Edith Stein: ebrea, filosofa,

carmelitana, martire

di Emanuela Ghini

Ebrea, filosofa, carmelitana, martire, Edith Stein (1891-1942), "che porta nella sua intensa vita una sintesi drammatica del nostro secolo" (Giovanni Paolo II, 1-5-'85), e che la Chiesa annovera fra i suoi santi, apre cammini di rapporto e di comunione in ambiti e a livelli diversi, ma in punti nodali dell'esperienza umana cristiana, ecclesiale, interreligiosa.

Ebrea

Ebrea, nata a Breslavia nel giorno del Kippur, condotta dall'incontro con Cristo al battesimo e alla Chiesa, ma non a dimenticare la fede dei padri e d'Israele - "all'origine di questo piccolo popolo… c'è il fatto dell'elezione divina. Questo popolo è convocato e condotto da Jahvè, Creatore del cielo e della terra. La sua esistenza non è un mero fatto di natura né di cultura… Essa è un fatto soprannaturale" (Giovanni Paolo II, 31-10-'97) - Edith Stein vive la fede nell'alleanza, di cui vede il compimento nell'alleanza nuova, rilegge alla sua luce la storia del suo popolo e ne sposa il destino, con una consapevolezza lucida e senza pentimenti: "Sotto la croce ho intuito il destino del popolo di Dio, che fin da allora cominciava a preannunziarsi. Ho pensato che chi capisce che tutto questo è la croce di Cristo dovrebbe prenderla su di sé in nome di tutti gli altri" (9-12-'38).
Edith si carica della croce del suo popolo eletto, e ne condivide la sorte fino alla morte. Essa riconduce così i cristiani a "comprendere che un mondo senza Israele sarebbe un mondo senza il Dio di Israele" (A. Heschel), che "finché il giudaismo resterà estraneo alla nostra storia di salvezza, noi saremo in balìa di riflessi antisemitici" (R. Etchegaray), e soprattutto che "la religione ebraica non ci è estrinseca ma, in un certo qual senso, è intrinseca alla nostra religione" (Giovanni Paolo II).


Edith Stein opera nella sua persona e lascia in eredità a ebrei e cristiani una riconciliazione che la tragedia disumana della Shoah aspetta da tutti. Perché Auschwitz non è solo un fatto storico, ma anche una punta estrema della malvagità umana, che riduce tutti al silenzio e al pentimento.
Se "la Chiesa incoraggia i suoi figli e figlie a purificare i loro cuori, attraverso il pentimento per gli errori e le infedeltà del passato" (E. Cassidy), Edith, morta per il suo popolo, "può rifulgere, come santa cristiana, portatrice dell'origine ebraica" (B. Di Porto, Il tempo e l'Idea, n.9, maggio 1997, p.60), anche ai fratelli ebrei. Come riconosce uno di loro: "Io, ebreo, credo fermamente al valore della nostra coesione di popolo, ma non la circondo di cordoni e paletti. Ammetto, nella libera dinamica dello spirito, la possibilità degli scambi e delle folgorazioni... Rispetto la canonizzazione di Edith, martire cristiana, nata mia sorella ebrea, gassata ad Auschwitz da chi fissava indelebile la sua fraternità di carne e di sangue con me" (ivi).

Filosofa

Filosofa, discepola e poi assistente di Husserl (1916-1922), condiscepola dei partecipanti al circolo di Gottinga - Adolf Reinach, Hedwig Conrad-Martius, Roman Ingarden, Hans Lipps... -, Edith Stein segue anche lezioni di Max Scheler. Contatterà più tardi Heidegger, succeduto a Husserl, e Peter Wust, che descriverà il suo itinerario dalla filosofia al Carmelo, quando Edith ne vestirà l'abito, il 15-4-'34.

