Figli "normali"?

di Massimo Stefani

La campana di vetro | Un aspetto non marginale | L'adolescenza, & prima | Il fascino segreto della tribù | Le conseguenze del "dare" | La vera sicurezza | I frutti del materialismo pratico | Stress e abulia | Trasmettitori di virtù | Si può anche recuperare | La brutta copia della fortezza | Una digressione: iniziativa & originalità  | Chi è più adatto e chi è normale

 

"Voglio che i miei figli siano bravi ragazzi, ma non troppo; non devono crescere "fuori dal mondo". I ragazzi di oggi non devono vivere sotto una campana di vetro: devono essere pronti ad affrontare la durezza della vita". Di solito è il papà a fare questa considerazione sull'educazione dei figli; la mamma sembra che la pensi in maniera diversa, ma in fondo vuole -- con molta maggior convinzione -- che la figlia non sia "diversa dalle altre"; e, dato che le è ben chiaro come vivono "le altre", vuole che sia "poco perfettina", che non sia un'"asociale".

Come ogni luogo comune, l'affermazione del papà coglie una profonda verità: è vera la percezione delle difficoltà di maturazione dei giovani. evidente quanto sia difficile, per loro, fare i conti con quella che qualcuno chiama "la durezza della vita", la capacità di sopportare condizioni impreviste e negative; per questo, a nessuno sfugge quanto sia difficile adeguarsi a situazioni che implicano una certa originalità, della libertà di spirito, una capacità di uscire dagli schemi. certamente molto lenta anche l'uscita dall'adolescenza e l'inizio della maturità con tutto ciò che questa comporta: assunzione di impegni stabili, equilibrio e capacità di sopportare le tensioni quotidiane che tali impegni comportano.

Del resto, anche nei giovani si riscontra un fatto assai vicino a queste sensazioni dei genitori: l'apprezzamento in cui è tenuto il look "trasgressivo" -- come orecchini, jeans stracciati, codini, teschietti sulle maglie, moda dei tatuaggi (piercing), e via dicendo -- che ha perso quel tono di stranezza e cattiveria di qualche tempo fa. Non è forse anche questo un indice del desiderio di "non fare troppo i bravi"? diventato importante essere tragressivi; forse il motivo di ciò è da attribuire alla connessione che si crede di trovare tra l'essere trasgressivi e l'essere dei "duri". Quest'ultima caratteristica è vista come una capacità difficilmente raggiungibile, come una virtù rara. Logica, quindi, tutta l'importanza e l'apprezzamento che il look "cattivo" acquisisce tra i giovani.

Sono dunque i ragazzi stessi a percepire l'importanza di essere "duri", il gran valore della capacità di agire fuori dalle "campane di vetro". Che cosa deve fare un buon genitore?

Per cercare una risposta scindiamo la questione qui rapidamente abbozzata in più parti: cominciamo a vedere le cose con l'ottica del genitore e dell'ideale di figlio che lui vuole forgiare; parleremo poi soprattutto di come inquadrano la questione i figli, perché non è proprio detto che la percezione del papà e della mamma corrisponda alla visione che ne hanno i figli. Concluderemo, dopo avere sfiorato un tema parallelo (capacità di iniziativa e originalità), rimettendoci nell'ottica dei genitori per risolvere questo dilemma educativo: bisogna educare a essere cristiani o a essere "normali"? Ovviamente pensiamo che non ci sia una opposizione tra le due realtà; permane, però, la questione: come forgiare ragazzi con ideali cristiani senza che questo li faccia essere "strani" o "diversi"?

 

La campana di vetro

 

Cominciamo con l'analizzare bene la preoccupazione citata all'inizio: l'attenzione a non creare una campana di vetro. Tale sensibilità coglie una verità, ma presuppone anche una diagnosi e alcune ipotesi erronee. Scindiamo, quindi, l'argomentazione che sta dietro "la storia della campana" in due componenti, e cerchiamo di valutare la veridicità delle riflessioni: a) "la società esige persone capaci di lottare"; b) "l'educazione che si dà, se è troppo "buona", in fondo, porta a creare una campana di vetro".

Sulla prima considerazione siamo certamente tutti d'accordo; vivere, oggi come sempre, implica lottare e dovere affrontare delle difficoltà. Ma è giusto attribuire alla frequentazione di ambienti troppo "perfetti" l'incapacità di lottare? Oppure dobbiamo attribuirlo all'atteggiamento perfezionista dei figli? E, in fondo: che cosa significa "lottare"? Come si insegna? Che cos'è quella realtà che aiuta ad affrontare con equilibrio le difficoltà? Di che tipo di lotta si tratta?

Molti figli sentono la necessità preponderante di un grande equilibrio e padronanza di sé; possiamo aggiungere che tali sono le vere necessità, nel senso che non viene tanto sentita la necessità di cose, quanto quella di queste qualità. Tali sono, del resto, le realtà più ostentate; si direbbe che gli adolescenti vogliono far vedere, soprattutto ai coetanei, quanto trabocchino di tali qualità. Hanno idee chiarissime, atteggiamenti netti, mai un dubbio; perlomeno, l'ultima cosa che hanno intenzione di fare è lasciar trasparire tale dubbio. Questi atteggiamenti fanno parte dello stile adolescenziale di sempre; ma mi sembra di poter affermare che adesso c'è una maggiore sensibilità su tali temi.

L'equilibrio e la padronanza non sono capacità qualsiasi, ma la conseguenza di un'educazione ben condotta. Tra gli aspetti da curare di più in tale educazione si trova la capacità dei genitori di non sostituirsi ai figli quando si presentano le difficoltà; gradualmente bisogna lasciare che affrontino da soli i problemi, e tale gradualità permette all'educando di non scontrarsi immediatamente con ostacoli per lui insormontabili. Si tratta di evitare la durezza eccessiva di alcuni genitori che propongono troppo presto obiettivi troppo elevati. Ma esiste anche il problema dell'atteggiamento contrario, che consiste nel non proporre mai un obbiettivo esigente, difficile. Oggi di solito si sbaglia in senso opposto all'eccessiva esigenza: troviamo genitori iperprotettivi che, avendo sempre risolto tutti i problemi dei figli, non permettono loro di imparare a risolverli da soli.

facile giudicare duro l'atteggiamento del genitore che esige molto e troppo presto; ma anche i genitori iperprotettivi hanno una loro speciale "durezza" verso i figli: ne fanno bambinoni che prima o poi non sapranno come uscire dalle difficoltà, dato che i problemi di sicuro arriveranno. E che arrivino non è certamente strano, perché tutti gli uomini si scontrano con difficoltà; solo che il bambino a cui è stato evitato il contatto con ogni problema non ha mai sperimentato una difficoltà seria, e appena essa compare si dispera, si preoccupa eccessivamente, si crea troppe paure e problemi.

Se è mancata una buona formazione, il ragazzo può cercare sicurezze, situazioni sicure e "perfette", nel senso di "perfettamente" corrispondenti alle sue precedenti esperienze, senza avere il coraggio di "buttarsi". questa una delle possibili origini della situazione che lamentava l'ipotetico papà di cui parlavamo all'inizio del nostro discorso.

