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Unità di fede, mediazioni antropologiche, opzioni politiche.

Il ruolo della Dottrina Sociale della Chiesa

Giorgio Campanini

Università di Parma

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Il problema che si pone oggi alla coscienza dei credenti è quello di abbracciare, con un unico sguardo - senza censure e insieme senza esclusivismi - il complesso orizzonte che è espresso dal collegamento tra unità di fede, mediazioni antropologiche e opzioni politiche. Si tratta infatti di una sorta di "catena" che collega fra loro realtà strutturalmente connesse o piuttosto di un accostamento esteriore fra realtà eterogenee e reciprocamente, fra di loro, impermeabili?

In altre parole si tratta di domandarsi se nel passaggio dall'uno all'altro dei tre termini l'unità (quella della fede) non debba lasciare il posto alla molteplicità (delle possibili mediazioni antropologiche, dettate dalle diverse antropologie che possono essere elaborate, come di fatto sono state storicamente elaborate, partendo da una comune visione dell'uomo); ed infine alla variegata pluralità delle opzioni politiche. E d'altra parte, dove propriamente si spezza la catena: al semplice livello delle opzioni politiche o, non piuttosto, delle mediazioni antropologiche, sino a mettere a repentaglio, al limite, la stessa unità di fede?

Il solo porre questi interrogativi è sufficiente a mettere in evidenza come la questione centrale da risolvere sia quella del fondamento. Si tratta cioè di riflettere su quali basi si fondano non tanto l'auspicabile unità di fede quanto la convergenza fra le mediazioni antropologiche ed eventualmente, alla fine, fra le stesse opzioni politiche: avendo tuttavia la consapevolezza che non è più proponibile, se mai lo è stata, la pretesa di Bossuet di costruire una Politique tirée des propres paroles de l'Ecriture Sainte, secondo un disegno in senso lato "fondamentalistico" che non potrebbe più avere legittimamente corso nella chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II.

Senza ripetere gli antiche errori, è tuttavia possibile cercare e trovare un fondamento; ed esso sembra essere rappresentato, per la coscienza cattolica, dalla Dottrina sociale della Chiesa, autorevolmente riproposta da Giovanni Paolo II, intesa come luogo di "mediazione", insieme teologica ed antropologica, tra la parola di Dio e la storia degli uomini; una "mediazione" che per altro si arresta, e deve arrestarsi, alle soglie delle opzioni politiche propriamente dette, e che tuttavia, senza predeterminarle, in qualche modo le illumina e le sostiene.

Sulla Dottrina sociale della Chiesa, intesa come struttura di mediazione tra fede e politica, si svolgeranno qui alcune essenziali riflessioni, proposte nella forma di "dieci tesi".

 

 

1. Il rapporto tra fede e politica è strutturalmente ambiguo, perché pone in relazione due realtà profondamente diverse tra loro, ed anzi intimamente "eterogenee", in quanto si richiamano l'una alla categoria di "assoluto", l'altra di "relativo" (se la fede si relativizzasse non sarebbe più tale, e altrettanto avverrebbe per una politica che si assolutizzasse e che diventerebbe, in questo caso, ideologica ed al limite totalitaria e cesserebbe di essere una parte, appunto la politica, per pretendere di diventare il tutto). Questa diversità di livelli non esclude tuttavia che, nella coscienza e soprattutto nella prassi, si possa realizzare di fatto un incontro, dato che la condizione stessa del credente lo pone in un rapporto del tutto particolare con la politica. Agire in politica da credenti non è la stessa cosa che agire da atei. le note distinzioni maritainiane appaiono al riguardo, ancor oggi, illuminanti.

 

2. La cultura cattolica, a partire dal noto "Date a Dio quel che è di Dio, a Cesare quel che è di Cesare" (Mt. 22, 21), è stata costantemente una cultura della distinzione; mai - se non come eccezione, e come tentazione - una cultura ora della "commistione" ora della "separatezza". Anche a costo di essere accusata ora di mancanza di "senso dello Stato" ora di ambizioni teocratiche, la cultura cattolica e la Chiesa stessa è sempre stata una "cultura della mediazione". La prolungata riflessione cristiana sulla politica e sullo Stato - che in epoca moderna ha trovato il suo punto di decantazione e di coagulo nella Dottrina sociale - attesta l'impegno per sviluppare e portare avanti questa "cultura della distinzione", a beneficio della stessa avventura occidentale dell'uomo che, proprio nella distinzione tra politica e religione, ha trovato uno dei suoi grandi punti di forza ed una delle ragioni della sua capacità propulsiva (in questo senso, e non casualmente, le culture della commistione sono state storicamente e in gran parte restano culture dell'arretratezza).