Non persuasa dal positivismo della psicologia sperimentale di Stern, Edith è attratta verso la fenomenologia dalla valutazione di Husserl della coscienza come emergente sul mondo e donatrice di significati, dall'ammirazione di una realtà che suscita meraviglia, stimola la ricerca, invita a quell'"andare alle cose" senza presupposti che mette tra parentesi l'essere inteso in modo naturalistico, e quindi ogni forma di realismo, che affermi la priorità dell'essere sul pensiero. La fenomenologia, che influenzerà poi tanta parte del pensiero moderno - da Scheler a Hartmann, da Sartre a Merleau-Ponty, Lévinas, Ricoeur... - affascina Edith Stein, che vede in Husserl "il filosofo dei nostri tempi" per la chiarificazione che opera della realtà, mediante un'analisi dei processi conoscitivi nel loro offrirsi originario, come riflessione su ciò che appare nel fluire della coscienza con l'ampiezza di un metodo di indagine non solo gnoseologica e psicologica, ma anche etica, che può essere utilizzato perfino dalla psichiatria, in particolare dalla logoterapia.


Nel 1917 la fede serena della giovane vedova di Adolf Reinach, caduto in guerra, conduce Edith "al suo primo incontro con la croce... e (con) la luce di Cristo", nel 1921 la lettura dell'autobiografia di Teresa d'Avila la pone in modo limpido e vivo davanti a Cristo-verità. Battezzata il 1-1-'22, Edith è orientata da Erich Przywara allo studio della philosophia perennis: prima Tommaso d'Aquino, poi, al Carmelo, Giovanni della Croce e Dionigi l'Areopagita.
Divenuta cristiana al termine di una ricerca appassionata e ansiosa della verità, per volontà di risposta alle grandi domande sull'uomo e sul suo destino che avevano acceso in lei il desiderio di un'indagine che non lasciasse inevaso alcun problema esistenziale, attratta dal mistero della persona e dal bisogno di un incontro con la realtà che non ne rendesse l'uomo succube, ma signore, Edith Stein è figura emblematica di una ricerca che per l'ampiezza degli orizzonti e il rigore del metodo critico interessa credenti e non credenti, sollecitando a un impegno forte, incarnato nella vita, nei confronti dei grandi di interrogativi che la sovrastano.

Carmelitana

Edith Stein

Giunta al Carmelo (14-10-'33), "alto monte sul quale bisogna cominciare a salire dal basso" (27-8-'39), per la sua sete di partecipazione al mistero pasquale, Edith ne vive la condizione di deserto, che rende il Carmelo particolarmente adatto a capire la cultura del nulla di tanta parte del nostro secolo. Se tutta la vita cristiana è esodo verso la terra promessa, il Carmelo vive la dimensione dell'esodo con una radicalità che Edith Stein ha sperimentato, in modi diversi, lungo tutta la vita.

La sua conversione, che rendendola cristiana la lascia comunque figlia di Israele, innamorata della sua santa progenie, la distacca però dolorosamente dalla famiglia e dall'amatissima madre, che ha "lei pure una grande fede" (estate '33). "Mia madre si oppone ancora con tutte le sue forze alla decisione che sto per prendere. È duro dover assistere al dolore e al conflitto di coscienza di una madre, senza poterla aiutare con mezzi umani" (26-1-'34).

Il distacco dalla fede della madre, che resterà "fino all'ultimo", con ammirazione di Edith, "fedele alla sua fede" (4-10-'36), si coniuga in lei con quello dei successivi esili: prima dall'Università di Friburgo (1922), poi dal liceo di Spira (1931), dall'Accademia pedagogica di Münster (1933), infine dallo stesso Carmelo di Colonia (1938), fino al distacco supremo dal Carmelo di Echt (2-8-'42) per il campo di Amersfort, il lager di Wersterbork (3-8-'42) e quello di Auschwitz-Birkenau (7-8-'42), dove Edith e la sorella Rosa saranno subito selezionate per l'eliminazione (9-8-'42).

Edith verifica che "la storia della salvezza è quella di un continuo camminare sulle orme del Signore... Una nuova scoperta, una nuova esperienza di Dio nella storia, una nuova richiesta da parte di lui possono farci camminare in una direzione inattesa. Il cammino terminerà quando vedremo Dio come egli è (1 Gv 3, 2)" (C. Maccise).

