Spiritualità della vita familiare

negli Atti degli Apostoli

Giovanni Francilia

 

Il dono dello Spirito

Leggendo e rileggendo gli Atti degli Apostoli ci si accorge quasi subito che l'opera dell’evangelizzazione ha diversi soggetti e destinatari: la famiglia fa parte degli uni e degli altri. Da un lato infatti alcune famiglie accolgono l'annuncio della salvezza in Cristo Gesù e coloro che lo portano, dall'altro invece alcune famiglie vengono coinvolte direttamente nell'opera missionaria. Le analisi che qui vengono proposte intendono in primo luogo accogliere tutte le notizie che Luca ha trasmesso relativamente al rapporto "famiglia ed evangelizzazione"; in secondo luogo si cercherà di far emergere dai racconti il messaggio teologico-spirituale; infine verrà messa in evidenza la ricaduta pastorale della ricerca fatta, accentuandone il carattere di attualità. Come si vede, il tema è abbastanza nuovo e, nello stesso tempo, attuale. Tra le varie istituzioni in crisi, infatti, la famiglia - secondo il parere di alcuni sociologi e pastoralisti - sembra resistere ai seri attacchi della secolarizzazione e del consumismo. Secondo altri, invece, anche la fa miglia ha subìto e sta subendo l'influsso negativo di agenzie "educative" alternative, a scapito della sua consistenza e unità. Anche per questo motivo sembra utile ripercorre re la testimonianza che Luca ci ha dato negli Atti deglí Apostoli proprio su alcuni personaggi - donne e uomini - che nella famiglia hanno realizzato la loro vocazione e come famiglia hanno prestato il loro contributo all'opera della prima evangelizzazione. La famiglia perciò, fin dagli inizi del cristianesimo, si presenta come luogo" di primaria importanza sia in ordine alla accoglienza del messaggio su Gesù-salvatore (Cornelio e il carceriere di Filippi) sia in ordine alla diffusione del vangelo (Aquila e Priscilla). Il caso di Anania e Saffira crea un forte contrasto sul versante negativo, che induce a riflettere su taluni dinamismi egoistici che come tarlo possono compromettere la bellezza e la santità della vocazione al matrimonio e alla famiglia.

Cornelio e la sua famiglia ricevono il dono dello Spirito

Alla vicenda di Cornelio e della sua famiglia Luca dedica un intero ciclo del suo racconto, un ciclo che comprende ben sei capitoli (Atti 10-15). E evidente che il fatto della conversione di Cornelio e della sua famiglia, insieme all'e vento della Pentecoste (Atti 2, 1-41) e a quello della conversione di Saulo (Atti 9.22.26), secondo Luca deve essere considerato come decisivo in ordine all'apertura universalistica del cristianesimo nascente. Il problema investiva direttamente il presente e il futuro della nuova fede in Gesù di Nazaret. Si trattava infatti di sapere se alla nuova fede potessero accedere, senza particolari obblighi o restrizioni, anche i pagani, e quindi di decidere come essi potevano essere aggregati alla comunità credente. La decisione era particolarmente delicata e importante e perciò su di essa si concentrò l'attenzione dei massimi responsabili della comunità stessa: da un lato Pietro illuminato dallo Spirito Santo, non senza qualche fatica, arriva ad una chiara definizione del problema (Atti Il 9-17); dall'altro Paolo, con l'esperienza fatta nel suo primo viaggio missionario, ribadisce e sostiene con forza la necessità di aprire la porta del cristianesimo anche ai Pagani; (Atti 13 46-49); infine il concilio di Gerusalemme confermerà solennemente la decisione presa da Pietro e da Paolo (Atti 15, 23-29). Quanto a Cornelio e alla sua famiglia, ecco come li presenta il racconto di Luca (Atti 10, 1-48). Sono notizie scarne essenziali ma sono sufficienti per ricostruire un quadro nitido della sua personalità e della sua esperienza familiare.

Cornelio uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia: pietà e timor di Dio, condivisi in famiglia, sono le prime note tipiche della personalità di Cornelio. La pietà dice che egli anche da pagano, viveva da creatura alla ricerca del creatore (Atti 17, 27), da uomo non pago della religione idolatrica ma aperto alla provvidenza del Dio vivente (Atti 14 15-17). Il timor di Dio sembra supporre qualcosa di più: una apertura al Dio di Israele, una simpatia

Alla religione ebraica e alle sue esigenze: la fede nell’unico Dio e l'amore a Dio e al prossimo, intesi come scelta unica e indivisibile. Questo impegno, pur iniziale e bisognoso di approfondimenti, Cornelio lo condivideva "con tutta la sua casa" cioè la sua famiglia e la sua servitù: la maturazione religiosa del capo responsabile influiva quasi spontaneamente sui vicini.

"Faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio": elemosina e preghiera vengono a completare l'identikit religioso di Cornelio. Ancora una volta qui vengono esplicitate la dimensione orizzontale (elemosine) e verticale (preghiera) della vera fede. Anche il Centurione di Luca 7, 4-5 viene segnalato per la sua generosità verso la comunità giudaica! Luca insiste su questa attitudine positiva di alcuni pagani altolocati verso il giudaismo: "Egli ama il nostro popolo… faceva molte elemosine al popolo" (Lc 7,5; Atti 10, 2) e questo entra nell'orizzonte teologico (l'incontro tra paganesimo e giudaismo) della sua opera. Le elemosine di Cornelio si intrecciano con la preghiera: "pregava sempre Dio". Questo avverbio di tempo non può passare sotto silenzio: per Cornelio pregare non è un dovere giuridico o un obbligo da assolvere solo in determinate ore del giorno. Per lui pregare significa vivere davanti a Dio, vivere con Dio, vivere per Dio. Ecco perché, durante una visione, si sente dire: "Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite, in tua memoria, innanzi a Dio", (Atti 10, 4). Il verbo salire lascia intendere che preghiera ed elemosina costituiscono il sacrificio gradito a Dio (leggi anche Atti 10, 31). Ma ci sono altre notizie che interessano. Per esempio quella di Atti 10, 24: "Cornelio stava ad aspettarli (Pietro con i tre inviati e alcuni fratelli di Giaffa) ed aveva invitato i congiunti e gli amici intimi". Quella di Cornelio non è un'attesa puramente convenzionale; egli non si preoccupa solo di preparare una accoglienza degna di Pietro. In Pietro egli riconosce l'inviato da Dio (per questo gli va incontro per "adorarlo") e desidera fargli un'accoglienza corale (per questo invita congiunti e amici). Questo pagano ha vivo il senso della dimensione comunitaria del dono della fede e della salvezza che sta per ricevere (riceveranno tutti il dono dello Spirito Santo e il battesimo: Atti 10, 44-48). A questo punto non si può non fare credito a ciò che Cornelio dice di se stesso: "Quattro giorni orsono, verso quest'ora, stavo pregando... quando mi si presentò un uomo in splendida veste e mi disse: Cornelio, la tua preghiera è stata esaudita e Dio si è ricordato delle tue elemosine... Fa' venire Simone, chiamato Pietro... Subito ho mandato a cercarti e tu hai fatto bene a venire. Ora dunque tutti noi siamo qui riuniti, al cospetto di Dio, per ascoltare tutto ciò che dal Signore ti è stato ordinato" (Atti 10, 30-33). In queste parole di Cornelio è possibile cogliere alcuni sentimenti profondi: egli si giustifica con Pietro per averlo chiamato (è Dio che gli ha parlato e quindi da Lui è venuta la chiamata); egli non avrebbe osato tanto se Dio non glielo avesse ingiunto. Cornelio vuole anche assicurare Pietro sulla bontà della sua decisione "sono venuto senza esitare": (Atti 10, 29) e sulla provvidenzialità della sua presenza. Infine, il centurione romano dichiara la disponibilità sua e dei suoi all'ascolto della parola di Dio. Il cammino verso la salvezza è solo agli inizi, ma è doveroso rilevare che la grazia dalla quale Cornelio è raggiunto si propaga anche ai suoi familiari; conseguentemente i suoi passi verso la fede in Gesù sono anche i passi di coloro che vivono con lui. In termini semplici - caratteristici dell’alternativa, che Luca sa vivacizzare intercalando discorsi brevi e puntuali - ci vengono presentati alcuni tratti di una spiritualità familiare in parte certamente datata ma in parte sempre attuale.

