un'occasione particolare da sfruttare, per dimostrarsi al contempo fedele al valore e fedele all'oggi.
QUINTO CAPITOLO
I FATTORI DELLA MORALITA'
5.1 Determinazione del problema
Cercheremo in questo capitolo di analizzare il problema indicato con il nome classico di fontes moralitatis, che significa appunto fonti o fattori della moralità.
Con questo termine indichiamo l'insieme dei fattori che costituiscono il contenuto complessivo di un'azione morale e a partire dai quali è possibile determinare se la tale azione è moralmente buona o cattiva.
Tali fattori, su cui ritorneremo diffusamente, sono:
– l'oggetto a cui l'azione primariamente si indirizza, il suo termine intenzionale;
– la complessità delle circostanze in cui l'azione si inserisce;
– il fine, motivo o intenzione, per cui l'azione viene posta.
Il nostro intento sarà il cercare di determinare di quale fattore la moralità dell'atto e del soggetto è principalmente funzione.
Precisiamo subito che con l'espressione fonti della moralità non intendiamo le fonti ultime della moralità, che possiamo trovare nell'essere di Dio, nella sua volontà e nella legge naturale.
"Per cui "il finis operis", le circostanze e il movente si dovrebbero chiamare piuttosto e più esattamente "fonti immediate della moralità", giacché si tratta soltanto degli oggetti diretti del volere e dell'agire".
Il problema che vogliamo ora analizzare è molto attuale.
Oggigiorno, infatti, c'è la tendenza a tenere in grande considerazione, dal punto di vista morale, l'intenzione del soggetto che agisce. In nome di essa si è spesso pronti a giustificare il soggetto che agisce qualunque decisione esso abbia preso.
Molti sono oggi d'accordo sulla celebre affermazione il fine giustifica i mezzi: molto peso è dato alla persona singola e alla sua intenzione, per cui l'oggetto dell'atto passa in secondo piano rispetto ad essa.
Alcuni esempi molto delicati per i possibili risvolti possono chiarire l'attualità del problema:
"E' stato affermato per esempio che la masturbazione mediante la quale si mira ad ottenere lo sperma per l'esame medico, propriamente parlando non sia una masturbazione, bensì soltanto un'acquisizione di sperma; come pure che la diretta espulsione del feto provocata per salvare la madre non sia una diretta uccisione, bensì soltanto un intervento posto in atto per salvare una vita (la madre) (Ch. Curran [a cura di], Absolutes in moral theology?, Washington-Cleveland 1968, 11). Con ciò si viene a dire che il movente (...) cambia l'oggetto primo ed essenziale dell'atto (...), nel suo carattere fisico e morale. Oppure si asserisce che tale oggetto sia sempre in sé indifferente, e soltanto dal movente riceva la sua connotazione morale.
Quest'ultima asserzione è stata fatta esplicitamente in materia di prevenzione del concepimento: si è detto che essa è di per sé moralmente neutra o indifferente, e soltanto dalla motivazione addotta riceve la sua specificazione morale, a seconda che venga praticata per mero edonismo, o per attestazione di vero amore fra coniugi che per il momento o sempre non sono in grado di accollarsi la responsabilità di un figlio".
Il De Finance, riguardo ai criteri in base ai quali è determinata la moralità dell'atto, introduce anche un altro problema più generale e certo non meno importante:
"Ciò che qui è in causa non è tanto il troppo celebre detto: "Il fine giustifica i mezzi", ma piuttosto la maniera stessa di considerare la realtà morale, come si vedrà meglio più avanti. E l'interesse della questione non è semplicemente speculativo. In materia di educazione, ad esempio, la preponderanza data all'oggetto farà che ci si dedichi soprattutto alla correzione degli atti, il che comporta un certo pericolo di formalismo; al contrario, la preponderanza riconosciuta al fine porterà a considerare anzitutto le disposizioni interiori, tenendo però talvolta poco conto degli atti...".
Il problema è: l'oggetto buono cui l'azione si indirizza mi rende buono sic et simpliciter, o io per essere buono devo incontrare il bene come bene e quindi porlo? E in che misura l'oggetto cattivo mi rende cattivo?
A questo riguardo, avvertiamo la nostalgia di una soluzione equilibrata e serena, che tenga conto di tutti gli elementi in gioco e di tutte le possibili ripercussioni sia a livello pratico, sia a livello educativo.
5.3 Oggetto, circostanze e fine come elementi dell'atto umano
Un atto umano è composto da vari elementi.
Esso è composto da una volizione propriamente detta, un'intenzione che il soggetto ha, da cui l'atto ha origine, e da gesti posti sotto il comando della volizione.
Intenzione e gesto ricadono su un oggetto determinato che dà all'atto umano
"la sua struttura tipica e che si può definire in generale come un nuovo stato di cose, una nuova sistemazione della realtà fisica o sociale: ad esempio, il trasferimento di una certa somma di denaro dal mio portafogli a quello di un altro, o viceversa".
L'oggetto è il termine intenzionale della volizione e dell'azione umana, ciò che sta davanti alla volontà come materia o termine del suo atto.
Ad esempio, l'atto di leggere ha come oggetto esterno il libro, come oggetto interno la comprensione e l'assimilazione dei concetti contenuti nel libro stesso.
Essendo l'uomo uno spirito incarnato, un qualsiasi suo atto sarà sempre concreto, incarnato, inserito in tutta una cornice spaziale e temporale, in tutta una serie di determinazioni storiche che chiamiamo circostanze. Cicerone le indica con il celebre verso: Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando.