Dietro la tesi della "distinzione" stava e sta la consapevolezza profonda della sostanziale e radicale unità dell'uomo: talché si può distinguere, ma non separare, il regno di Dio e il regno degli uomini, la fede e la politica.

 

3. La mediazione antropologica tra la fede e la prassi trova il suo "luogo" naturale nella Dottrina sociale della Chiesa, intesa come punto d'incontro - a livello di coscienza critica piuttosto che di soluzioni contingenti - fra i nuovi problemi ricorrentemente emergenti dalla storia e l'insieme delle verità perenni che la Chiesa custodisce ed annunzia. La fede si fa "annunzio" in relazione alle vicende degli uomini che sono troppo importanti perché possano essere sottratte al giudizio della fede (e le cose della politica, pur limitate e contingenti, sono fra queste); e sollecita i cristiani (ma, in qualche misura, anche i non credenti) a riflettere sulla società, e dunque a "pensare politicamente", conducendo sino alle sue estreme conseguenze la scelta della laicità. L'imponente corpus dottrinale, che va appunto sotto il nome di Dottrina sociale cristiana è - al di là del fatto stesso di essere stato elaborato soprattutto dal Magistero e dalla teologia, e dunque da non laici - un forte e responsabile esercizio di laicità.

 

4. Si tratta peraltro di vedere se la Dottrina sociale della Chiesa, oltre che un modo di riflettere sulla politica (e per certi aspetti di "giudicare" la politica"), possa essere anche un modo di agire in politica; di stabilire, in altri termini, se e in qualche misura questo insegnamento possa non solo legittimare e fondare ma ispirare concretamente la prassi; e se questa prassi possa essere unitaria o non sia invece strutturalmente vasta, articolata, pluralistica. Sono note, al riguardo, le letture diverse che in passato sono state date a questo tema, sino al Concilio prevalentemente in termini di unità, dopo il Concilio prevalentemente in termini di pluralismo, sino alla Gaudium et spes e alla Octogesima adveniens di paolo VI, che hanno legittimato e in qualche modo codificato il pluralismo: come via "possibile", anche se di per sè non "inevitabile" e, tanto meno, come "via obbligata". Compito della mediazione antropologica e soprattutto della storia è quello di valutare, in ogni specifico contesto storico e culturale, quale via sia concretamente auspicabile e praticabile. E' appena il caso di osservare che unità politica o pluralismo delle scelte politiche sono forme di agire pratico e si situano dunque ad un livello che non è propriamente quello della Dottrina sociale della Chiesa, che è essenzialmente un "pensare politicamente" a partire dalla fede.

 

5. Le opzioni politiche diversificate dei credenti sono legittimamente diverse solo e nella misura in cui si collochino all'interno non solo della medesima fede condivisa ma anche della mediazione antropologica che essa compie attraverso lo strumento della DS. In questo senso il pluralismo inizia dopo e a partire da quell'insieme di indicazioni che va sotto il nome di Dottrina sociale della Chiesa. Non vi è pertanto un'assoluta libertà di giudizio a partire dalla fede ma una semplice pluralità di opzioni possibili situate tutte all'interno della grande cornice costituita dalla DSC. E' opinabile il fatto di perseguire la pace con il disarmo unilaterale o con la riduzione bilanciata degli armamenti, ma non il fatto - chiaramente proposto dal magistero sociale - della doverosità per il cristiano di essere operatore di pace e non di guerra. E' possibile perseguire il superamento dell'arretratezza delle aree depresse per la via degli aiuti umanitari o dei crediti agevolati o ancora dell'attuazione di programmi di inculturazione o di istruzione tecnica; ma non rassegnarsi al sottosviluppo come situazione endemica ed insuperabile e dunque, alla fine, accettata dalla stessa coscienza cristiana.