Il carceriere di Filippo e la sua famiglia credono in Gesù

Il racconto offertoci da Luca è ricco di notizie dettagliate dalle quali si può ricavare l'itinerario di fede non solo del carceriere ma anche della sua famiglia. Anzi, ciò che accade al carceriere di Filippi assume un carattere pubblico perché è la cittadinanza stessa che viene coinvolta: non tanto Filippi, ma i suoi abitanti (i padroni della schiava, la folla e i magistrati, oltre al carceriere e la sua famiglia) sono ad un tempo spettatori e attori di ciò che sta accadendo. Si sa che Luca per formazione e per convinzione, è particolarmente attento alla dimensione pubblica della nuova fede cristiana: famiglia e società sono per lui due ambiti nei quali il Vangelo di Gesù Cristo possono e devono entrare per il bene integrale delle singole persone. La città di Filippi era "colonia romana e città del primo di distretto della Macedonia" (Atti 16, 12). Paolo vi si recò per esplicito invito-comando del Signore, mentre aveva in animo di andare altrove (Atti 16, 6-10). Là si convertì Lidia - anch'essa insieme alla sua famiglia - cui (il Signore aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo (Atti 16, 14-15) e aprì la sua casa all'ospitalità (Atti 15, 15 e 40). Nella città di Filippi Paolo fa un miracolo, liberando una giovane schiava da uno Spirito maligno e così, non solo a parole ma anche con i fatti Paolo si mette a servizio del Vangelo, che sprigiona tutta la sua forza salvifica. Esaminando ora più direttamente Atti 16, 30-34, possiamo mettere in evidenza gli elementi costitutivi di un itinerario catecumenale, individuale e familiare, che non può non meravigliarci per la sua completezza e semplicità ad un tempo. Pare di poter riconoscere una inclusione letteraria tra l'inizio (v. 25) e la fine (v. 34) di questa pagina: in ambedue i casi viene messa in rilievo la dimensione comunitaria dell’evento narrato. Paolo e Sila pregano e cantano con i carcerati che li ascoltano; il carceriere con i suoi familiari si fa battezzare da Paolo e Sila i quali ne condividono la gioia. Il rilievo riveste una certa importanza anche dal punto di vista teologico: i doni di Dio sono dati per essere condivisi e concelebrati affinché la comunità dei credenti - la famiglia in primo luogo - cresca e si consolidi ("nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo" Atti 9, 31).

L'inclusione letteraria or ora rilevata lascia trasparire anche un calore liturgico: all'inizio una elevazione innica a Dio e al termine un'àgape fraterna che fa pensare - almeno per analogia - ad una celebrazione eucaristica. Liturgia e vita qui - in un ambiente e in clima familiare - si compenetrano: l'esperienza della fede si traduce in canti di lode e di ringraziamento e d'altro canto, la celebrazione liturgica è essenzialmente relativa al dono della fede e caratterizzata dall'incontro con il Signore risorto nella comunità e per mezzo degli evangelizzatori. Un forte contrasto si avverte tra l'ipotesi del suicidio per paura della pena capitale e il dono della vita eterna che per pura grazia, viene offerto al carceriere e ai suoi familiari. Come si legge in un'altra pagina degli Atti degli Apostoli, in riferimento al paralitico guarito da Pietro: "Proprio per la fede riposta in lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest'uomo che voi vedete e conoscete, la fede in lui ha dato a quest'uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi" (Atti 3, 16). I doni di Dio sono sempre integrali: alla guarigione del corpo si aggiunge quella dell'anima, con la vita terrena si ricupera quella eterna, il dono di un capo famiglia non può diventare il dono di tutti. Analizziamo ora successivamente le tappe che scandiscono l'itinerario della salvezza. Avremo ancora modo di rilevare la dimensione comunitaria, specificamente quella familiare, del dono della fede e della salvezza in Cristo Signore. In primo luogo la situazione di necessità nella quale viene a trovarsi il carceriere di Filippi: dal punto di vista umano non ci sarebbero vie di uscita, perché a quel tempo ai carcerieri inadempienti veniva comminata la stessa pena dei prigionieri che avevano lasciato fuggire (vedi anche 12, 19 e 27, 42). Come non di rado succede in simili circostanze, viene fatta balenare una soluzione drastica e immediata: il suicidio, un atto inconsulto, le cui conseguenze si farebbero sentire anche sui suoi familiari. E’ chiaro che il carceriere è destituito di ogni apertura verso la trascendenza e verso una vita oltre la morte. Eppure è proprio qui che si incunea la proposta di Paolo e il dono di Dio. Come? Anzitutto mediante il dialogo che si intreccia tra Paolo e il carceriere: un dialogo che non riguarda ancora la "bella notizia" di Gesù Signore in vista della fede che porta alla salvezza, ma cerca solo di liberare un povero disgraziato dall'ipnosi del suicidio e dall'ignominia di una morte infame. Paolo lo scongiura: "Non farti del male; siamo qui" e lui, il carceriere, domanda: "Signore che cosa devo fare per essere salvato?" (vv. 28-30). Notiamo: qui si passa in sensibilmente dall'idea di aver salva la vita del corpo a quella della salvezza eterna: la prima salvezza è immagine della seconda. Spesso, nell'opera lucana, il verbo salvare designa sia la guarigione sia la rigenerazione spirituale (Lc. 8, 36; 17. 19), così come può indicare la salvezza di una persona e/o la salvezza di una famiglia-comunità.