Richiamando ancora l'esempio della lettura, il lettore può essere uno studente o un lavoratore; il libro letto può essere un romanzo o un fumetto; può essere letto di giorno o di notte, in classe o in camera, per cinque minuti o per qualche ora, per svago o per poi ostentare la propria cultura.
Circostanza particolare e molto importante moralmente è relativa all'ultima esemplificazione. Essa risponde alla domanda cur?, ed indica l'intenzione,
"il fine soggettivamente intenzionato dall'agente (finis operantis)".
Questa circostanza particolare viene comunemente considerata come un'ulteriore fattore di moralità. E' una circostanza non oggettiva come le altre, legate oggettivamente all'oggetto, ma soggettiva, che si lega all'oggetto solo per sua volontà interiore; una riprova di questo fatto è che spesso essa è conosciuta solo dal soggetto in questione.
Ci riferiamo ancora una volta all'esempio di cui sopra:
"La lettura del libro e il piccolo successo di prestigio che il nostro ragazzo ne attende, non formano un blocco fenomenico e oggettivo, per la semplice ragione che tale successo non è dato hic et nunc e forse non lo sarà: il fine (il successo) non è presente che in intenzione, nel pensiero e nel volere. E' il soggetto solo che fa da tramite".
Ci vogliamo ora chiedere: in che modo questi tre fattori specificano moralmente l'atto e il soggetto? Quale ha più peso nella determinazione della sua moralità, il fine o l'oggetto? Quale peso hanno le circostanze?
5.4 Due punti di vista nel considerare e valutare l'atto umano
Parallelamente alla condizione dell'uomo che è spirito incarnato e quindi esprime la sua interiorità in atti esterni, così l'atto umano, pur essendo uno, può essere considerato sotto due punti di vista, privilegiando uno o l'altro aspetto: da un punto di vista "immanente", interiore, e da un punto di vista "esteriore".
L'atto umano infatti ha una genesi interiore: ha origine da una volizione libera del soggetto che si pone un fine, un'intenzione da raggiungere.
Susseguentemente alla volizione interiore, l'uomo mette in moto altre potenze che eseguono ciò che il volere comanda. Poco importa se tali atti delle potenze esecutive siano sempre a livello interiore (ad esempio meditare o concentrarsi) oppure a livello esteriore (ad esempio prendere un libro e iniziare a leggerlo): in ogni caso la radice dell'atto resta la volizione (atto elicito), gli altri atti ne sono una conseguenza (atti imperati).
L'atto umano si può quindi considerare nella sua intima genesi oppure dal lato in cui si iscrive nel mondo.
In ogni caso l'atto umano resta uno:
"L'atto "interno" e l'atto "esterno" non devono assolutamente essere considerati come atti in se stessi completi e collegati semplicemente dal di fuori. (...) E' la medesima azione umana che nasce dalla decisione intima del volere e si esprime attraverso i gesti del corpo. Ma tale azione può essere considerata a preferenza sia nella sua radice spirituale, sia nel suo compimento esteriore, nell'ambiente cosmico, storico e sociale".
Noteremo come questa distinzione influisce sulla valutazione della moralità dell'atto.
5.5 Oggetto fisico dell'atto e oggetto morale
Prima di cominciare l'analisi di come ognuno dei fattori influenzi la moralità dell'atto, operiamo ancora una distinzione tra oggetto fisico dell'atto e oggetto morale:
"Il primo è il nucleo dell'atto considerato nella sua realtà psicologica, economica, ecc.; il secondo è il nucleo dell'atto considerato nel suo valore etico, ossia è il primo elemento per cui l'atto fisico viene trasportato e reso capace di valutazione nel campo morale. L'oggetto fisico dell'atto di insultare il prossimo sarà parlare; l'oggetto morale è pronunciare ingiurie".
Richiamiamo l'esempio del De Finance sull'atto del dare una somma di denaro a qualcuno:
"Nell'ordine fisico, il semplice trasferimento di una somma di denaro dalla mia mano in quella di un altro è già un atto determinato la cui natura "fisica" non cambia secondo la condizione dei personaggi in questione o la provenienza del denaro, ecc. Considerato invece nell'ordine morale, l'atto così descritto resta ancora indeterminato, poiché, di per se stesso, non dice alcun rapporto speciale di convenienza o di opposizione con la retta ragione. Affinché tale rapporto appaia, sono indispensabili alcune precisazioni: il denaro che do è mio, colui al quale do si trova in un certo stato d'indigenza, infine non gli è dovuto a nessun titolo (neppure quello di necessità estrema). Mediante ciò l'atto acquista la sua specificazione morale completa: in questo caso quella di un atto di beneficenza gratuita".
Ciò che fisicamente sono circostanze (di chi è il denaro, a chi lo do, a quale titolo), moralmente entrano a far parte integrante dell'oggetto e lo specificano essenzialmente.
Ciò che a noi interessa ovviamente è l'oggetto morale dell'atto, non l’oggetto fisico.
5.6 Il ruolo specificatore dell'oggetto
L'oggetto è ciò che sta davanti alla volontà come materia o termine del suo atto. Se vediamo l'atto dal lato in cui esso si inscrive nel mondo, troviamo nell'oggetto prima fonte della moralità dell'atto stesso. Considerato oggettivamente e giuridicamente, l'atto è specificato prima di tutto dal suo oggetto.
Se l'oggetto è conforme alle esigenze della ragione pratica aperta all'Assoluto, sarà un atto moralmente buono, se ne è difforme, sarà un atto moralmente cattivo.
