RIPARTIAMO DA DIO!
DOPO LA SOSTA DEL SINODO
anno pastorale 1995-96
18 giugno 1995, domenica del Corpus Domini: processione sui Navigli. Sto tenendo fra le mani l’ostensorio con il pane consacrato che è il Signore Gesù morto e risorto per noi e moltissima gente adora il Signore con me. Si concentrano in quest’ostia i ricordi dell’anno, la conclusione del Sinodo, le memorie di quindici anni di episcopato a servizio di questo popolo. Contemplo il Signore e mi prende come un brivido di spavento per la sua inermità. È qui osannato da tanta gente, eppure è debole e tutto si lascia fare dalle nostre mani. Potremmo fare di Lui qualunque cosa e non reagirebbe, come non ha reagito nella Passione. È questo il Signore della gloria, l’Onnipotente, Colui che tiene in mano i destini dei popoli! Di questo Signore della Gloria noi conosciamo poco; davvero è al di là di ogni nostro atto di intelligenza, non comprendiamo il rapporto tra la sua infinità e la sua inermità. È Dio e perciò al di sopra di ogni nostro pensiero: Deus semper maior, Dio sempre più grande di quanto non possiamo immaginare o comprendere.
Eppure Tu, o Signore Gesù, sei qui per noi e l’ostia che contemplo è la Tua vita per noi. Tu sei il nostro tutto, Colui al di là del quale non possiamo cercare altro, perché in Te vediamo il Padre. A Te consegno le intercessioni e le preghiere di tutta la Chiesa di Milano al termine del Sinodo, in un momento in cui le è chiesto di ripartire per camminare verso il nuovo millennio.
Ma ripartire come? e da dove? Qui la Tua essenzialità, o Signore, mi grida: mi sono spogliato di tutto, ho lasciato perdere tutto, per mostrare solo il Padre, il Suo amore per voi. Sì, ne sono certo: da Dio occorre ripartire, dall’Essenziale, da ciò che unicamente conta, da ciò che dà a tutto essere e senso. Sarà "Ripartiamo da Dio" il titolo della lettera pastorale che segna il nostro ripartire come Chiesa di Milano dopo la sosta del Sinodo, che avevo a suo tempo paragonato alla sosta degli Ebrei presso le palme di Elim: "Qui arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti d’acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua" (Esodo 15,27). È giunto anche per noi quel momento che il libro dell’Esodo segnala al versetto seguente: "Levarono l’accampamento da Elim, e tutta la comunità degli Israeliti arrivò al deserto di Sin, che si trova tra Elim e il Sinai" (Esodo 16,1). È chiaro che la meta finale è il Sinai, l’incontro col Dio dell’alleanza, e il cammino passa per il deserto, luogo dell’essenzialità. Di tale essenzialità, che è poi il primato di Dio, vorrei parlare in questa lettera. Anche per rispondere a un interrogativo corrente: La Chiesa che parla spesso di solidarietà, di giustizia sociale ecc. sa ancora parlare di Dio?
Non si tratta quindi di una lettera programmatica nel senso formale del termine. Il programma del 1995/96 si impone da sé: è l'assimilazione paziente e graduale del testo e delle prescrizioni sinodali, con alcuni adempimenti - di cui parlerò nell'ultima parte - che riguardano la ripresa e la riscrizione dei progetti pastorali delle parrocchie e delle altre realtà ecclesiali alla luce del Sinodo e una riflessione sul difficile momento vocazionale che stiamo vivendo. Qui esporrò le premesse di questo lavoro, le condizioni spirituali in cui va eseguito, in continuità con la mia lettera di presentazione del Sinodo, pubblicata il 1° febbraio 1995 e che vi invito a rileggere in appendice. Mi riferisco in particolare a quella pagina dove dicevo: come la Chiesa degli Apostoli, ripartiamo da Dio! Dal Dio nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo, dal Dio dei nostri padri, dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, dal Dio dell’Alleanza e delle Scritture, dal Dio del nostro Signore Gesù Cristo, dal Dio che ci ha guidato fino ad oggi e guida il nostro cammino verso il terzo millennio, dal Dio mistero inesauribile, dal Dio Padre, Figlio e Spirito Santo! (cf n.6).
Un testimone straordinario del mistero trascendente ci accompagnerà nel cammino: è il Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, nostro Arcivescovo dal 1929 al 1954, che tanti di noi ricordiamo, da cui tanti - ancora oggi viventi - hanno ricevuto il sacramento della cresima o l’ordinazione sacerdotale. Il Papa lo proclamerà beato il prossimo 12 maggio 1996. Schuster è passato in questo mondo testimoniando il primato di Dio, uomo "tutto preghiera", uomo partecipe dei dolori di questo mondo ma proteso verso i beni eterni. Alcuni anni fa (1987) abbiamo contemplato il nuovo beato, il Card. Andrea Carlo Ferrari,, nell'ambito del nostro programma pastorale "educare", come Vescovo educatore di un popolo. Quest’anno potremo invocare il Card. Schuster perché ci insegni a esprimere nella nostra vita e nella nostra Chiesa il primato di Dio.
La presente lettera comprende quattro parti:
- nella prima vorrei esprimere i motivi per cui sento importante per noi ora "ripartire da Dio";
- nella seconda mi domanderò che cosa ciò significa in concreto;
- nella terza dirò in che modo una Chiesa locale è chiamata a vivere il primato di Dio;
- nella quarta spiegherò alcuni adempimenti pratici.
Quattro domande dunque: 1. Perché ripartire da Dio? 2. Che cosa comporta il primato di Dio? 3. Come una Chiesa lo vive? 4. Che cosa fare in pratica quest'anno?
1. RIPARTIRE DA DIO: PERCHÉ?
Non basta che io senta interiormente l’urgenza di questo tema. Debbo provare a esprimerne le ragioni per chi mi legge. Lo farò convocando successivamente tre interlocutori: san Paolo, Manzoni e me stesso in quanto Vescovo da quindici anni in questa Archidiocesi. Certe cose che si hanno dentro può essere più facile comunicarle in dialogo.
1.1. Vorrei anzitutto dialogare con te, Paolo apostolo, che nella lettera ai Galati e in quella ai Romani proponi il vangelo della Grazia, un radicale ripartire da Dio. Perché questa insistenza? quali destinatari avevi davanti? di che cosa avevano bisogno?
Paolo: "Avevo davanti a me due tipi di destinatari. Da una parte mi rivolgevo a quei figli della Legge che erano tentati di prenderla come totalità rassicurante, quella che oggi chiamereste una "ideologia pratica". È una mentalità che induce a pensare che nel "fare" certe cose e nel farle "proprio così" ci sia la chiave di tutto. Erano tentati di presunzione, della pretesa di possedere in qualche modo il mistero. Ad essi ricordavo che il Dio di Abramo è il Dio che liberamente promette senza nostro previo merito e che il senso della vita sta nel perdutamente affidarsi al Suo mistero santo. Questo mistero è insondabile e non può essere imprigionato nei nostri schemi, non dipende dalle nostre osservanze, non è legato ai nostri principi retributivi. "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rom 11,33).
Dall’altra parte mi rivolgevo ai pagani di quei tempi: erano "soli", senza Dio, con tante divinità, numerose quanto inutili. La loro tentazione era l’ingordigia delle gioie presenti, da cui l’apatia, l’insensibilità, lo sbriciolarsi del senso della vita in mille cose inconcludenti. Ad essi volevo richiamare l’esigenza di unificare l'esistenza sull’orizzonte ultimo, di fondare la dignità e la bellezza delle cose penultime e quotidiane nell’ultimo orizzonte e nell'ultima Patria. Non si può vivere di maschere o di piccoli idoli: occorre misurarsi sull’Oltre, su quel Mistero assoluto che ci intimorisce e ci attrae, di cui dolore e morte sono come sentinelle. Ma essi avevano "cambiato la verità di Dio con la menzogna" e avevano "adorato la creatura al posto del creatore" (Rom 1,25)".
Chiedo a Paolo: "Ritieni che queste due tentazioni siano ancora presenti in noi, perfino nella nostra Chiesa?"
Paolo: "Rileggete attentamente le mie lettere e vedrete che parlano di voi.
Parlano in primo luogo a voi che vi sentite tranquillamente dentro la Chiesa. Date per scontato quel punto di partenza che è il primato di Dio e vi affidate sovente a un dio che è opera della vostra fantasia e non l’al di là di essa, l’al di là di ogni cosa che può essere pensata o immaginata. Vi fate delle sicurezze con pratiche umane, anche religiose, con gesti e preghiere. Volete sempre trovare la chiave risolutiva dei problemi religiosi e pastorali che vi assillano, così da possederla e adoperarla a piacere. Se parlate di "programmazione" è per sentirvi a posto, per poter accusare altri e magari Dio stesso dei vostri insuccessi. Questo non è mettere al primo posto Dio e la sua gratuità! Questo è fare di Dio uno strumento della propria realizzazione umana e pastorale! Perché non lasciate spazio alle "sorprese" di Dio?
Le mie lettere parlano inoltre a chi ricerca evasioni per non pensare seriamente al suo futuro e al senso globale della sua vita. Denuncio la povertà e l’insufficienza di molte esistenze che si credono "piene". Chi non adora il Dio che è al di là di ogni cosa, è schiavo degli idoli. Occorre ripartire dal Mistero indicibile, riprendere in mano con la Sua grazia il significato totale della propria esistenza: e questo è possibile!".
1.2. Interrogo ora un testimone più vicino al nostro tempo, un cristiano ambrosiano che ha vissuto fino in fondo le ansie del cuore umano alle soglie dell’età moderna: Alessandro Manzoni. Gli chiedo: come hai vissuto il primato di Dio? perché fra tante cose necessarie per i tuoi contemporanei ti sei dedicato a proporre loro l’unico necessario, Dio e la sua provvidenza?
Manzoni: "Ho capito che con Dio non si deve perdere, ma "capitolare". Lui ascolta i nostri perché più veri, quelli che nascono dai dolori più intimi: ci risponde col Suo silenzio e con l’infinita compassione del Suo amore. È quello che ho vissuto di fronte alla morte dei miei amori più cari e che ho espresso nelle frasi ancora smozzicate e incompiute del "Natale del 1833" ("Si che tu sei terribile / Si che tu sei pietoso... i preghi / Doni, concedi e neghi... Ma tu pur piangi e"). Ma l’ho vissuto anche di fronte alle grandi mutazioni del mio tempo. Le spinte di questi cambiamenti, i violenti dinamismi che avevano scosso le società europee, li ho sentiti anzitutto in me. Dopo una lunga ed estenuante lotta, dopo aver cercato di costruirmi una vita e una fama a mio modo secondo le idee del tempo, mi sono arreso a Dio. Ho intravisto che in Lui si realizzava quanto in qualche modo, confusamente, cercavo.
Non è stato facile, neanche dopo. Ho imparato che la lotta con Lui dura tutta la vita, perché Lui è sempre al di là; crediamo di averlo capito ed è Altro. In fondo sono rimasto fino alla fine un uomo affaticato nella ricerca, un uomo conscio della sua debolezza e che si sforzava ogni giorno di ricominciare a credere, ad affidarsi. Voi che giustamente riposate nell’equilibrio di tante mie pagine, nell’armonia - da me descritta - di destini ritrovati dopo lunghi dolori, sappiate che tutto ciò a me è costato molto e che Dio mi ha sempre sorpreso, fino all’ultimo. Non è il mio un cristianesimo facile. Non mi stupisco quindi del vostro tempo inquieto, non sono lontano dalle vostre angosce".
1.3. E a me, da tre lustri Vescovo di questa Chiesa, che cosa dice il primato di Dio?
Quindici anni fa vi ho proposto "la dimensione contemplativa della vita" come chiave antropologica per l’oggi, come asse portante del nostro essere e del nostro agire quale Chiesa di Milano. Oggi vengo a riproporvi l’assoluto primato di Dio, il soli Deo gloria. Perché? Direi per le stesse ragioni di allora, ripensate oggi, e per le stesse ragioni di Paolo e del Manzoni, rilette nel contesto odierno.
1.3.1. Che cosa intendevo allora proporre, sottolineando il valore della contemplazione nella nostra civiltà convulsa e anche nella nostra Chiesa? Intendevo ricordare un unico e molteplice primato: il primato di Dio, di Gesù Cristo, della grazia, della persona, dell'interiorità (o del "cuore"). Il primato di Dio rispetto a ogni iniziativa o attività umana, il primato di Gesù Cristo sulla Chiesa, quello della grazia sulla morale, quello della persona sulle strutture, quello dell'interiorità sul fare esteriore. Il primato dell'essere sull'avere.
Il primato di Dio su ogni iniziativa umana: Dio è il Padre che ama per primo, che comunica se stesso e si dona in Gesù prima ancora di ogni attesa umana , il primo nel perdonare gratuitamente, Colui da cui tutto viene, tutto dipende, a cui tutto tende e tutto ritorna. È importante anzitutto sentirci amati.
Il primato di Gesù Cristo, figlio del Padre, immagine perfetta di Dio e figura dell'uomo perfetto, riferimento di ogni crescita umana autentica. Lo scopo di ogni cammino umano è divenire come Gesù, figli di Dio in Lui. Nessuno uomo o donna può realizzarsi se non in Gesù Cristo, nessuno potrà mai essere più autenticamente persona umana di Lui. Il punto di arrivo di ogni cammino umano è Gesù Cristo e lo sguardo di ogni uomo e di ogni donna deve anzitutto fissarsi su Gesù Cristo, contemplare Lui, imparare da Lui, imitare Lui, seguire Lui. Contemplarlo, accettarlo, seguirlo nella sua vita, nella sua passione, nella sua morte. Non c'è mai stata realizzazione umana più alta di quella della croce. Non è dunque anzitutto importante costruire la Chiesa, ma seguire Gesù Cristo. È il seguirlo, il guardare a Lui per primo, l'entrare in Lui, il partecipare alla sua vita di Figlio che ci fa Chiesa. La Chiesa è l'assemblea di coloro che sono veramente figli di Dio in Gesù Cristo, vivendo come Lui ha vissuto, amando come Lui ha amato e morendo come Lui è morto, affidandosi al Padre.
Il primato della grazia, cioè dello Spirito Santo, dono del Padre all'uomo in Gesù, per farci vivere come Gesù Cristo e farci amare come Gesù ha amato. Questa grazia è, per l'uomo afflitto dal male, benevolenza e misericordia del Padre, liberazione dalla colpa, vittoria del bene sul male, azione divina che trae il bene anche dal male. È l'amore del Padre effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito che ci permette di agire moralmente seguendo gli esempi di Gesù Cristo, uomo perfetto, giusto, onesto, verace, mite, saggio e coraggioso, che dà la vita per i suoi nemici. Qui sta la radice di ogni vera moralità.
In tale luce appare la dignità della persona umana e della sua libertà. La persona umana è il rispondente di Dio nella creazione, fatto per rispondere con amore all'amore di Dio in Gesù e continuare nel mondo l'opera intelligente e costruttiva del Padre. La persona umana ha in mano i destini del mondo, è responsabile del senso della storia, è chiamata a collaborare al disegno di riconciliare in unità l'umanità intera. Simbolo reale e segno efficace di questo formidabile compito storico di rifare "una" l'umanità è l'Eucaristia.
Nella persona umana decisivo è il "cuore", l'interiorità. È il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia. Tutta la vicenda umana si gioca nell'intimo dell'uomo. La Parola di Dio che illumina e salva è destinata al cuore umano, lo tocca nell'intimo e lo trasforma. Di qui la fondamentale importanza del silenzio, dell'attenzione vigile, della riverenza e disponibilità interiore di fronte a Dio che si comunica: in una parola, l'importanza della "dimensione contemplativa della vita".
1.3.2. Quanto ho richiamato come sintesi "teologica" di ciò che sottostava alla "dimensione contemplativa della vita" può essere ridetto, in chiave di sintesi "epocale", a partire dalle ragioni di Paolo e del Manzoni rilette oggi.
All’inizio del mio ministero, in anni ancora sotto la malìa delle ideologie che pretendevano di cavalcare la tigre della storia, proporre il primato di Dio voleva dire segnalare il limite costitutivo di ogni visione ideologica, totalizzante. Come Paolo, contro chi aveva fatto della stessa Legge un assoluto, aveva proposto la libertà di Dio e della Sua grazia, così io intendevo proporre Dio come misura ultima di tutto, critica inesorabile delle presunzioni mondane e della violenza da esse esercitata sulla realtà. L’89 ha mostrato come quell’indicazione cogliesse nel segno: un mondo senza Dio si disgrega, diventa alienante e violento anche contro se stesso.
Oggi non è venuta meno l’urgenza di vigilare contro le catture ideologiche, sempre ammalianti per il loro carattere di scorciatoia semplificante. Esse esistono, nella società e nella Chiesa, anche se di segno diverso da quelle degli anni ’80. Tuttavia si fa forse ancora più urgente il bisogno di parlare ai "nuovi pagani" (l’espressione la mutuo da S. Natoli, I nuovi pagani, Milano 1995). Sono coloro che, privi dell’orizzonte totale e rassicurante dell’ideologia ed insieme privi di un "ultimo Dio" capace di salvare il mondo, vorrebbero ricondurre tutto al frammento, all’attimo, alla dignità dell’essere umani, soltanto umani e basta, con tutta la caducità che questo comporta.
Ai "nuovi pagani" vorrei richiamare il Mistero più grande, come faceva Paolo di fronte agli orfani degli idoli del suo tempo. Vorrei gridare che vivere significa rispondere all’appello del Mistero assoluto, Orizzonte del mondo e della vita, verso cui si volge l’interrogazione più profonda del cuore. Vivere veramente, senza sterili forme rinunciatarie, senza lasciarsi accattivare dalla subdola tentazione del pensiero debole, significa lasciarsi illuminare dal grido di trascendenza che abita nel cuore del nostro cuore. Significa dare ascolto al dinamismo della nostra ricerca di un luogo o di un evento dove l’Altro si offra al nostro spirito inquieto. Significa non pacificare a buon prezzo l’inquietudine interiore, ma aprirle spazi di intelligenza e di desiderio: "Non è la conoscenza che illumina il Mistero - diceva P. Evdokimov - è il Mistero che illumina la conoscenza".
Ai credenti, tentati di contrapporre al nichilismo postmoderno, orfano dell’ideologia, un cristianesimo dalle certezze facili, malato esso stesso di ideologia, vorrei proporre la fede indagante, non negligente, del Manzoni: un abbandonarsi credente al primato di Dio che non rinuncia a porsi le domande cruciali della vita, a vivere la sofferenza, a portare la Croce, ma in compagnia del Dio che soffre, di Colui che "Volle l'onte, e nell'anima il duolo / E l'angosce di morte sentire / E il terror che seconda il fallire / Ei che mai non conobbe il fallir".
A tutti i nostri fedeli vorrei ripetere la testimonianza di Dietrich Bonhoeffer, morto martire della barbarie nazista cinquant’anni fa, il 18 aprile 1945. Al fallimento dell'ideologia totalitaria e violenta egli non contrapponeva un'altra ideologia né una rinuncia decadente e priva di senso, bensì il far compagnia a Dio nel suo dolore per gli uomini. Così si esprime nella poesia Cristiani e pagani, contenuta nella raccolta delle lettere e degli scritti dal carcere:
"Uomini vanno a Dio nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza.