Segue l’annunzio della Parola del Signore con tutto quello che questa espressione implica secondo il lessico lucano. "La parola del Signore" sta ad indicare in primo luogo il contenuto dell’opera di evangelizzazione, la quale si concentra propriamente sul mistero del Signore risorto e sul messaggio di salvezza che ne deriva. Fedele alla tradizione apostolica che lo ha raggiunto e avvinto, Paolo concentra la sua predicazione sugli eventi pasquali che, secondo la sua intuizione, si sintetizzano nel titolo cristologia Kuros, il Signore. L’annunzio del mistero pasquale termina sempre con una proposta-esortazione cui è annessa una promessa: "Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la famiglia (v. 31): l'imperativo esprime la doverosità e la libertà della risposta umana mentre il passivo, cosiddetto teologico indica l'azione divina che è realizzazione di una promessa preveniente e fedele " Tu e la tua famiglia": la partecipazione al dono della salvezza, che rende cristiana una intera famiglia, è già presente nell’apostolato missionario.

All’accoglienza della parola del Signore, mediante la fede, prima del battesimo, fa seguito un gesto di carità: "Egli (il carceriere) li prese in disparte a quella medesima ora della notte e ne lavò le piaghe. Reputo assi importante questo dettaglio del racconto lucano perché esso ci libera dal pericolo di ridurre l’iniziazione cristiana ad una serie di riti avulsi dalla vita e dalla storia. Al contrario chi, come il carceriere di Filippi, inizia un cammino di fede e di conversione si sente pure portata o a stabilire rapporti di amore concreto fattivo con quanti mediante la predicazione gli hanno aperto le porte della vita.

Con la fede Dio dona certamente anche la virtù teologale della carità ed è per questo che prima ancora di ricevere il Battesimo il carceriere sente il bisogno di soccorrere gli apostoli nelle loro necessità materiali. E’ logico e naturale pensare che in questo egli ha trovato piena collaborazione in famiglia. E’ la casa – la domus famiglia- il luogo privilegiato per celebrare questa semplice ma autentica liturgia. La carità esercitata nel nome di Cristo, ha uno straordinario potere liberatorio libera il carceriere dalla paura della morte e libera Paolo e Sila dal dolore delle piaghe.

La carità ha comunque sempre bisogno di mediatori umani, che Dio ininterrottamente suscita nel corso della storia. "E subito si fece battezzare con tutti i suoi" (v. 33): l'iniziazione cristiana trova il suo culmine nell’amministrazione del battesimo, il primo dei sacramenti voluti da Gesù stesso. Il simbolismo dell'immersione e dell'emersione dall'acqua non può essere sottovalutato, proprio per la sua chiara allusione al passaggio dalla morte alla vita, oppure da una vita solo terrena ad una vita in pienezza. Qui il Battesimo assume una dimensione familiare, come nel caso di Lidia (Atti 16, 15) e nel caso di Crispo (Atti 18, 8): ecco una circostanza che provoca qualche perplessità in noi moderni, ma che possiede un suo significato profondo. Il dono che viene da Dio, secondo la logica del dono tout court, richiede non solo di essere accolto e vissuto, ma anche di essere partecipato e condiviso soprattutto tra coloro che sono uniti da vincoli di parentela e di conoscenza. Se la fede è un dono e questo dono, come un seme, promette vita, allora essa attende solo di essere seminata nel cuore d’altre persone, con l'impegno di seguire le fasi di crescita di questo seme, piccolo ma prezioso, e di preservarlo dai pericoli che ne minacciano l'integrità e la maturazione. Al Battesimo fa seguito l'àgape fraterna: in essa non e agevole riconoscere la celebrazione eucaristica e tuttavia e possibile e doveroso considerarla come un momento qualificante il cammino di fede in Cristo. Secondo Luca a qualificare questo banchetto cristiano fin dai primi tempi e la gioia. E la gioia dei tempi messianici (non solo uno sfogo psicologico o un semplice fenomeno sociologico), la gioia di chi arriva alla fede e inizia a sperimentare, la gioia di chi nella fede ha trovato un impulso vitale nuovo che lo spinge a vivere la comunione ecclesiale (la koinonia; Atti 2, 42) nel senso più completo del termine. Ancora una volta è l'ambiente familiare quello nel quale si colloca questa condivisione comunitaria del dono accolto: in nessun altro luogo è dato di sperimentare la profonda e commovente verità delle parole di Gesù: "C'è più gioia nel dare che nel ricevere" (Atti 20, 35).