Ancora una volta un esempio del De Finance chiarisce questo concetto:
"Supponiamo che un uomo si appropri indebitamente del denaro altrui al solo fine di pagarsi abbondanti libagioni e che sia preso sul fatto. Egli non aveva mai rubato fino al allora e non ha compiuto il suo gesto se non a malincuore, ma lo si conosceva come un poco di buono. Ha poca importanza: nessuno penserà di perseguirlo per reato di ubriachezza, bensì come colpevole di furto".
Se l'atto è specificato primariamente dall'oggetto, a seconda della sua conformità con la ragione, esso è specificato anche dalle circostanze a seconda della loro conformità con la ragione.
Naturalmente non è detto che ogni circostanza entri in un rapporto di conformità con la ragione. Ci sono circostanze che moralmente non influiscono minimamente sulla moralità dell'atto; ad esempio, è indifferente che un guidatore investa una persona con una macchina della tale o talaltra marca. Invece,
"Tutte le volte che una circostanza riguarda uno speciale ordine della ragione, in senso favorevole o contrario, è necessario che essa determini la specie dell'atto morale, buono o cattivo che sia".
La circostanza può influire sulla determinazione morale dell'atto in diversi modi.
– La circostanza specifica la specie morale dell'atto come la specie rispetto al genere.
E' il caso, ad esempio, di un ladro che ruba un oggetto sacro: il furto va contro la ragione in quanto è contro le esigenze della giustizia; il fatto che l'oggetto rubato sia sacro, aggiunge al furto la determinazione di sacrilego; il furto resta atto immorale del genere furto, ma diventa furto di specie sacrilego.
– La circostanza aggiunge all'atto una determinazione morale diversa rispetto alla prima determinazione provenientegli dall'oggetto.
Se il nostro ladro ruba per ubriacarsi o per profanare l'oggetto sacro, il furto diventa anche atto d'intemperanza o sacrilegio; alla prima determinazione morale se ne aggiunge una ulteriore di genere diverso dalla prima.
– La circostanza modifica l'intensità del rapporto di conformità dell'atto con la retta ragione. In questo caso la circostanza aggrava od attenua la moralità proveniente dall'oggetto.
Rubare dieci milioni è più grave di rubarne uno. L'atto resta un furto, non muta né di specie né di genere, né si aggiunge un genere, semplicemente le esigenze della giustizia sono maggiormente contraddette. Stesso dicasi del caso contrario.
5.8 Il ruolo specificatore del fine riguardo all'atto interno
Nell'esempio che abbiamo portato nel precedente paragrafo riguardo al ladro che ruba per ubriacarsi o per profanare l'oggetto rubato, abbiamo considerato tali fini non come fini, ma come circostanze che aggiungono una determinazione morale all'atto. Questo perché abbiamo considerato l'atto dal lato in cui si inscrive nel mondo, nella realtà esterna, storica, sociale.
Se invece consideriamo l'atto dal punto di vista interno, nella sua intima genesi,
"vediamo l'oggetto cambiare di carattere e il suo dominio allargarsi considerevolmente. In rapporto alla pura soggettività del volere, tutto il resto - non solo l'oggetto dell'atto "esterno" con il suo seguito di circostanze oggettive, ma l'atto "esterno" stesso - costituisce una sorta di oggetto globale. E' tutto questo insieme, infatti, che è presentato al volere e che, direttamente o indirettamente, è intenzionato da esso. Ma l'oggetto globale comprende inoltre, e principalmente, il fine, poiché è esso che è intenzionato in primo luogo e per se stesso".
In questa prospettiva il fine stesso entra a far parte dell'oggetto, e quindi specifica anch'esso l'atto interno:
"In rapporto all'atto "interno" o meglio all'atto umano considerato nella sua radice soggettiva, il fine si comporta come un elemento oggettivo e gioca dunque un ruolo specificatore: è anch'esso che, per eccellenza, specifica. Nei riguardi dell'atto "interno", assolve, in un certo senso, la funzione che l'oggetto propriamente detto esercita nei riguardi dell'atto "esterno"".
L'atto interno è quindi specificato dal suo oggetto globale, e di questo oggetto fa parte anche il fine; quindi, anche e principalmente il fine specifica moralmente l'atto interno.
Ma non abbiamo ancora risposto alla domanda da cui eravamo partiti: l'atto umano è specificato principalmente dall'oggetto propriamente detto o dal fine, che a livello di atto interno diventa anch'esso oggetto?
5.9 Il ruolo dell'oggetto e del fine nella specificazione dell'atto
Per trovare una soluzione occorre considerare due casi distinti.
Nel primo caso l'oggetto è orientato verso il fine dell'agente: fine e oggetto sono sulla stessa linea, entrambi sono votati allo stesso bene, entrambi sono votati allo stesso male. In questo caso, afferma S. Tommaso, il fine specifica l'atto in modo generale, l'oggetto in modo particolare: il fine è il genere, l'oggetto determina l'atto come il genere:
"La differenza specifica desunta dal fine è più generale; mentre la differenza, desunta dall'oggetto ordinato per sé a codesto fine, è specifica in rapporto ad esso. Infatti la volontà, che ha per oggetto suo proprio il fine, è la causa movente universale rispetto a tutte le potenze dell'anima, i cui oggetti propri sono oggetto degli atti particolari".
Ma può anche darsi il caso che l'oggetto non sia orientato nella stessa direzione del fine: le due specificazione sono indipendenti e in contrapposizione. Gli esempi si potrebbero qui moltiplicare: un ladro che ruba per dare ai poveri, una bugia detta per celare una verità bruciante per l'interlocutore, una disobbedienza per aiutare un amico, una bustarella ricevuta per finanziare opere buone... In tutti questi casi, l'atto è specificato più profondamente dall'oggetto o dal fine?