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l'anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona".
Paolo e Manzoni, ripensati nel nostro tempo, mi danno le ragioni per tornare a proporvi il primato di Dio proprio oggi, fra la nostalgia delle certezze perdute, provata da alcuni, e il trionfo degli idoli e delle maschere, sostenuto da altri per riempire il vuoto del nulla e del non senso.
È ciò che il Papa ci invita a fare in questa fine millennio. Che cos’è la Tertio Millennio Adveniente se non un pressante invito a ritornare al Dio di Gesù Cristo come alla misura ultima di tutto, di tutti, della Chiesa stessa? Non si comprende così l'appello al pentimento e alla conversione anche per la Chiesa?
Ho dunque richiamato le ragioni per questo appello: ripartiamo da Dio! Ma che cosa vuol dire in concreto per noi, pellegrini del mondo postmoderno, ripartire da Dio? che cosa vuol dire per la Chiesa ambrosiana, appena uscita dal Sinodo? che cosa vuol dire per la nostra società milanese, in un tempo di transizione e di incertezza?
2. RIPARTIRE DA DIO: CHE COSA IMPLICA?
Sono i profeti a insegnarci che cosa significa ripartire da Dio. Profeta è "colui che tiene lo sguardo fisso verso il Dio che viene" (Martin Buber), ma ha allo stesso tempo i piedi ben piantati sulla terra. Mi sembra che oggi ci sia penuria di profeti: c’è chi guarda in alto mentre i suoi piedi sembrano aver perduto il contatto con la terra degli uomini (è la tentazione dei tanti spiritualismi caratteristici di un’età che si è autodefinita New Age); c’è chi è talmente incollato al proprio frammento di terra da perdere di vista l’insieme e l’orizzonte più grande. Ripartire da Dio richiede il coraggio di riproporsi le domande ultime, di ritrovare la passione per le cose che si vedono perché sono lette nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono.
Si potrebbe esprimere in tre modi il "che cosa" della proclamazione del primato di Dio.
1. Rispetto al cammino personale significa non dare mai nulla per scontato nel nostro cammino di fede, non cullarci nella presunzione di sapere già ciò che è invece perennemente avvolto nel mistero; significa santa inquietudine e ricerca.
2. Rispetto al nostro agire comunitario e sociale significa mettere tutti i nostri progetti umani sotto la Signoria di Dio e misurarli solo sul Vangelo.
3. Rispetto ai frutti che tale atteggiamento suscita, significa godere una esperienza di profonda serenità e pace.
2.1. L’inquietudine della notte della fede
Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione, di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Sui Navigli, portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa "contrazione" di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
È come nel cammino verso Emmaus (cf Luca 24,13-35). Da principio il Signore si fa sentire stimolando e interrogando l'inquietudine dei discepoli. Poi si manifesta nelle parole che spiegano le Scritture, le quali fanno comprendere ai due discepoli che c'è qualcosa al di là di quanto essi credevano di aver capito. Ma quando Gesù si rivela nella frazione del pane, subito scompare ed essi lo cercheranno correndo incontro ai fratelli. Gesù stimola, attrae, si manifesta, e insieme invita ad andare oltre, a non contentarsi della formula ricevuta o della gioia di un momento.
Talora presumiamo di avere già raggiunto la perfetta nozione di ciò che Dio è o fa. Grazie alla Rivelazione sappiamo di Lui alcune cose certe che Egli ci ha detto di Sé, ma queste cose sono come avvolte dalla nebbia della nostra ignoranza profonda di Lui. Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che Egli opera nella storia, come e perché agisce in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali. Preferisce il velo del simbolo o della parabola; sa che di Dio non si può parlare che con tremore e per accenni, come di "Qualcuno" che in tutto ci supera. Gesù stesso non toglie questo velo, Lui che è il Figlio: ci parla del Padre ma "per enigmi", fino al giorno in cui svelatamente ci parlerà di Lui. Questo giorno non è ancora venuto, se non per anticipazioni che lasciano ancora tante cose oscure e ci fanno camminare nella notte della fede.
Perciò anche la Chiesa, fatta a immagine della Trinità, non può capire mai a fondo se stessa né può cessare di ricercare con passione e pazienza la sua identità. Molti discorsi pastorali nascondono l’illusione di sapere tutto sulla Chiesa e sui suoi cammini nel mondo, cose se si trattasse solo di applicare delle regole e di dedurre conclusioni da principi. Ma la Chiesa ha la sua origine nel Padre che è prima di ogni principio e va accolta come dono che si rinnova ogni giorno per la forza sorgiva dello Spirito.
Questo discorso potrebbe essere frainteso, quasi si trattasse di "rimettere continuamente in discussione tutto". Le certezze che ci sono date in dono sono ben certe e ciascuno le può ritrovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Esse sono faro e guida per i nostri cammini, però non sono più di una "lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori" (2Pt 1,19). Non ci dispensano dalla fatica dell'interrogarci, dal timore di illuderci, dal bisogno di esaminarci con umiltà su quanto diciamo e operiamo ogni giorno.
2.2. L’ultima misura di tutto
Ripartire da Dio vuol dire confrontare con le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e che si fa: Egli solo è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è la misura che non passa, l’áncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall'Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque.
Ripartire da Dio vuol dire misurarsi su Gesù Cristo e quindi ispirarsi continuamente alla Sua parola, ai Suoi esempi, così come ce li presenta il Vangelo. Vuol dire entrare nel cuore di Cristo che chiama Dio "Padre". Il Vangelo, quando è letto con spirito di fede e di preghiera ci rimanda a un Dio che è sempre al di là delle nostre attese, che supera e sconcerta le nostre previsioni; è l'esperienza che facciamo ogni volta che ci dedichiamo seriamente alla "lectio divina". Non sappiamo ancora leggere convenientemente il Vangelo se non ci sentiamo spinti verso l'Oltre misterioso di Dio, verso il segreto del Padre, non riducibile a nessuna misura o comprensione umana.
Ripartire da Dio vuol dire abbandonare al soffio dello Spirito il nostro cuore inquieto, perseverare nella notte dell’adorazione e dell’attesa. È questa la sola via per uscire dalla violenza dell’ideologia senza cadere nella condizione di naufragio del nichilismo, senza etica e senza speranza.
Il Dio con noi è il Dio che può aiutarci a trovare le vere ragioni per vivere e vivere insieme. Rispetto alle acque basse in cui sembra stagnare oggi la vita civile, sociale e politica del nostro Paese, partire da Dio significa trovare senso, slancio, motivazione per rischiare e per amare. "Quando ami, non dire: ho Dio nel cuore. Di' piuttosto: sono nel cuore di Dio". Ripartire da Dio significa riconoscere di essere nel cuore di Dio per un’esperienza di fede e di amore vissuti: riconoscere di essere nati per imparare ad amare di più, a osare di più, ad andare oltre i limiti delle nostre comodità e dei nostri piccoli traguardi.
2.3. Esperienza di pace e riconciliazione interiore
Ripartire da Dio significa farsi pellegrini verso di Lui aprendosi al dono della Sua Parola, lasciandosi riconciliare e trasformare dalla Sua grazia. Non c’è altro porto di pace, altra sorgente di vita che vinca la morte. Solo il Dio della vita sa dare riposo al nostro cuore inquieto; solo Lui può liberarci dalla paura di amare e contagiarci il coraggio di scelte di libertà da noi stessi, di servizio agli altri. Solo chi si riconosce amato dal Dio vivo, più grande del nostro cuore, vince la paura e vive il grande viaggio, l’esodo da sé senza ritorno per camminare verso gli altri, verso l’Altro.
Questa esperienza di pace e riconciliazione interiore la facciamo soprattutto quando diamo a Dio tempi gratuiti di preghiera, di silenzio, di ascolto della Parola; quando siamo fedeli alla preghiera quotidiana, senza fretta, con calma, con amore; quando dedichiamo a Dio con gioia il tempo della Messa domenicale; quando lasciamo che dalle nostre labbra scaturisca la lode al Padre, il ringraziamento per le cose belle e buone che ci dà, per le persone che incontriamo e anche per gli eventi sofferti di cui non capiamo subito il senso.
Avere a cuore l'Eterno è al tempo stesso la sfida più profonda e l’offerta più grande che sia possibile vivere: testimoniare questo primato di Dio è il compito più alto che i credenti possano assolvere in questo tempo di cambiamento e di inquietudine.
Anche qui il Manzoni ci ha detto parole incisive, descrivendo in tanti episodi del suo romanzo la pace del cuore che invade l'animo di chi, in momenti burrascosi e oscuri, si affida alla provvidenza divina: Agnese, Lucia, fra' Cristoforo, l'Innominato... Potremmo dire che Manzoni ha capito come nel cuore della nostra gente il primato di Dio si esprime spesso in quella fiducia semplice nella Provvidenza che impedisce all'attivismo di trasformarsi in ansietà della vita.
3. RIPARTIRE DA DIO COME CHIESA DI MILANO
Il messaggio del primato di Dio e della Sua grazia potrebbe risuonare etereo, evanescente. Non lo era per Paolo, che parlava a destinatari ben precisi, rispondendo a sfide concretissime. Non lo era per il Manzoni, che si professava parte viva della Chiesa del suo tempo, segnata dalle prove di mutamenti epocali. C’è tuttavia il rischio che lo sia per noi, se lo proporremo solo a parole o come singoli. Al di là del compito di incarnare nella propria vita le conseguenze del primato di Dio, c’è per tutti noi il compito di viverlo insieme. La forza e la concretezza del messaggio passano attraverso la credibilità con cui lo proporremo come Chiesa, come corpo di Cristo presente nella storia, come umanità chiamata a riconoscere nei pensieri, nelle parole e nelle opere di tutti i giorni il primato di Dio, come uomini e donne cui il primato di Dio dà senso al vivere e alle scelte ordinarie e straordinarie, abituali o impreviste dell'esistenza. Si tratta di rendere visibile e in qualche modo percepibile il fatto che esiste in questo mondo un’esperienza di comunione possibile sotto il primato di Dio. Quale l'ideale di comunità che ne risulta?
3.1. Una comunità alternativa
C’è un aspetto di profonda verità in coloro che riscoprono la Chiesa come "comunità alternativa", a partire dall’esperienza della Chiesa degli Apostoli. Di fronte alla solitudine dell’uomo prigioniero dei propri idoli, la comunità dei discepoli che si vogliono bene annuncia il dono di una comunione nuova, possibile per la grazia di Dio.
Il popolo dell’Alleanza deve essere riconoscibile per la verità e la libertà dei rapporti che lo costituiscono: sotto il primato di Dio la Chiesa avverte le pesantezze da cui deve liberarsi, il cammino di rinnovamento e di riforma che deve intraprendere. Ci è di guida in questo impegno il Papa che così fortemente ha invitato la Chiesa a riconoscere il peso delle sue colpe nella storia per purificarsi e rinnovarsi sotto lo sguardo di Dio, nella gloria del perdono domandato e ottenuto. La Tertio Millennio Adveniente può essere capita solo nella luce dell’assoluto primato di Dio anche sulla Sua Chiesa.
La testimonianza della possibilità e concretezza di una comunità alternativa nella storia sotto il primato di Dio non è cosa facile. Si paga al caro prezzo della vita giocata per il Signore in scelte di libertà vera e di donazione al prossimo. Dio è fuoco divorante ed è sempre terribile cadere nelle mani del Dio vivente: ma è pure esperienza che ci rende pienamente umani, realizzando la sete del nostro cuore inquieto e dando senso alle opere e ai giorni della nostra vita. Il Dio vivente non è un Dio rassicurante e comodo, ma Custodia che racchiude nel santuario dell’adorazione le risposte ultime, e nutre della promessa della fede - non delle presunzioni dell’ideologia - l’impegno di chi crede. Per questo una simile comunità rappresenta nella storia in qualche modo una "utopia" da ricercare sempre con coraggio rinnovato, ma anche una iniziale realizzazione di fraternità che potremmo cogliere tanto più quanto più ci faremo piccoli, semplici, tenendo aperti gli occhi del cuore e cercando di valorizzare ogni più modesta attuazione di amore evangelico.
Ma come intenderla in concreto una tale comunità? Non è facile dirlo.
Il concetto di "comunità alternativa" si presta anche a fraintendimenti. Ma ha un valore provocatorio e stimolante: ci aiuta a capire il disegno di Dio di "radunare i dispersi" (cf Gv 11,52).
Come si può dunque definire una "comunità alternativa"? E' una rete di relazioni fondate sul Vangelo, che si colloca in una società frammentata, dalle relazioni deboli, fiacche, prevalentemente funzionali, spesso conflittuali. In tale quadro di società la comunità alternativa è la "città sul monte", è il "sale della terra", è la "lucerna sul lucerniere", è "luce del mondo" (cf Mt 5,13-16).
Una riflessione sulla comunità cristiana come comunità alternativa è rinata in anni recenti. Al di là delle proposte talora un po' utopiche o a rischio di chiusura ideologica, il tema è certamente legato al progetto di Gesù per una nuova umanità: purché si intenda questo progetto in senso largo e aperto, come progetto che si realizza in molti modi analogici, che rimane sempre aperto alla creatività dello Spirito.
Una comunità alternativa nel senso del Vangelo non è dunque una setta, né un gruppo autoreferenziale che si distacca orgogliosamente dal tessuto sociale comune, né un'alleanza di alcuni per emergere e contare. Non è perciò necessariamente e sempre visibile come gruppo compatto, perché sa accettare anche la diaspora, può cioè trovarsi, per diverse circostanze storiche, in "dispersione". Ma nell'insieme ha caratteri di visibilità e in ogni caso, visibile o meno, agisce sempre come il lievito, le cui particelle operano in misterioso collegamento fra loro e si sostengono a vicenda per far fermentare la pasta.
Nel Nuovo Testamento ci sono offerti diversi modelli di comunità alternative: quello della chiesa di Gerusalemme, descritto in At 2-5, quello vigente nelle comunità di Antiochia o Filippi o Efeso o Corinto, che comprende sia rapporti interni fra i membri di ogni comunità locale, sia ricchi scambi tra comunità diverse con forme molteplici di comunione nella preghiera, nella fede, nella carità. I testi del Nuovo Testamento ci mostrano che tali comunità non erano esenti da problemi, divisioni, tensioni, scandali: ma tutto ciò era occasione di revisione e alla fine di crescita nella fede, nel perdono e nell'amore. Comunità alternativa non significa dunque comunità perfetta o senza difetti, ma comunità che si lascia formare e correggere dall'azione dello Spirito santo per porre quelle premesse di comunione e di perdono che preludono alla Gerusalemme celeste.
Anche con tutti i suoi peccati la comunità alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di Dio significa anche emergere di ciò che di meglio c'è nel cuore dell'uomo e della società.
La Chiesa è, nel suo insieme e nelle mille diverse realizzazioni analogiche, una simile comunità, e come tale ha una funzione di orientamento e di proposta di senso alla comunità più larga degli uomini e delle donne di tutto il mondo. Lo è sia come comunità cattolica sia come comunione di chiese cristiane che credono in Cristo e che si sforzano, malgrado le loro divisioni (che sono una dolorosa controtestimonianza) di dare l'esempio di molteplici convergenze e scambi di doni spirituali e materiali, in spirito di amicizia e di gratuità, in un sincero cammino ecumenico.
"Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete risplendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita": così san Paolo esortava la piccola comunità di Filippi, immersa in un mondo pagano senza cuore e senza speranza, a dare testimonianza anche col modo di stare insieme con pazienza e con amore (Fil 2,14-16). C'è dunque una funzione di illuminazione e di orientamento ("splendere come astri nel mondo") che è affidata non solo alla testimonianza dei singoli ma anche ai diversi modi di fare comunità che si riscontrano nella storia della Chiesa e che si collegano tutti nell'essere diverse manifestazioni dell'unico Corpo di Cristo.
Per questo la "comunità alternativa" rimanda a quella comunione misteriosa che è all'origine di tutto e che è il mistero di Dio.
3.2. Radicata nel mistero di Dio
Essere Chiesa sotto il primato di Dio significa "corrispondere" al dono del Suo amore, nel senso di una analogica "corrispondenza tra ciò che Dio è in Sé, nel suo mistero trinitario e ciò che ci chiede di essere tra noi". "La formula più corrente mediante la quale Giovanni dà espressione alla realtà escatologica della Chiesa è la semplice congiunzione ‘come’ (kathòs). Essa non soltanto stabilisce un legame di somiglianza tra Cristo e i suoi discepoli, ma indica che ciò che è in Dio deve essere pure in coloro che gli appartengono".
La comunione di amore tra il Padre e il Figlio è al tempo stesso la sorgente, il modello e la patria della comunione fraterna che dovrà legare i discepoli fra loro: "I testi in kathòs, che affermano una corrispondenza ontologica fra le persone divine e la comunità cristiana, sfociano in un comando: ‘Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi’ (Gv 15,12: cf 13,14); o in una preghiera: ‘Che essi siano uno, come noi siamo uno’ (Gv 17,21.22)".
Due "no" vanno pronunciati senza riserve in questo sforzo di coniugare l’assoluto primato dell’Eterno e il nostro cammino di Chiesa. Il "no" a una comunione troppo tenue e il "no" a una comunione che divenga chiusura. Nella prima la solitudine non è vinta, nella seconda il Mistero rischia di essere soffocato. Ciò che ci viene chiesto oggi è di essere la Chiesa dell’amore: un popolo di donne e uomini liberi che accettano di vivere sotto l’assoluto primato di Dio e perciò nell’esperienza di comunione fraterna che deriva dal partecipare della Sua grazia, vivificati dal Suo amore.
Non dobbiamo illuderci che ciò sia facile né che dia luogo senz'altro a comunità idilliache. Sarebbe una grande illusione e farebbe torto alla fatica e al lungo cammino del disegno redentivo di Gesù. Ascoltiamo un maestro di vita, Jean Vanier, fondatore della comunità dell'Arca: "Desideriamo vivere in un mondo perfetto, una comunità perfetta, una chiesa perfetta... Questa idea della perfezione, alla quale ci aggrappiamo, è così profondamente ancorata in noi che ci spinge a negare le nostre ferite e a disprezzare quelle degli altri, a condannare una comunità che non è perfetta o non corrisponde al nostro ideale". Così una comunità non si crea, ma si distrugge. Invece "il senso di appartenenza sgorga dalla fiducia, fiducia che è accettazione progressiva degli altri, così come sono, con i loro doni e i loro limiti, essendo ognuno chiamato da Gesù. Così diventiamo coscienti che il corpo della comunità non può mai essere perfettamente uno. È la nostra condizione umana. È normale per noi non essere perfetti. Non dobbiamo piangere sulle nostre imperfezioni perché non veniamo giudicati per questo. Il nostro Dio sa che, da molti punti di vista, siamo zoppi e a metà ciechi. Non vinceremo mai la corsa alla perfezione nei giochi olimpici dell'umanità! Ma possiamo camminare insieme con speranza e rallegrarci di essere amati nelle nostre spaccature. Possiamo aiutarci gli uni gli altri a crescere nella fiducia, la compassione e l'umiltà, a vivere nell'azione di grazia, imparare a perdonare e a chiedere perdono, ad aprirci di più agli altri, ad accoglierli e a fare ogni sforzo per portare la pace e la speranza nel mondo. È per questo che ci radichiamo in una comunità: non perché è perfetta, meravigliosa, ma perché crediamo che Gesù ci raduna per una missione. Ce la dà come una terra nella quale siamo chiamati a crescere e a servire".