 

Un aspetto non marginale

 

Ci siamo chiesti se l'educazione debba svolgersi sotto una campana di vetro. Siamo arrivati a ricordare un fatto evidente, ma anche un po' inatteso. Innanzitutto, che nessuna educazione, perlomeno nessuna educazione cristiana, dovrebbe mai dimenticare che essa include la formazione alla fortezza, al raggiungimento del bene arduo, e che il formare alla fortezza costituisce un àmbito importante dell'educazione stessa.

Nessun formatore può dunque dimenticare che non sta insegnando le "buone maniere", ma sta formando uomini che prima o poi dovranno scontrarsi con certe difficoltà. Ma quello che noi vogliamo affermare va ben oltre una sottolineatura dell'importanza di questo aspetto dell'educazione; vogliamo arrivare a dire che, forse, la "campana di vetro" la costruiscono proprio coloro che dicono, a parole, di volerla evitare.

Perché ci sono ragazzi che cercano situazioni sicure, perfette, e non hanno il coraggio di "buttarsi"? La fragilità dei figli deriva dal fatto che i ragazzi sono abituati ad ambienti troppo perfetti, o dal fatto che sono troppo desiderosi di perfezione e sicurezza essi stessi? E possiamo chiederci ancora: da dove deriva questo perfezionismo (quello dei figli), che forse faremmo meglio a chiamare "fragilità", "mancanza della virtù della fortezza"? Dall'ambiente troppo buono, o dal modo di essere del giovane, come abbiamo ipotizzato parlando dei genitori iperprotettivi?

Per dare una risposta a questi dubbi è utile chiederci quando compaiono le difficoltà nella fortezza, nell'equilibrio, nella solidità dei figli. Interrogandoci sul momento in cui fanno capolino i problemi, troviamo un aiuto per la risposta alla domanda su come si creano.

 

L'adolescenza, & prima

 

 

Di solito i problemi si vedono nell'adolescenza, nel momento in cui un ragazzo esce necessariamente dalla tretta cerchia familiare e trova le sue difficoltà di ambientamento. Vengono fuori le timidezze, le insicurezze, le reazioni di fronte ai cosiddetti problemi "normali" di scuola (reazioni non sempre "normali"). Dato che i problemi compaiono verso i 14 anni, i genitori si guardano attorno alla ricerca della causa di tali situazioni. Di solito il problema si evidenzia come incapacità di "buttarsi" e di "adeguarsi" alla realtà, con tutto l'aspetto di lontananza dal "giusto" e dal "perfetto" che essa manifesta: lo abbiamo chiamato, proprio per questo, perfezionismo. Il perfezionismo viene attribuito al tipo di ambiente che frequenta in quel momento. "Metti un ragazzo nel mondo vero, "duro", "cattivo", e ti diventerà normale; se invece lo lasci in ambienti buoni saranno proprio gli ambienti a creargli delle difficoltà"; questo il ragionamento di alcuni genitori.

Tali problemi scoppiano nell'adolescenza. Ma molti considerano tali limiti come carenze dovute all'eccessiva soddisfazione dei bisogni sin dai primissimi momenti della vita e alla parallela carenza di esigenza nei confronti dei figli (si veda J. Renaud, Bisogna dire di no ai figli?, Torino 1992, pp. 176). Già nei primissimi anni di vita ogni necessità e desiderio del fanciullo vengono soddisfatti in maniera esagerata e, a volte, prima ancora che arrivi chiaramente a formularli. Il ragazzo sviluppa una personalità fragile perché non arriva mai a sperimentare quella sostanziale distanza che c'è nella vita tra i desideri e la loro soddisfazione. Acquisisce anche -- e di questo riparleremo dopo -- una personalità abulica, passiva, incapace di divertirsi con ciò che non sia una soddisfazione "esagerata" delle proprie naturali esigenze.

Certamente queste situazioni "scoppiano" nell'adolescenza; il motivo è ovvio: la famiglia iperprotettiva costituisce un ambiente in cui i difetti formativi del fanciullo non vengono a galla. Se il bambino, data la sua educazione, ha bisogno di un "trattamento" speciale perché è sempre stato vezzeggiato ed è abituato a essere soddisfatto in ogni sua esigenza ben oltre il normale bisogno, la mamma e il papà continueranno a creare tale ambiente protettivo per tutto il tempo in cui starà in casa. L'adolescenza è il momento in cui il ragazzo vuole la massima libertà dai genitori e cerca un suo spazio tra i coetanei; per questo essa "butta" il ragazzo fuori dalla famiglia lanciandolo in un ambiente, come quello dei coetanei, costruito su criteri ben diversi. La crescita, quindi, non fa che evidenziare una precedente inadeguata educazione che fino a quel momento era rimasta sommersa.

Con queste considerazioni arriviamo ad approfondire la questione della formazione che eviti la "campana di vetro". A un'analisi più attenta appare evidente che se da una parte non si vuole la "campana" per il figlio adolescente, dall'altra è stata proprio la famiglia a "costruirla" quand'era bambino. I genitori riempiono di ogni bene di consumo il bambino e considerano la propria funzione educativa come saturazione delle esigenze di benessere materiale del figlio; oltretutto, lo colmano di un affetto che a volte sostituisce ogni iniziativa personale. Un tale figlio non è in grado di scontrarsi con la vita perché non si è mai trovato in una situazione, non già di difficoltà, ma di normale soddisfazione dei desideri (bere quando ha sete e per quanto ha sete; mangiare ciò che si deve e quando c'è bisogno, e così via).

Si può forse arrivare a dire che gli stessi genitori "nemici" della "campana di vetro", arrivano a chiedere alla scuola o all'ambiente formativo del bambino di essere la suddetta "campana", ma solo fino alla terza media: "A mio figlio evitate ogni rischio, ogni problema, ogni sofferenza, ogni contatto con i cattivi, ogni difficoltà...". Poi, però, scoprono la debolezza del figlio, si preoccupano, e pretendono di risolvere il problema buttandolo nella mischia. Ma un figlio in simili condizioni è capace di lanciarsi? Sembra proprio di no.

 

Il fascino segreto della tribù

 

In ogni caso, il risultato del gettare il figlio nella mischia è la perdita dei valori familiari visti come inadeguati al "mondo" (cioè all'ambiente dei coetanei e ai valori su cui si regge la società). Inoltre, sorgono anche i mille complessi del periodo adolescenziale; le originalità "estetiche" che manifestano il più gretto adeguamento alla "tribù" e a coloro che creano il modo di essere "giovane". In un certo senso si passa dalla mamma vera -- onnipresente nel risolvere ogni problema -- a mamma-Tv; e assieme alla Tv c'è il gruppo di coetanei a cui si è legati da un rapporto di odio (perché maltrattano) e amore (perché si ha disperatamente bisogno della loro accettazione-approvazione). Tutto ciò che era vero nell'infanzia non lo è più, o perlomeno è diventato "inutile", "infantile". Le cose "di una volta" si lasciano alle spalle insieme al Lego e al bavaglino.