Filippo e le sue quattro figlie profetesse

Assai singolare - e perciò degno della massima attenzione - è il caso di Filippo, uno dei Sette di cui abbiamo notizie in Atti 6, 1-6, e delle sue quattro figlie le quali, in Atti 21, 9, vengono caratterizzate come "profetesse". Rileggiamo anzitutto la memoria lucana: "Ripartiti il giorno seguente, giungemmo a Cesarea; ed entrati nella casa dell'evangelista Filippo, che era uno dei Sette, sostammo presso di lui. Egli aveva quattro figlie nubili, che avevano il dono della profezie " (Atti 21, 8-9). Il padre evangelista e le figlie profetesse: è tutta compresa in questi due titoli l'importanza di questa famiglia. Peccato che nulla si dica della moglie-madre! I due carismi vanno considerati insieme: I'uno integra l'altro e certamente padre e figlie in modo diverso e complementare si pongono a servizio della Parola, a servizio dell'unico Vangelo: Filippo è detto "evangelista" certamente a motivo della sua attività missionaria che, dopo quella di Pietro e di Stefano - anch'egli uno dei Sette - e prima di Paolo, ha segnato gli inizi della predicazione del Vangelo (vedi Atti, 8, 5-40). E lo stesso Luca a caratterizzare l'attività missionaria di Filippo con il verbo "evangelizzare" (vedi Atti 8 12.35.40) e a dirci che oggetto della sua opera di evangelizzazione sono: Gesù il nome di Gesù e il regno di Dio. La "bella notizia per- Filippo non può essere altro e così egli si mette in linea con gli altri "servitori della Parola" (Lc 1, 2) componendo così quella catena di testimoni della Parola che accanto a quella degli Apostoli, tiene salda la fede dei primi cristiani e consolida la vita della Chiesa nascente. non ci si può dunque meravigliare che Filippo abbia avuto quattro figlie profetesse: ma di quale dono si tratta? Qual’è il loro carisma specifico? E come possiamo - e dobbiamo - pensare oggi alla presenza di profeti e profetesse nella Chiesa? vale la pena ricordare che profeti e profetesse ne esistevano in varie città: a Gerusalemme anzitutto (Atti 5 32, 11, 27; 21,10); come pure più tardi ad Antiochia (13, 1), a Efeso (l9,6) La loro presenza è registrata come normale e complementare a quella degli Apostoli degli anziani (11,30), dei dottori (13 1). Si delinea così in modo assai chiaro la pluralità dei servizi nella Chiesa e la loro utilità per la predicazione del Vangelo. Questo dono della profezia - offerto indistintamente a uomini e donne - edifica dunque la Chiesa (I Corinzi 14 3.5.12) perché viene dallo Spirito Santo (vedi Atti 11 28; 19, 6, 21,11) e non è altro che il segno del compimento delle profezie, segnatamente quella di Gioele 3, 1-5 cui si ispira tutto il discorso pentecostale di Pietro (vedi Atti 2, 14-21.39), Come dono dello Spirito, perciò, la profezia rivela il carattere escatologico del tempo in cui viviamo annuncia e ricorda che viviamo in tempi decisivi in ordine alla salvezza. Mediante la presenza e la parola dei profeti lo spirito della Pentecoste tiene viva e giovane la Chiesa di Cristo e rinnova la faccia della terra. Qualificando come profetesse le figlie di Filippo, Luca ha certamente inteso conservare una memoria storica di grande importanza non solo per il fatto che attribuisce a quattro donne il dono della profezia (vedi anche I Corinzi 11,5) ma anche perché lascia intravedere l'importanza del loro ministero profetico in seno alle comunità cristiane primitive e anche in ordine alla nota missionaria che le caratterizza. "Il profeta è essenzialmente un uomo o una donna che parla nel nome di Dio sotto l'ispirazione dello Spirito, il quale rivela il mistero del suo disegno (1 Corinzi 14, 2), la sua volontà nelle circostanze presenti. Egli edifica, esorta, conforta (1 Corinzi 14, 3), manifesta i segreti dei cuori" (1 Corinzi 14, 25). Con poche parole Luca ci informa su una situazione familiare che ha certamente qualcosa di singolare, ma nello stesso tempo rivela come tutti - uomini e donne - in ogni situazione di vita possono servire la causa del Vangelo, semplicemente accogliendo il dono dello Spirito Santo (si veda la fondamentale profezia di Gioele 3 citata in Atti 2, 14-21), assimilandolo con tutte le energie e comunicandolo ad altri.