3.3. In realizzazioni concrete
Come si realizza concretamente nella storia la comunione della Chiesa sotto il primato di Dio, a immagine della Trinità santa?
Provo a chiederlo ai protagonisti della prima ora e a me stesso dopo questi anni di servizio pastorale nella Chiesa ambrosiana. Fra i testimoni della prima ora, come all’inizio ho interrogato Paolo, adesso vorrei interrogare il pescatore Pietro. Lo scelgo quale figura di ogni discepolo che consapevolmente ha scelto di vivere la propria vita nella sequela di Cristo sotto il primato di Dio, quale immagine cioè di un cristiano "impegnato" dei nostri tempi - vescovo, presbitero, diacono, consacrato o consacrata, laico - deciso a giocarsi per il Regno. Vorrei inoltre interrogare qualcuno di quella folla che nei vangeli segue Gesù un po’ da lontano, spesso solo spinto dal desiderio di ottenere qualcosa, di saziare una fame anche terrena.
3.3.1. Pietro, il pescatore di pesci fatto pescatore di uomini mi dice: "Aver detto sì alla Sua chiamata ad amarlo (cf Gv 21,15ss) mi ha reso responsabile degli altri davanti a Lui ("pasci" cioè nutri "le mie pecore"). Il senso di responsabilità davanti a Dio e per il mondo è il primo esigente volto dell'appartenergli con tutto il cuore. Ho dovuto dire no a ogni tentazione di disimpegno e di fuga, a ogni voler andarmene da solo, per conto mio, senza gli altri o separato da loro. L’amore a Cristo mi urge dentro, per essere al servizio di Dio solo nel servizio degli altri. Ed è vivendo tale responsabilità nell’amore che mi sono accorto di dover "tendere le mani" (Gv 21,18), di dovermi perdutamente arrendere al disegno di Dio su di me, rinunciando ai miei calcoli, perfino ai miei progetti pastorali, per lasciarmi docilmente condurre da prigioniero del Signore dove Lui ha voluto e vorrà per me: "Un altro ti cingerà e ti porterà dove tu non vuoi" (Gv 21,18)".
Essere pescatore di uomini significa farsi carico anche della fede di altri, riconoscere che l’unica cosa che conta è servire Dio e amare gli altri secondo il cuore di Dio. Qualunque sia la tua vocazione e il tuo carisma nella Chiesa, essere discepolo di Gesù e pescatore di uomini significa vedere tutto nella luce della fede in Lui e nulla anteporre alla Sua chiamata, farsi carico del prossimo come se n’è fatto carico Lui, radunare le pecore perdute come le ha radunate Lui, vivere la passione per la causa del Regno come l’ha vissuta Lui. Perciò la Chiesa avrà sempre bisogno di discepoli così, siano essi ministri ordinati o consacrati o laici impegnati, uomini e donne. Senza di loro la Chiesa si risolve in burocratica e vuota ripetizione di gesti: dove non c’è il primato di Dio riconosciuto, celebrato e testimoniato nella fede viva, nella carità operosa, nell’ardente speranza, tutto rischia di inaridirsi e morire. Ripartire da Dio significa per la Chiesa essere la comunità dei discepoli che Gesù ama e invia.
3.3.2. E tu, che fai parte della grande folla che seguiva Gesù (cf Gv 6,2), perché sei qui? che cosa ti interessa di Lui, così che non vorresti distaccartene e desideri ancora essere chiamato "cristiano", mentre d'altra parte non hai il coraggio di seguire Cristo fino in fondo né intendi farti carico della fede di altri?
È questa oggi la condizione di tanti, che va sotto il nome di "adesione parziale", "scelta soggettivistica" di alcuni contenuti della fede rispetto ad altri, cristianesimo di abitudine ecc. Qual è la condizione reale di questi nostri fratelli e sorelle che sono presenti ancora a molte eucaristie domenicali o almeno nelle grandi feste e nei grandi passaggi della vita (battesimi, matrimoni, funerali ecc.), ma che non si vedono quasi mai nei momenti dell'impegno attivo nella comunità o là dove c’è bisogno di prendere pubblicamente posizione per Gesù Cristo e la sua Chiesa?
Prendendo spunto dalla "grande folla" e dalle sue diverse reazioni, di cui ci parla il capitolo 6 del vangelo secondo Giovanni, cerco di dare voce a qualcuno fra questi molti nostri fratelli e sorelle. Perché, se non sei deciso a impegnarti fino in fondo, tuttavia hai comunque seguito Gesù fino all’altra riva del mare di Galilea e ora sei di nuovo qui (cf Gv 6,1)?
Uno della folla: "L’ho seguito vedendo i segni che faceva sugli infermi (cf Gv 6,2). In questo mondo senza segni e senza profeti Egli mi ha attratto, mi ha incuriosito, mi ha fatto sperare che avesse qualche risposta anche per i miei problemi. Non posso dire di avere sentito "amore" per Lui, forse non sarei capace di "perdere" la mia vita per il Vangelo: ma avevo bisogno di segni, di risposte, e sono andato.
Lui è stato ospitale con me: mi ha parlato, con parole non sempre comprensibili, ma nuove, mi ha nutrito con un pane che non sapevo bene donde venisse. Mi ha fatto bene questo contatto, anche se poi sono andato via, tornando alle mie occupazioni, senza aver troppo capito che cosa era successo, però arricchito di un po’ di forza dentro, di un po’ di conforto e di desiderio di incontrare ancora sul cammino della mia vita altri segni così.
Lui è stato ospitale con me...Perché dovreste voi, che vi dite Sua Chiesa, comportarvi diversamente da Lui? Perché dovreste essere una comunità chiusa, di pochi eletti, di impegnati al cento per cento, e disprezzare o allontanare me che faccio parte della "gran folla"? Senza contare che qualcuno di quelli come me ha iniziato a impegnarsi a fondo e neppure io escludo che un giorno potrei farlo...".
La voce del Vescovo: Sono parole che mi toccano, perché Gesù è stato a lungo con persone come te e non le abbandona di sua iniziativa. Il capitolo 6 di Giovanni mostra Gesù impegnato in un lungo discorso con gente che alla fine si allontana, almeno per qualche tempo ("Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui" Gv 6,66). Ma non è Gesù a respingerli. Egli continua a spiegare e a chiarire il suo pensiero fin che gli è possibile.
Nella nostra Chiesa siamo ben coscienti della vastità di un simile problema. Una larga percentuale dei nostri battezzati in Occidente appartiene a questa categoria e ad essi pensiamo in particolare quando parliamo di "nuova evangelizzazione" (dimenticando forse che è tutta la comunità che deve lasciarsi penetrare dalla spada del Vangelo).
Certamente rimangono valide le prescrizioni disciplinari e canoniche che stabiliscono che cosa è e che cosa non è compatibile con la piena appartenenza alla comunità cristiana. Tuttavia sentiamo che la Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci (cf Mt 13,47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte specie di uccelli (cf Mt 13,31-32). Una Chiesa che è sotto il primato di Dio Padre universale sente il dovere di essere ospitale, paziente, longanime, lungimirante. Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla storia, che spetta soltanto a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte non devono essere chiuse a nessuno che chieda sinceramente asilo. Guai se la Chiesa dei discepoli dell’amore divenisse una setta o un gruppo esclusivo o se gruppi nella Chiesa, che possono porre lecitamente condizioni rigorose per i loro membri, le volessero porre per la Chiesa intera!
Uno della folla: "Mi sento confortato e sollevato dalle tue parole. Certamente i bisogni per cui tanta gente come me si rivolge alla Chiesa possono essere anche molto umani (cf Gv 6,26): bisogno di conforto, di una parola di vita, di consolazione, sapere che esiste un punto di riferimento morale serio, qualche aiuto concreto...Perché dovreste rinfacciarmi queste cose? È vero: potrei riceverle, poi andarmene e forse non tornare più. Ma Gesù non mi ha negato queste cose, anche se poi ha continuato a predicare il Regno, a chiamarmi a conversione...Mi auguro dunque una Chiesa ospitale verso tutti, che annunci il Vangelo senza sconti, come pure senza preclusioni o settarismi".
La voce del Vescovo: E io che cosa sento di fronte a queste affermazioni? Certamente mi toccano e in qualche modo mi mettono in imbarazzo. Vorrei davvero che la mia Chiesa fosse ospitale e nello stesso tempo non vorrei che si creassero confusioni rispetto alla verità del Vangelo. Come Paolo, Pietro e Giovanni voglio mettermi sotto l’assoluto primato di Dio: tutto ciò che la mia Chiesa ha seminato l’ha fatto con la Sua grazia, è Sua grazia. Guai a me se volessi verificare i risultati, contare i fedeli, vedere subito i frutti. Devo affidarmi perdutamente a Colui che mi ha chiamato ad amarlo e a seguirlo, lasciandomi cingere e portare da Lui. È il solo modo per vivere la responsabilità pastorale nella verità e nella pace.
Devo inoltre capire che i tanti che mi ascoltano distratti, che mi incontrano una volta e poi vanno via, i tanti "disimpegnati" fra i miei cristiani, sono amati tantissimo da Dio e vanno amati da me che voglio vivere sotto il primato di Dio. A loro devo andare per annunciare il Vangelo a tempo e fuori tempo; devo ascoltare le loro domande, anche le più materiali; devo capire che il loro cuore sta sotto il primato di Dio e va aiutato ad aprirsi a Lui nella libertà.
La Chiesa è cammino da massa a popolo dell’Alleanza: in questo cammino c’è chi è più avanti e chi è più indietro, chi si muove solo ora e chi si stanca. Guai a me se riducessi la Chiesa a comunità di giusti e di perfetti! L’icona della Trinità per la Chiesa non è punto di partenza, ma punto di arrivo, dono già iniziato che deve tuttavia compiersi in itinerari progressivi e costanti, finché giungano a pieno compimento le promesse di Dio.
Agli altri, ai pescatori di uomini, a coloro che hanno accettato di farsi carico della fede di altri, agli impegnati, chiedo di condividere con me la responsabilità verso l’annuncio del Regno, di costruire insieme questa Chiesa pronta come sposa adorna per il Suo Sposo, in cammino verso il giubileo del 2000.
3.4. In cammino verso il duemila
Il Papa ci chiede di programmare in comunione con tutta la Chiesa il cammino di preparazione al grande Giubileo. Egli pensa a un itinerario trinitario, scandito negli ultimi tre anni di questo millennio e preceduto da un tempo antepreparatorio, al quale già appartiene il presente anno pastorale.
La meta di tale itinerario verso il 2000 è radunare i dispersi nel grande evento della riconciliazione giubilare, attraendo le genti verso tanti focolai di amore e di fede, dove i discepoli dell’amore testimonino in semplicità e letizia, in parole e in opere, il Vangelo della carità. Per questo la nostra preparazione al prossimo Convegno di Palermo (20 - 24 novembre 1995) è già parte di questo cammino. Sarà pure importante ripensare al cammino decennale compiuto dal Convegno diocesano di Assago del novembre 1986, in particolare per quanto riguarda le Scuole di formazione all'impegno sociale e politico.
Il Papa ricorda poi il ruolo dei Sinodi e il contributo delle singole Chiese mediante i giubilei: "Nel cammino di preparazione all’appuntamento del 2000 si inserisce la serie di Sinodi, iniziata dopo il Concilio Vaticano II: Sinodi generali e Sinodi continentali, regionali, nazionali e diocesani" (n.21). "Nella preparazione dell'anno 2000 hanno un proprio ruolo da svolgere le singole Chiese, che con i loro Giubilei celebrano tappe significative nella storia della salvezza dei diversi popoli" (n.25).
Per noi dunque il Sinodo diocesano concluso il 1° febbraio 1995 rappresenta una tappa importante nella preparazione al 2000. L’assimilazione del Sinodo, prevista per l'anno pastorale 1995/96 sarà un nostro modo di vivere con tutta la Chiesa la preparazione al grande Giubileo. Ci aiuterà, come già sopra ricordato, la figura del card. Schuster, il nostro prossimo beato.
In questa preparazione si inserirà, nell’anno pastorale successivo (1996/97) un Giubileo ambrosiano di grande rilievo: il decimosesto centenario della morte di sant’Ambrogio (3 aprile 397). Un apposito comitato sta preparando il programma che sarà reso noto presto. Questo anno pastorale sarà anche il primo dei tre immediatamente precedenti il 2000 e sarà perciò dedicato a Gesù Cristo Salvatore (cf Tertio Millennio Adveniente, nn. 40-43). Il motto di sant'Ambrogio "Omnia Christus est nobis" - "Cristo è tutto per noi " - ci aiuterà a cogliere il rapporto fra il primato di Dio e la signoria di Cristo sulla nostra vita e sul mondo.
L’anno 1997/98 sarà dedicato allo Spirito Santo e ci impegnerà a renderci docili al soffio dello Spirito dovunque esso spiri e a lasciarci guidare da Lui come Chiesa in perenne conversione e riforma per proclamare il primato di Dio.
L’anno 1998/99 sarà dedicato a Dio Padre di tutti. Cercheremo di cogliere come il primato di Dio si esprime nella molteplicità delle ricerche di Lui e nel movimento ecumenico.
L’anno 2000 sarà l’anno giubilare del soli Deo gloria: "l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia" (Tertio Millennio Adveniente, n.55).
4. ALCUNI ADEMPIMENTI PRATICI PER IL 1995/96
Come ho ricordato all’inizio, questa non vuol essere una lettera programmatica, bensì ispirativa. È un invito a esaminarci sul primato di Dio nella nostra vita personale, nelle nostre relazioni, nella vita della Chiesa e della società. È un invito a dare il primo posto a ciò che proclama e riconosce il primato di Dio su tutte le altre cose. È un invito in particolare a vivere momenti di preghiera "gratuita", di adorazione e di lode. Tutto ciò è destinato a dare aria e luce al nostro contesto spesso gravato da tanti problemi e preoccupazioni.
A questa luce risaltano alcuni obiettivi che sono propri di un anno postsinodale. È anzitutto un anno destinato a una lettura sistematica del Sinodo, con l’aiuto degli appositi sussidi.
È un anno da dedicarsi, da parte dei Consigli pastorali parrocchiali e delle altre istituzioni formative, alla riscrizione del progetto pastorale.
È un anno nel quale vorrei stendere la "Regola di vita del cristiano ambrosiano" che ho già iniziato a prevedere con l’aiuto del Consiglio Pastorale diocesano, delle claustrali, dei giovani.
È infine un anno nel quale dobbiamo prevedere gli impegni futuri del triennio giubilare, che per noi sarà caratterizzato dall’anno centenario della morte di sant’Ambrogio (397-1997).
Nella luce del primato di Dio ci viene dunque chiesto di affrontare alcuni adempimenti pratici, che traducono quanto abbiamo detto in fatti concreti. Con quale spirito vivremo questi adempimenti? come tradurremo il messaggio di questa lettera in un cammino postsinodale che esprima il nostro "ripartire da Dio"?
La lettera dei Vescovi lombardi dell'8 settembre 1994 "La fede in Lombardia" contiene molti spunti significativi al proposito. Da parte mia richiamo alcuni suggerimenti conclusivi.
4.1. Riscrivere il progetto pastorale
La riscrizione del progetto pastorale avrà come punto di partenza questa domanda: la nostra Chiesa, la nostra comunità, sa ancora parlare di Dio? parlano di Dio le nostre assemblee liturgiche? le nostre catechesi fanno presentire il Mistero insondabile, quello che non si comunica solo con le parola, ma anche con i gesti, i silenzi, gli esempi della vita? insegnamo a pregare, a immergersi nel Mistero santo? i nostri ragazzi sentono che c'è una ragione profonda del nostro interesse educativo, quella di aprirli a ciò che è al di là delle cose visibili, di far gustare loro l'amicizia con Gesù figlio di Dio e fratello nostro? la nostra carità è sostenuta dalla riverenza amorosa verso il povero perché vede in chi è nel disagio il Cristo sofferente e glorioso ("l'avete fatto a Me". Cf Mt 25,40)?
Data l'importanza di questa riscrizione del progetto pastorale aggiungo in appendice alcune riflessioni sulla storia e la metodologia di questa fondamentale attività di una parrocchia e di una istituzione educativa, attività che non deve mai considerarsi conclusa ma va regolarmente e pazientemente ripresa in ordine a un continuo aggiornamento del nostro modo di fare pastorale.
4.2. La preghiera nelle nostre comunità
In questa luce invito a rivedere con particolare cura il capitolo della preghiera delle nostre comunità, sia di quelle parrocchiali come di tutte le altre: l'invito si può ritenere quindi anche esteso, sempre nel rispetto dell'autonomia e delle tradizioni proprie dei singoli Istituti, anche a tutte le comunità di vita consacrata.
Il nostro modo di pregare in comune lascia trasparire qualcosa del mistero di Dio? se un non credente entrasse in chiesa nel momento della preghiera o di una celebrazione, si sentirebbe portato a gustare qualcosa di un al di là invisibile ma presente, adorato, amato, cercato con tutta l'ansia del cuore? Le nostre comunità insegnano a pregare? facciamo conoscere i metodi di preghiera, il metodo della "lectio divina", le tradizioni semplici di orazione che ci vengono dall'antichità cristiana? chi volesse imparare a pregare può venire da noi senza sentirsi costretto a cercare in tradizioni lontane o esoteriche un avviamento al modo di incontrare Dio nella preghiera e nel silenzio? il nostro modo di cantare sostiene la preghiera, eleva lo spirito e il cuore a Dio e ce ne fa presagire la grandezza e la bontà?
La preghiera dei preti e dei consacrati è visibile, esemplare, capace di far desiderare la gioia della preghiera? avviene talvolta ciò che è avvenuto a Gesù, che dopo la sua preghiera si sente domandare: insegna a pregare anche a noi così (cf Lc 11,1)?
Le indicazioni ripetute date in questi anni per la preghiera in famiglia hanno avuto qualche riscontro? Se ne è parlato qualche volta negli incontri, nei consigli pastorali? si è cercato insieme, con le famiglie più impegnate, di vedere come aiutare altre famiglie a riscoprire qualcosa di questo tesoro? le missioni popolari hanno avuto come frutto una ripresa della preghiera in famiglia?
4.3. La messa festiva
La messa festiva è vissuta come momento di elevazione della mente e del cuore a Dio, come occasione privilegiata della proclamazione del primato di Dio? Cosa facciamo perché sia davvero quella "sosta che rinfranca", quel momento in cui il cristiano beve alla sorgente della vita? Abbiamo mai pensato a come vivere un po' anche noi, pur tenendo conto delle diversità culturali, quella gioia della messa domenicale che caratterizza le comunità del terzo mondo? Le diverse celebrazioni eucaristiche conducono al cuore del mistero di Gesù morto e risorto che proclama il primato del Padre? Ricordiamo che non si tratta spesso di accrescere il contenuto didattico o didascalico delle celebrazioni, talora fin troppo carico. Il primato di Dio non lo si proclama solo a parole, ma con i silenzi, i gesti, il ritmo lento e grave, il tono raccolto, il cuore che vibra, il canto che comunica le vibrazioni del cuore, la musica che non distrae ma raccoglie ed eleva...