Si ha la sensazione che la descrizione che abbiamo fatto sia il modo in cui attualmente alcuni ottimi ragazzi di ottime famiglie possono arrivare ad avere problemi di fede; altri modi, attualmente, non ci sono. Le vecchie storie di giovani che abbracciano per la loro "generosità" o, meglio, ingenuità, ideologie anticristiane "per difendere meglio i più poveri", possiamo lasciarle riposare nei libri di storia; il marxismo, per esempio, non è percepito tanto moderno quanto i dinosauri di Jurassic Park.

Insomma, la "campana di vetro" non è solo l'ambiente troppo buono e troppo perfettino; la vera campana di vetro è l'atteggiamento del papà, della mamma e dei nonni che non fanno mancare nulla al bambino, che lo saturano in ogni desiderio: spesso, come si diceva, prima ancora che il ragazzo riesca a formulare delle richieste o a percepire delle difficoltà, quella necessità-difficoltà è già risolta. Riportiamo un aneddoto: un breve colloquio -- domanda e relativa risposta -- a una giovane mamma: "Il suo bambino (4 anni) fa i capricci?". "Il mio bambino ha le sue legittime esigenze...". Non c'è un bambino da educare e non ci sono "capricci"; c'è un bambino cui dare. Quando avrà 15 anni, si troverà un gruppo di coetanei, una società, in grado di soddisfare "le sue legittime esigenze"? Crediamo di no; e crediamo inoltre che, di fronte a situazioni difficili, il figlio tra le possibili reazioni possa avere proprio la ricerca di situazioni prevedibili, perfette, controllabili, rigide, lontane dalle imprevedibili e grossolane reazioni dei coetanei: un figlio "perfettino" frutto di un'educazione non proprio perfetta.

 

Le conseguenze del "dare"

 

 

Gli atteggiamenti dei genitori a cui abbiamo fatto cenno si possono inquadrare in due àmbiti diversi che noi abbiamo collegato: l'evitare problemi sostituendosi ai figli (e di ciò abbiamo appena parlato), e l'amare sotto forma di riempire di beni materiali. Analizziamo ora in particolare il secondo atteggiamento.

Si ha la sensazione, quando ci si trova di fronte ad alcuni genitori, che essi percepiscano il proprio ruolo non come un fatto educativo, ma come trasmissione di beni. Ciò che differenzia la famiglia dall'ambiente esterno sta proprio nella caratteristica di "dovuto"; i genitori devono dare certi beni, mentre nell'ambiente extrafamiliare si passa dal dovuto al pagato (un'opinione più approfondita sui rapporti familiari si può trovare nel volume, a cura di P. P. Donati, I° rapporto sulla famiglia, pp. 43 ss., dove si sottolinea, invece, l'aspetto di comunicazione "dovuta" come realtà caratteristica della famiglia).

In questo secondo fatto si trova, in fondo, la spiegazione del primo: che senso ha negare qualche cosa al bambino (o al ragazzo, o all'adolescente)? Se gli si vuole bene, come lo si può far mancare di qualcosa? Anzi: quanto più si vuole bene tanto più si deve dare... Se c'era un senso nei tempi andati -- data la penuria in cui si è vissuti per millenni -- nel non dare qualcosa, perché farlo ora? Quello che prima era giustizia -- non togliere quel poco che c'era agli altri -- o impossibilità, adesso è una mentalità sorpassata.

Questa affermazione, stranamente, va contro la percezione e la sensibilità dei ragazzi. Oggi più che mai si scopre, a qualsiasi livello, che essi non percepiscono tanto un bisogno di beni; anzi, ne traboccano. Eppure le loro vere esigenze sono alla vista di tutti: calma, pace, equilibrio, sicurezza, ottimismo, maturità... A queste esigenze ne aggiungiamo una: la sana capacità di divertirsi veramente. E queste esigenze non le sentono affatto saziate.

La legge del contrappasso che regola gli errori concettuali è molto semplice nella sua formulazione evangelica. "Nessuno può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro, o preferirà l'uno e disprezzerà l'altro: non potete servire a Dio e a Mammona. Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? [...] E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neppure Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. [...] Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena" (Mt 6, 24-34). San Tommaso d'Aquino, quando si chiede l'origine del "vizio" della sollicitudo eccessiva, risponde: l'avarizia. A nostro avviso, l'avarizia come modello di vita, la società dei consumi, è madre di tale sollicitudo.

 

La vera sicurezza

 

 

Il tentativo di costruire la vita sul benessere meramente materiale non è solo moralmente ingiusto, quanto poco sano: coinvolge in quel circolo vizioso che porta all'affanno (con termine oramai onnipresente, allo stress). Si cerca la sicurezza nel bene materiale: certe cose, certe possibilità derivanti da beni materiali, costituiscono una rassicurazione. Ma contemporaneamente tali beni esigono a loro volta una nuova rassicurazione al momento in cui compaia la prossima necessità; si diventa dipendenti dai beni materiali che creano una ulteriore incertezza sul futuro da saturare con altre sicurezze materiali.

La vera sicurezza potrebbe derivare dalle proprie capacità, perché le qualità personali conferiscono un certo grado di sicurezza relativamente indipendente dalle situazioni future. Il brano del Vangelo, per la verità, si spinge ben oltre la sicurezza derivante dalle proprie qualità -- che in certe condizioni possono essere insufficenti o venire a mancare per particolari situazioni personali --, indicando la via di cercare appoggio nella paternità di Dio. Invece non si risolve il problema non perché si è capaci, perché si possiede la qualità, la virtù, ma perché si possiede un bene materiale; ma le qualità, le virtù danno una sicurezza stabile, i beni materiali invece possono sempre mancare. Si riuscirà ad avere sempre tale rassicurazione da parte di beni materiali in ogni futura possibile situazione? Ovviamente no. Prima o poi ci si trova in una situazione imprevista, si manca di un bene considerato importante; in ogni caso, quand'anche di fatto il bene arrivi a esserci, non manca la sensazione della possibilità che, prima o poi, possa venir meno.

 

I frutti del materialismo pratico

 

 

A questo primo problema ne aggiungiamo un altro: mentre alla persona non abituata ad avere tutto, il fatto di mancare di qualcosa costituisce un problema banale, per chi ha sempre avuto tutto, e ha cercato la sicurezza nell'avere, il mancare di qualcosa costituisce una seria fonte di tensione. Stupisce vedere con che calma un abitante del Terzo Mondo guarda soddisfatto i quattro soldi che possiede senza preoccuparsi del domani, mentre un occidentale pieno di "previdenze" e assicurazioni è comunque preoccupato di una sempre possibile prospettiva negativa.

La conseguenza del materialismo pratico è diventata evidente a tutti, quand'anche non se ne colga la causa. L'atteggiamento sicuro, l'equilibrio, la fiducia sono realtà fuori portata; non manca anzi chi vede la fede stessa come sicurezza, per alcuni sicurezza irritante ("facili certezze"), data la propria radicale, eterna instabilità apprensiva. Ci sarebbe da chiedersi quanto la fede è diventata per molte persone una sicurezza psicologica soggettiva, quando nella tradizione questo aspetto veniva considerato veramente marginale.