Anania e Saffira: una coppia da dimenticare

Che cosa intende esprimere Luca quando racconta questo episodio, così drammatico e così enigmatico? Quale messaggio si sprigiona da questo fatto e che cosa pensare della sua storicità? In particolare, nel contesto della vita della comunità cristiana primitiva, quale significato assume questo episodio: è da considerare solo come un incidente di percorso, oppure come una "situazione di vita", rivelatrice del peccato che abita in noi e perciò destinata a ripetersi lungo il corso della storia? Illuminante appare il contesto letterario: questo episodio, infatti, Luca lo inserisce tra due "sommari"" (Atti 4, 32-37 e 5, 12-16) nei quali viene descritta la vita dei primi cristiani. Tra l'altro, si afferma che essi "avevano un cuor solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune... Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto, lo deponevano ai piedi degli Apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno" (Atti 4, 32-25). Per illustrare questa "situazione di vita", Luca continua il suo racconto riferendo prima il caso di Giuseppe, che aderisce pienamente alla lettera e allo spirito della "comunione dei beni" anche materiali, considerandola come una regola della comunità alla quale occorre in ogni modo essere fedeli; e poi il caso di Anania e Saffira, che invece non sono riusciti a coniugare le esigenze della loro famiglia con quelle della comunità cui appartenevano.

Il contrasto è forte e Luca mette a fuoco la duplice e differente maniera di concepire e vivere la vita comunitaria. Questa coppia di sposi non ha saputo entrare nella logica di una vita ecclesiale intesa come condizione piena e gioiosa di tutto quello che la fede cristiana porta e comporta. Forse come coppia Anania e Saffira non hanno saputo comporre le pur legittime previsioni della loro politica familiare con le istanze evangeliche caratterizzanti la comunità di fede alla quale avevano liberamente aderito. Ma non basta rilevare questa difficoltà: il loro peccato è ben più grave. In che cosa consiste esattamente? E Perché non sono stati capaci di uscire dal loro piccolo mondo per entrare nel "mondo nuovo" inaugurato da Gesù e dal suo Vangelo? E perché alla fine, emerge un castigo così severo? Ovviamente qui sono in gioco valori ben più grandi che cercheremo ora di percepire. L’atteggiamento esterno dei due coniugi sottende un'attitudine menzognera. A chi hanno mentito? A se stessi, alla comunità e ai suoi responsabili, ma soprattutto allo Spirito Santo. Ovviamente c’è una escalation in questo ordine e la gravità del peccato dipende dalla gerarchia dei valori sottesi non dimenticando che nell'economia della creazione Dio si cela nella creature e nell’economia dell’incarnazione Dio si rende presente nella persona e nella comunità in questa luce il gesto dei due sposi non appare più tanto banale. Perchè hanno mentito Anania e Saffira? Perché non hanno compreso che la comunione dei beni nella comunità a favore dei poveri era una scelta del tutto libera, un atto squisitamente caritatevole. E’ terribilmente pericoloso nella comunità dei credenti considerare obbligatorio ciò che e semplicemente consigliato: Gesù non è venuto ad aggravare il peso delle obbligazioni, ma semmai a liberarcene. Qui emerge una mentalità giuridica giudaizzante, totalmente contraria alla spiritualità evangelica. Ma la menzogna di Anania e Saffira ha altri risvolti: per esempio essi non hanno imparato, stando alla scuola del vangelo con1e unire e armonizzare la conduzione economica della loro famiglia con la domanda dei poveri, menzionata dalla comunità di fede cui appartenevano. Quando due sposi si coniugano in Cristo - talvolta si dice anche sposarsi in chiesa" - si uniscono tra di loro, ma si uniscono anche al Signore e alla comunità che egli si è acquistato con il suo sangue (Atti 20, 28). Questa appartenenza a Cristo e al corpo di Lui che è la Chiesa (vedi Colossesi 1,24) ha valore mistico e sacramentale, cioè reale, e non può essere disatteso da chi sposandosi lo fa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In caso contrario si distacca dalla fonte della luce e della grazia si avventura sulla strada dell'amore senza aver mai fatto esperienza dell'Amore e così si condanna all'insignificanza e all'inefficacia soprannaturale. Ora questo connubio o è totale o non sussiste. La comunione dei beni materiali, secondo Luca e secondo la logica di una vita ecclesiale veramente degna di questo nome, non è altro che un segno sensibile, manifestativo, efficace della grazia; la grazia di essere credenti, di essere redenti dal sangue di Cristo, di appartenere al Signore e di fare Chiesa nel nome di Lui. Con il loro miope progetto, con la loro scelta egoistica e soprattutto con il tentativo di sottrarre ai poveri e ai fratelli nella fede ciò che, nella logica della fraternità evangelica, sarebbe stato fonte di gioia conseguire e donare, Anania e Saffira si sono "accordati per tentare lo Spirito del Signore" (Atti 5, 9), cioè con la loro menzogna hanno provocato Dio, cui appartiene la Chiesa (Atti 20, 28), que1 Dio che è geloso della sua Chiesa oggi come era geloso del suo popolo un tempo (Esodo 20, 5; 34, 14). Ben sappiamo che la gelosia - soprattutto quella di Dio - è manifestativa di un amore totale, assoluto, incondizionato e quando si scatena significa che, in quel modo e in quel momento, l'Amore è stato tradito. Questa - penso - è la chiave di lettura teologica più adeguata e più profonda del gesto in consulto di quei due coniugi. Provocato dalla menzogna dei due lo Spirito del Signore - che qui come nei vv. 3 e 32 appare personificato - reagisce con il rigore e la prontezza di una potenza divina, che è presente e si lascia percepire nella vita della comunità. Luca vuole educarci a riconoscere la presenza attiva di Dio nel suo popolo sia nei momenti positivi e gioiosi, sia nei momenti negativi e dolorosi: sono due aspetti di quell'unica pedagogia per mezzo della quale Dio intende educare il suo popolo, quello antico e quello nuovo. Eccessivo il castigo inflitto? A noi pare di sì, ma non ci si deve fermare al fatto in se stesso, bensì bisogna risalire alla sua portata teologica. Con lo stesso verbo "impadronirsi e tenere per sé" l'autore di Giosuè 7,1 caratterizza la colpa di Acan il quale "si impadronì di quanto era votato allo sterminio e così la collera del Signore si accese contro gli Israeliti". Pertanto, sottrarre qualcosa alla comunità è come sottrarre qualcosa a Dio, mentire alla comunità è come mentire a Dio personalmente, pensare di ingannare la comunità e come ingannare Dio. Accordarsi per fare questo, da coniugi cristiani significa aggravare la colpa perché oltre a contrastare il dinamismo della carità della vita comunitaria finisce col mortificare il dinamismo dell'amore tipico della vita coniugale.