4.4. Gli esercizi spirituali
Un momento tipico in cui si esprime nel concreto il primato di Dio è quello degli Esercizi spirituali. Sono un tempo gratuito dato a Dio solo per amore di Lui soltanto. Si potrà rileggere la lettera dei Vescovi Lombardi "Gli Esercizi spirituali e le nostre comunità cristiane" del 1992. Sarebbe molto bello se ogni comunità parrocchiale potesse celebrare in quest'anno il primato di Dio con gli Esercizi spirituali in parrocchia.
4.5. Il catecumenato degli adulti
Vorrei anche richiamare l'attenzione da avere per quanti, giovani e adulti, sempre più numerosi anche da noi, scelgono oggi di "ripartire da Dio" iniziando il cammino in vista del battesimo. Il Sinodo ha parlato, nella cost. 97, di come aiutare le comunità cristiane a impostare in modo corretto ed efficace gli itinerari previsti per l'iniziazione cristiana, soprattutto il cammino di catecumenato degli adulti non battezzati. E' un punto sul quale saremo chiamati in futuro a porre un'attenzione crescente, in vista di una proclamazione costante del primato di Dio per ogni uomo o donna che lo cerca con cuore sincero.
4.6. Affrontare la sfida della carenza di vocazioni
Un ultimo pensiero lo dedico a un punto nel quale la nostra proclamazione del primato di Dio entra in una difficile tentazione epocale. Ci chiediamo: come proclamare con fiducia il primato di Dio quando sembrano venir meno le vocazioni sacerdotali, alla vita consacrata, al servizio missionario?
La destinazione dei sacerdoti novelli di questi ultimi anni ha messo infatti in luce ancor più chiaramente un fenomeno che si avvertiva già da qualche tempo: la scarsità di preti giovani e il progressivo innalzarsi dell'età media del clero. Aumentano le parrocchie con un solo parroco, mentre diminuiscono gli aiuti per le messe festive e per i sacramenti, in particolare la confessione.
I parroci dunque vedono aumentare le loro attività, e magari hanno pure il dovere di seguire frazioni o chiese che fino a poco tempo prima erano seguite nella cura pastorale da altri sacerdoti. Aumentano pure le situazioni nelle quali sacerdoti giovani o ancora abbastanza vicini al mondo dei giovani vengono incaricati di seguire la pastorale giovanile di più parrocchie, mentre non sempre trova risposta la domanda di parroci di parrocchie piccole e vicine perché un vicario parrocchiale abbia cura della pastorale giovanile di più parrocchie .
Anche la vita consacrata è toccata dallo stesso fenomeno: è come se nel mondo occidentale venisse meno la capacità di osare per Dio, di dedicarsi per tutta la vita a una vocazione impegnativa. I giovani stentano a fare scelte definitive.
Le comunità cristiane reagiscono in maniere diverse al mutamento. E le loro reazioni sono talvolta motivate da paragoni rispetto ad altre situazioni nelle quali la penuria di vocazioni ancora non si è mostrata con tutta la chiarezza che essi vedono sotto i loro occhi.
Una prima reazione istintiva può essere quella di sorpresa o di sfiducia, perché si ritiene che non si sia provveduto alla comunità secondo le attese. Oppure si avverte un senso di stanchezza che abbatte ancora di più la capacità di reagire e di suscitare risposte pastorali diversificate. Penso alle situazioni nelle quali si stenta a collaborare tra presbiteri di parrocchie vicine, o ai Decanati nei quali la riunione dei presbiteri o dei Consigli Pastorali decanali non divengono occasione per risparmiare e ridistribuire energie e per collaborare più strettamente al perseguimento di mete pastorali comuni. Penso a quelle comunità in cui la notizia che le Suore dovranno lasciare la parrocchia per carenza di vocazioni suscita al momento iniziative volte a prolungare la loro presenza, ma non conduce a una seria interrogazione né sulle carenze vocazionali della parrocchia né sul modo di attivarsi da parte dei laici per assumere le loro responsabilità.
Vi è un secondo tipo di risposta negativa: sospinti dalle abitudini acquisite in tempi di abbondanza di clero, non ci si sforza di individuare mete prioritarie per la vita della comunità, e così la proposta pastorale si fa generica, senza la capacità di sostenere la individuazione e la crescita di energie nuove attraverso la cura delle diverse vocazioni che la comunità cristiana ha nel suo interno. Nella linea di una corretta reazione alla difficoltà in cui siamo immersi, ricordavo già negli scorsi anni - in occasione della Messa crismale del Giovedi santo - l’importanza "di svolgere un’attività vocazionale libera e fiduciosa, non preoccupata e ansiosa", basata sulla partecipazione della fede di Abramo, e scaturente da un cuore "affidato alle promesse del Signore", frutto di un "volto di Chiesa che sa attrarre perché umile e semplice".
Più dolorosa, e alla fine debilitante, è la reazione di presbiteri e cristiani che si lasciano prendere dal nervosismo nei confronti della situazione, e hanno la tentazione della polemica verso questa o quella situazione, questo o quel responsabile della vita della comunità parrocchiale, o decanale o diocesana.
Quali gli atteggiamenti positivi, giusti, quelli per i quali il Signore permette questa prova, per purificare, santificare, edificare la Sua Chiesa?
* Anche qui occorre avere il coraggio di rifarci anzitutto al primato di Dio. "Gesù andava attorno per le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo del regno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: " La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!"" (Mt 9,35-38). È dunque il padrone della messe Colui a cui fare riferimento! A noi è chiesto di entrare nel cuore del Signore, di guardare con i Suoi occhi, con uno sguardo sostenuto dalla certezza della misericordia preveniente del Padre e di imparare a vivere la tentazione epocale che nasce dalla penuria di vocazioni, affinché vengano accresciute la nostra fede e la nostra speranza.
Per vivere in maniera cristiana questa sfida pastorale che ci prepara al duemila, occorre che ciascuno di noi apra il cuore nella fede per comprendere il Signore che educa il suo popolo e per partecipare ai sentimenti di Gesù di fronte alle folle "stanche e sfinite". Mi sembra che la sofferenza del nostro tempo e della nostra Diocesi nel ripensare il modo con cui le nostre forze possono rispondere ai bisogni pastorali, sia la grande prova che attende la Chiesa occidentale nel nuovo millennio. Ad altri tipi di persecuzioni per il Vangelo che le generazioni cristiane hanno sperimentato si sostituisce per noi oggi questo dolore della penuria e della sproporzione delle forze, drammaticamente sperimentato da tutto un popolo cristiano.
* Comprendiamo meglio allora che cosa significa condividere la passione per il Regno che è stata l’anelito del cuore di Cristo e sentire come Lui chiama ancora oggi tanti a seguirlo. Questa condivisione stimola i preti e tutti i consacrati e le consacrate a proporre a molti giovani di associarsi a loro nel cammino della sequela per il Regno. Dobbiamo fare comprendere con la nostra vita e con le nostre parole, che fare il prete, dedicare tutto se stessi a Cristo, è anche umanamente una forma di vita piena e appagante. Dobbiamo suscitare, incoraggiare, accompagnare cammini vocazionali fin dalla preadolescenza. Le diverse iniziative del Seminario minore, della Comunità propedeutica, della Pastorale vocazionale e della Pastorale giovanile, in particolare il "Gruppo Samuele" vanno conosciute e utilizzate assai di più.
Segnalo in particolare che non abbiamo finora dato il dovuto rilievo alla novità del Diaconato permanente e ai grandi frutti che da esso possono derivare per la nostra pastorale anche per una migliore ridistribuzione delle forze sul territorio.
* Mentre ci impegniamo a pregare il Padrone della messe e a collaborare con Lui perché mandi molti validi operai nella sua vigna, occorre imparare a cogliere i nuovi segni della speranza e a dare spazio alle nuove realtà vocazionali del laicato, della famiglia, della dedizione personale.
Frutto di una autentica disposizione di fede e di speranza nei confronti della situazione odierna sarà la capacità di sollecitare una collaborazione più generosa ed efficace all’opera di evangelizzazione e di cura della fede. Ricordiamo l’importanza di laici seriamente dedicati al Vangelo, alla cui ricerca e formazione dobbiamo porre molta attenzione.
* Essenziale però rimane lo spirito di collaborazione e di reciproca accogliente attenzione che vediamo ormai svilupparsi tra i preti e i laici soprattutto nell’ambito del Decanato. È in questa "pastorale unitaria" che risiede ora la nostra maggiore speranza di sostenere e aiutare una evoluzione del modo di vivere delle comunità parrocchiali in tempi di penuria di sacerdoti.
"Unità pastorale" diviene quindi non soltanto uno strumento pratico di azione in determinate circostanze, bensì un modo globale di rispondere alla sfida che caratterizza questi decenni della nostra Chiesa.
CONCLUSIONE: PORTANDO GESÙ' PER LE VIE DI MILANO
Signore, ti sto sostenendo fra le mie mani, mentre la gente ti adora e ti loda, ma in realtà sei Tu che stai sostenendo me, sei Tu che stai sostenendo questo popolo. Esso contempla il primato del tuo amore, che ti ha messo qui nelle specie del pane, in memoria vivente della tua passione e morte, della tua debolezza e della tua solitudine.
Signore, nella tua debolezza e solitudine Tu sei la nostra forza. Tu sei il risorto, Tu cammini in mezzo a noi dando vita e speranza. Tu non deludi coloro che si appoggiano a Te e credono al primato del tuo amore. Tu ci inviti a ripartire da Te, a ripartire dopo il nostro Sinodo dalla proclamazione del primato del Padre tuo, a rifarci a quelle cose essenziali da cui deriva ogni nostra forza e gioia. Nutrici, o Signore, col tuo pane. Nutrici con quelle cose che danno senso alla nostra vita, fa' che nella contemplazione di Te nel tuo vangelo noi attingiamo coraggio per riprendere il nostro cammino verso la fine del secondo millennio, incontro al mistero di Dio.
Maria, Madre di Gesù e della Chiesa, tu che dall'alto del Duomo vedi il lungo itinerario del tuo popolo, fa' che troviamo la via giusta. Non permettere che ci smarriamo tra le molteplici strade del nostro mondo. Ci accompagnino in questo viaggio verso l'eternità di Dio i nostri santi, in particolare i santi vescovi che in questo secolo hanno retto la nostra Chiesa. Beato cardinal Ferrari, e tu che sarai presto proclamato beato, cardinale Ildefonso Schuster, intercedete per noi!
+ Carlo Maria Card. Martini
Arcivescovo
Milano, 8 settembre 1995
Appendice 1
Appunti per una riscrizione del progetto pastorale parrocchiale
1. Nel quadro del triennio sull’educare, precisamente nella lettera pastorale "Itinerari educativi" del 1988, domandai a tutte le parrocchie e alle altre istituzioni formative di dotarsi di un progetto pastorale. L’obiettivo che mi prefiggevo era di suscitare una sempre maggiore coscienza del carattere responsabile dell' "agire pastorale". Mi pareva importante che i sacerdoti e i laici impegnati, per poter svolgere efficacemente il proprio ministero e sfuggire alla tentazione del disimpegno o dello scoraggiamento, riflettessero sullo stile e il metodo usato da Dio per "educare il suo popolo" interrogandosi sugli obiettivi e gli itinerari dell’agire pastorale.
2. Non mi muovevano tanto argomentazioni di principio, né considerazioni metodologiche astratte. Piuttosto mi preoccupavo di stimolare a trovare soluzioni concrete e praticabili a talune difficoltà vissute da preti e laici, che mi venivano segnalate in occasione delle visite pastorali alle parrocchie e ai decanati.
In primo luogo, molti operatori pastorali lamentavano la fatica di ritradurre in concreto nel vissuto ordinario delle comunità parrocchiali le proposte contenute nelle Lettere pastorali che di anno in anno si susseguivano; quando ciò poi accadeva, v’era il rischio che, per dare spazio alle nuove sollecitazioni del Vescovo, si finisse per soppiantare o trascurare altre iniziative, magari attivate soltanto l’anno precedente.
Inoltre una conoscenza sempre più assidua delle parrocchie ambrosiane mi aveva convinto della necessità di sfuggire ad una duplice tentazione nella vita pastorale: da un lato, il rischio della routine, che conduce a rappresentarsi la vita pastorale come una ripetizione di gesti e parole; dall’altro, il pericolo di un attivismo frenetico che sconfina spesso nell’arbitrio e nell’improvvisazione. Tutte queste difficoltà mi suggerirono di richiamare l’attenzione della diocesi sulla necessità che ogni parrocchia provvedesse a farsi carico in prima persona di dare vita ad un ponderato e sapiente sforzo di progettazione e verifica dell’agire pastorale. Ecco dunque le motivazioni che stavano alla base della richiesta di redigere un progetto pastorale in ogni parrocchia. In altre parole, come ebbi a dire poco tempo dopo ad una folta rappresentanza di membri dei Consigli pastorali parrocchiali nel Duomo di Milano, era mia intenzione richiamare l’evidenza che l’educare non è soltanto cosa del cuore, ma è pure cosa della testa, cioè richiede metodo, intelligenza; non basta educare a casaccio o a stagioni nel lanciare un’idea dimenticando poi tutto. Educare esige pazienza, metodo, perseveranza e il progetto scritto è utilissimo per verificare successivamente le attuazioni e le distanze.
3. Ben presto ebbi modo di verificare che la richiesta avanzata di redigere un progetto pastorale parrocchiale aveva colto nel segno. Un primo riscontro lo rinvenni in interventi di valenti studiosi, che riflettendo su alcuni aspetti della teologia pastorale convenivano nell’assegnare una particolare importanza all’obiettivo di una seria programmazione della vita della parrocchia. Mi limito a citarne uno: "Programmare, e lavorare con un progetto, è alternativo al procedere a rimorchio o estemporaneamente. Programmare è conseguenza del riconoscimento di una responsabilità, da un lato, e dell’esigenza di una logica nell’agire dotata di qualche stabilità, dall’altro. Programmare nell’azione pastorale suppone anzitutto di non avere delegato ad altri di pensarla e di deciderla, quasi pronti o rassegnati ad accettare qualsiasi passo a scatola chiusa; e di non immaginare la vita della chiesa legata ad un discernimento (o piuttosto ad un estro, ad un arbitrio) estemporaneo, così incoerente e privo di una logica di continuità da vanificare ogni sguardo prospettico. Nell’uno e nell’altro caso, la rinuncia a programmare supporrebbe un’abdicazione di umanità, che non avrebbe probabilità di senso cristiano" (C. Tullio).
Un ulteriore riscontro lo si ebbe dalla recezione della proposta da parte delle comunità parrocchiali della Diocesi. A partire dal settembre dell’anno successivo (1989) si è potuto provvedere ad un’analisi critica di quasi 700 progetti, dalla quale emergeva complessivamente un confortante segnale di maturità circa la consapevolezza che ispira l’intensa attività pastorale delle nostre comunità (cf M. Vergottini, Rilettura dei progetti educativi parrocchiali, Ambrosius 5 (1990), pp. 456-485). Oggi, non soltanto il numero delle parrocchie che hanno provveduto ad una stesura del rispettivo progetto è ulteriormente cresciuto, ma alcuni di tali contributi, già riveduti e corretti, costituiscono un segnale inequivocabile della maturità con cui ci si accinge come Chiesa a farsi carico del compito della evangelizzazione e della testimonianza della carità.
4. Qualche anno più tardi, nella Lettera alla città di Milano, "Alzati e va’ a Ninive" (marzo 1991), tesa a sottolineare la necessità di una nuova, coraggiosa e coerente evangelizzazione, ho avuto modo di riconsiderare l’urgenza della stesura di un progetto parrocchiale. Nel quadro di una pastorale imperniata sulla figura della parrocchia veniva posto l’accento su due strumenti privilegiati, utili a favorire una "fede adulta" fra quanti a vari livelli prendono parte attiva alla vita della comunità cristiana: precisamente il consiglio pastorale parrocchiale e il progetto pastorale. Il consiglio pastorale parrocchiale - osservavo - abilita un gruppo di persone mature a esprimere, alla luce della fede e in rapporto con le indicazioni della Chiesa un giudizio unitario sulla vicenda della comunità intera e a essere parte attiva nel promuovere anche negli altri una reale capacità di condivisione. Mediante il progetto pastorale poi la parrocchia individua le urgenze, le possibilità, le priorità e gli appuntamenti con cui essa intende annunciare il Vangelo a ogni condizione di vita.
Sullo stretto legame che intercorre fra queste due dimensioni dell’agire pastorale, il "consigliare" e il "programmare" avevo avuto già modo di riflettere in occasione della pluriennale attività dei Consigli presbiterale e pastorale, che in questi anni sono stati per me un’occasione privilegiata per ripensare il piano pastorale diocesano e per prendere coscienza dell’utilità di celebrare un nuovo Sinodo. Proprio a conclusione dell'attività del II Consiglio pastorale diocesano fui sollecitato a tracciare un profilo spirituale del "consigliare" nella Chiesa. Ricordo di aver sottolineato come colui che consiglia deve avere la comprensione amorevole della complessità della vita in genere e della vita ecclesiastica in specie. Il consigliare infatti non è un atto puramente intellettuale, bensì un atto misericordioso che tenta di guardare con amore le situazioni umane concrete - parrocchie, decanati, Chiesa, società civile, società economica -. Il consigliere nella comunità deve inoltre avere un grande senso del consiglio come dono. Dono da richiedere nella preghiera, perché non si può presumere di averlo, e da vivere con distacco. Il consiglio non è un’arma di cui posso servirmi per mettere al muro gli altri; è un dono a servizio della comunità, è la misericordia di Dio in me.
Il consigliare è pure il momento dell'indagine e della creatività. Parecchi dei nostri Consigli pastorali parrocchiali sbagliano su questo punto: propongono un tema, chiedono il parere dei singoli membri, ciascuno dice la prima idea che gli viene in mente, e poi si vede la maggioranza. Invece, occorre non una semplice raccolta di pareri, ma una istruzione di causa, che valorizzi il gusto dell'indagine e del confronto con le soluzioni già date in altri luoghi e situazioni.
5. Finalmente, il recente Sinodo 47° ha recepito appieno tutte queste sollecitazioni nel capitolo "La parrocchia luogo della corresponsabilità pastorale" dove si afferma che il progetto pastorale è "espressione oggettiva, segno e alimento della comunione che anima e fonda la comunità visibile della parrocchia" (cost 142, § 3); e ancora: "le linee fondamentali del progetto pastorale di ogni parrocchia sono quelle disposte dalla Chiesa universale e da quella diocesana, ma queste vanno precisate per il cammino della concreta comunità parrocchiale ad opera in particolare del parroco con il consiglio pastorale. Il progetto pastorale di ogni parrocchia deve interpretare i bisogni della parrocchia, prevedere le qualità e il numero dei ministeri opportuni, scegliere le mete possibili, privilegiare gli obiettivi urgenti, disporsi alla revisione annuale del cammino fatto, mantenere la memoria dei passi. Esso è un punto di riferimento obiettivo per tutti, presbiteri, diaconi, consacrati e laici; come pure per tutte le associazioni, i movimenti e i gruppi operanti in parrocchia. Va tenuto infine presente che la precisazione dei criteri oggettivi di conduzione della parrocchia favorisce la continuità della sua vita al di là del cambiamento dei suoi stessi pastori" (cost 143, § 3).