Condizione della disponibilità all'esodo è l'abbandono a Dio. Edith, innamorata del Carmelo - "c'era solo il monte Carmelo in cima ai miei pensieri" (27-3 -'34) -, affondata nel ringraziamento per essere carmelitana - "non mi resta che ringraziare continuamente Dio per l'immensa grazia, non meritata, della vocazione" (11-2-'35) -, rimane però spalancata agli imprevisti di Dio: "Ho sempre presente che non abbiamo un posto durevole quaggiù. Non desidero altro che si compia la volontà di Dio in me e attraverso di me. Lui sa quanto tempo mi lascerà ancora qui e che cosa accadrà poi. In manibus tuis sortes meae... Non ho di che preoccuparmi" (16-10-'39).

Dio è dovunque perché abita il cuore umano, più grande di ogni spazio e di ogni luogo anche sacro: "Dio è con noi con tutta la Trinità. Se nell'intimo del cuore abbiamo costruito una cella ben protetta in cui ci ritiriamo il più spesso possibile, non ci mancherà mai niente dovunque ci troveremo" (22-10-'38).

Neppure in un lager. In quello di Westerbork, a tre giorni dalla morte, Edith dirà: "Qualunque cosa avvenga, io sono preparata. Gesù è anche qui con noi" (6-8-'42).

 

Martire

Il martire è il più povero dei poveri e il più credibile degli evangelizzatori. Edith Stein passa dalla "lieta povertà" del Carmelo (26-1-'34) alla miseria amara, annientata, della camera a gas. Non per caso.

Fin dal momento del battesimo si sente evangelizzatrice: "Sono solo uno strumento del Signore. Se uno viene a me, vorrei condurvelo" (14-12-'30). "Dio non chiama nessuno unicamente per se stesso" (15-10-38). "Ogni giorno questa pace mi sembra una grazia immensa che non può esserci data per noi sole" (2-1-'34).

Un'autentica evangelizzazione non sopporta condizionamenti, è forte e libera testimonianza della verità: "Il nostro agire in mezzo agli altri sarà efficace e benedetto da Dio solo se non cederemo nemmeno di un centimetro sul sicuro terreno della fede e seguiremo la nostra coscienza senza lasciarci influenzare dal rispetto umano" (20-3-'34).

Nessuna remora nel testimoniare la verità, ma anche profonda consapevolezza che Dio è in ogni ricerca sincera, oltre la percezione di chi lo cerca: "Non mi è mai piaciuto pensare che la misericordia di Dio si fermi ai confini della Chiesa visibile. Dio è la verità. Chi cerca la verità cerca Dio, che lo sappia o no" (23-3-'38).


Il martire evangelizza perché il suo sacrificio è offerta a Dio per i fratelli. Edith Stein, che condivide coi fratelli ebrei il tragico destino che ne coinvolse sei milioni, che muore cristiana, ma "quale figlia del suo popolo martoriato" (Giovanni Paolo II, 1-5-'87), e, per sua esplicita e ripetuta ammissione, "per" questo popolo, ci ricorda che, se oggi dopo Auschwitz la fede è ancora possibile, è perché "Dio stesso è stato ad Auschwitz soffrendo con i martirizzati e gli assassinati" (G. Dossetti, che richiama J. Moltmann). Il suo sacrificio conduce i cristiani a "rinnovare la consapevolezza delle radici ebraiche della loro fede,... (a) ricordare che Gesù era un discendente di Davide; che dal popolo ebraico nacquero la Vergine Maria e gli Apostoli; che la Chiesa trae sostentamento dalle radici di quel buon ulivo a cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico dei gentili (Rm 11,17-24); che gli ebrei sono nostri cari e amati fratelli" (Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16-3-'98).


Edith sospinge ebrei e cristiani a nutrirsi alle sorgenti della "santa radice" e a "un rispetto reciproco, condiviso, come conviene a coloro che adorano l'unico Creatore e Signore e hanno un comune padre della fede, Abramo" (ivi).

   

Tratto da L'OSSERVATORE ROMANO
13 settembre 1998