Il De Finance, criticando i tomisti che danno più importanza all'oggetto che al fine, afferma:
"Se l'atto "interno", specificato dal fine, è come la forma dell'atto umano completo, non è dal fine che questo deve ricevere la sua più profonda qualificazione morale?".
Pare così che si debba dare più peso al fine che all'oggetto:
"Considerato nella sua intima genesi, l'atto dipende maggiormente dal fine, che mette in movimento il volere, ma, nel contempo, esso esprime e qualifica di più il soggetto. La percezione del fine è rivelatrice delle disposizioni profonde, degli habitus, del carattere, dell'attitudine innata del soggetto verso i valori e il Valore. Qualis est unusquisque, talis finis videtur ei. Così il ruolo del fine concerne meno la specificazione dell'atto che il suo valore morale e di conseguenza quello del soggetto; e ciò soprattutto quando si tratta del fine ultimo, del valore fondamentale la cui scelta da parte del soggetto condiziona l'attrazione dei fini particolari. In definitiva, non vi sono per l'uomo che due attitudini di fronte all'Ideale: l'apertura o la chiusura. E' da questa scelta radicale, più o meno presente in ogni scelta particolare, che dipende essenzialmente il valore morale del soggetto. La determinazione venuta dall'oggetto concerne piuttosto la specificazione dell'atto, il modo tipico della sua conformità o della sua opposizione con la retta ragione".
Da quanto detto nel precedente paragrafo sembrerebbe proprio di sì: se l'importante è l'intenzione, la disposizione profonda del soggetto di fronte all'Ideale, quando l'intenzione è buona, poco importa se i mezzi sono cattivi. Molte volte questo ragionamento è abbracciato dal contesto culturale attuale di relativismo e rispetto per la scelta del singolo.
Ma noi crediamo non sia condivisibile.
Già da un'analisi superficiale si comprende come questo ragionamento non regga, se vi applichiamo il procedimento logico della "reductio ad absurdum": se il fine giustifica i mezzi, allora l'uccisione di un innocente per un fine buono si potrebbe ritenere lecita. Questa conclusione, ovviamente, non è condivisa da nessuno, se non altro in nome della cosiddetta teoria "consequenzialista", di cui parleremo nel prossimo capitolo.
In realtà, il motivo per cui il fine non giustifica i mezzi è il seguente: il fine non è mai intenzionato dal soggetto in modo esclusivo, ma la sua volontà ricade anche sui mezzi per raggiungere il fine, sull'oggetto e sulle circostanze. L'intenzione che abbraccia mezzi disonesti e sa di farlo(nota: se vi è ignoranza ovviamente il problema si pone in termini diversi) non può considerarsi come intenzione buona, perché così facendo sa benissimo di esporsi alla violazione delle esigenze della ragione pratica:
"Se dunque i mezzi sono, di loro natura, contrari alla retta ragione, la volontà che accetta di usarli diventa infedele alla ragione e al suo Ideale, per quanto legittimo e santo possa essere in se stesso il fine. Questo è bensì la forma del "voluto" totale, ma non è tutto il "voluto" stesso".
Si comprende dunque come l'oggetto e le circostanze, in quanto volute, intenzionate dalla volontà del soggetto, ricadano nella determinazione della moralità dell'atto, non essendo mai un fine voluto a prescindere dai mezzi usati per raggiungere il fine stesso.
A livello educativo, dunque, l'attenzione dovrà essere posta sul fatto che il bene rende buono se intenzionato come bene e quindi grande peso dovrà essere dato alla formazione di buone intenzioni. D'altra parte, non dovrà dimenticarsi che la buona intenzione che però non sceglie come oggetto ciò che è buono non è in realtà una buona intenzione: il male rende cattivo comunque, se intenzionato essendo consapevoli della sua malizia, anche se per un fine buono.
Nessuno nega il principio contrario: un fine cattivo basta per rende cattivo un atto che in sé sarebbe buono.
Pienamente comprensibile è quindi il principio: Bonum ex integra causa, malum ex quocunque defectu: perché un atto sia buono occorre che ogni fattore che lo determina concorra al bene; se un solo fattore, oggetto, circostanza o fine, non vi concorre ed è ugualmente intenzionato dalla volontà, l'atto diventa cattivo.
SESTO CAPITOLO
L'ATTO MORALE NELLA VERITATIS SPLENDOR
6.1 L'enciclica Veritatis Splendor
Cercheremo in questo capitolo di esaminare l'enciclica di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor, relativamente al tema che abbiamo trattato in questo nostro studio, e cioè l'atto morale.
L'enciclica, la decima del pontificato di Giovanni Paolo II, pubblicata il 5 ottobre 1993, precisa già nel titolo il suo oggetto specifico: "Lettera Enciclica Veritatis splendor del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II a tutti i Vescovi della Chiesa Cattolica circa alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa". Essa non vuole quindi trattare per esteso tutta la morale speciale e nemmeno tutta la morale fondamentale, ma alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale che, secondo Giovanni Paolo II, necessitano oggi di un particolare discernimento, come afferma il sottotitolo del secondo e centrale capitolo dell'enciclica.
Destinatari diretti dello scritto sono i Vescovi della Chiesa cattolica, come appare dal titolo e dal saluto iniziale, ma attraverso la loro mediazione esso si rivolge a tutti i fedeli della Chiesa (n. 114), con lo scopo di condurli sulla via di Dio e del bene.
Inoltre vuole avere come interlocutori anche ogni uomo, tutti gli uomini, in quanto
"La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II" (n. 3).
E' proprio sotto questo punto di vista che leggeremo il quarto paragrafo del secondo capitolo dell'enciclica, intitolato "L'atto morale", che va dal numero 71 al numero 83.
