Kant e Buber: temi kantiani in Buber per una interpretazione buberiana

di Kant.

 

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All'inizio di Gottesfinsternis Martin Buber afferma che il vero carattere di un'epoca si può conoscere a partire dal modo in cui in essa si determina il rapporto tra religione e realtà1. "In certi tempi gli uomini "credono" in una realtà indipendente, dotata di esistenza propria, con la quale hanno un rapporto effettivo e della quale, come ben sanno, possono farsi soltanto una rappresentazione assai inadeguata. In altre epoche, invece, al posto della realtà subentra una rappresentazione di essa, che si "ha" e che si può maneggiare conformemente; oppure rimane il residuo della rappresentazione, il concetto, che mostra soltanto le tracce sbiadite dell'antica immagine"2. La nostra è un'epoca di eclissi di Dio, in quanto al posto del Dio reale è subentrata, col tempo, la sua rappresentazione o il suo concetto: in termini biblici, al posto del Dio vero è subentrato un idolo3, un mero prodotto dell'uomo. Al principio di questo cammino sta lo smarrimento del senso della realtà di Dio. Si tratta, allora, di tematizzare nuovamente il rapporto pensierorealtà: si deve poter lasciare alla realtà il suo carattere di gratuità rispetto al pensiero, la sua previa indeducibilità da esso. Tutte le genuine idee di Dio nella storia dell'uomo nascono infatti, per Buber, dall'effettivo incontro con una realtà che interpella l'uomo convocandolo ad un rapporto dialogico, secondo il modello biblico dell'incontro di Mosè con JHWH nel roveto ardente (Es 3). Buber tematizza i vari momenti della progressiva eclissi di Dio nell'epoca moderna, da Spinoza ad Heidegger, passando attraverso il momento chiave dell'annuncio nicciano della "morte di Dio". In questo cammino di pensiero una tappa fondamentale è costituita dalla filosofia trascendentale di Kant. Ma si tratta, come vedremo, di una tappa tanto importante quanto ambigua e non riducibile senza residuo dentro l'itinerario dell'eclissi di Dio. A questo proposito scrive Buber: "All'inizio della nostra epoca vi fu una polemica contro Spinoza, rimasta a lungo sconosciuta e anche oggi non molto nota. Si tratta della frase che troviamo (accanto a molte varianti) nelle singolari annotazioni di Kant del suo ultimo periodo: "Dio non è una sostanza esterna, ma soltanto una relazione morale in noi". Kant stesso non si è fermato a questa definizione; spinto dalla sua sempre rinnovata inquietudine, egli ha esposto in quelle stesse annotazioni anche delle tesi completamente opposte. Tuttavia il lettore, che non teme la fatica e il tormento di questa lettura, riconosce alla fine che Kant ha cercato e ha tentato di concepire un Dio che fosse in grado di effettuare ciò che il filosofo aveva caratterizzato come un "postulato della ragion pratica", il superamento della contraddizione tra l'imperativo, che è incondizionato, e ogni giustificazione immanente, che è condizionata, il "fondamento di ogni dovere in generale". La causa dell'inquietudine di Kant sta nel fatto che un Dio che è soltanto una nostra condizione interiore, non può farlo, poiché soltanto un essere assoluto può esigere doveri assoluti"4. Dio è una condizione morale in noi, dice Kant, e tuttavia solo un Dio reale potrebbe rispondere all'appello umano essenziale: la soluzione dell'aporia tra la giustizia del giusto e la sua infelicità terrena, solo un Dio reale può rispondere a Giobbe: si tratta, come si vede, di un essenziale momento di irriducibilità del Dio sperato da Kant solo entro i limiti angusti della umana autoconsapevolezza morale. Questa interpretazione buberiana di Kant ci induce a rileggere Kant, assumendo come punto di vista una possibile tesaurizzazione buberiana di temi kantiani.5