Aquila e Priscilla: una coppia da imitare

Corrispondente all’episodio di Anania e Saffira, ma con una valenza nettamente contraria, ciò che Luca racconta di Aquila e Priscilla non ha solo valore di cronaca ma riveste certamente un valore simbolico ed emblematico .Prima di fare alcune analisi esegetiche mi pare utile caratterizzare - anche sotto il profilo storico - questa coppia di sposi e lo farò con le parole di R. B. Rackham, un valido commentatore degli Atti degli apostoli: Nel quartiere giudaico di Corinto Paolo trova Aquila con la sua moglie Priscilla, che è appena arrivato dall’Italia. L’Apostolo potrebbe aver avuto qualche rapporto pregresso con Aquila, ma qui ad ogni buon conto inizia quell’intima familiarità con Priscilla e aquila che ha lasciato il segno nel nuovo testamento. Essi hanno ospitato a Corinto e hanno condiviso il suo lavoro ad Efeso, dove per Paolo " hanno rischiato la loro testa" (Romani 16,4). Aquila era un emigrante. Può darsi che anche a Roma Aquila abbia sposato Prisca detta Priscilla. Ambedue i nomi sono romani e sono ritrovati nel cimitero della gente Acilia perciò potrebbero essere stati membri della stessa famiglia. Dei due Priscilla fu la personalità preminente: in quattro testi su sei nei quali la coppia è menzionata, il suo nome precede quello di Aquila. Probabilmente essa fece da leader nell’opera di evangelizzazione.; e perciò deve essere classificata con Lidia e le altre donne le quali hanno faticato per il vangelo. E’ stato infatti suggerito che Priscilla fosse una donna romana di alto rango piuttosto che Aquila. Ma romana o giudea essa condivise l’esilio con suo marito. Per la loro simpatia con S. Paolo anch’essi dovettero lasciare la loro casa. L’arrivo di Priscilla e Aquila a Corinto ha accresciuto la gioia di Paolo; egli avrebbe trovato non solo una casa di cristiani con cui abitare, ma anche l'opportunità di stabilire contatti con la Chiesa in Roma. E poiché Aquila era un costruttore di tende, Paolo avrebbe trovato anche un mestiere per lavorare in proprio, onde mantenersi ed evitare ogni apparenza di interesse nel suo ministero apostolico. Non si può non rilevare che Luca sta narrando la fondazione della Chiesa di Corinto e che in tale preciso momento egli registra la presenza e l'azione di Aquila e Priscilla: non solo all'inizio del capitolo l 8 degli Atti deg1i Apostoli quando Paolo "si recò da loro, si stabilì nella loro casa e lavorava" (18, 2-3) ma anche più avanti quando Paolo "prese congedo dai fratelli e s'imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila, (18, 18) e infine quando Priscilla e Aquila "ascoltarono Apollo, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio, (18, 2ó). Come si vede man mano che il tempo passa i due coniugi assumono compiti più impegnativi, che attendono diretta mente all'opera di evangelizzazione, ed è così che essi collaborano alla fondazione della comunità cristiana di Corinto. Dobbiamo constatare che "la via di Dio" - questa singolare metafora - sta ad indicare non solo ciò che i discepoli di Cristo credono (la dottrina) o come vivono (la condotta) ma anche e principalmente chi sono (i seguaci di Cristo). E dall'insieme di questi significati che si comprende meglio ciò che Priscilla e Aquila hanno fatto nei confronti di Apollo: "gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio (18, 26): più che di una rettifica, si tratta di un complemento di istruzione su ciò che il cristianesimo esige, su ciò che il cristianesimo è. Non basta infatti credere che Gesù è il Messia; è necessario pentirsi per accogliere il dono della salvezza; occorre fare un passo in avanti. Non basta il battesimo di Giovanni (18, 25) Occorre passare al battesimo nel nome di Gesù (Atti 19, 1-7) che è chiamato anche il battesimo dello Spirito Santo mediante l'imposizione delle mani. Quello che manca ad Apollo e che gli viene dato da Aquila e Priscilla è dunque l'insegnamento sullo Spirito e sulla Chiesa, cioè sulla vita nuova dello Spirito Santo nella Chiesa. Così l'itinerario di Apollo verso la nuova fede si completa: egli può perfezionare la sua ricerca di Cristo mediante l'aiuto di due sposi che alla scuola di Paolo, avevano avuto la gioia di conoscere profondamente e completamente "la nuova via". Non solo, ma Priscilla e Aquila ad un certo punto abbandonano la loro città e la loro casa per farsi "compagni di viaggio di Paolo" (Atti 18, l8): diventano missionari nel senso stretto del termine. Avevano lasciato la loro casa di Roma sotto l'incalzare della persecuzione dell'imperatore Claudio; ora abbandonano la loro casa di Corinto per seguire Paolo nel suo irresistibile progetto missionario e per collaborare alla sua opera evangelizzatrice. La missione è entrata pienamente nella loro vita personale e familiare: non solo essi vivono con piena convinzione nella logica della fede che hanno abbracciato (e in questo si differenziano da Anania c Saffira, di cui abbiamo già detto), ma si sentono spinti a rendere pubblica testimonianza a Cristo e al suo vangelo

Priscilla ed Aquila vanno dunque posti accanto ad altri personaggi laici - uomini e donne - che hanno caratterizzato la vita della Chiesa nascente. Ne parla espressamente Paolo nella sua lettera ai cristiani di Roma: "Vi raccomando Febe nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre: ricevetela nel Signore come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch'essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso. Salutate Prisca e Aquila miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa. Salutate il mio caro Epeneto, primizia dell'Asia per Cristo. Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato mio diletto nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo e il mio caro Stachi. Salutate Apelle che ha dato buona prova in Cristo. Salutate i familiari di Aristobulo Salutate Erodione, mio parente. Salutate ... (ecc. ecc.). Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo" (l6, I-16). E impressionante l'immagine che si ricava da questo elenco di persone. alcune di origine greca, altre di origine romana e altre di origine giudaica; alcuni sembrano personaggi altolocati altri invece erano schiavi o liberti. Tutti comunque sono cristiani e formano una comunità cristiana - la Chiesa in Roma - composta da persone così diverse e pur radunate da una stessa fede nella comunione con Gesù Cristo. Non possiamo passare sotto silenzio ciò che Paolo dice di Andronico e Giunia - e che, a mio parere, vale anche di Priscilla e Aquila - : essi sono "apostoli insigni". Viene attribuito loro un titolo altissimo, quello di "Apostoli", a motivo della loro partecipazione attiva all'apostolato missionario della Chiesa, e di Paolo in specie, ed anche perché per questa loro scelta hanno sofferto la prigione, pagando di persona.