Il nostro studio infatti non ha un interesse teologico morale, ma filosofico ed etico. Non guarderemo quindi l'enciclica come un testo di Magistero ecclesiale normativo per il nostro studio, ma cercheremo di cogliervi il pensiero riguardo al nostro tema, esponendo ed esaminando le argomentazioni razionali presenti in essa.
Grande stupore ci ha peraltro pervaso notando come molti temi ed intuizioni che abbiamo esposto nei precedenti capitoli, siano presenti anche nello scritto di Giovanni Paolo II. Motivo in più per proseguire con gioia il nostro studio.
6.2 Uno sguardo d'insieme all'enciclica e al secondo capitolo
Il secondo capitolo dell'enciclica ("Non conformatevi alla mentalità di questo mondo" [Rm 12,2] - La Chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna) è il più importante di essa.
Mentre il primo capitolo introduce il problema trattando della domanda morale dell'uomo e della risposta di Cristo, ed il terzo è relativo alla missione della Chiesa nel mondo riguardo al problema morale, il secondo si sofferma ad esaminare alcune questioni particolari dando ad esse una risposta che coglie gli elementi positivi insiti in alcune tendenze morali odierne, che però nel complesso misconoscono la verità dell'uomo e del suo dovere di risposta alla domanda morale che alberga nel suo cuore.
Il leitmotiv di tutto il secondo capitolo è il rapporto tra libertà e verità, che viene sviluppato in quattro ambiti particolari corrispondenti ai quattro paragrafi in cui è diviso.
"Il primo ambito è quello della legge naturale, che viene o "rifiutata" perché la libertà stessa si fa "sorgente dei valori", o "falsata" perché la legge naturale viene interpretata in modo riduttivo come se fosse una legge biologica, o "deformata" perché resa incompatibile con l'unicità e irripetibilità della persona (legge universale) e con la sua storia (legge immutabile).
Il secondo ambito è quello della coscienza, concepita come "decisione" - peraltro unica, insindacabile e infallibile - della singola persona in una data situazione di vita, che - si dice - non può essere compresa e quindi normata in tutti i suoi elementi da una legge universale valida per tutti. (...)
Un terzo ambito è dato dalla libertà che trova la sua espressione più radicale e forte nella scelta fondamentale - quella della fede e della carità -, per cui l'uomo decide di tutto se stesso davanti da Dio: ma si tratta pur sempre di una scelta non dissociata o avulsa dalle "scelte particolari" di comportamenti e atti determinati".
Non analizzeremo l'enciclica riguardo a questi tre temi, dei quali peraltro abbiamo trattato nei precedenti capitoli di questo nostro studio più o meno ampiamente.
Ci interesseremo invece più diffusamente del quarto ambito del rapporto tra libertà e verità, nel quale tale rapporto giunge al termine in un'attuazione concreta: l'ambito dell'atto morale.
6.3 La moralità, via alla vita che procede dalla verità dell'uomo
Al numero 83 dell'enciclica, ultimo numero del quarto paragrafo del secondo capitolo, intitolato "L'atto morale", leggiamo così:
"Nella questione della moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell'esistenza di atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne derivano" (n. 83).
In questa frase, posta quasi alla chiusura del capitolo è esposta chiaramente e sinteticamente la preoccupazione che ha portato il Papa a scrivere l'enciclica: è la preoccupazione di salvaguardare la verità stessa dell'uomo, che dipende particolarmente da come viene affrontata la questione della moralità e più in particolare degli atti morali.
Attraverso di essi infatti l'uomo attinge un volto ben preciso, un'identità spirituale precisa, che concerne anche l'orientamento della creatura al suo Creatore:
"E' proprio mediante i suoi atti che l'uomo si perfeziona come uomo, come uomo chiamato a cercare spontaneamente il suo Creatore e a giungere liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione.
Gli atti umani sono atti morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia dell'uomo stesso che compie quegli atti. Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate, qualificano moralmente la persona stessa che li compie e ne determinano la fisionomia spirituale profonda" (n. 71).
Attraverso gli atti morali l'uomo realizza o tradisce la sua umanità. Gli atti che compie lo qualificano nel profondo, in quanto esprimono se e quanto la sua libertà è in sintonia con il bene:
"La moralità degli atti è definita dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. (...) L'agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono conformi al vero bene dell'uomo ed esprimono così l'ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo trova la sua piena e perfetta felicità" (n. 72).
E' qui affermato un principio particolarmente importante, che fonda ancora una volta la possibilità del dialogo tra credenti e non credenti sull'argomento della moralità: essa è costituita dal rapporto tra la libertà dell'uomo con la sua stessa verità. D'altra parte, è nella verità più profonda dell'uomo l'essere ordinato e il tendere verso il fine ultimo, Dio stesso, sua piena e perfetta felicità; l'agire moralmente buono dell'uomo manifesta ed attua questo ordinamento.
L'enciclica espone poi quali siano le due vie classiche attraverso le quali l'uomo comprende ciò che è bene e ciò che è male: la ragione, fonte di conoscenza della legge naturale, e la rivelazione, fonte di conoscenza della legge divina; legge naturale e legge divina non sono contrapposte, ma sono entrambe partecipazione e via di conoscenza di come la Sapienza di Dio ordina ogni essere al suo fine:
"Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo (e così è "legge naturale"), quanto - in modo integrale e perfetto - attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata "legge divina")" (n. 72).
Si comprende allora perché il Papa definisca l'atto moralmente buono come l'unica
"via che conduce alla vita" (n. 72):
attraverso esso l'uomo acconsente al suo ordinamento creaturale al suo fine, e pertanto può raggiungere la "vita", intesa come pienezza di modo di essere conforme alla natura.