Con la filosofia kantiana giunge a maturazione un cammino di pensiero che, contestualmente allo sviluppo della moderna scienza della natura e alla elaborazione del concetto di essa, produce l'idea che la strutturazione apofantica del concetto "Dio", in quanto prima facie tende a non distinguersi dalla apophansis propria della nuova scienza della natura, non sia affatto in verità un tale sapere (apofantico), ma una pura elaborazione dell'intelligenza umana, se non una pura chimera; si tratta di una costruzione in sé perfetta, ma che non descrive alcuna realtà, né tanto meno produttiva di alcuna realtà. È il cammino dei baconiani idola theatri, che divengono in Kant l'elaborazione inevitabile che la ragione produce del suo ideale e quell'illusione (trascendentale appunto) che tende inevitabilmente a vedere in quell'ideale l'immagine di un ente reale, di un oggetto. È la condizione tragica dell'umana ragione quella di produrre necessariamente un'idea di Dio, una teologia, ma, appena si accinge ad interpretarla, di fraintenderla necessariamente. L'intento della critica kantiana è proprio quello di mostrare come ci sia un iato tra questa idea di Dio e la realtà stessa di Dio: il piede fermo della critica trascendentale sta dunque in quella messa a tema della essenziale gratuità della relazione tra pensiero e realtà che è a fondamento della critica kantiana dell'argomento ontologico. Così come, dal punto di vista della ragion pratica, tale piede fermo sta nella messa a tema della gratuità della relazione tra la moralità del giusto e la sua, pur meritata, felicità, che è a fondamento del postulato, diremo meglio, della speranza nella realtà di un Dio che sia al contempo creatore e giusto. Nell'opus postumum non si trova la frase kantiana letteralmente così come riportata da Buber, ma essa rappresenta correttamente il senso di molte affermazioni ad essa affini, come ad esempio: "Dio non è una cosa che sussista in sé fuori di me, ma il mio proprio pensiero"6. Per comprendere meglio questa affermazione è necessario ripercorrere, sia pure succintamente, un tratto del cammino di Kant. La scienza newtoniana della natura ha insegnato a Kant che cosa sia un sapere apofantico, universalmente valido e fecondo; ora, se si ritiene, alla maniera della teologia razionale wolfiana, che Dio sia oggetto di sapere, sia cioè oggetto di descrizione scientifica, egli deve sottostare a tutte le condizioni che fanno di un qualsiasi pensiero una asserzione descrittiva di uno stato di cose; egli deve sottostare a spazio, tempo e categorie, in particolare alla causalità; ma dice Kant: "Se dovesse condurci all'Essere originario la legge, di valore empirico, della causalità, anche quest'essere dovrebbe rientrare nella catena degli oggetti dell'esperienza; ma, allora, come tutti i fenomeni, sarebbe esso stesso a sua volta condizionato"7. Se Dio fosse oggetto di un tale sapere "egli", per dirla con Buber, sarebbe necessariamente ridotto ad un "esso": la scienza di Dio, detta "teologia", è in realtà lo pseudo-sapere di un oggetto da essa stessa prodotto, che propriamente è solo un idolo, non il Dio vero. Dal punto di vista di Kant non si può dare alcuna teologia come scienza. Non vi è passaggio dal pensiero all'esistenza, giacché "essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse"8: la realtà di Dio è altra dal pensiero che la pensa come necessaria; a Dio è lasciato così lo "spazio" per la sua libertà di darsi o rifiutarsi al pensiero dell'uomo, libertà che contraddistingue, anche buberianamente, la realtà propria di Dio. Se la teologia trascendentale è di per sé priva di oggetto, ma è anche un prodotto inevitabile dell'umano ragionare e giunge alla sua forma perfetta proprio nell'argomento ontologico, essa è il luogo dove l'umana ragione ha la possibilità di comprendere appieno se stessa: la ragione specchia se stessa nel suo puro ideale. Dio è l'ideale della ragione, è il modello, l'archetipo, a partire dal quale soltanto l'ectipo umano può comprendere se stesso. È nella "natura" dell'umana ragione pensare Dio e pensarlo come ens entium, come Wesen, das alle Realitäten hat, essere perfetto, ma non si dà alcun experimentum crucis per decidere se questo Dio è anche reale (wirklich) oppure no. Così conclude Kant: "L'essere supremo resta dunque per l'uso semplicemente speculativo della ragione un semplice ma perfetto ideale [fehlerfreies = senza difetti], un concetto che chiude e corona la conoscenza umana intera, e la cui realtà oggettiva, è vero, non è dimostrata, ma non può né anche esser contrastata; e se ci ha da essere una teologia morale, in grado di supplire a questo difetto, allora la teologia trascendentale, prima solo problematica, dimostra la sua indispensabilità, per la determinazione del suo concetto e per l'incessante censura d'una ragione molto spesso ingannata dal senso e non sempre d'accordo con le sue proprie idee"9. Questo è l'esito a cui si giunge dal punto di vista almeno di quella conoscenza che Kant chiama "teoretica"10.