In altri termini, l'agire politico dei cristiani ha ampi margini di libertà nella determinazione dei mezzi; mentre il quadro generale all'interno del quale si collocano le diverse opzioni politiche - e cioè l'individuazione dei fini - rimane compito non eludibile del magistero della Chiesa. E se anche la distinzione tra mezzi e fini non è sempre chiara nè sempre lucidamente praticabile, essa rimane una sorta di crinale che separa l'ambito del magistero della Chiesa dall'ambito delle responsabilità politiche e delle scelte pratiche dei cristiani.

 

6. Per una reale e non semplicemente esteriore o formalistica adesione ai fini che s'intendono raggiungere, la legittima discussione sui mezzi deve ispirarsi a quattro fondamentali condizioni:

- una valutazione obiettiva della situazione in atto, tenendo conto della consistenza e della cultura delle diverse forze in campo, nonché delle risorse concretamente disponibili;

- un'analisi delle concrete possibilità di ottenere, non solo sui fini ma anche sui mezzi, un ragionevole consenso (posto che, in democrazia, il consenso è necessario se si vuole passare dall'etica delle intenzioni di weberiana memoria all'etica della responsabilità);

- l'individuazione dei possibili "compagni di strada", nel presupposto che i credenti, anche quando siano maggioranza, non sono mai la totalità del corpo sociale;

- l'attenzione alle priorità concretamente e storicamente praticabili, in modo da perseguire quei fini dell'azione politica che più di altri possono essere concretamente raggiunti.

 

7. Di particolare rilievo la questione - oggetto tipico delle scelte politiche - della allocazione migliore delle risorse, ossia del "mezzo" che condiziona una serie di interventi oggetto della responsabilità della politica. Se nell'area dei diritti umani la questione, in generale, non si pone, allorché si tratta di concretizzare storicamente questi diritti (come il diritto alla salute o alla casa o all'istruzione) chi deve adottare la decisione si deve confrontare con il contrasto che sempre si determina tra esigenze e possibilità. In questo ambito possono essere accolte alcune generali indicazioni della Dottrina sociale cristiana (prime fra tutte quelle riguardanti il bene comune e i valori di fondo della coesistenza civile, nonché l'attenzione prevalente da accordare agli "ultimi" della società); ma da essa non possono essere meccanicamente dedotte le concrete scelte di campo; scelte che, per il loro accentuato carattere di opinabilità, sono anche oggetto di un legittimo pluralismo di opzioni, anche tra cattolici. Proprio nella fase dell'allocazione delle risorse - e cioè della traduzione operativa degli orientamenti di fondo impliciti nella Dottrina sociale della Chiesa - si manifesta l'importanza del ruolo di mediazione della politica e, specificatamente dei laici.

 

8. L'unità politica dei cattolici presupponeva e presuppone la convergenza non solo sui fini ma anche sui mezzi, e dunque la sostanziale continuità tra fede, mediazioni antropologiche ed opzioni politiche. In realtà, in tutte le esperienze unitarie dei cattolici sono sempre emerse profonde divaricazioni nel passaggio dal secondo al terzo piano, al momento cioè della traduzione operativa dei valori. In questo contesto l'unità è stata resa possibile da un uso in un certo senso improprio della categoria di "mediazione", applicata non al piano antropologico, in cui essa è legittima, ma al piano delle scelte politiche, là dove categoria centrale dovrebbe essere non quella della mediazione bensì quella della decisione. Un eccesso di mediazione, in altri termini, rischia di tradursi - e in passato si è effettivamente tradotto - in un difetto di decisione: da questo punto di vista la fine dell'unità politica dei cattolici può essere vista anche in termini di riacquisito primato della politica della decisione rispetto alla politica della mediazione. Resta tuttavia il fatto che la politica non è e non può essere soltanto, soprattutto in una società pluralistica, decisione, e che dunque devono essere cercati e trovati anche i momenti della mediazione, e comunque dell'incontro e del dialogo, anche fra cattolici appartenenti a diverse formazioni politiche. La Dottrina sociale della Chiesa può essere vista come terreno privilegiato d'incontro, pur nella consapevolezza che si tratta, necessariamente ed inevitabilmente, di un luogo pre-politico, proprio perché la politica ha come prioritaria componente quella volontà decisionale che è invece strutturalmente estranea alla DSC. nel ribadire questa funzione dell'insegnamento sociale della Chiesa occorre però evitare che essa si traduca in una semplice "mozione degli affetti" e finisca per avere una funzione insieme utopica e consolatoria, senza potere mai diventare (ma certo non per le sue proprie forze, bensì per la capacità di mediazione, e in questo caso anche di decisione, di coloro che ad essa s'ispirano) impulso e sostegno dell'agire politico.