Chi vive nella dipendenza dalle sicurezze conferite dai beni materiali, e dà ai figli affetto sotto forma delle sicurezze prodotte dai beni materiali, finisce per dar loro anche l'origine dell'eterna preoccupazione, ansietà, di cui tutti siamo tanto spesso vittime. Chi riesce a formarli a un sano distacco dai beni materiali e insegna loro a essere generosi con gli altri, non ne fa solo delle persone caritative o capaci di essere distaccate dai beni materiali, quanto delle persone normali, serene.

 

Stress & abulìa

 

 

Abbiamo parlato dello stress come di una conseguenza del materialismo; ma allo stress come primo "risultato" del materialismo pratico si deve aggiungere la sostanziale abulìa di fronte alla saturazione anticipata di tutte le esigenze materiali. Abbiamo già citato un libretto di una psicologa francese (J. Renaud, Si deve dire di no ai figli?) che evidenzia, tra l'altro, i rischi dell'eccessiva gratificazione dei desideri del figlio sotto forma di incapacità di reagire a stimoli normali; chi ha già avuto tutto, spesso prima di chiederlo, per divertirsi ha bisogno di stimoli speciali, "assordanti": rumori, alcool, droghe, nottate brave (quello che la pubblicità delle discoteche chiama "la vita"). "La mancanza di qualcosa di definitivo nel centro dell'anima", scriveva G. Simmel, "spinge a cercare una soddisfazione momentanea di sempre nuovi stimoli, emozioni, attività esterne..." (citato in D. Frisby, Frammenti di modernità, tr. it. Bologna 1992, p. 99).

Di fronte a situazioni ordinarie, invece, si rischia di cader vittime di quello che molti chiamano (non certo in senso tecnico-psicologico) la "depressione". Non ci si diverte più tra amici, parlando, organizzando una partita; tali divertimenti stanno diventando passatempi rari, non alla portata di tutti. Aumentano le persone che di fronte a tali divertimenti si annoierebbero irrimediabilmente; la lotta contro la noia, l'abulìa, è diventata una questione seria. Un "personaggio" televisivo ha recentemente affermato di dover vivere una vita originale -- con continui rischi -- perché sente il costante bisogno di stimoli per essere motivato; l'assenza del rischio abituale per la propria vita produrrebbe in lui una "demotivazione". Purtroppo quella persona è morta in uno dei tanti rischi connessi alla sua attività "motivante-stimolante". Fino a che punto tale persona era normale, o perlomeno fino a che punto l'educazione ricevuta lo aveva reso equilibrato?

Già un secolo fa il sociologo tedesco G. Simmel, in Metropoli e personalità (ora in Sociologia urbana, a cura di G. Elia, Milano 1971, pp. 450-451) si era soffermato ad analizzare quello stato di abulìa, stanchezza di tutto, noia e sazietà che descriveva col termine francese blasé: "L'atteggiamento blasé risulta innanzitutto da stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti... La gente stupida, non attiva intellettualmente, rientra in questa definizione... Una vita che persegue un piacere illimitato fa di un individuo un blasé poiché agita i nervi al massimo grado della loro reattività così a lungo che alla fine essi cessano completamente di reagire". Le riflessioni di Simmel si riferiscono comunque alla vita nella metropoli e non all'educazione in generale, argomento che è invece al centro di un piccolo utilissimo libretto riassuntivo di G. Morra, Il quarto uomo (Roma 1992), nonché del citato libro di D. Frisby (pp. 97 ss.).

Non è, quindi, l'eccesso di "bontà" o di formalismo a essere fonte di passività e di abulìa; è ben più spesso passivo e abulico chi è saturo di stimoli. Tale persona annoiata ha bisogno di molta "vita" per non deprimersi. La società crea l'abulìa saturandolo di beni, e crea l'industria del divertimento rischioso e stimolante per abulici. Il mondo che nasce dalla riduzione di tutto all'unico "valore" che è quello di scambio "produce il tipo di personalità che non sente differenza tra i valori, vede tutte le cose in una tonalità opaca, grigia... Se nell'intimo di un uomo si è stabilita la convinzione che si possono ottenere tutte le possibili varietà della vita per la stessa somma di danaro, egli diventerà necessariamente blasé" (G. Simmel, in D. Frisby, op. cit, p. 99).

La prospettiva consumistica qui descritta non è accettata come ideale di vita se non da pochi. Eppure, anche in chi si definisce cristiano, rischia di penetrare osmoticamente l'idea che "non si può far mancare" di certi beni il proprio figlio. Effettivamente alcune cose non possono ovviamente mancare: ma proprio tutte quelle che si pubblicizzano come necessarie? I genitori che vogliono far crescere dei figli attivi, equilibrati, e contemporaneamente che sappiano affrontare le logiche difficoltà senza eccessive tensioni, faranno bene a curare qualcosa che parrebbe avere ben poco a che fare con tali qualità: l'uso del proprio "portafoglio".

 

Trasmettitori di virtù

I ragazzi hanno bisogno di beni materiali, ovviamente; ma tra quello che si deve dare loro c'è una realtà ben diversa. Si deve trasmettere un modo di essere, delle virtù. Mentre i beni si trasmettono dandoli fisicamente, le virtù non sono prima dei genitori e poi, "gratuitamente", messe in mano ai figli; le virtù le costruiscono i figli stessi attualizzando le loro capacità naturali. Ma per attualizzare certe capacità hanno bisogno di un ambiente e di situazioni create dai formatori. La fortezza implica una capacità di raggiungere un bene arduo; presuppone, quindi, il coraggio di portare i ragazzi di fronte alla realtà di un bene che risulti arduo a causa del "male" che ostacola il suo raggiungimento.

Non si tratta certo di complicare la vita, o di picchiare i figli, ma bisogna metterli progressivamente di fronte alle difficoltà che sono già in grado di affrontare e, in generale, avere il coraggio di esigere ai ragazzi. Così facendo matureranno; secondariamente acquisteranno lentamente l'abito della lotta per ottenere ciò che è un po' più difficile, e non si abbatteranno di fronte all'improvviso insorgere delle difficoltà. Si tratta di far scalare piccoli gradini, ma bisogna anche avere chiara la meta finale che non è vivere tra le gonne materne, ma in una società confusa, "agonistica", e tutt'altro che rispettosa.

Le difficoltà, prima o poi, fanno la loro comparsa nella vita; il problema è: che capacità di affrontarle può possedere chi fino all'ultimo non le ha sperimentate? E qui entra più chiaramente in gioco il genitore. Se ha evitato ogni pericolo e difficoltà al figlio e ha saturato in anticipo e oltre la necessità i suoi desideri, ora compaiono i primi problemi che il ragazzo non affronta con equilibrio, ma con l'atteggiamento di chi deve scalare una montagna avendo in vita sua sempre e solo usato l'ascensore. Che reazione avrà di fronte a un ostacolo questo tipo di persona? Come reagirà di fronte a un suo limite una volta scoperto?