Il nostro scritto prosegue delineando il costitutivo della moralità:
"L'ordinazione razionale dell'atto umano al bene nella sua verità e il perseguimento volontario di questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità" (n. 72).
In queste tre righe, vero gioiello di sintesi, sono espresse molte cose: l'ordine della moralità è un ordine razionale: è la ragione che ordina l'atto umano al bene, è la ragione che conosce il bene; tale bene è conosciuto dalla ragione come conforme a verità, conforme alla verità stessa della ragione pratica, orientata al bene; perché vi sia l'atto umano ordinato al bene occorre poi che la volontà scelga e perseguisca il bene che la ragione ha conosciuto. Tutto ciò costituisce la moralità, via che conduce alla vita. Il concorso di tutti questi elementi qualifica come moralmente buono l'agire umano:
"L'agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l'ordinazione volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell'azione concreta con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione" (n. 72).
6.4 Il carattere teleologico della vita morale e le teorie etiche teleologiche
Dopo un excursus teologico in cui è affermato che gli atti morali aprono o chiudono alla vita eterna, l'enciclica recita:
"In questo senso la vita morale possiede un essenziale carattere "teleologico", perché consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo dell'uomo" (n. 73).
Questo carattere teleologico della vita morale consiste nel fatto che gli atti morali non rimangono chiusi nell'orizzonte limitato del tempo e delle aspirazioni singole, parziali e spesso strumentali ad un fine egoistico dell'uomo, ma sono in ogni caso ordinabili o meno al bene sommo dell'uomo, al suo fine ultimo, all'Ideale della ragione pratica, direbbe il De Finance, a Dio fine ultimo dell'uomo
Ma da cosa dipende questa ordinazione al fine ultimo? L'enciclica non ha dubbi e subito precisa che non è funzione solo dell'intenzione:
"Ma questa ordinazione al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale dell'uomo, tutelato dai comandamenti" (n. 73).
Passa poi ad esaminare certe tendenze culturali e teologiche che invece danno molto peso all'intenzione soggettiva e alle circostanze, meno all'oggetto dell'atto morale:
"Alcune teorie etiche, denominate "teleologiche", si presentano attente alla conformità degli atti umani con i fini perseguiti dall'agente e con i valori da lui intesi. I criteri per valutare la giustezza morale di un'azione sono ricavati dalla ponderazione dei beni non-morali o premorali da conseguire e dei rispettivi valori non-morali o premorali da rispettare. Per taluni il comportamento concreto sarebbe giusto, o sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre uno stato di cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il comportamento in grado di "massimizzare" i beni e di "minimizzare" i mali" (n. 74).
Tale corrente chiamata teleologismo può assumere due forme e chiamarsi consequenzialismo o proporzionalismo:
"Il primo pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del "più grande bene" o del "minor male" effettivamente possibili in una situazione particolare" (n. 75).
Alla base di queste teorie che svalutano l'oggetto sta una distinzione che riguarda l'oggetto stesso che viene considerato da due punti di vista: morale e premorale:
"Il soggetto che agisce sarebbe sì responsabile del raggiungimento dei valori perseguiti, ma secondo un duplice aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti in un atto umano sarebbero, per un aspetto, di ordine morale (in rapporto a valori propriamente morali, come l'amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, ecc.) e, per un altro aspetto, di ordine premorale, detto anche non-morale o fisico o ontico (in rapporto ai vantaggi o svantaggi recati sia a colui che agisce che ad altre persone, prima o poi coinvolte, come, ad esempio, la salute o la sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la morte, la perdita di beni materiali, ecc.)" (n. 75).
Questa distinzione ne introduce un'altra: un atto può essere giudicato dal punto di vista della bontà, riferendosi ai beni morali, e dal punto di vista della giustezza, riferendosi ai beni premorali:
"Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da qualificarsi come "giusti" o "sbagliati", senza che per questo sia possibile valutare come moralmente "buona" o "cattiva" la volontà della persona che li sceglie. In questo modo, un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma universale negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali, potrebbe essere qualificato come moralmente ammissibile, se l'intenzione del soggetto si concentra, secondo una "responsabile" ponderazione dei beni coinvolti nell'azione concreta, sul valore morale giudicato decisivo nella circostanza" (n. 75).
Sia l'etica della situazione, sia le teorie teleologiche rivalutano molto le circostanze e le intenzioni soggettive. Ma mentre l'etica della situazione negava l'esistenza stessa di una natura umana da cui dedurre imperativi validi sempre e comunque, nelle teorie teleologiche la distinzione tra l'ordine morale e l'ordine pre-morale non porta alle negazione assoluta di norme universali, ma afferma che il soggetto che responsabilmente valuta le conseguenze della sua azione, agisce bene e la sua volontà si può considerare come buona anche se abbraccia oggetti che violano beni pre-morali.
6.5 La specificazione dell'atto e del soggetto tramite l'oggetto
Dopo aver esposto tali teorie, l'enciclica passa ad una loro critica, in quanto non sono conformi alla dottrina della Chiesa, alla tradizione morale cattolica, alla Sacra Scrittura e neppure (ed è ciò che a noi interessa) alla ragione.
Mentre ancora esponeva il pensiero delle teorie teleologiche, l'enciclica già richiamava un principio fondamentale:
"la volontà è coinvolta nelle scelte concrete che essa opera: queste sono condizione della sua bontà morale e della sua ordinazione al fine ultimo della persona" (n. 75).
Ciò significa che la volontà non abbraccia soltanto le intenzioni e le conseguenze dell'azione che compie, ma anche l'oggetto concreto della stessa azione, che influisce quindi sulla sua bontà morale e sulla sua ordinazione al fine ultimo.