 

9) Nella concreta situazione storica dell'Italia della fine del Novecento, più che ipotizzare un'astratta - e nel tempo breve presumibilmente improponibile - rinnovata "unità politica dei cattolici", sembra essere e compito e responsabilità dei credenti, nella linea indicata dal Convegno ecclesiale di Palermo del 1995, favorire fra essi una ragionevole convergenza su alcuni orientamenti di fondo presenti nella DSC. Ampi spazi di convergenza sembrano profilarsi, in particolare, nei seguenti ambiti: la valorizzazione, promozione e sostegno della famiglia fondata sul matrimonio; la salvaguardia della libertà religiosa e della presenza della Chiesa nella società italiana; la promozione di un autentico pluralismo scolastico; la promozione della vita, soprattutto nei due delicatissimi passaggi della vita nascente e della vita terminale. Ma altre convergenze appaiono ipotizzabili in direzione del rafforzamento della pace, degli ideali europeistici, nella promozione dello sviluppo, nell'impegno per la lotta alla povertà ed all'emarginazione, ambiti tutti nei quali il magistero sociale della Chiesa (e in questo caso, specificatamente, della Chiesa italiana) è assai ricco d'indicazioni e di suggestioni.

Non si tratta di proporre una sorta di "unità trasversale" in vista della promozione e della difesa di antichi o nuovi "interessi cattolici", ma piuttosto d'individuare nella DSC alcuni punti nodali che possono rappresentare un valido punto di riferimento per tutti i credenti, indipendentemente dal loro orientamento partitico.

 

10. Un aspetto particolarmente importante della DSC e sul quale non è fuori luogo richiamare, conclusivamente, l'attenzione è quello che riguarda la necessaria rilegittimazione della politica in un contesto post-ideologico che sta esprimendo, anche fra i credenti, vistosi atteggiamenti di fuga dalla politica. Il fatto che la Chiesa "stimi degna di lode e di considerazione l'opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica", e dunque alla politica (Gaudium et spes, n. 75) e che la politica sia "una maniera esigente ... di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri" (Octogesima adveniens, n. 46), rappresenta di per sè un antidoto rispetto alla delegittimazione, quando non addirittura alla demonizzazione della politica, conseguente ai drammatici fenomeni di corruzione, di clientelismo, di uso privatistico del pubblico denaro che hanno caratterizzato gli ultimi due decenni in particolare. La DSC - per il fatto stesso di proporre una visione forte e positiva della politica - può rappresentare un prezioso punto di riferimento per una società consapevole del fatto che la democrazia è sempre un "regime a rischio", in quanto ha continuamente bisogno di alimentarsi del consenso e della partecipazione dei cittadini, in modo da evitare una drammatica cesura fra governanti e governati. E' tutt'altro che irrilevante, sotto questo aspetto, che l'autorità morale e l'influenza della Chiesa siano poste a servizio di una cordiale adesione al sistema democratico; o finiscano per dare luogo - indipendentemente dalle intenzioni, ma per effetto quasi inevitabile di una eccessiva presa di distanza dalla politica - ad atteggiamenti di diffidenza, di sottovalutazione, di presa di distanza dalla politica.

 

Conclusione

 

Far fronte all'attuale crisi della politica - soprattutto dell'impegno politico dei credenti - significa per la Chiesa, nella linea costantemente indicata dalla Dottrina sociale, far crescere un atteggiamento complessivo verso la società, e dunque verso la politica, all'interno del quale cresca e s'irrobustisca una cultura del servizio. In questa linea si aprono nuovi spazi allo sviluppo e alla crescita di quella spiritualità della politica così cara a J. Maritain e che ha rappresentato una delle costanti della sua riflessione.

Raccogliersi insieme per l'ascolto della Parola di Dio e per la ricerca di un'adeguata mediazione fra Parola e storia, non implica nè la fuga dai problemi reali nè un irenistico accantonamento di divergenze che la politica contingente inevitabilmente conosce ma un prendere coscienza del primato dello spirituale, nella consapevolezza che, per chi cerca sinceramente e lealmente il Regno, tutto il resto verrà da sè.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota bibliografica

 

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