Tra gli effetti a volte non ricercati dell'avere una famiglia numerosa --, c'è proprio quello di abituare i figli a non soddisfare oltre il limite ogni necessità. L'essere cresciuto in una famiglia numerosa vuol dire imparare naturalmente che la mamma c'è per tutti, non solo per me. Questo è ben lontano dai desideri "tirannici" propri dell'infanzia; la mamma c'è anche per gli altri fratelli. Per i beni materiali vale lo stesso discorso; per questo, le situazioni appena descritte non è abituale che si verifichino in tali famiglie. Nelle famiglie numerose i bambini hanno già preso le misure alle relative durezze della vita e la insaziabilità dei desideri è stata "limata" e adeguata alla realtà. Si è cioè sperimentato che, nelle difficoltà di adeguazione tra desideri e soddisfazioni, sono i propri desideri più che le reali soddisfazioni a dover essere "adeguati". In tali famiglie si hanno, ovviamente, i rischi opposti: quelli più tradizionali di sentirsi poco seguiti individualmente, i piccoli contrasti tra fratelli. Non pensiamo però di fare un'affermazione non condivisa sottolineando che attualmente il problema più sperimentato è il contrario: tanto -- troppo -- sono soddisfatti i propri desideri, e poco formata è la capacità di esigersi, di affrontare i problemi.

 

Si può anche recuperare

 

Quando la formazione alla fortezza non c'è stata, i genitori devono cercare di recuperare il terreno perduto; a volte, invece, si ha la sensazione che il problema venga ingrandito dalle loro reazioni. Per esempio: di fronte al professore che cerca di manifestare qualche limite oggettivo dell'alunno, si complica ulteriormente la fragilità del figlio (che non è un genio, né deve per forza esserlo, perché non è obbligatorio essere un genio) assumendone comunque le "difese". Sembrerebbe che il genitore voglia così bene al figlio da non amarlo così com'è, o da risparmiargli una triste verità. Ben più utile sarebbe il pacifico riconoscimento del limite accompagnato dalla calma di fronte al problema: non muore nessuno se va male la matematica... Spesso si è testimoni che le richieste nei confronti della scuola non sono di esigenza educativa verso il figlio, ma caso mai di lamentela di fronte a questa. Non si chiede: "educate" mio figlio, ma "rassicuratelo, tenetelo lontano dalle cattive compagnie e dalla possibilità di soffrire".

L'adolescenza -- come si diceva -- è il momento in cui i nodi di questa formazione cominciano a venire al pettine. Il ragazzo si trova buttato da sé stesso, dalla propria maturazione, fuori dall'àmbito familiare, in un mondo che è quello "vero" (cioè quello non più principalmente familiare). Scopre la "spontaneità" dei coetanei tanto più grossolana e offensiva quanto più è formalista e protettivo l'ambiente familiare da cui proviene. Scaraventato nel mondo "vero", trova che il principale valore è proprio la sicurezza in sé stessi che non ha chi, improvvisamente, si trova di fronte ai problemi vitali che fino a quel momento gli erano stati "addolciti".

Nel caso in cui le prime "vittorie" gli facciano raggiungere la sicurezza in sé stesso, un ragazzo rischia di mandare all'aria gli ideali "zuccherosi" ricevuti dalla mamma; non ha più bisogno della realtà "addomesticata" per bambini, che ha ricevuto quand'era piccolo (in famiglia). Oramai è il primo, il migliore, con le sue idee che lo situano al di sopra degli altri. Se invece i risultati e le sicurezze non vengono, potrà avere diverse reazioni: rifiutare gli ideali trasmessi in famiglia, per esempio; ma potrà anche tendere a mantenere tali valori da bambino "buono", anche se gli balenerà il dubbio che siano convinzioni dovute alla fragilità di chi le professa (un mondo felice di ideali buoni per chi non riesce a trionfare nel "mondo vero"). Forse si sentirà inferiore ai "duri", e arriverà a pensare -- secondo un'idea così presente nella produzione letteraria e filmica -- che gli ideali (anche quelli più propriamente cristiani) non sono realizzabili su questa terra.

Nell'ipotesi "felice" in cui i veri limiti dei figli non fossero venuti fuori, toccati con mano e accettati, entro il periodo di studi liceali, si incaricherà l'università di farlo. Un momento tipico per queste difficoltà universitarie è proprio il primo anno; in tali momenti si sommano il problema derivante dalla scomparsa dell'"ambiente sociale" precedente (che era costituito dalla classe) alla forma diversa di esigenza da parte dell'istituzione educativa. Per molti mesi nessun obbligo di studio, nessuna richiesta; poi, improvvisamente, arrivano gli esami, ed è tardi per chi non è stato capace di studiare da solo, prima. Molti ragazzi hanno veri e propri blocchi all'inizio degli esami, che possono durare anche uno o due anni, per poi "ricominciare" l'università e portarla a termine senza nessun altro problema. Non è, quindi, un problema "tecnico", di capacità, ma di equilibrio personale.

Altri momenti specialmente difficili sono l'ingresso nel mondo del lavoro e l'assunzione di impegni affettivi stabili: il farsi una famiglia. Anche lì troviamo in tutti delle difficoltà maggiori rispetto a qualche decennio fa, e in qualcuno problemi stabili nel trovare un equilibrio; l'adolescenza si è allungata e qualche volta non si conclude. C'è tutta una bibliografia su quella che sta divenendo una questione studiata in àmbito psichiatrico; si può vedere, per esempio, E. Erikson, Adolescenza e crisi di identità (Bari 1968); più recente, e meno positivo, è il testo a cura di S. Lebovici, Adolescence termineé, adolescence interminable (Parigi 1985).

importante evitare le sofferenze ai figli, ma non si può dimenticare che le principali sono proprio quelle causate dall'incapacità di sostenere le difficoltà. Se vogliamo riassumere e semplificare l'atteggiamento del genitore in questi casi possiamo semplicemente dire: molta calma. Non è d'aiuto la paura dei genitori che a volte supera quella dei figli; in questo aspetto la maggiore esperienza di vita dei genitori dovrebbe costituire, per i figli, un sostegno.

Questo è il modello della giusta sollecitudine. Così deve atteggiarsi chi vuole bene agli altri e in particolare ai figli: cercare di evitare le difficoltà prevedibili grazie alla prudenza; ma esistono mali imprevedibili. Visto che nessun uomo può sfuggirli possiamo considerare che, perlomeno, aiutano l'acquisizione della fortezza nei figli, perché trovandosi davanti ai guai dovranno maturare. La paura dei genitori di fronte alle eventualità negative deve essere moderata; la loro stessa fortezza ed equilibrio nel controllare le paure sul futuro dei figli, è un modello di quanto devono fare i ragazzi.