Per poter interpretare il testo delle due costituzioni, in tutta la sua densità e le sue sfumature, suggerisco ai Consigli pastorali parrocchiali di meditarlo insieme, alla luce della mia Lettera di presentazione del Sinodo, dell'Introduzione del Libro Sinodale e di questa ultima lettera. Un tale esercizio di rilettura renderà il Consiglio pastorale sempre più consapevole della sua identità e dei suoi compiti.
6. Nel quadro della cura che da oggi in poi caratterizzerà la nuova stagione della Chiesa ambrosiana stabilisco dunque che ogni comunità parrocchiale debba provvedere da quest'anno ad una revisione del progetto pastorale - o, eventualmente, alla prima elaborazione -, alla luce delle disposizioni del Sinodo che costituisce il criterio normativo per misurare e riorientare la vita delle nostre comunità. Eventuali eccezioni o difficoltà saranno sottoposte ai Vicari Episcopali di zona.
Se è vero che l’azione pastorale modella forme e strutture in modo che nella Chiesa ogni persona possa incontrare il Signore in termini personali per conoscerlo e seguirlo in un cammino spirituale semplice e applicabile a tutti, si comprende come l’adempimento della stesura/revisione di un progetto pastorale parrocchiale debba essere avvertito non già come un dovere in più, che si aggiunge alla lista delle tante "cose da fare". Prima ancora che un atto di obbedienza nei confronti di un’esplicita richiesta del Vescovo, la realizzazione del progetto è un servizio a se stessi, alla propria realtà parrocchiale, così da favorire una ripresa di autoconsapevolezza critica sulla qualità del lavoro apostolico, provvedendo ad una verifica sui bisogni e le risorse educative in loco, riprofilando mezzi, tempi e criteri di realizzazione degli obiettivi prefissati. In gioco dunque sta anzitutto la necessità di maturare sempre più consapevolezza che il momento progettuale costituisce un requisito essenziale dell’agire pastorale, prospettiva questa che proprio in quanto consente di metterci nuovamente a contatto con il disegno salvifico che il Signore ha per ciascun uomo e donna, diviene scoperta che infonde sollievo e insieme incita ad un impegno più esigente ed appassionato nella missione evangelica e nell’edificazione ecclesiale.
Redigendo un progetto pastorale la comunità si assume la responsabilità di operare una decisione pastorale saggia e muove da un attento esercizio di discernimento spirituale/pastorale, per rispondere all’interrogativo di come "qui e ora", per "questi" uomini e donne la comunità cristiana è in grado di formulare e predisporre itinerari di incontro con il Signore. L’icona evangelica del padrone di casa che estrae dal suo tesoro "cose nuove e cose antiche" (cf Mt 13,52) risulta estremamente istruttiva del saggio equilibrio di un'attenta valorizzazione della ricchezza di iniziative della nostra tradizione ambrosiana e insieme della disponibilità a inventare nuove modalità per liberare la forza del vangelo.
7. Nel sollecitare le parrocchie al compito della revisione del progetto pastorale, ritengo utile suggerire alcuni criteri che possono favorire una tale impresa. Certo, la realizzazione di un progetto pastorale è atto che impegna originalmente la singolarità e la personalità di ogni comunità parrocchiale, per cui non si può affatto ipotizzare l’esistenza di uno schema-base eventualmente da personalizzare a piacere. Nondimeno, senza pregiudicare la libertà e l’inventiva di ciascuna comunità, richiamo alcuni suggerimenti di carattere metodologico.
* L’obiettivo sotteso alla realizzazione di un progetto pastorale parrocchiale non dev’essere quello di elaborare in proprio una sorta di "teologia della parrocchia", né di fare una silloge di documenti magisteriali, neppure di proporre soltanto una puntuale registrazione delle "tante cose che attualmente si fanno". Il progetto, in quanto interessa una specifica parrocchia, deve tenere presente la sua storia, la sua condizione, il suo contesto socio-culturale e spirituale; deve focalizzare l'attenzione sugli itinerari di fede che vengono offerti alle persone che vivono in parrocchia, come cura premurosa nei loro confronti. È utile, infine, trovare una proficua chiave di lettura (per es. le quattro costituzioni conciliari, oppure la triade Parola, Eucarestia, Diaconia, o altri schemi biblici o teologici, quali l’articolazione suggerita dai cinque progetti pastorali: contemplazione - Parola - Eucarestia - missione - "farsi prossimo", o altri suggeriti dal Libro sinodale) che possa consentire di contemplare il "volto" della Chiesa e insieme misurare la vicinanza/distanza dell’esperienza ecclesiale vissuta.
* Il punto di partenza deve essere l’analisi della situazione in cui la parrocchia opera (quartiere/paese, abitanti - famiglie - lavoro). Non si tratta di dar vita ad una ricerca sofisticata sotto il profilo sociologico, ma di pervenire ad una conoscenza meno superficiale dell'ambiente socio-culturale in cui è inserita la comunità parrocchiale, così da valutare l’incidenza dei mutamenti sociali sull'ethos ed il vissuto spirituali delle persone che vivono in quel determinato territorio, in modo da avvertire bisogni e resistenze in ordine alla proposta del messaggio credente. Per venire incontro alle difficoltà delle parrocchie con minori potenzialità, e insieme per evitare inutili sprechi, è auspicabile che ogni decanato possa costituire l’ambito di osservazione sul territorio e di rilevazione dei comportamenti.
* Si tenga presente la parola chiave del Sinodo, cioè quella di "unità pastorali", per programmare l’attività della parrocchia nel quadro della collaborazione interparrocchiale e decanale.
* Prima di accingersi alla stesura materiale del testo è bene aver riflettuto a sufficienza sulla struttura dello stesso, affinché assuma coerenza, organicità, sinteticità. Il momento progettuale acquisterà sempre più valore allorquando eserciti una funzione critica nei confronti della prassi pastorale vigente, segnalando attenzioni, priorità, correzioni ed omissioni nel lavoro pastorale ordinario. In questa linea, è opportuno che si prendano in considerazione anche quei capitoli della pastorale che generalmente risultano scottanti e spesso scoperti (l’accostamento dei "lontani", l’educazione socio-politica, il post-cresima, ecc.).
* Il progetto pastorale parrocchiale risulta tanto più credibile quanto più in esso si percepisce la coscienza di essere partecipe del cammino della Chiesa locale, di essere docile al magistero episcopale, dunque quanto più è dato registrare un respiro ed una memoria diocesana. Il Libro del Sinodo, unitamente alle più recenti Lettere pastorali, in particolare quest’ultima "Ripartire da Dio", inquadrate nella cornice dell’insegnamento del Papa, costituiscono i testi-base da cui deve muovere questo sforzo di progettazione/programmazione/verifica del lavoro parrocchiale.
* Un’ultima e decisiva acquisizione è infine lo sforzo di pervenire al ritrovamento di una chiave di lettura originale, personale, capace di mostrare il carattere "proprio" ed irrepetibile, che lega questo progetto a questa comunità. Il "leit motiv" può essere un’icona evangelica, una cifra ideale, un idea-guida, capace di fornire sinteticamente il tutto nel frammento, l’angolo di visuale grazie al quale ci si apre alla realtà nella sua interezza. Si tenga presente la cost. 140 del Sinodo su "Le diverse tipologie di parrocchie della Diocesi". Diversa sarà per esempio la sintesi unitaria che caratterizza una parrocchia con una storia millenaria rispetto ad una di recente costituzione magari ancora in attesa di realizzare l'edificio-chiesa. In ultima analisi, non bisogna dimenticare che l’obbedienza nella vita cristiana ed ecclesiale è creativa e interpellante proprio in quanto essa nasce dalla decisione della libertà: a nessuna parrocchia è consentita un’anonima assimilazione del piano diocesano, ad ogni comunità è richiesta invece una personale riappropriazione del cammino diocesano a partire da un forte ricentramento sull’essenziale, per "ripartire da Dio".
Appendice 2
Lettera di presentazione alla Diocesi del Sinodo 47°
1 Parole del Signore alla Chiesa ambrosiana sua Sposa
Dice lo Sposo alla Chiesa:
"Tu sei il mio sigillo,
creata a mia immagine e somiglianza.
Risplende in te
l'immagine della giustizia,
l'immagine della sapienza e delle virtù.
Nel tuo cuore è impressa
l'immagine di Dio;
rifulga anche nelle tue opere;
le tue azioni rivelino l'effigie del vangelo
perché nella tua condotta tu custodisca i miei precetti.
L'impronta del vangelo brillerà in te
se porgerai l'altra guancia a chi ti percuote
se amerai il tuo nemico
se prenderai la tua croce e mi seguirai.
Io ho portato per voi la croce
proprio perché tu non esitassi a portarla per causa mia".
Carissimi battezzati della Chiesa ambrosiana,
ho voluto iniziare questa lettera introduttiva al testo sinodale con alcune parole che sant'Ambrogio, commentando il Salmo 118, mette sulle labbra del Signore (Commento al Salmo 118/2, XXII, 34). Si tratta di parole ispirate dal Cantico dei Cantici. Al grido della Sposa "vieni mio diletto" lo Sposo ha risposto: "poni me a sigillo del tuo cuore, a sigillo del tuo braccio" (Cant 8,6). E Sant'Ambrogio continua sviluppando l'immagine del sigillo impresso nel corpo della sua Chiesa e reso visibile nelle azioni conformi al vangelo, nell'amore del nemico e nel portare la croce dietro a Gesù. Mi sembra che anche il libro del Sinodo possa essere considerato come un sigillo che mostra nel corpo della Chiesa il nostro amore e la nostra obbedienza al Signore.
Ma qui mi pare di ascoltare come un grido di stupore della nostra Chiesa che si rivolge al suo Signore e gli dice: "Ma Tu davvero mi ami così, hai tanta stima di me, mi consideri un tuo bene prezioso? Noi abbiamo tanto sentito nel Sinodo la nostra fatica, il peso della nostra inadeguatezza, le nostre incoerenze...Quanti interventi hanno messo il dito sulle nostre piaghe, ci hanno fatto prendere coscienza dei nostri ritardi, della nostra lontananza dal tuo vangelo!"
"Eppure - dice il Signore alla nostra Chiesa - io ti considero un bene prezioso e ti amo. Conosco i tuoi ritardi e le tue inadempienze, ma ho scelto te come sposa e non ti abbandonerò mai. Anzi voglio proprio che tu consideri anche questo Libro sinodale, pur con i suoi limiti, come un nuovo piccolo gioiello con il quale voglio che tu faccia memoria di me e ti senta da me amata.
E più in generale vorrei che tu, in occasione della consegna di questo libro, ti sentissi richiamata a prendere maggiore coscienza dei tuoi doni, molto più di quanto tu non abbia fatto nello stesso processo sinodale. Chiedo che tu senta maggiormente la gioia e la fierezza di quanto tu sia grande e splendente per la potenza della mia grazia e per la misericordia del mio cuore.
Vorrei che tu, come Maria Maddalena al sepolcro (cf Gv 20,11-18), ti accorgessi finalmente che sono io, vivo e risorto, che ti sono vicino, ti accolgo e ti comprendo anche nella tua affannosa e non sempre illuminata ricerca di me. Quante volte mi cerchi come se fossi ancora sepolto in qualche luogo remoto, avvolto nelle bende di qualche abitudine del passato. Sono io che vivo, qui vicino a te, ti chiamo per nome e ti mando ai tuoi fratelli.
Vorrei che tu, come i discepoli di Emmaus (cf Lc 24,32), sentissi il cuore che ti arde mentre ti parlo e ti spiego le Scritture. Vorrei che il tuo cuore ardesse nella memoria delle Scritture anche durante la lettura di questo Libro sinodale.
Come Giacobbe dopo il sogno (cf Gen 28,10-22), vorrei che tu ti accorgesti che la terra che calpesti è luogo santo, che anche sulle nostre città scende una scala dal cielo su cui salgono e scendono gli angeli. Come Giacobbe ha eretto una stele a memoria di quella visione confortante, così anche questo libro sinodale ti serva per ricordare che io sono con te in questo tuo viaggio faticoso verso Gerusalemme, "confermando il tuo volto".
Come dopo la rinnovazione dell'alleanza (ricordi l'Assemblea di Sichem?) ti invito a considerare questo libro come la "grande pietra" rizzata sotto il terebinto (cf Gs 24,26) che richiama ad essere fedeli all'alleanza con me, Signore tuo, della tua terra e della tua cultura.
Vorrei che, come Mosè ha contemplato sul monte il modello di quel tabernacolo che doveva realizzare nel deserto (cf Es. 25,9.40), così tu tenessi presente questo libro come abbozzo iniziale per quella costruzione dell'edificio santo che io stesso vado facendo per mezzo di te giorno dopo giorno fino alla manifestazione della Gerusalemme celeste.
Infine, perché questo libro non abbia né l'opacità della stele di Giacobbe né il peso della grande pietra di Giosuè, ma sia per te fonte di ispirazione gioiosa, di creatività e di conforto, ti invito a confrontarlo costantemente con l'icona della Chiesa degli Apostoli, quella Chiesa che è sgorgata dal mio cuore trafitto e che è stata sostenuta dalla presenza e dalla preghiera della mia Madre.
Allora questo libro sarà per te "peso leggero", le sue prescrizioni ti saranno "giogo soave", perché dietro le righe avrai colto la trasparenza del mio volto. Quel volto che ho dovuto "indurire" per portare dietro di me i miei discepoli incerti verso Gerusalemme, ma che ora risplende di luce e si manifesta a coloro che hanno fiducia in me".
2. Parole del Vescovo alla sua Chiesa
Dopo essermi messo con voi in ascolto del Signore che ci parla, nello stesso clima di raccoglimento e di semplicità vorrei parlare a voi, rileggendo il cammino fatto ed esprimendo timori e speranze per questo momento di promulgazione del testo sinodale. Vorrei rispondere alle seguenti domande:
- 1. Come mi sono collocato in questi ultimi due anni rispetto al processo sinodale?
- 2. Come leggo il cammino fatto?
1. Come mi sono collocato rispetto al processo sinodale, fin dall'inizio della consultazione "La Chiesa di Milano si interroga", cioè a partire dai primi mesi del 1993?
Mi sono messo in una disposizione di riverente ascolto di quanto lo Spirito volesse dire alla nostra Chiesa mediante le voci dei vari organismi sinodali e di tutti coloro che venivano chiamati a dire il loro parere. Ho inteso mettermi in una situazione di attenzione e recettività verso quanto tutta la base ecclesiale potesse dire o esprimere. Non intendevo e non potevo certamente rinunciare al mio compito di discernimento, ma volevo che nascesse da esso un lungo tempo di macerazione e di ascolto.
Mi interessava anche capire quanto dei programmi pastorali di questi anni e della loro ispirazione evangelica di fondo fosse passato di fatto nella base della nostra Chiesa e potesse venire riespresso da gruppi rappresentativi. Mi premeva cioè di verificare fino a che punto le grandi linee sia tematiche (silenzio, Parola, Eucaristia, missione, carità) sia trasversali (educare, comunicare, vigilare) godessero di un consenso comune nella media dei nostri fedeli.
2. Come leggo il cammino fatto?
Mi pare che l'icona che ci ha accompagnato nel Sinodo esprima bene la chiave di lettura del cammino. Il firmavit faciem suam dice la situazione di Gesù all'inizio del "grande viaggio" verso Gerusalemme. Gesù è cosciente del cammino già percorso ed esprime il suo proposito forte di andare avanti nella nuova decisiva fase della sua vita.
Così si è mossa la nostra Chiesa, prestando attenzione al "già" delle grazie ricevute, presenti nella sua struttura istituzionale e nelle sue tradizioni, per discernere il "non ancora", cammino da intraprendersi con decisione. Anche se non abbiamo fatto un'analisi dettagliata del difficile contesto contemporaneo, esso era ben presente nello sfondo di molti interventi, con le sue tentazioni di pessimismo e di frustrazione. Così la nostra Chiesa ha capito di trovarsi in un momento decisivo della sua storia, in una fine di millennio che chiede scelte coraggiose.
I sinodali hanno avuto modo di mostrare la loro profonda passione per il Regno, il loro sincero amore alla Chiesa e la volontà ferma di una revisione di vita per orientare il cammino futuro. Mi ha molto colpito il grande spirito di responsabilità, la forte coscienza di appartenenza alla Chiesa ambrosiana nella comunione della Chiesa cattolica e nel vincolo col successore di Pietro. Ho ammirato la precisione organizzativa, la disciplina del lavoro, la capacità del rispetto dei tempi. Mi ha impressionato il sincero sforzo di dire tutto quanto potesse essere pertinente al cammino di una Chiesa locale, tenendo conto delle sue tradizioni e sullo sfondo dei grandi principi del Concilio Vaticano II e delle prescrizioni del diritto. Ho apprezzato l'impegno per unire una visione teologica dei problemi con l'attenzione agli adempimenti pratici propri di una comunità cristiana.
Mi è sembrato anche che la preoccupazione di dire tutto, ben comprensibile da parte di una larga rappresentanza in cui ciascuno ci teneva a che non fosse trascurato il proprio particolare problema e settore di interesse, rendesse l'insieme un po' pesante. I testi venivano così ad assumere quello stile tipico di molti documenti ecclesiali, dove la completezza del discorso va a scapito dell'incisività. Non ho però ritenuto che si dovesse o neppure si potesse porre rimedio con qualche intervento autoritativo a tale situazione. Essa è probabilmente oggi in larga parte inevitabile, così come è praticamente inevitabile, in una società vasta e complessa, il moltiplicarsi sia delle leggi civili sia dei documenti ecclesiastici. Mi è sembrato che la via fosse un'altra, quella cioè di lasciar emergere il documento così come lo si veniva elaborando, suggerendo insieme di sottoporlo a qualche chiave di lettura che gli facesse ricuperare, nell'uso pratico, unità, energia e scioltezza.
Ho dunque sentito sempre più come mio contributo al Sinodo quello di dare qualcosa che, senza rinnegare il desiderio di completezza e di attenzione a tutte le "cose da fare", aiutasse a leggere l'insieme con un'impressione più vicina a quella che si ha leggendo gli Atti degli Apostoli: un'impressione cioè di freschezza e di gioia, di apertura del cuore, di coraggio, quasi di "facilità", nella grazia dello Spirito, del vivere cristiano.
3. Alla ricerca del volto di Cristo
Cerchiamo dunque di esplicitare meglio i valori del nostro cammino. Infatti, pur con tutti i valori sopra ricordati, in tutto ciò che abbiamo fatto vi sono implicazioni più profonde che è importante mettere bene in luce.