L'imperativo categorico, col sentimento di una obbligazione assoluta che lo evidenzia all'interno della autoconsapevolezza morale di una coscienza finita, rappresenta la esigente irruzione dell'alterità proprio all'interno della identità personale di ogni essere razionale finito; infatti, l'imperativo categorico è assolutamente autonomo, libero, formale, solo per la ragione stessa e per quella essenza che si identifichi senza residuo con essa, vale a dire solo per quella essenza che non ha parte alla sensibilità, ma una tale essenza può essere solo Dio stesso; tale imperativo è, invece, percepito come "altro" - almeno in parte, in quella parte in cui tuttavia consiste proprio tutto il suo carattere assolutamente obbligatorio - per quella coscienza che identifica necessariamente una parte del suo sé con la sensibilità, cioè con un elemento estraneo alla ragione. Proprio a causa della finitezza dell'essere razionale finito si pone quella grave aporia all'interno della costruzione della pura moralità della ragione che è l'antinomia della ragion pratica: l'esigenza di una perequazione tra giustizia morale e felicità che non è affatto garantita analiticamente dal mero comportamento virtuoso in un mondo - quello del meccanismo newtoniano - che sembra fluire nella più totale estraneità a criteri antropoteleologici. È quello che per Kant resta il problema simboleggiato dalla figura di Giobbe: il giusto infelice di contro alla felicità dell'iniquo; non c'è nessun legame in questa vita tra colpa e castigo - come, invece, sostengono ciecamente gli amici di Giobbe - e neppure tra merito e felicità, perché la natura, quale cieco meccanismo, non si occupa, né lo può, delle chimere dell'uomo. Ma la morale non può essere una chimera; almeno questa è l'opinione di Kant. Altri, a noi più vicini per epoca e sensibilità, su questo punto decisivo hanno preferito imboccare decisamente l'altra via. Ma se si vuol mantener ferma la morale è importante chiedersi anche perché lo si fa. Perché Kant ritiene irrinunciabile la esigenza morale? Perché, giunto lucidamente alla conclusione che l'istanza esigenziale dell'imperativo morale pone all'essere razionale finito un compito inassolvibile e tale da condannarlo probabilmente alla infelicità, pur vuol tener ferma questa esigenza? E questo fino al punto di dover "postulare" l'immortalità dell'anima e l'esistenza di un Dio creatore e giusto, fino al punto di dover dire, come riassume Martinetti, che "se la legge ha valore, la realtà in cui io vivo e di cui fo parte non può essere una realtà ad essa estranea e ostile: la stessa volontà buona che vive in me deve anche dirigere, nel suo essere profondo, il corso delle cose"11. Si tratta di un salto di fede del tutto analogo a quello che Kant ammira in Giobbe: ci deve essere nonostante tutto un senso! Ma perché non "gettare alle ortiche" la morale, piuttosto che sperare? Perché non maledire, piuttosto che credere? Perché - ci pare di poter dire - innanzitutto la moralità rappresenta l'unica condizione di possibilità di una convivenza civile giusta e pacifica tra gli uomini, di una società giusta e felice. Infatti l'imperativo categorico, in quanto comanda la allgemeine Gesetzgebung, che sola lo costituisce come tale, rappresenta anche una irruzione all'interno della coscienza individuale di una dimensione intersoggettiva e comunitaria che è appunto una Allgemeinheit. Vi è un legame necessario tra l'esigenza umana di realizzare il regno di cui parla il capitolo 11 del libro del profeta Isaia e la speranza che Dio stesso sia all'opera per questo. Se l'uomo vuole vivere nella pace deve essere morale, ma per essere tale, sensatamente, deve sperare che Dio stesso compia misteriosamente ciò che l'uomo non può non iniziare. Laddove, poi, la morale si colora necessariamente di religione, cioè dove si considerino "tutti i nostri doveri come comandamenti divini"12, giunge ad evidenza il fatto che la coscienza morale è il luogo dove accade un incontro tra l'essere ragionevole finito (l'uomo) e l'essere ragionevole infinito (Dio), tra colui che si sente in questo dialogo interpellato ad essere morale e colui che è la moralità stessa. Il comandamento [Gebot] implica