 

La brutta copia della fortezza

 

 

La percezione del problema della fortezza tra i ragazzi in una società dei consumi non può che essere accompagnata dalla costatazione della comparsa di un'ampia serie di surrogati della fortezza proposti dal "mercato". Potremmo sintetizzare così la pubblicità di tali prodotti: " importante essere forti?. Ne sentite l'urgenza? Noi vi diamo orecchini da bucaniere e magliette piene di teschi...".

Questo esempio di mercato della fortezza fa riferimento ai ragazzi. Per le ragazze adolescenti la poca fortezza ha le sue conseguenze soprattutto nell'àmbito del rapporto con il gruppo degli amici e delle amiche; tutta l'impalcatura di cose giuste e intellettualmente condivise si misura con l'accettazione del gruppo. La pressione dell'ambiente è tanto maggiore quanto limitata è l'esperienza dei contrasti avuti fino a quel momento, quanto meno si è abituati alla realtà ardua. Quanto più debole sarà la ragazza tanto più si adeguerà alle richieste dell'ambiente che trovano un'eco nella sua volubilità di adolescente. Da qui derivano gli atteggiamenti di tante ragazze che devono "essere e mostrarsi emancipate" (cfr P. P. Donati, op. cit., p. 37), e spacciano per emancipazione la propria incapacità di non allinearsi alla massa.

Forniamo un ulteriore esempio di "adeguazione obbligatoria" a ciò che fanno tutti, che sfiora la schiavitù: "Secondo dati forniti da Newsweek, negli Stati Uniti più di 30 milioni di donne e 18 milioni di uomini si sottopongono a diete. La moda non perdona: il 75% delle donne tra i 18 e i 35 anni ritengono di essere troppo grasse anche se, dal punto di vista medico, solamente il 25% di esse ha un sovrappeso" (citiamo la rivista Nuestro tiempo, XI/92, p. 45). Per i ragazzi, invece, un effetto della limitata formazione alla fortezza è il poco senso dell'umorismo con cui recepiscono realtà dure e "cattive". L'ambiente del tifo calcistico, per esempio, così ridicolo nell'imitazione di modelli di "durezza" maschile, diventa serio, virile, originale e simpatico. Ma anche teschi e patacche dei vari "metallari" ostentano una durezza da film dell'orrore che dovrebbe provocare un certo humour; in molti troviamo invece spirito di emulazione.

Per evitare che qualche ragazzo arrivi a voler imitare tali modelli bisogna restituire l'umorismo perduto; l'unico modo di riuscirci sta nel presentare il vero dolore e il vero male. I presunti cattivi e i presunti "orrendi" che troviamo in giro sono bambini mal cresciuti; non conoscono il vero dolore, la vera sofferenza, la malattia, la morte. Chi vuole educare deve presentare situazioni di vera necessità e vera sofferenza per preparare e possibilmente risolvere in anticipo i problemi; chi ha provato a seguire un malato grave, chi ha aiutato un handicappato, chi ha provato a essere utile a persone anziane, è molto meno sensibile alle "durezze-fortezze" da stadio e alle imitazioni di cantanti rock che ci sono in giro. Il motivo è ovvio: ha visto durezze e sofferenze vere, e riconosce la differenza che c'è tra queste fortezze da circo e quelle di fronte al male vero. La morte vera non è quella dei fumetti di violenza splatter e dei film dell'orrore che vedono i presunti duri e trasgressivi; è molto più "normale" e consueta, a volte anche eroica, rispetto a quella vista negli spettacoli dai "duri".

Questo tipo di educazione ha spesso anche un altro effetto: togliere alcuni eccessi nel rifiuto dell'autorità che c'è in qualche adolescente. Anche alcune situazioni di ribellione esasperata manifestano, in fondo, l'infantilismo di chi i problemi reali non li ha mai visti; come conseguenza rimane scandalizzato dai mali e dai difetti, pur reali ma piccoli, che vede attorno a sé. un radicalismo nutrito d'infantilismo.

necessario sottolineare il dovere dei genitori di porre i figli in condizione di essere forti. Se c'è qualcosa da dare ai figli sono proprio le virtù; e le virtù non sono oggetto di una acquisizione meramente intellettuale. Dando loro fortezza si evitano le "gaudenti tristezze", l'"edonismo tragico" di molti. Come esempio di tali "pessimismi edonisti" riportiamo l'affermazione fatta alla televisione da un frequentatore di discoteca; alla domanda "perché vieni qui", risponde raggiante: "Perché qui non si pensa a nulla". Affermazione che ricorda da vicino la considerazione che Lorenzo il Magnifico riserva alla giovinezza "che si fugge tuttavia"; e al domani, di cui "non c'è certezza". Si tratta di chi, con un terribile pessimismo, non vuole vedere e pensare; non vede per non vedere l'incertezza, il male, il dolore, che percepisce poco realisticamente pervadere il mondo. Si è felici in discoteca perché non si pensa: pensare mette davanti agli occhi la realtà, e ciò non è affatto lieto. Tale pessimismo potrebbe essere chiamato il brusco risveglio dell'adolescente che, ignaro delle durezze dell'esistenza, se le è viste piombare tutte addosso nel momento in cui si è staccato dalle gonne materne. In questo pessimistico risveglio manca il realismo di chi comprende senza traumi che le difficoltà esistono e che, piano piano, con la sua maturazione, riuscirà a vincerle.

 

Una digressione: iniziativa & originalità

 

 

Nelle pagine precedenti abbiamo intravisto alcuni concetti paralleli a quello della fortezza; concludiamo evidenziandone uno: il possedere una personalità, l'essere originali. Anche questa qualità -- così apprezzata -- è collegata ai temi trattati. forse logico chiedersi: qual è la connessione tra tale qualità e la formazione alla fortezza? Ci sembra che in parte quanto abbiamo accennato sul materialismo pratico aiuti a coglierla: il bambino saturato nei propri desideri diventa abulico come tutti gli altri. Ma in generale la connessione tra i due àmbiti passa attraverso il tipo generale di educazione che la formazione alla fortezza presuppone necessariamente: cioè l'educazione familiare come contrapposta all'educazione attraverso i modelli collettivi, i mass media, e il gruppo dei coetanei come unico educatore.

L'educazione tradizionale prevedeva uno speciale ruolo della famiglia che, cosciente di avere il compito non di dispensatrice di beni ma di "formatrice", aiutava il bambino a moderare i desideri facendogli così acquisire le relative qualità umane. Ne derivava un'educazione e dunque una personalità caratterizzata da quella dei genitori; ne derivavano anche degli scontri con i genitori stessi, perché la maturazione è un processo che unisce la nascita e l'affermazione della propria personalità a un certo scontro con quella dei genitori.