C'è soprattutto un aspetto del firmavit faciem suam che merita maggiore attenzione. Questo motto pone infatti al centro il "Suo" Volto, il volto di Gesù. Ciò che tutti abbiamo cercato di fare con diligenza è stato lo sforzo di verificare il nostro volto di Chiesa sullo sfondo delle sfide contemporanee. Ciò era giusto e necessario. Ma forse il senso di disagio che abbiamo avvertito più volte nel percorso dipendeva anche dal fatto che ancora troppo poco abbiamo fissato lo sguardo nel volto di Lui. Ora la Chiesa sta tutta "sub Verbo Dei", dipende cioè totalmente dalla Parola del Signore, da cui è generata come "creatura Verbi". Parlando di lei dobbiamo avere la coscienza che parliamo di Gesù, descrivendo il suo volto facciamo riferimento a quello di Gesù. Solo così il nostro parlare della Chiesa, delle sue strutture e delle sue attività, delle sue figure di valore e delle sue regole è un parlare vero, purificante, pacificato, liberante.
Durante l'estate scorsa, mentre rileggevo i testi del Sinodo risultanti dalla seconda votazione, mi è capitato di leggere alcune pagine di Jean Vanier sulla figura di Cristo "Gesù dono d'amore". Ho avvertito come due registri differenti: quello cristologico mi dava luce e pace profonda, unita a stimoli e provocazioni forti; quello "ecclesiologico" suscitava un'impressione di pesi da portare, di adempimenti, di scadenze a cui guardare con ansietà.
Mi sono convinto ancora di più che la vera lettura del cammino sinodale vada cercata proprio in quell'approfondimento del volto di Cristo che ha fatto la Chiesa degli Apostoli, la quale viveva della contemplazione del volto di Gesù e la traduceva in azioni, strutture e regole nella gioia e nella pace dello Spirito santo. Le Chiese degli Apostoli non ci testimoniano altro che questa sequela sorgiva, irradiante e contagiosa di Gesù Crocifisso e Risorto. Essere Chiesa degli Apostoli vuol dire voler essere il Corpo di Cristo crocifisso nella storia, la ripresentazione del Suo volto nel tempo, confidando nella grazia dello Spirito e nella misericordia di Colui che perdona le mancanze con cui sfiguriamo quotidianamente questo volto dolcissimo e santo.
Ma qual è il volto che traspare dalla scena del "firmavit faciem suam"? E' quello di Gesù che si orienta decisamente a compiere il destino del Servo sofferente del Signore: il suo volto è quello dell'Uomo dei dolori dei Carmi del Deutero-Isaia.
E' il volto dell'umile, che accetta di essere consegnato alla morte per amor nostro. E' il volto di Colui che ci ha amato e vive in noi: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2,20).
In Lui, misericordia fatta carne, siamo chiamati a essere la Chiesa della misericordia; in Lui, povero per scelta, la Chiesa povera e amica dei più poveri; in Lui appassionato per la comunione del Regno, la Chiesa dell'unità intorno ai Pastori da Lui voluti per noi; in Lui, ebreo osservante, la Chiesa che ama i suoi fratelli maggiori e si nutre sulla santa radice, Israele; in Lui Servo umile e consegnato per amore al dolore e alla morte, la Chiesa che accetta di farsi consegnare dal Padre alla via dolorosa per amore del suo popolo, fino alla fine.
Ma si tratta allora forse di rinunciare a un'immagine forte di Dio e a un'immagine trionfante della Sua Chiesa? Si è talora affermato, come osservazione critica al nostro Sinodo, che l'immagine di Dio soggiacente a certi nostri discorsi era quella di un Dio forte, che suscita una comunità forte, compatta e vittoriosa; un Dio che mostra la sua gloria nel successo apostolico dei suoi seguaci e non nell'insuccesso e nell'insignificanza; che ci invia a una missione che è anzitutto "conquista" non solo di nuovi seguaci, ma anche di prestigio sociale e culturale. Di qui ne sarebbe conseguita l'autocoscienza di una Chiesa che cerca di organizzarsi per "contare" in questo mondo; che si compiace dei suoi fasti e delle sue glorie; che vorrebbe sempre dominare e primeggiare e non sa rassegnarsi al ruolo marginale in cui la riduce inevitabilmente la società moderna e non sa vedere in esso la chiamata provvidenziale ad assumere il ruolo di Cristo umile servitore.
Personalmente ho riflettuto su questi interrogativi, come molti altri di voi, e me ne sono fatto carico. Non siamo certo immuni, come non lo è nessun cristiano e nessuna comunità, rispetto alle tentazioni che hanno assalito Gesù nel deserto. Siamo anche fragili e dobbiamo continuamente, come ci ha detto Giovanni Paolo II, fare autocritica e rileggere con spirito di umiltà e di pentimento il nostro passato remoto e recente (cf Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, nn.33-36).
Sono convinto però che non si tratta di rinunciare a un'immagine forte di Dio e trionfante della Sua Chiesa: siamo pur chiamati a vedere "il Figlio dell'uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria" (Mc 13,26).
Ma si tratta di capire (e in questo senso va letto tutto il libro sinodale) di quale tipo è la nostra forza e la nostra vittoria nel periodo presente della storia di questo mondo. Si tratta di capire, contemplando il volto dell'uomo dei dolori, davanti a cui ci si copre la faccia, che il nostro volto non potrà essere diverso dal Suo; che la nostra debolezza sarà forza e vittoria se sarà la ripresentazione del mistero della debolezza, dell'umiltà e della mitezza del nostro Dio.
Abbiamo bisogno di riscoprire la mistica ecclesiale della imitatio Christi che tanto stava a cuore al nostro Paolo VI e che fu motivo ispiratore della Lumen Gentium fin dal suo esordio: "La luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, deve illuminare tutti gli uomini" (LG 1); "La Chiesa, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio" (LG 5); "Dalla virtù del Signore risuscitato trova forza per vincere con pazienza e amore le sue interne ed esterne afflizioni e difficoltà e per svelare al mondo, anche se non perfettamente, il mistero di Lui" (LG 8).
Questa imitatio non è ripetizione di un modello esteriore, ma vera ripresentazione di Cristo in noi per la grazia dello Spirito, che ci conduce a imparare sempre di nuovo a percorrere la via dell'umiltà per completare nella nostra carne ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa (cfr Col 1,24).
La via dell'umiltà è dunque la via regale dell'imitazione di Cristo in ciascuno di noi e nella Chiesa che noi siamo: lo è stata per la Chiesa degli Apostoli, che ha rivelato il volto di Gesù nel suo essere perseguitata. Stefano colpito dalle pietre ripete il grido di abbandono di Gesù al Padre (At 7,59). Saulo riconosce per grazia nei cristiani che perseguita il volto di Cristo: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (At 9,4).
Noi, Chiesa ambrosiana, abbiamo oggi più che mai bisogno di confermare il nostro volto nel volto di Cristo umile e abbandonato, non per razionalizzare i nostri insuccessi o consolarci del nostro diminuito influsso sulle masse, ma per riconoscerci davvero qui e ora, in questa situazione concreta e difficile, partecipi del disegno di salvezza del Figlio crocifisso. Per imparare ancora una volta ad amare e servire come Lui ha amato e servito e ritrovare quella semplicità e scioltezza con cui la Chiesa degli Apostoli, piccolo gruppo insignificante, ha affrontato il colosso della cultura del proprio tempo senza complessi, affidandosi alla forza e alla gioia del vangelo.
4. Il cammino continua
Il cammino dell'imitazione di Cristo nella Chiesa comprende tre gradi: quello del sì incondizionato alla legge di Dio e dell'attenta osservanza di tutte le norme che regolano la vita di una Chiesa locale; quello di una libertà del cuore che cerca sinceramente, anche al di là delle norme, la volontà di Dio per il momento presente, così come indicata dalle urgenze del tempo e dall'ispirazione dello Spirito santo; quello infine della sequela incondizionata del Cristo povero e umiliato. Faccio liberamente riferimento, in questa triplice classificazione della sequela, a quanto s. Ignazio di Loyola scrive nei suoi Esercizi spirituali a proposito dei "tre gradi di umiltà" (nn. 164-168), per trarne un criterio di lettura dei testi sinodali. Si possono infatti distinguere nel Libro sinodale come tre tipi di testi: le norme precise a cui obbedire, le descrizioni di situazioni e atteggiamenti che hanno a che fare con le grandi disposizioni del cuore e della mente e infine le grandi intuizioni evangeliche di fondo, quelle che invitano a seguire Gesù sulla via del radicalismo evangelico. La differenza tra questi tipi di testi può essere ben illuminata dalla riflessione sui tre gradi della sequela.
a. Il primo grado della sequela è il sì incondizionato alla legge di Dio. La nostra Chiesa in Sinodo si è dichiarata disposta a obbedire a Dio e a seguire Cristo accettando anche quelle disposizioni normative che costituiscono una regola fondamentale di comunione e descrivono le condizioni concrete per partecipare alla vita di una Chiesa locale e alla sua eucaristia. Nessuno di noi può ritenersi così avanti nella vita spirituale da pensare di poter fare a meno di questa parte normativa del Sinodo. E' vero che le leggi sono scritte per i deboli, ma tali siamo tutti noi e abbiamo bisogno di esse per intraprendere nell'obbedienza la via di Dio nella sequela di Cristo povero e obbediente.
b. Il secondo grado di sequela è accettare di sciogliere il cuore per vivere l'imitazione di Gesù con una disponibilità a 360 gradi alla volontà di Dio manifestata dalle circostanze della vita, liete o tristi, e dalle ispirazioni interiori. E' una situazione di costante discernimento, di libertà del cuore, di attenzione al presente. Un sinodo non può evidentemente legiferare su un simile atteggiamento: esso è frutto costante dell'ascolto della Parola e della purificazione del cuore. E' però un atteggiamento indispensabile per una Chiesa che voglia riprodurre in qualche modo il volto del suo Signore. Perché Gesù è stato per eccellenza l'ascoltatore della parola del Padre, il Servo obbediente, e chiama la Chiesa intera a seguirlo così. Per questo tante indicazioni del Sinodo vanno lette come un invito a questo secondo modo di sequela, di cui descrivono le necessarie premesse. Nell'opuscolo che conto di scrivere più tardi a partire dal dettato del Sinodo, per offrire a tutti come una "Regola di vita del cristiano ambrosiano", mi propongo di valorizzare, insieme con le pagine normative del Sinodo di cui ho detto sopra, anche tutta quella manna di indicazioni che il Libro sinodale offre a questo proposito.
Sono le indicazioni che ci invitano a metterci volentieri in ascolto della Parola, a celebrare fruttuosamente la liturgia, a vivere la comunione delle menti e dei cuori, a camminare per la via dell'umiltà, intesa come verità su di sé, su Dio e sugli altri e come capacità di accettare e tollerare nell'amore la diversità, non ritenendola minaccia, ma dono.
Abbiamo bisogno tutti di riscoprire queste attitudini di fondo, e in particolare quell'umiltà, che ci fa umili ascoltatori di Dio e degli altri, ci rende indifferenti a successo o insuccesso, ci fa reciprocamente ospitali nell'amore: "Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi per la gloria di Dio" (Rm 15,7). Il Sinodo ci ha fatto fare esperienza di questa reciproca accoglienza nell'amore e ci ha aiutato ad accettarci nelle nostre diversità per la gloria di Dio. Ora c'è bisogno di proseguire a tutti i livelli questa esperienza, maturando stili di vita di vera accoglienza reciproca e di collaborazione pastorale.
In questo contesto assume grande rilievo l'indicazione, offerta in più parti del libro sinodale, delle "unità pastorali" intese non solo come esperimento limitato a casi di necessità, ma come avvio a un nuovo stile di collaborazione pastorale sul territorio tra presbiteri, consacrati e laici.
c. Infine il terzo grado della sequela è la decisione di seguire incondizionatamente Gesù povero e umiliato e perciò di scegliere sempre e solo, per ciò che sta in noi, ciò che ci rende più simili a Cristo, gustando la gioia della persecuzione, il nascondimento e la partecipazione alle Sue sofferenze. Si ripropone qui la grande meta della santità, che è l'assimilazione totale al Signore Gesù, allo spirito umile del Cristo evangelico.
E' chiaro che questa meta può essere solo segnalata e proposta: non è certo oggetto di norme o di regole. Queste, semmai, sono strumento per giungere a entrare nel Cuore di Cristo. Ma proprio perché non è questione qui di norme scritte, la meta dell'unione con Gesù crocifisso e abbandonato deve essere sempre presente davanti ai nostri occhi, come lo fu per la Chiesa degli Apostoli, che si affidava alla Parola di Dio e si lasciava plasmare da essa, fra persecuzioni e consolazioni, come umile serva dell'Altissimo.
Vorrei che leggessimo con questo spirito le pagine del libro sinodale che qui presento: qui sta il loro cuore. Qui sta quel vento che non spegne le fiammelle di fuoco di ciascuno, ma le attiva ancor più potentemente. E' il volto del Cristo umile e povero quello nel quale ritrovare e su cui plasmare il nostro volto di Chiesa. Solo su questa via potremo anche noi cantare in verità il "Magnificat", che l'umile serva Maria, la Madre in cui quel volto santissimo si plasmò, cantò come voce della Chiesa di tutti i tempi e che ci aiuta anche oggi a cantare nella vita con la sua intercessione materna, alla quale ci affidiamo: "Sia in ciascuno l'anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio" (Sant'Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca/1, II, 26).
5. Il volto della Chiesa degli Apostoli
I membri dell'Assemblea sinodale ricorderanno il mio messaggio per la Pentecoste 1994 dal titolo "Il vento e il fuoco". Dalle reazioni dei sinodali è apparso che ciò che li aveva particolarmente impressionati era l'affermazione che forse andava ancora cercata un'icona centrale, qualcosa come un'idea madre che desse unità al vasto materiale del Sinodo. Con tali parole non intendevo evidentemente auspicare qualcosa di imposto a priori, a prescindere dal cammino effettivo del Sinodo. Neppure auspicavo l'emergere di un'idea generale da cui estrarre quasi deduttivamente le proposizioni sinodali. Non è così, commentavo allora in Aula, che agisce quello Spirito che vive in una Chiesa locale e la muove con scioltezza e libertà, secondo modi non sempre umanamente prevedibili.
Ed è lasciandomi ispirare da ciò che lo Spirito suggeriva in quei giorni che sono giunto alla convinzione che l'icona soggiacente a tutti i nostri lavori fosse quella della Chiesa degli Apostoli.
La grande domanda che sottostava a tutti i lavori del Sinodo mi pareva infatti si potesse esprimere così: quale Chiesa vogliamo essere di fronte alle sfide che ci attendono? con quale volto Gesù vuole che la Chiesa di Milano si presenti alla società contemporanea per servirla con umiltà e dedizione, per essere sale della terra, lievito nella pasta, lucerna sul candelabro, casa sulla roccia, città sul monte, voce di gioia nelle piazze e canto di letizia nelle case della gente?
Mi pare chiaro che in questo momento di prova e di difficoltà la Chiesa di Milano deve riscoprire, rivivere e attualizzare la Chiesa degli Apostoli, la Chiesa dei primi cristiani, quella nella quale venivano proclamati i vangeli secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni; quella descritta negli Atti degli Apostoli; quella che traspare dalle lettere apostoliche e dall'Apocalisse.
Siamo chiamati riscoprire, rivivere e attualizzare il modo di vedere, giudicare e agire degli Apostoli, dei primi evangelizzatori e dei primi discepoli; i loro atteggiamenti e le loro scelte, il loro amore per il Signore Gesù, la loro obbedienza al Padre, la loro docilità allo Spirito santo, la loro costante attenzione alla Parola, la loro interiore rigenerazione, la carità creativa verso i fratelli, lo slancio missionario.
Ammiriamo, studiamo e imitiamo la Chiesa degli Apostoli descritta da san Luca e dagli altri scritti del Nuovo Testamento! E' questa una icona che non si sovrappone ai testi sinodali, ma è già presente in essi; è un modello ispirato e consacrato che da duemila anni guida il cammino di tutte le Chiese cristiane; è una esperienza concreta vissuta da persone come noi, che con i loro limiti e difetti, superando difficoltà certo non inferiori alle nostre, si sono lasciate condurre dal Signore, giorno dopo giorno, per le strade del mondo, facendo del bene, sanando quelli che erano dominati da poteri maligni, insegnando a vivere con gioia il vangelo.
Per questo sarà utile che impariamo a rileggere anzitutto il libro degli Atti degli Apostoli: la storia del nuovo modo di essere di uomini e donne che vivono le beatitudini evangeliche, che si sentono inviati a dare un'anima divina a un mondo non del tutto umano, spesso ostile e ingiusto, affinché esso trovi modo di convivere con un po' più di carità e un po' più di pace. Sarà così possibile leggere il nostro Libro sinodale, con le sue costituzioni e le sue norme, come il nostro onesto tentativo di descrivere per i nostri giorni questo stile di vita per attuarlo con fiducia nella grazia dello Spirito santo.
Nelle pagine che seguono vi presento un mio contributo a questa rilettura del testo sinodale, sottolineando alcuni aspetti significativi della Chiesa degli Apostoli che trovo in grande sintonia con il Libro sinodale.
6. La fede della Chiesa degli Apostoli
Il nostro Libro sinodale inizia con le parole: "La Chiesa ambrosiana rende grazie a Dio che la convoca come 'popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo'. Formata a immagine della Chiesa universale, in essa e con essa, crede che in Gesù morto e risorto la sovrabbondante carità di Dio dona all'umanità vita e salvezza" (cost.1, §1) .
1. Ripartiamo da Dio.
Come negli Atti dunque, anche nel nostro Libro sinodale ripartiamo da Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo, che conosce il cuore di tutti e compie ancora opere meravigliose in favore dei suoi figli; ripartiamo dal Dio dei nostri padri che ha accreditato Gesù e lo ha risuscitato dai morti; dal Dio ignoto, che ha fatto il mondo e tutto ciò che in esso si trova, e che dà a tutti la vita ed è a tutti vicino; dal Dio che ha parlato e continua a parlare anche a noi per mezzo delle Sacre Scritture, della storia quotidiana, del suo Spirito; dal Dio che dà la conversione anche ai pagani, che non fa preferenze di persone, ma vuole che tutti, proprio tutti, uomini e donne, siano salvati e vivano felici sempre (cf At 17,28; 1,24; 2,11; 2,22.24; 3,13; 17,23-25; 10,34-36 ecc.).
La Chiesa degli Apostoli, prima di essere una Chiesa che "fa" qualcosa (predica, battezza, organizza la carità ecc.) è una Chiesa che loda Dio, ne riconosce il primato assoluto, sta davanti a Lui in silenziosa adorazione: "per Cristo, con Cristo, in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, ogni onore e gloria". Siamo grati per questo ai consacrati e alle consacrate della Diocesi (cf costt 451-473) per il loro "richiamo profetico al primato del regno e alla dimensione escatologica della vita cristiana (cost. 452, §1).