Nel paragrafo intitolato "L'oggetto dell'atto deliberato", il Pontefice, dopo aver dato atto alle teorie teleologiche dell'effettiva importanza dell'intenzione, richiamata anche da Cristo stesso nelle sue dispute con i farisei, e delle conseguenze, che devono sempre essere responsabilmente valutate, afferma però che esse non possono costituire gli unici fattori della moralità dell'atto:
"La considerazione di queste conseguenze - nonché delle intenzioni - non è sufficiente a valutare la qualità morale di una scelta concreta. (...) Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze dell'atto, che, se possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono però cambiarne la specie morale" (n. 77).
Eccoci dunque ad un punto capitale nell'analisi dell'atto umano compiuta dell'enciclica:
"La moralità dell'atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di San Tommaso. Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario" (n. 78).
Questo passaggio del ragionamento è estremamente delicato e condotto con un meraviglioso equilibrio tra il lato dell'oggetto quello del soggetto. La moralità dipende dall'oggetto, ma in quanto è ragionevolmente scelto dalla volontà. L'oggetto in quanto tale si può cogliere, ma solo dal punto di vista della persona che agisce. L'oggetto inerisce all'atto, ma in quanto è liberamente scelto dal volere. L'oggetto è conforme all'ordine oggettivo della ragione ed è quindi causa della bontà della volontà e ci perfeziona nel riconoscimento del bene ultimo.
Sempre su questo crinale tra oggetto e soggetto il Pontefice continua con luminosa chiarezza:
"Per oggetto di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del volere della persona che agisce" (n. 78).
L'oggetto che l'etica cristiana pone come fattore determinante nella valutazione dell'agire umano, non è quindi un qualcosa di solamente esteriore, un qualcosa che ricade soltanto sul mondo esteriore. E' invece l'oggetto assunto dalla volontà come il fine di una scelta libera, è l'oggetto che "informa" moralmente il volere della persona agente:
"L'etica cristiana, che privilegia l'attenzione all'oggetto morale, non rifiuta di considerare l'interiore "teleologia" dell'agire, in quanto volto a promuovere il vero bene della persona, ma riconosce che esso viene realmente perseguito solo quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana" (n. 78).
Detto ancora in altre parole: la volontà, quando sceglie come termine della sua azione un determinato atto, gioca se stessa in esso al punto tale da assumerne la connotazione morale, positiva o negativa. L'oggetto specifica l'atto proveniente dalla libera volontà, in quanto è assunto liberamente dalla stessa volontà come termine della sua azione.
"L'atto umano, buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile al fine ultimo" (n. 78).
Dopo aver risolto la questione riguardo alla specificazione dell'atto mediante l'oggetto dell'atto deliberato, l'Enciclica affronta il problema del male intrinseco.
Secondo le teorie teleologiche non si può parlare di male intrinseco prescindendo dall'intenzione dell'agente e dalle conseguenze prevedibili dell'atto.
Il punto di vista del Papa è diverso:
"L'elemento primario e decisivo per il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale ordinabilità viene colta dalla ragione nell'essere stesso dell'uomo, considerato nella sua verità integrale, dunque nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità che hanno sempre una dimensione spirituale: sono esattamente questi i contenuti della legge naturale (...).
Ora la ragione attesta che si danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come "non-ordinabili" a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli attiche, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati "intrinsecamente cattivi" (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze" (n. 79-80).
Il concetto chiave di questo discorso è l'"ordinabilità a Dio": il documento afferma che certi atti non sono mai ordinabili a Dio, non possono mai essere ordinati a Dio. Ciò significa che certi atti, essendo il loro oggetto in chiara contraddizione con la verità dell'uomo e le sue inclinazioni, dinamismi e finalità, non possono mai essere ordinati al bene, a Dio, non possono mai essere intenzionati al sommo bene. La volontà non può assumerli come suo oggetto e contemporaneamente pretendere di mantenersi buona, orientata al bene. Tali atti non possono mai essere intenzionati al bene, rivolti al bene, in quanto essi, già in partenza, vanno contro il bene e contro l'ordinamento della persona al suo fine ultimo, il sommo bene, Dio stesso.
Ancora una volta, in questo ragionamento, soggetto ed oggetto sono in un perfetto equilibrio; più peso è dato all'oggetto, ma all'oggetto non intenzionabile al bene dal soggetto.
Il Pontefice porta di seguito un lungo elenco di atti sempre intrinsecamente disonesti, mutuato dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, dalla Sacra Scrittura e da S. Agostino.
Riserva poi ancora una parola per l'intenzione e le circostanze, le quali
"non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto "soggettivamente" onesto o difendibile come scelta" (n. 81).
Precisa quindi come tutto il ragionamento fatto non costituisca un motivo di conflitto tra oggetto e intenzione, tra oggetto e soggetto, anzi sia il presupposto di una corretta valutazione dell'intenzione:
"L'intenzione è buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il suo oggetto è "non-ordinabile" a Dio e "indegno della persona umana", si oppongono sempre e in ogni caso a questo bene. In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce addirittura la sua espressione fondamentale" (n. 82).
Il misconoscere tutto ciò andrebbe a detrimento della fraternità umana, che si fonda sul comune riconoscimento di una natura e della necessità di rispettare sempre e comunque le sue più profonde esigenze, contenuto fondamentale della legge naturale:
"Senza questa determinazione razionale della moralità dell'agire umano, sarebbe impossibile affermare un "ordine morale oggettivo" e stabilire una qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, che obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della fraternità umana e della verità sul bene, e a detrimento altresì della comunione ecclesiale" (n. 82).