La situazione attuale è più caratterizzata da una concezione della famiglia opposta a quella descritta; per questo essa non insegna a moderare degli impulsi e, come conseguenza, neanche permette al figlio di acquisire delle virtù. Tale famiglia lascia il figlio in balìa dei suoi desideri e di chi quei desideri è in grado di controllare e di stimolare. Quando poi arriva il momento dell'adolescenza tale famiglia, laddove ancora è unita (purtroppo oramai il fatto non è scontato, e dove non c'è più l'unità familiare quello che diremo di seguito si realizza in maniera totale), rischia di affidare l'educazione del figlio, al momento in cui questi reclama una propria libertà, al mondo dei coetanei e alla principale modellatrice di coetanei che è la Tv. Tutto ciò avviene ben prima che il figlio abbia acquisito una personalità matura e relativamente autonoma. L'influsso del gruppo dei coetanei, quindi, condiziona perché non è un'azione su un soggetto maturo, in grado di reagire, o che in ogni caso trova altrove i suoi valori; per questo si creano dei condizionamenti profondi. La massificazione che ne deriva è totale.

Per questo di fronte al papà ci si poteva ribellare, e di fronte ai modelli proposti in quei tempi -- in cui l'educazione dipendeva dalla famiglia -- c'era una condivisione o un rifiuto (anzi un pizzico di entrambe le reazioni). Oggi si scopre, a volte, l'assenza di una vera ribellione adolescenziale verso i genitori: di fronte a una famiglia che non vuole formare ci può essere al massimo uno scontro concreto su di un bene negato. Per il resto, qualche volta è la mamma stessa che chiede consiglio e manifesta i suoi problemi ai figli, che non la vedono come educatrice, ma come adolescente cresciuta.

Questo modo di impostare i rapporti familiari ha anche influenzato lo stesso ambiente sociale. I tempi delle famiglie desiderose di educare erano anche i tempi delle ideologie e delle ribellioni (e, purtroppo, anche del violento scontro ideologico). Ora non sembra che di fronte al modello proposto dalla Tv -- e all'accettazione da parte del gruppo dei coetanei -- ci possa essere un atteggiamento critico. Non si condivide più, come anni fa, un'ideologia in maniera intellettuale; ci si "adegua". La ribellione, poi, sembra pressoché impossibile. Adesso, se esiste una possibilità di opporsi alla mentalità dominante, questa opposizione non è un'ideologia contraria; comportarsi e pensarla diversamente è possibile solo nel senso di essere un "asociale", un fallito. esperienza comune dei genitori che attualmente i ragazzi non pensano in maniera diversa rispetto alla massa senza il dubbio di essere "strani".

Passando davanti a un'università qualche mese fa ho avuto l'occasione di vedere alcuni ragazzi che propagandavano un corso sul pensiero marxista; uno sguardo a loro e un'occhiata agli altri faceva sorgere spontaneo un paragone con gli anni "lontani" della contestazione. I passanti non si potevano distinguere come allora in coloro che li guardavano bene -- gli studenti che condividevano l'ideologia -- e in quelli -- i "nemici di classe" -- che li osservavano minacciosamente. Tutti passavano oltre con lo stesso atteggiamento di fastidio che si ha di fronte a qualche barbuto predicatore di religioni orientali. Il mondo si divide in due: coloro che si danno da fare per riuscire, i "vincenti" -- e questo volevano essere gli studenti che ignoravano la propaganda --, e gli "instabili", che cercano sicurezze in strane religioni o filosofie, e a questo erano equiparati i marxisti.

Appare con meridiana chiarezza la sempre più perfetta e completa acquisizione -- acquisizione totalmente acritica -- di tutti i modelli collettivi. Il motivo principale è che non esiste più un uomo maturo che condivide (o rifiuta) una qualsiasi serie di ideali proposti da altri: ci troviamo di fronte a una personalità non ancora matura che si adegua a quello "che fanno tutti". E non si capisce come potrebbe non adeguarvisi, visto che tali ideali gli vengono imposti prima che egli abbia raggiunto quella maturità che permetterebbe una reazione critica. La pubblicità è scesa sempre in più in basso rispetto all'età dei possibili clienti. Volendo esemplificare, potremmo dire che le ideologie di qualche decennio fa erano condivise come un ideale intellettuale; adesso il modo-di-fare-di-tutti agisce come la moda. Chi non si atteggia come fanno gli altri è come chi si veste fuori moda: non ha filosofie, ideologie distinte. un tipo strano diverso da tutti; ed è diverso nel senso di "asociale" -- cioè incapace di stare con gli altri --, non di "nemico di classe", di "cattivo".

strano come autori diversi abbiano condiviso la preoccupazione per il pericolo presente in questa adeguazione perfetta e "immatura" che toglie ogni spirito critico creando la massa. Citiano alcuni brani di un arrabbiato contestatore come H. Marcuse, il quale, dal suo punto di vista ovviamente (che è quello di chi vuole favorire la contestazione a ogni costo), percepisce -- già nel 1963 -- la fine di ogni rivoluzione giovanile come frutto della massificazione e rimpiange -- a suo modo -- l'educazione familiare precedente: "Le costrizioni e il comportamento socialmente necessari non vengono più appresi [...] nella lunga lotta contro il padre (come succedeva quando funzionava la famiglia) [...] ma prima ancora che l'Io sia effettivamente formato come soggetto personale e relativamente autonomo [...]. Tali cambiamenti restringono lo spazio vitale e l'autonomia dell'Io preparando il terreno per il sorgere di masse" (L'obsolescenza della psicoanalisi, in Cultura e società, tr. it., Torino 1969, p. 227). Tra gli autori più equilibrati che hanno ripreso la tematica si segnala soprattutto R. Buttiglione, La crisi della morale (Roma 1992).

Ed è anche stupefacente come la conseguenza di tali situazioni non sia visibile solo agli specialisti, ma sia sotto gli occhi di tutti: una generazione di contestatori a oltranza ha generato una generazione di irrimediabili conformisti. Solo una buona educazione familiare riesce a dare quella originalità, quella capacità di essere sé stessi, di essere -- anche se sembra strano -- ribelli, che oramai è sparita. Che un figlio non si ribelli al padre o, meglio, che si ribelli soltanto perché "non gli si è comprato" qualcosa, non è di per sé un indice chiaramente positivo sulla riuscita dell'educazione. "Tutti abbiamo provato moti di ribellione nei riguardi degli adulti, quando cominciavamo a formarci autonomamente un criterio; e tutti, man mano che passavano gli anni, abbiamo anche capito che i nostri genitori avevano ragione in tante cose" (Josemaría Escrivá, Colloqui, n. 100). Viene alla mente l'affermazione secondo la quale la religione è la più grande ribellione dell'uomo che non vuol essere considerato una bestia.

Quanto stiamo dicendo va oltre il desiderio di formare personaggi originali, dato che "originali" vuol dire anche "attivi"; chi si forma in maniera diversa dalla massa ha originalità e capacità di atteggiarsi non in maniera predeterminata di fronte alle situazioni. in grado di agire sulla realtà secondo propri schemi, di adeguarsi a situazioni nuove e imprevedibili; ed è indubbio che nell'attuale società molti -- a cominciare dai datori di lavoro -- cercano delle persone, prima di tutto, attive.