2. La fede della Chiesa primitiva e la nostra.
Contemplando la Chiesa degli Apostoli che proclama il primato di Dio in Gesù Cristo, noi ci sentiamo interrogati sulla nostra fede cristiana. Tante pagine del Libro sinodale ci serviranno per verificare la qualità e l'incisività della nostra fede. E' questo pure il tema dell'ultima Lettera pastorale dei Vescovi lombardi ai loro fratelli e sorelle delle Chiese di Lombardia (8 settembre 1994). La nostra fede non è forse più dubbiosa che certa? più tradizionale che personale? più verbale che vitale? Dal dubbio, o dal folclore, o dal nominalismo, al vuoto reale di Dio il passo è breve.
Dobbiamo ritrovare una autentica fede nel Dio vivo e vero rivelatosi in Gesù di Nazareth crocifisso e risorto; essere certi della sua vicinanza, della sua immanenza, pur riconoscendone la trascendente diversità da noi; dobbiamo ascoltare, ogni giorno, con attenzione e stupore, Gesù Cristo che con il suo Vangelo ci parla di Dio Padre rendendocelo familiare. Il Padre è necessario per la vita di tutti, è presenza significativa nel nostro disorientamento. Dobbiamo testimoniare, nel nostro modo di pregare, di celebrare, di vivere, quanto sentiamo la sua presenza, quanto ci dia pace la certezza della sua Provvidenza.
Guai a noi se privilegiamo solo il fare pratico, svuotandolo delle sue profonde motivazioni cristiane e dimenticando il "fare del cuore". Se ci buttiamo nella missione trascurando le esigenze di una vita interiore senza la quale il cristiano resta sprovvisto di quello spirito che deve comunicare agli altri.
3. La vita di fede ha delle esigenze.
La vita interiore, o vita di fede e di amore, dei singoli e delle comunità, ha le sue irrinunciabili esigenze. Negli Atti degli Apostoli, queste sono particolarmente evidenziate nei tre quadri sommari (At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16) che, in uno stile essenziale, descrivono la vita della primitiva comunità cristiana e ci tramandano l'atmosfera umana e religiosa dentro la quale i primi cristiani vivevano e operavano.
I primi cristiani
a. erano perseveranti nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli che annunciavano la Parola di Dio, portavano il lieto annuncio che Gesù è il Cristo, predicavano parole di vita. Gli Apostoli ricordavano, riproponevano e testimoniavano la vita e gli insegnamenti di Gesù, conosciuto di persona e compreso pienamente perchè ricolmi dello Spirito illuminante mandato su loro dal Padre. Il nostro Sinodo descrive simili atteggiamenti specialmente nel capitolo 1: Il ministero della Parola;
b. erano perseveranti nella vita comune: stavano insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. La vita di comunione dei primi credenti è così descritta da Luca: "La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola" (At 4,32). Vivevano in relazione e comunione profonda con Gesù e tra di loro, coscienti di essere corpo di Cristo, famiglia di Dio, popolo di salvati dall'amore del Signore. Il loro amore per Dio e per i fratelli era il generatore e forgiatore dei loro pensieri, sentimenti e azioni. I nostri luoghi e strumenti di comunione sono descritti dal Sinodo in particolare nei capitoli 5 - 10, mentre le diverse figure generatrici di comunione sono presentate nei capitoli 20 - 23;
c. erano perseveranti nella frazione del pane e nella preghiera. Il momento più solenne delle loro riunioni era quello dell'Eucarestia, dell'azione di grazie, della cena del Signore. Recitavano insieme le preghiere, lodavano Dio coralmente, lo invocavano con insistenza. Nell'orazione comunitaria avevano piena consapevolezza di essere, con Cristo, alla presenza del Dio creatore, ispiratore dei profeti e dei santi, salvatore del mondo; creavano preghiere genuine, ispirandosi alle circostanze quotidiane, e riversavano nel cuore del Signore le apprensioni, aspirazioni e propositi del proprio. Si leggono le risonanze di questi atteggiamenti nella nostra Chiesa nei capitoli 2 e 3.
7. Come la Chiesa degli Apostoli in missione
"L'evangelizzazione come annuncio della 'buona notizia' dell'amore del Padre che si è rivelato nella storia di Gesù, diventa così la gioiosa missione di ogni credente e delle singole comunità" (cost.6).
La categoria della evangelizzazione e della nuova evangelizzazione qualifica ampiamente il nostro testo sinodale: cf costt6-10; 28, §5; 42, §2; 43; 44; 150, ecc. Il documento sviluppa, con analisi dettagliate, suggerimenti articolati e indicazioni operative, i molteplici ministeri ecclesiali al servizio della missione. Si vedano in particolare i capitoli 11 - 17 ( cfr costt 188 - 321) e 24 - 26 (cfr costt 521 - 611), dedicati rispettivamente ad alcuni ambiti e dimensioni della pastorale e all'incontro tra Chiesa, cultura e società.
Nel nostro Sinodo si è anche evidenziato a più riprese che nella società contemporanea ci sono aspetti culturali che rendono difficile o quasi impossibile l'evangelizzazione: il venir meno del senso cristiano della vita; lo smarrimento della fede, con l'uscita dalla Chiesa di molti e l'abbandono della pratica religiosa; un numero crescente di persone che si dichiarano atee o non cristiane; la presenza di chi sembra faccia comodamente a meno della religione e di Gesù Cristo, avendo messo a tacere l'inquietudine religiosa stimolatrice del senso mistico embrionalmente presente in ognuno (cf costt5; 28, §5; 42, §1; 521-527).
Leggendo gli Atti e le Lettere degli Apostoli noi vediamo che simili situazioni hanno segnato la primitiva evangelizzazione: divisioni tra cristiani, defezioni, gente che cercava l'utile proprio e che considerava stoltezza la parola della Croce; una sapienza umana che non voleva riconoscere Dio; uomini carnali dominati da invidie e discordie, e che soffocavano la verità nell'ingiustizia e nella menzogna; uomini e donne che avevano cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile; gente testarda e pagana nel cuore e negli orecchi, e che si opponeva alla predicazione bestemmiando, che si rifiutava di credere, rinnegava il Santo e il Giusto resistendo allo Spirito santo.
Come vivere allora, nelle difficoltà odierne, il mandato di evangelizzare?
1. Che significa "evangelizzare"?
La Chiesa primitiva, così come descritta dai documenti del Nuovo Testamento, è una Chiesa che evangelizza con entusiamo ed efficacia. Da essa dobbiamo lasciarci ispirare per mettere in pratica le indicazioni del Sinodo. Ma evangelizzare oggi è lo stesso che al tempo degli Atti degli Apostoli? Sì e no.
Sì nel senso che identico è l'oggetto del messaggio e identici sono i bisogni del cuore umano, identica è la sorgente che è lo Spirito santo e identici i grandi mezzi dell'annuncio e della testimonianza.
No nel senso che molte delle condizioni esterne dell'annuncio sono mutate e occorre tenerne conto. Per questo si parla oggi di "nuova" evangelizzazione.
Per evitare dunque un fraintedimento dei testi sinodali mi pare opportuno riprendere qui un discorso già sviluppato sul significato della "evangelizzazione" e della "missione" (Cfr Alzati, va' a Ninive la grande città!, 1991, pp.7-14).
E' infatti facile confondere nella pratica la evangelizzazione o la missione con forme varie di proselitismo o comunque di propaganda di un'idea o di una dottrina. E' anche frequente l'errore di non tener conto delle prospettive mutate anche solo di qualche decennio fa, applicando ai contesti odierni forme di evangelizzazione non più attuali. Molti poi ritengono ancora che l'evangelizzazione e la missione riguardino anzitutto i preti e ben poco i laici cristiani.
Chiediamoci dunque: che cosa intendiamo quando diciamo che è mutato il contesto sociale e culturale rispetto ai tempi della prima predicazione cristiana? che cosa è propriamente evangelizzazione nel suo significato perenne? quali sono i diversi livelli in cui il vangelo è vissuto? quali i diversi ambiti di comunicazione del vangelo?
1. Mentre da una parte le grandi esigenze del cuore umano e la apertura illimitata dei suoi desideri caratterizzano l'uomo di oggi come quello di sempre, mutano nel volgere dei secoli le condizioni culturali e i contesti in cui tali cose sono espresse. Di qui noi assistiamo nella storia a diversi modi di evangelizzazione: altro è per esempio il metodo neotestamentario, esso pure diversificato secondo ad es. il mondo ebraico e quello greco-romano; altro quello usato per la conversione dei popoli germanici e di quelli slavi; altro ancora quello che ha caratterizzato l'evangelizzazione dell'America latina ecc.
L'evangelizzazione nel mondo occidentale odierno deve tener conto del fatto che da una parte è cresciuta la soggettività di ogni persona, così come è cresciuto lo spirito critico e l'abitudine al metodo scientifico; dall'altra si sono accumulati grandi pregiudizi storici contro la Chiesa e contro la stessa fede, che sono spesso operanti almeno nell'inconscio. Da più secoli divisioni confessionali e guerre di religione, precomprensioni di tipo filosofico e mutamenti epocali nel lavoro, nella famiglia, nella costituzione della società hanno messo in crisi quelle forme di cristianesimo che si legavano alla società medievale. Evangelizzare oggi significa parlare in una società che si sforza di organizzarsi pubblicamente senza far riferimento a valori confessionali ed è percorsa ovunque da fermenti di secolarizzazione.
Evangelizzare è ancora possibile in una società così? L'esperienza e la certezza di fede rispondono che evangelizzare oggi è più che mai necessario, che mai come oggi la gente ha tanto bisogno di significati e di valori alti (cf cost.8). Anzi il contesto odierno ci riporta in qualche modo ad alcune sfide che dovette affrontare la primitiva comunità e ci permette quindi di comprendere meglio che cosa significa evangelizzare. Forse per questo l'espressione "nuova evangelizzazione" ha oggi tanta fortuna. Sentiamo come per istinto soprannaturale che evangelizzare è importante, che è la questione di sempre, che però va portata avanti tenendo conto delle mutate condizioni culturali e spirituali del nostro tempo.
2. Che cosa è dunque evangelizzazione?
Essa designa un duplice aspetto: negativo e positivo. In negativo, evangelizzare è "salvare dal male": tirar fuori dal non senso, dalla frustrazione e dalla noia, dalal disperazione, dal disgusto della vita, dalla incapacità di amare, dalla paura del dolore e della morte. E' dare risposta alle invocazioni più profonde di ogni coscienza umana.
In positivo, evangelizzare è comunicare il "Vangelo", la buona notizia su Gesù: la buona notizia che Dio ci ama davvero, tutti e ciascuno, e che Gesù è morto e risorto per la nostra salvezza per liberarci dal peccato e dal male; la buona notizia del Regno che viene in Gesù e che si realizza gradualmente nella nostra adesione a Lui, nel diventare con Lui un solo Corpo, la Chiesa, nell'entrare nella vita della Trinità. Evangelizzare non è soltanto comunicare verbalmente la buona notizia, ma comunicare vita, collaborare con lo Spirito del risorto che attrae ogni uomo per farlo una cosa sola in Gesù col Padre.
Tutti coloro che sono divenuti uno con Gesù e fanno unità nel suo Corpo, la Chiesa, sentono quell'anelito missionario che ha fatto dire a Gesù dopo la sua risurrezione: "Predicate il vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15).
L'evangelizzare suppone dunque che si sia assimilata nel cuore la realtà del vangelo, la sua ricchezza, la sua gioia, la pienezza di orizzonti che esso apre, il senso della vita che esso ci fa scoprire al di là di tutte le delusioni e le sofferenze e al di là della morte. Si tratta di cogliere come il Signore, che è la nostra ricchezza ora e per sempre, desidera essere la ricchezza e la salvezza di tutti, riempiendo ciascuno di quella pienezza di senso che a me è stata concessa.
Chi pretende di "evangelizzare senza vangelo", cioè di fare opera di proselitismo attirando alla Chiesa ma senza comunicare quegli orizzonti luminosi di vita che il "vangelo" apre ad ogni persona umana, rischia di cadere sotto la condanna di Gesù: "guai a voi che percorrete la terra e il mare per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi" (Mt 23,15).
Evangelizzare è dunque comunicare, irradiare qualcosa di quella "buona notizia" e di quell'esperienza del Regno che riempie la nostra vita. Di ciò noi abbiamo il mandato esplicito da Gesù, che vuole far partecipe ogni creatura di questi orizzonti di salvezza. Ne abbiamo un dovere di solidarietà per non lasciare privi altri di quelle prospettive di senso che rispondono agli interrogativi più profondi dell'uomo. Ne abbiamo un mandato sacro da tutti coloro che sono morti o hanno subito la tortura per la libertà di questo messaggio in favore di ogni persona umana. Non possiamo perciò sottrarci a questo mandato senza rinnegare quella qualità di vita che il vangelo del Regno ci fa gustare: "Guai a me se non evangelizzo!" (1 Cor 9,16).
3. Quali sono i diversi livelli in cui viene vissuto il vangelo (cf cost. 7)?
Guardando le cose dal punto di vista del soggetto che riceve l'annuncio evangelico è opportuno distinguere molteplici livelli di vita in cui la buona notizia si incarna nella persona e nel suo vissuto individuale e sociale. Ne indichiamo solo alcuni a modo di esempio.
a. Il vangelo è vissuto anzitutto come dono interiore che dà gioia, riempie la vita, fa gustare una pace e una calma dello spirito che niente può turbare. E' il dono di una vita libera dall'angoscia di cui parla il discorso della montagna con le espressioni: "guardate gli uccelli del cielo, guardate i gigli del campo...cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (cf Mt 6,26-30).
b. Dall'intimo del cuore il vangelo irradia nella totalità della propria vita personale, come fonte di senso e di valori per tutta la vita quotidiana. Le azioni di ogni giorno appaiono ricche di significato, i gesti del rapporto quotidiano acquistano verità e pienezza. Le pagine della Scrittura danno luce sulle vicende della giornata, la preghiera riempie il cuore di conforto e sostiene nel cammino, i sacramenti danno il gusto di essere in Gesù e nella Chiesa.
c. Si apre di qui lo spazio della vita di carità come spinta ad amare come Gesù ha amato, con particolare attenzione ai più poveri, e lo spazio della vita della comunità cristiana come luogo di significati e di valori che rischiarano il cammino della vita e di gesti sacri (in particolare i "sacramenti") che riempiono l'esistenza. Nasce la possibilità di intessere rapporti autentici, di crescita nella comunione e nella vera amicizia. Le singole relazioni umane ne vengono illuminate fino alla costituzione di quell'alleanza in Cristo che è il sacramento del matrimonio.
d. Gli orizzonti della vita sociale appaiono come orizzonti di un'azione per la giustizia e la solidarietà, come spazio per un servizio al bene comune nella vita professionale e civile e per l'irradiazione di quei significati della vita che il vangelo ha insegnato a riconoscere.
e. Gli orizzonti al di là della vita non vengono più emarginati come fonte di paura, ma si aprono a speranze che confortano nelle prove della vita.
Di qui appare evidente che per comunicare il vangelo occorre che esso sia operante in noi a questi molteplici livelli, anche se sempre in stato di acquisizione e di crescita. Non possiamo irradiare se non ciò che in qualche modo lo Spirito ha messo dentro di noi e fa crescere pur nelle resistenze del nostro cuore.
I diversi livelli qui evocati si compenetrano e si richiamano a vicenda. Nelle diverse persone e storie individuali può essere più evidente ora l'uno ora l'altro di essi. Il vangelo però è forza penetrante che tende a pervadere l'intera esistenza.
4. Quali i diversi contesti o ambiti di comunicazione del vangelo vissuto (cf cost. 8)?
Dal momento che la realtà dell'evangelo del Regno abbraccia tanti aspetti dell'esistenza umana, da qui fino al compimento eterno, ne deriva che molti e molteplici sono i contesti o ambiti in cui tale realtà può essere comunicata. Si può partire dai più semplici e in apparenza quasi profani per giungere fino a quelli che coinvolgono in pieno nella vita della comunità cristiana e nel servizio delle istituzioni ecclesiastiche.
a. Un contesto o ambito che possiamo ritener primario è quello del "senso della vita". La vita vissuta secondo il vangelo non appare più come assurda o dominata dal caso, ma come ricca di senso e degna di esser vissuta, anche nei suoi lati oscuri e dolorosi.
L'irradiare attorno a sé, con il proprio modo sereno e convinto di fare le cose, che la vita ha un senso, che vivere non è un'avventura assurda e cieca, che esistono valori per cui vivere, che vale la pena essere onesti, giusti, sinceri, è un primo grande servizio di evangelizzazione. Di esso la gente ha un bisogno enorme. Oggi il dubbio se valga o no la pena di vivere con un certo ordine o non sia piuttosto il caso di lasciarsi vivere alla rinfusa e secondo le attrazioni del momento è molto diffuso. Questa incertezza esistenziale, questo pessimismo sulla vita è causa di disimpegno, frustrazione, noia, ricerca continua di evasioni e di eccitazioni, al limite anche disperazione. Quanto bene può fare oggi un cristiano laico col suo solo credere a ciò che fa, nel campo familiare e professionale! Quanto conforto nasce da questo primo semplice modo di evangelizzare!
b. Ciò vale in maniera particolare quando il contesto è quello del dolore e della malattia. Il far intendere, con la pace del cuore e la serenità nelle prove, che le malattie e le disgrazie non sono la cosa più brutta della vita; il far capire che non tutte le partite si chiudono in questa vita, ma che c'è una speranza più alta, è un grande atto di evangelizzazione. Ciò non ha bisogno neppure di molte parole e argomenti: è una persuasione che chi crede irradia col suo modo di guardare e di parlare, di affrettarsi con calma e di rispondere con pazienza, di sopportare il male e infondere speranza nel bene. Si giunge così persino a far intravvedere non solo che la vita ha comunque un significato, ma anche uno sbocco, che supera la stessa oscurità della morte.
c. Un altro contesto per la comunicazione del vangelo è quello della comunione. Si tratta di far comprendere in pratica che non è necessario guardarsi da tutti come nemici o possibili concorrenti, anzi ha senso ed è praticabile un modo di vita solidale, in cui la fiducia degli uni negli altri costruisca comunità autentiche, e una prassi di solidarietà che porti a un interesse per ogni forma di liberazione dell'uomo.
d. Un quarto ambito è quello del superamento delle inimicizie: non solo sono possibili amicizie sincere senza sottintesi mercantilistici, ma ci è addirittura dato di superare le situazioni di odio e di conflitto traendo bene dal male e perdono dall'odio.
Si vede di qui come questi e simili ambiti sono esprimibili in termini semplicemente umani e "laici", anche se sono resi possibili da quella luce che in contesti più precisi diventa quella del Gesù dei vangeli e in particolare del discorso della montagna, del Cristo morto e risorto per la nostra salvezza, della Chiesa come comunità di coloro che sono "in Cristo", dell'istituzione ecclesiastica come riferimento normativo e sicuro per coloro che cercano Dio con tutto il cuore.
e. Un ambito molto importante per la comunicazione del vangelo è quello che il Papa ha ricordato nella sua lettera Tertio millennio adveniente con le parole "sconfiggere il male". "Cercando l'uomo tramite il Figlio, Dio vuole indurlo ad abbandonare le vie del male, nelle quali tende a inoltrarsi sempre di più. 'Fargli abbandonare' quelle vie vuol dire fargli capire che si trova su strade sbagliate; vuol dire sconfiggere il male diffuso nella storia umana. Sconfiggere il male: ecco la Redenzione" (n.7).