uno che comanda, esso impone una situazione relazionale del tipo io-tu, relazione che è l'essenziale della religione: "fa questo" lo può dire solo un essere personale (cioè: libero) ad un altro essere personale, in un libero e reciproco interpellarsi. Dunque l'imperativo categorico, mentre implica e fonda il Mitmenschen, introduce ad una relazione dialogica con Dio, come l'essere che mi comanda assolutamente di essere "santo come lui è santo" (Lv 19); si tratta, come dice Kant nell'opus postumum, di un Deus in nobis: appunto non in me ma in nobis13. Se dunque Dio irrompe nella coscienza dell'uomo, ciò significa anche che egli non è del tutto estraneo alla condizione umana. Sembra allora che vi sia una concezione della realtà di Dio che Kant rifiuta non meno decisamente della sua riduzione ad oggetto, ed in intima consonanza con questa: Dio non può esistere al modo di una äussere Substanz, di una sostanza totalmente esterna all'uomo: egli non può essere solo il totalmente altro. In questo modo, infatti, non avrebbe più accesso all'uomo se non in una forma in qualche modo violenta, drasticamente eteronoma. Non sarebbe "Padre" - con il che si vuole indicare una relazione di potenziale familiarità - ma mero "Padrone". Inoltre egli risulterebbe, in qualche modo, limitato dall'esistenza fuori di lui di una sostanza lui esterna e perciò ancora una volta evidentemente condizionato, almeno sotto questo rispetto. Dunque, se Dio è altro da me in quanto mi si fa presente come esigenza assoluta ed obbligazione morale, egli è tuttavia tale pur sempre dentro di me e nel mio rapporto con gli altri, cioè all'interno della dimensione propria dell'essere uomo: Dio è sì il totalmente altro, ma anche altrettanto decisamente il totalmente prossimo14. Il Dio intimior intimo meo ed il dialogo morale15, di cui la coscienza del singolo è il teatro e che implica in essa il riferimento essenziale all'intera intersoggettività sociale, è una testimonianza della possibilità e della speranza di incontrare la realtà di Dio, senza però teurgicamente forzarla, ma lasciando ad essa la sua assoluta sovranità. Dio è costantemente invocato dalla situazione stessa dell'uomo, senza bisogno - almeno per Kant - di preghiere esplicite: è la condizione stessa di Giobbe che interpella radicalmente Dio16. La speranza a cui ci consegna Kant è quella di poter incontrare Dio come effettivo (wirklich) produttore in me, fuori di me, attraverso tutti gli altri ed il cosmo, di un mondo in cui felicità e giustizia si bacino mutuamente osculo pacis. Tuttavia, che cosa Dio faccia per questo è e resta un mistero, di cui l'uomo non può mai dichiararsi teurgicamente padrone: "Dal momento che l'uomo non può da se stesso attuare l'idea del bene supremo (non solamente dal lato della felicità compresa in tale bene, ma anche dal lato dell'unione degli uomini, necessaria allo scopo totale); non può attuare tale idea inscindibilmente congiunta con l'intenzione morale pura, ma tuttavia sente in sé il dovere di contribuire a tale fine; l'uomo si trova indotto ad aver fede nella cooperazione o nella predisposizione di un Signore morale del mondo, per mezzo del quale soltanto questo fine è attuabile. Ed allora si apre davanti ai suoi occhi l'abisso di un mistero [der Abgrund eines Geheimnisses] su quel che Dio faccia in questo caso: se sia da attribuirgli (a Dio) generalmente qualcosa e che cosa in modo particolare; mentre invece l'uomo, in ogni dovere, non conosce altro che quanto egli stesso ha da fare, per meritare questo complemento sconosciuto o almeno incomprensibile per lui"17. Ritenere di conoscere il mistero dell'azione di Dio è, per Kant, Religionswahn, vaneggiamento religioso18. Il rigore della posizione di Giobbe resta per Kant il modello della vera religione, già individuato molti anni prima della stesura del Die Religion, come testimonia la lettera a Lavater del 28 Aprile 1775, in cui egli così risponde a quest'ultimo: "Sapete a che vi rivolgete? Ad un uomo che non conosce mezzi che possano resistere quando giunge l'ultima ora della vita se non la più pura sincerità delle intenzioni più nascoste del cuore e che, come Giobbe, considera un delitto ingraziarsi Dio".