 

Chi è più adatto & chi è normale

 

Abbiamo fatto cenno alla questione o, meglio, al paralogismo della "campana di vetro". Un ulteriore paralogismo si percepisce nell'ambiente familiare rispetto all'educazione dei figli; "L'educazione e la vita cristiana che si insegnano in famiglia sono abissalmente distanti dai valori proposti dalla società contemporanea; colmare questo divario è molto difficile, e i ragazzi si trovano a realizzare un passo estremamente difficile nel momento di scegliere in prima persona la propria maniera di vivere". Proporre certi ideali non è rendere la vita troppo difficile?

Dietro a questa prima questione c'è anche una domanda sulla famiglia: "Qual è la famiglia che prepara meglio a tale società?".

La prima considerazione coglie una profonda verità e la mescola con una superficiale visione di un suo aspetto. Evidentemente la società non è retta da criteri cristiani; ma si può risolvere il problema cercando una via di mezzo tra gli ideali cristiani e la realtà sociale? Detto in una maniera più provocante: chi vive meglio in questa società? Gli "integrati" (per chiamarli in qualche modo) o i cristiani, così "diversi"?

La risposta è certamente difficile, ma non è neanche quella ovvia che si potrebbe dare: "Naturalmente vive bene nella società chi più realizza gli "ideali" della stessa". L'uomo prodotto dalla società attuale non è il giovane spregiudicato e vincente, ma l'annoiato, il sazio, il passivo. Il vero riuscito, colui che non è "asociale" ma neanche abulico o squilibrato, lo è non perché perfettamente adeguato, ma in quanto possiede dei valori umani che gli consentono di evitare le conseguenze negative della società opulenta.

Detto questo ritorniamo al discorso di fondo: chi è il più adatto alla società contemporanea? Non chi condivide a livello meramente intellettuale la dottrina cristiana, ma neanche il non cristiano perfettamente integrato. Il problema dei valori che permettono di muoversi bene nella realtà "agonistica" della società dei consumi è ben più complesso di quel che sembra. Per esempio, è più adatto un figlio di separati o un figlio di una famiglia unita? Certamente il figlio di separati è più "sveglio": ovviamente ha dovuto svegliarsi prima di fronte alla tragedia familiare; ma è anche profondamente insicuro, dato che non è sicuro neanche dell'affetto del padre per la madre e viceversa. più adatto il figlio unico o il membro di famiglia numerosa? Di per sé, il ragazzo con fratelli ha più esperienza dei piccoli conflitti con i fratelli; e ciò facilita l'equilibrio di fronte ai problemi.

Sono considerazioni non certo definitive, perché la risposta vera sarebbe: è più adatta la persona con più qualità.

certamente vero, comunque, che sembra diventato obbligatorio dare un'immagine di sé necessariamente contraria all'ideale tradizionale di moralità: "Ogni pensiero lineare e normativo [...] diventa non-concepibile prima ancora di essere difficilmente praticabile" (P. P. Donati, op. cit., p. 35; la citazione, ispirata a un libro di N. Luhmann, si riferisce direttamente alla vita di coppia e fotografa una realtà di alcuni anni fa; tuttavia mi sembra che non perda un suo valore se riferita alla situazione più generale). Bisogna mostrare che se si fa una cosa buona ciò avviene non per un'adeguazione acritica; più ancora, dev'essere evidente l'originalità nel modo stesso di farla. Ma questo non equivale ad avere un criterio positivo del tipo: basta dare un'immagine amorale di sé per essere graditi. difficile, quindi, capire come bisognerebbe proporsi per essere apprezzati, e questo secondo i modelli della società stessa.

Una risposta su che cosa "funziona" meglio, però, queste brevi riflessioni in qualche modo la danno: non è l'essere cristiano a costituire un handicap; ciò che sicuramente risulta negativo, invece, è la poca esigenza formativa (un fatto certamente né cristiano, né anticristiano) verso i figli. Si potrebbe forse spingersi un po' oltre: ciò che crea problemi è proporre a livello intellettuale dei modelli che contrastano col modo di vivere della società dei consumi -- come fa ogni cristiano --, ma nella pratica non viverli. Ed è questo il vero errore, in quanto si afferma di non condividere dei modelli propri della società opulenta, ma non si ha il coraggio di vivere portando la croce di Cristo. Si finisce per presentare quanto di più duro offre la vita cristiana -- i comandamenti -- senza offrire la virtù che li esige, ma dà loro anche il senso e, qualche volta almeno, un motivo per essere apprezzati. Oltretutto, si propone l'obbiettivo al figlio, ma non gli si dà la capacità di raggiungerlo.

il contrario di quello che fanno i propagandisti (o, meglio, i venditori) di modelli di vita laicisti; propugnano un ideale di uomo originale e attivo. Ma è questo il risultato della società in cui viviamo? Abbiamo invece parlato del tipico prodotto della società attuale come del bombardato da miriadi di sensazioni, l'intontito, il passivo, il saturo, l'abulico, frutto della società postmoderna che sostituisce i bisogni con i desideri (per una considerazione generale sul moderno e sul modello antropologico postmoderno si veda il breve riassunto di G. Morra, in Il quarto uomo, Roma 1992). una conseguenza del trasformare l'uomo in un animale da alimentare e sovralimentare. Una piccola nemesi storica di una società in cui regna il dio-quattrino a cui dobbiamo anche aggiungere la tendenza costante alla preoccupazione. Anche da questa "nemesi storica" il cristiano vero dovrebbe essere libero.

Riassumendo queste considerazioni: si crea uno iato tra il modello della famiglia cristiana e la società in cui un adolescente entra, perché tale differenza certamente sussiste nei modelli proposti dalle due realtà, ma -- e molto di più -- perché gli ideali cristiani sono inconsciamente ma tangibilmente sostituiti da pratiche non cristiane. L'adolescente percepisce il divario tra i due ideali opposti (faremmo meglio a dire "tra gli ideali cristiani e quello-che-fanno-tutti"), ma -- e molto più acutamente -- coglie la propria debolezza, frutto di un'educazione cristiana solo a parole; può anzi arrivare al limite di condividere gli ideali pseudocristiani privati della croce, "addomesticati" (una superficiale etica del "volersi bene" e voler bene ai più deboli), ma percepirli come un ripiego per chi non vince nella "corsa" per divertirsi, e per essere un leader dei coetanei. "Quello che dicono papà e mamma valeva per i loro tempi, ma adesso vale soltanto per i perdenti".

Bisogna superare anche un ulteriore errore: pensare che formare alla fortezza significhi rendere la vita dura. La persona forte sa che la vita è dura di per sé, ed è così forte da non preoccuparsi troppo di fronte alle difficoltà. Oltretutto non si lascia imporre le brutali esigenze di una società che -- dopo aver promesso il benessere e la sicurezza -- rende sempre più insicuri e a volte finisce per esigere sacrifici umani sull'altare del successo e dell'accettazione da parte degli altri (le cure e le operazioni dimagranti, con gravi conseguenze sulla salute; i prodotti per il body building -- anabolizzanti, ecc. -- con effetti collaterali...). Speriamo che quanto abbiamo scritto serva, perlomeno, a liberare da tanti presunti doveri.