Gesù manda i discepoli a guarire gli infermi, a risuscitare i morti, a sanare i lebbrosi, a cacciare i demoni. Oggi v'è un enorme bisogno di uomini e donne fortemente cristiani, dal cuore grande, capaci di impegnarsi nel risanamento del cuore umano e delle strutture ingiuste. Gesù indica il "cuore" come causa di ogni malvagità (cf Mc 7,20-23). Lo dice con chiarezza anche Pietro al mago Simone: "Il tuo cuore non è retto davanti a Dio" (cf At 8,21).
Il risanamento del cuore e il conseguente cambio delle strutture di peccato in cui si sono accumulati e come solidificati gli errori e i peccati dell'umanità è un atto che manifesta la forza di quel vangelo che ci insegna a rendere bene per male, a trarre il bene da male, a vincere il male col bene. Il nostro Sinodo ci incoraggia in questa azione rinnovatrice dei cuori e della società (cf in particolare i capitoli 24 - 26: costt 521 - 611).
Di qui appare evidente che per "dare ragione della speranza che è in noi" (1 Pt 3,15) occorre che questa speranza davvero ci sia nel nostro cuore, che il vangelo ci illumini interiormente, che la visuale del Regno ci sia familiare e che tutto ciò appaia nel nostro modo di parlare e di agire, semplice e onesto, concreto e fattivo, non pettegolo né saccente, modesto e fiducioso, aperto a ogni realtà umana e rispettoso di tutti. E' così che l'evangelizzazione supera il rischio del "proselitismo". Mentre esso è l'espressione di un gruppo chiuso che cerca semplicemente di allargare il numero degli adepti, l'evangelizzazione è l'espansione spontanea e lieta di quel senso della vita che ci è stato dato di trovare come dono dall'alto.
2. I ministeri.
Nei capitoli riguardanti i ministeri ecclesiali il Sinodo ci offre un contributo fondamentale: in dense pagine presenta i tre ministeri fondamentali, della Parola, della Liturgia e della Carità; ne precisa e codifica le forme, alcuni ambienti specifici, la dimensione universale e gli strumenti operativi (capitoli 1 - 4). La descrizione delle forme, ambiti e dimensioni del ministero sottolinea di frequente l'istanza di nuova evangelizzazione propria di ciascuno. Parlando delle figure della vita cristiana viene specificato il compito missionario dei diversi soggetti (capitoli 20 - 23). Due capitoli sono dedicati ai beni economici (cap. 18) e ai beni culturali (cap. 19) letti nel loro rapporto con una pastorale missionaria.
Questi capitoli sono un richiamo in servizio al Vangelo di tutti coloro che si dicono cristiani; un appello insistente al dovere di lavorare, con spirito, sapienza e coraggio, per la difesa, la crescita, la diffusione della vita cristiana, fondata nella fede in Gesù Cristo e nella carità misericordiosa di Dio per ogni singola persona; un forte richiamo alle armi di Dio, come scrive l'Apostolo Paolo agli Efesini (6,10-17) per resistere al male e combattere.
Il Sinodo chiede una mobilitazione generale e un maggior coordinamento di tutti i figli della Chiesa ambrosiana e delle sue istituzioni, per riqualificare i cristiani, recuperare i dispersi, guadagnare a Cristo nuovi amici; esprime la speranza che la nostra Chiesa riattivi il suo proverbiale dinamismo per il Signore e per il bene comune, con la certezza che uno sforzo capillare di tutti i suoi membri la potrà ringiovanire, rinvigorire, dilatare.
Questo grande sforzo missionario deve essere generale: vescovi, sacerdoti, religiosi e laici devono dare il massimo di se stessi.
Otterremo noi gli effetti sorprendenti della Chiesa degli Apostoli?
Vedendo il modo di vivere e ascoltando le parole dei primi cristiani, la gente si convertiva al Signore, gruppi interi aderivano a Lui: i pagani diventavano credenti; i giovani chiedevano di diventare discepoli del Signore; i dubbiosi si sentivano riconfermati nella fede; gli ammalati guarivano e si rimettevano a camminare con i fratelli; lo Spirito di Cristo discendeva sulle loro assemblee; gli uditori prenotavano gli Apostoli per il sabato successivo; in molti glorificavano la Parola di Dio.
Non dobbiamo però pensare che questi fenomeni toccassero necessariamente grandi masse di uomini. Si trattava sempre di piccoli gruppi, di uomini e donne già ben disposti o il cui cuore veniva toccato in maniera un po' straordinaria dal Signore. Non è il successo di massa che caratterizza i primi cristiani, ma una incisiva penetrazione nella massa.
Tutto questo sarà possibile anche a noi, se, come i primi cristiani, ci lasceremo sempre più permeare dallo Spirito di Dio e plasmare dalla sua Parola, perchè la fede non si fonda su una saggezza di uomini, ma sulla forza di Dio (cf cost.28, §1).
Rileggendo gli Atti si riscopre che il dinamismo della Chiesa degli Apostoli, deriva proprio da Gesù sempre vivo e dal suo Spirito che confermavano le loro parole. Quei primi cristiani, con l'annuncio e l'insegnamento della Parola e la testimonianza della carità di Gesù riescono a trasfigurare in Cristo persone e comunità in modo sorprendente.
8. Come nella Chiesa degli Apostoli: discepoli e testimoni.
Il documento sinodale nella sua terza parte presenta le figure della vita cristiana, cioè le persone che formano la comunità ecclesiale (capitoli 20 - 23). Anche gli Atti e le Lettere degli Apostoli ci tramandano che gli aderenti alla fede in Cristo erano tra loro diversificati dai servizi e i carismi ricevuti dallo Spirito per il bene comune: c'erano apostoli, profeti, dottori, vescovi, evangelisti, collaboratori, inviati, sposati, diaconi, presbiteri. Ma di tutti questi primi cristiani lo scrittore sacro mette continuamente in evidenza la loro identità più che le differenze, le caratteristiche che li uniscono più di quelle che li diversificano: tutti sono discepoli di Gesù e suoi testimoni.
1. Discepoli di Gesù (cf costt 38 e 475, §1).
Essere discepolo di Cristo era la scelta fondamentale di ogni vero credente che si impegnava personalmente a trasformare progressivamente la propria vita a imitazione sempre più fedele di Cristo Gesù. Il loro sguardo quindi era costantemente puntato sul volto di Gesù, con un sentimento di ammirazione e di amicizia. E l'amicizia autentica conduce necessariamente a desiderare ciò che l'amico desidera, a volere o a rifiutare le medesime cose.
La loro fede era la risposta quotidiana e vitale alla vocazione, vissuta dal di dentro, di imitare Cristo, le sue qualità, i suoi amori, le sue resistenze, i suoi gesti, la sua passione, la sua intera vita. Era quindi indispensabile conoscerlo. I Vangeli sono nati anche per il bisogno religioso e vivo dei primi cristiani di sapere sempre di più sulla persona di Gesù, di conoscerne il mistero e quei particolari che meglio potevano rivelarlo.
Per diventare discepoli bisogna vivere in intimità con il Maestro, ricevere le sue confidenze, acquistare il suo modo di pensare e di amare, condividere le sue fatiche e gioie, vivere come lui. Attraverso Gesù si può sapere che cosa Dio esige dai sudditi del suo regno: povertà di spirito, mansuetudine, sopportazione del dolore, fame e sete di giustizia, misericordia, purezza del cuore, concordia, martirio. I primi cristiani avevano impresso nella memoria della mente e del cuore l'insegnamento di Gesù, e lo ripetevano, lo comunicavano, lo sperimentavano insieme.
2. Testimoni di Cristo (cf cost. 43; 277s).
Il vero discepolo di Gesù diventa naturalmente l'eco delle parole del suo Maestro, il ricordo dei suoi gesti, l'imitatore del suo stile, il riflesso della sua vita: è testimone di Cristo, con la vita più che con le parole. Il testimone cristiano è colui che vive ogni esperienza alla maniera di Gesù; con Lui ritrovato nel Vangelo, nell'Eucaristia, nei fratelli; per Lui fa il bene alla gente che incontra; in Lui lavora, fatica, soffre, ama e salva.
Da questo nasce nel discepolo, fedele ed entusiasta del suo Maestro, l'obbligo urgente di comunicare agli altri, con parole, a voce o scrivendo, la propria scoperta ed esperienza, come i discepoli di Emmaus che sono ritornati a Gerusalemme di corsa a raccontare a tutti gli altri l'incontro con Gesù risorto, come la Maddalena e le altre donne, come gli Apostoli e i discepoli della prima Chiesa. Pietro è il primo testimone: aveva ricevuto l'ordine di confermare nella fede i suoi fratelli; è testimone eminente di ciò che il Signore aveva fatto e detto; diventa regola vivente della comunità. Tutte le Chiese apostoliche lo stimano e ascoltano come colui che Cristo aveva scelto per primo, ponendolo nella comunità ecclesiale, guida, coordinatore, pastore, testimone della resurrezione. Anche Paolo, il secondo grande testimone modello presentato negli Atti, ricorda spesso il suo incontro con Cristo e afferma che è Apostolo del Vangelo per essere presso tutti gli uomini testimone di Gesù Cristo crocifisso e risorto, e di tutto ciò che ha visto e udito da Lui.
Mediante la "lectio divina" noi entriamo in contatto con i testimoni e ne assimiliamo gli insegnamenti (costt 38 - 41).
Il documento sinodale ci ricorda l'impegno della catechesi partendo dal Vangelo: ai fanciulli, ai giovani, agli adulti; per categorie, situazioni, problemi (costt 33 - 37).
Come Gesù e gli Apostoli, anche noi nel predicare e catechizzare dobbiamo prima conoscere bene i problemi e i desideri che le persone si portano dentro, e avere il coraggio di confrontarli con la Parola di vita che annunciamo. Solo attraverso un serio e serrato confronto tra verità, mentalità, culture, problematiche, ideali, le nostre comunità aiuteranno la gente ad acquisire una fede cristiana più personale, consapevole e convinta.
Per prevenire le delusioni e gli scoramenti è opportuno ricordare che, nonostante il nostro impegno e i nostri sforzi, non tutti i cristiani della nostra Chiesa riusciranno ad aderire a Cristo, ad essere subito e pienamente discepoli e testimoni suoi, con spirito e coerenza. Non dimentichiamo che anche nella Chiesa primitiva ci sono stati Anania e Saffira, gli ellenisti e i Simone, gli individui che tenevano discorsi perversi per trascinare i discepoli dietro a loro e i traditori del Vangelo che lo restituivano o consegnavano ai loro giudici. Questi non potranno turbare la nostra pace interiore, distruggerci la fede, affievolire la nostra missione se avremo la certezza assoluta che Cristo è vivo con noi, fedele a noi più di quanto noi lo siamo a Lui. E una paziente perseveranza, unita a quella di Cristo, permetterà alla Parola di dare a suo tempo frutti.
9. Come la Chiesa degli Apostoli nella società per nuove culture
La quarta parte del testo sinodale si occupa della Chiesa nella società e cultura contemporanea. Afferma che "la Chiesa Ambrosiana... auspica che i cristiani... operino efficacemente al costante miglioramento delle istituzioni pubbliche e della organizzazione dello Stato come condizione di una maggiore libertà e giustizia a vantaggio di tutti i cittadini, specialmente di quelli più deboli" (cost. 550 e cf i capitoli 24-26: costt 521 - 611).
Dobbiamo quindi imitare, anche sotto questo aspetto, la Chiesa degli Apostoli che non si oppose alle istituzioni ufficiali e necessarie per l'organizzazione della società; né pretese creare strutture parallele o sostitutive, memori della testimonianza data da Cristo a Pilato: "Il mio Regno non è di questo mondo". La Chiesa apostolica appare dagli Atti determinata ad immettere nella società e nelle sue istituzioni lo spirito evangelico che evidenzia e afferma una serie di valori-verità irrinunciabili come beni per tutti:
* la persona umana primo valore della creazione e quindi degna del massimo rispetto;
* l'uguaglianza di tutte le persone e la scoperta che la condizione umana è unica e identica nonostante le differenze;
* la fratellanza come amore per i propri simili e quindi la concordia, non rivalità e guerre;
* la solidarietà o capacità reale di compartecipazione di beni, esperienze, forze, e anche di problemi, sofferenze, angosce;
* la libertà di coscienza sottomessa soltanto a Dio e alla sua volontà; per questo diventa indispensabile l'ascolto della Parola di Dio;
* la ricerca della verità come esigenza di ogni cultura che voglia essere libera dai condizionamenti ideologici e politici;
* la giustizia virtù dello Spirito che riconosce a ciascuno il suo, non fa del male a nessuno e impegna a vivere onestamente operando il bene come Dio comanda;
* la possibilità di conversione e di salvezza per tutti indistintamente;
* la pace come condizione ideale per una convivenza costruttiva e più felice;
* una visione globale della vita, aperta quindi alla speranza di una vita eterna in Dio, alla quale si arriva attraversando il suo giudizio finale.
Fin dai primi capitoli della storia scritta da San Luca, si vede la Chiesa apostolica entrare nella società e nelle sue molteplici culture, e confrontarsi con esse. Si trova subito di fronte un popolo comprensivo, accogliente e persino entusiasta; ma anche un potere politico diffidente o contrario. Il programma di quei primi cristiani, però, non è di abbattere le istituzioni governative, ma di evidenziare gli errori e le ingiustizie di coloro che gestiscono il potere, e di promuoverne la giustizia e la libertà di coscienza. Pietro e Giovanni, al primo processo, accusano i capi di avere ucciso un innocente e affermano che i cristiani devono ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini. Lo stile di vita dei primi cristiani mette in crisi una cultura dominante, provocando riforme e rinnovamento dei costumi sociali: per questo l'apostolo Giacomo viene ucciso da Erode. A Filippi e a Efeso, Paolo con i suoi amici, accusati di gettare il disordine nella città, di essere sovversivi e antisociali, con la forza della Parola libera le persone dallo sfruttamento, dall'alienazione e dall'idolatria che le rendeva spersonalizzate e dipendenti da idoli costruiti dall'uomo, dalle cose quindi. Ancora Paolo, a Gerusalemme, denuncia la tortura e la corruzione dei funzionari di stato, pur riconoscendo al potere politico la caratteristica della laicità e il ruolo di amministratore e tutore dell'ordine pubblico.
Da qui un'ulteriore riprova che la fede cristiana non propone specifici modelli politici e sociali, ma alcune modalità essenziali e uno spirito capace di animare dall'interno la società e farla vivere. Parafrasando l'espressione della Lettera a Diogneto dei tempi apostolici "i cristiani anima del mondo" si può dire che la Chiesa degli Apostoli è anima della società. Chiediamoci allora come possiamo anche noi animare la nostra società? Quale lievito dobbiamo essere per smuoverla, fermentarla, promuoverla, renderla fragrante e più vivibile?
Prima di tutto dobbiamo convincerci che una simile operazione esclude ogni idea o progetto di dominio del mondo. Gesù l'ha spiegato bene ai suoi discepoli: "I capi delle nazioni dominano... spadroneggiano...; ma voi non fate così. Voi siate ultimi e servi di tutti". (cf Mt 20,25-26) Si tratta di penetrare in tutta la pasta come il lievito, e come la luce far risaltare la realtà anche nelle sue contraddizioni. Gesù ci chiede non la prepotenza repressiva, ma una costante lievitazione sociale mediante l'amore che sempre rispetta la libertà dell'uomo, e mediante l'illuminazione del mondo con la verità.
E' quindi la cultura della verità e dell'amore che dobbiamo ricostruire e diffondere proclamando, come Paolo ad Atene, la verità rivelata da Cristo contro l'ignoranza e l'agnosticismo, e la gratuità di Dio e del suo amore come risposte al dubbio e all'angoscia dell'uomo contemporaneo.
Conclusione
Carissimi, sto per versare nella Chiesa Ambrosiana "il vino nuovo" pigiato dal Sinodo diocesano 47°.
E mi domando: come potranno berlo e gustarlo coloro che si sono fatti la bocca a quello vecchio e sono abituati a ripetere "il vecchio è più buono", rifiutandosi di assaggiare il nuovo?
Mi chiedo ancora: che fine farà questo abbondante vino nuovo, prodotto dal lavoro paziente e costante degli operai sinodali insieme a tanti collaboratori della nostra diocesi, se gli otri dentro i quali lo versano sono vecchi?
Ai farisei e agli scribi, sostenitori delle antiche tradizioni, Gesù ha detto: "Nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; altrimenti il vino nuovo spacca gli otri, si versa fuori e gli otri vanno perduti. Il vino nuovo bisogna metterlo in otri nuovi" (Lc 5,37-38).
Per questo, fraternamente, ripeto con insistente amorevolezza a voi e a me, l'invito che Pietro e gli Apostoli rivolgevano alla gente nella loro prima predicazione, secondo lo stile di Gesù: "Pentitevi e convertitevi... immergetevi in Cristo e riceverete il dono dello Spirito santo" (cf At 2,38; 3,19).
Sarà proprio lo Spirito della Pentecoste a rinnovarci e a modellare il nostro cuore su quello generoso e umile di Gesù.
Soltanto attraverso una profonda riforma individuale, di mentalità, volontà e affettività, potrà rinnovarsi anche la Chiesa di Milano; perché nessuna società può cambiare se i suoi membri restano sempre quelli.
Concludo questa mia lettera di prefazione in consonanza con gli Apostoli della prima ora:
"Carissimi, vi assicuro, prima di tutto, che in ogni Eucarestia prego con riconoscenza e gioia per voi, a motivo della vostra sincera e impegnata collaborazione nella diffusione del Vangelo di Dio e nella edificazione della sua Chiesa. Sono certo che Colui che ci ha chiamato a questa grande opera a favore di ogni persona, la renderà anche feconda e rigogliosa, nonostante le difficoltà quotidiane e le condizioni storiche nelle quali ci troviamo.
Dio mi è testimone del profondo affetto che ho per tutti voi in Cristo Gesù, e lo prego perché la vostra fede si arricchisca sempre più in conoscenza di Lui, in ogni genere di discernimento dello Spirito. Lo prego perché la vostra concordia manifesti con umiltà e chiarezza l'amore reale e fedele di Gesù Cristo per ogni persona.
Vi esorto dunque a prendere sul serio questo documento sinodale: sarà un valido strumento per unire le nostre comunità e farci sentire parte dell'unica Chiesa di Cristo. Studiamolo e pratichiamone le norme indicate per il bene della Chiesa, a gloria e lode di Dio, e a salvezza dei suoi figli. E come Gesù firmavit faciem suam ed entrò nella città di Gerusalemme per donare ai suoi abitanti il Sangue e lo Spirito che salva, così noi determinati come Lui a compiere la volontà del Padre, andiamo nella società contemporanea con l'amore e la forza della Croce perché ritrovi i veri motivi del vivere insieme e la gioia di abitare nella stessa casa con un cuore e un'anima sola.
E la grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi.
+ Carlo Maria Card. Martini
Arcivescovo
Milano, 1 febbraio 1995