Siamo finalmente giunti alla fine della nostra analisi su alcuni elementi dell’atto morale utili per una sua valutazione.
E’ stato un viaggio per molti versi faticoso ed ostico, ma che ci ha confermato nella fiducia che sul terreno della moralità è veramente possibile un dialogo con tutti gli uomini di buona volontà, anche se non credenti.
Ogni uomo, infatti, ha a cuore che la sua dignità personale profonda non venga misconosciuta attraverso categorie odierne alienanti, come quelle dell’utile, del proficuo, dello strumentale.
Attraverso la scoperta della propria costituzione spirituale fatta di ragione aperta all’assoluto e di volontà libera in grado di anelare a questo assoluto, cui deve restare fedele nella situazione concreta, l’uomo percepisce come la natura abbia delle esigenze che sono da assecondare, esigenze che reclamano attenzione, da avere nei confronti di se stesso e degli altri soggetti spirituali.
Tali esigenze profonde della natura non possono essere mai negate, neppure in nome del più nobile ideale e della più nobile intenzione: che buona intenzione sarebbe, infatti, quella che volontariamente assume come fine ciò che è male in sé? Se la libertà contrasta la verità, perde di vista il suo obiettivo, che è quello di porsi al servizio della persona tutta intera, non delle sue intenzioni parziali.
Tutti questi concetti abbiamo ritrovato nell’enciclica Veritatis splendor, meraviglioso documento di Giovanni Paolo II, vero servizio alla causa dell’uomo, che è poi anche la causa di Dio. Il testo magisteriale concepisce la moralità e l’atto morale come tramiti verso la piena realizzazione di sé, in obbedienza alla volontà di Dio che si desume anche dall’ordine stesso delle cose create.
Il dramma dell’uomo resta uno solo: la miopia del cuore indurito che fatica a comprendere che la verità è al servizio della libertà, non ne è una limitazione. E anche quando lo comprende, forte resta la tentazione di asservirsi all’immediato dimenticando l’assoluto di cui è chiamato a partecipare.
Per questo l’uomo, per quanto rifletta e capisca quale sia il bene che deve compiere e il male che deve evitare, con la sola forza della ragione e della volontà non potrà mai attingere in pienezza alla perfezione cui tende.
Così l’uomo resta aperto allo splendore della verità che ci è comunicata dalla rivelazione cristiana: Dio viene incontro all’uomo perché l’uomo possa andare incontro a Dio.
Veramente Grazia e natura, fede e ragione, Chiesa e Mondo, spirito e materia, tutto proviene dallo stesso Principio, tutto porta il segno dello stesso Assoluto, tutto anela alla stessa Perfezione.
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Sommario
INTRODUZIONE
PRIMO CAPITOLO – IL GIUDIZIO MORALE E' DI UNA PERSONA CHE VIVE STORICAMENTE
1.1 L'agire morale nei manuali classici
1.2 La casistica
1.3 Necessità di un ripensamento
1.4 L'etica della situazione
1.5 La virtù della prudenza: virtù dell'uomo in situazione
SECONDO CAPITOLO – LA FUNZIONE DEL GIUDIZIO MORALE:
E' IN ORDINE AL FARSI DELLA PERSONA
2.1 La persona
2.2 Persona, libertà, responsabilità e moralità
2.3 Una domanda: in che modo la persona diventa ciò che è?
2.4 La gerarchia dei valori
2.5 Il giudizio morale e il valore morale
TERZO CAPITOLO – IL GIUDIZIO MORALE E' OPERA DELLA RAGIONE PRATICA
3.1 Ragione speculativa e ragione pratica
3.2 Kant e La critica alla ragione pura
3.3 Kant e la Critica alla ragione pratica
3.4 Insufficienza del formalismo puro di Kant
3.5 La ragione pratica retta
QUARTO CAPITOLO – ESAME DEL RAPPORTO LIBERTA'-VERITA'
4.1 Il relativismo morale
4.2 L'etica della libertà: la libertà crea il valore
4.3 Il compito della libertà: realizzare o meno il valore
4.4 A quale verità deve conformarsi la libertà?
4.5 Difficoltà nel riconoscere una verità morale assoluta
4.6 Il primo principio morale: fare il bene, evitare il male
4.7 Il concetto di natura umana fonte di normatività.
La legge naturale
4.8 La libertà senza la verità muore
4.9 Esiste un ruolo creativo della libertà?
QUINTO CAPITOLO – I FATTORI DELLA MORALITA'
5.1 Determinazione del problema
5.2 Attualità del problema
5.3 Oggetto, circostanze e fine come elementi dell'atto umano
5.4 Due punti di vista nel considerare e valutare l'atto umano
5.5 Oggetto fisico dell'atto e oggetto morale
5.6 Il ruolo specificatore dell'oggetto
5.7 Il ruolo specificatore delle circostanze
5.8 Il ruolo specificatore del fine riguardo all'atto interno
5.9 Il ruolo dell'oggetto e del fine nella specificazione dell'atto
5.10 Il fine giustifica i mezzi?
SESTO CAPITOLO – L'ATTO MORALE NELLA VERITATIS SPLENDOR
6.1 L'enciclica Veritatis Splendor
6.2 Uno sguardo d'insieme all'enciclica e al secondo capitolo
6.3 La moralità, via alla vita che procede dalla verità dell'uomo
6.4 Il carattere teleologico della vita morale e le teorie etiche teleologiche
6.5 La specificazione dell'atto e del soggetto tramite l'oggetto
6.6 La questione del male intrinseco
Conclusione
Bibliografia