La condizione tragica di Kant, come uomo che lotta con Dio, simile in ciò a Giobbe, viene colta ed enfatizzata da Buber, il quale, dopo aver parlato della distinzione pascaliana tra il Dio dei filosofi e il Dio di Abramo19, e dell'esigenza di distogliersi dal Dio dei filosofi, dice: "Per compiere veramente questa svolta, il filosofo dovrebbe rinunciare ad inserire Dio nel suo sistema in qualsiasi forma concettuale; invece di definire Dio come un oggetto tra gli oggetti anche se il più alto, la sua filosofia, come insieme e nelle sue parti, dovrebbe far convergere su Dio senza trattare di Dio stesso. Ciò però significa: il filosofo dovrebbe riconoscere e confessare che la sua idea dell'assoluto viene eliminata là dove l'Assoluto vive, là dove l'Assoluto viene amato; poiché là l'Assoluto non è più "l'assoluto" su cui si può filosofare, ma è Dio". Ed è significativo, oltre il riecheggiato linguaggio kantiano20, che Buber porti proprio Kant come esempio della sofferenza del filosofo che sa l'inadeguatezza della sua strumentazione concettuale rispetto alla realtà del Dio vivente: "Chi vuole comprendere chiaramente quale lotta infinita e disperata sia con ciò imposta a un filosofo dell'età critica, legga le annotazioni di Kant alla sua opera postuma incompleta, fatte durante gli ultimi sette anni. Ci viene offerta l'immagine di una tragicità esistenziale senza pari. Kant menziona il principio che permette il passaggio al compimento della filosofia trascendentale: il principio della "teologia trascendentale" e lo scorge nelle domande: "che cosa è Dio?" e "Esiste un Dio?". Egli spiega: "il compito della filosofia trascendentale rimane ancora insoluto: c'è un Dio?". Finché questa domanda non trova una risposta, "il compito" della sua filosofia non è adempiuto; anche nella tarda età, quando gli vengono meno le forze spirituali, la questione è "sempre insoluta". Egli continua a cercare una soluzione, a tessere la risposta e poi a ridisfare il tessuto. Tenta una fotmulazione estrema: "Pensare lui [Dio] e credere in lui è un atto identico" e "il pensiero di lui è nello stesso tempo il credere in lui e nella personalità"; ma tale fede non conduce al punto che per la filosofia del filosofo [corsivo mio] Dio divenga realtà: "Dio non è un essere fuori di me, ma soltanto un pensiero in me", oppure come si legge in un'altra parte: "ma soltanto una condizione morale in me". Ciononostante gli spetta una "realtà". "Dio è soltanto una idea della ragione, ma della massima realtà pratica interiore ed esteriore". Evidentemente è però una specie di realtà che non sembra adatta ad identificare il pensare a lui con il "credere in lui o nella sua personalità", e la stessa filosofia trascendentale, che ha il compito di investigare se un Dio esiste, si vede infine costretta a dichiarare: "è insensato chiedere se esista un Dio". La contraddizione si approfondisce ancora di più quando Kant si occupa della fede come tale. Egli abbozza una distinzione fondamentale: tra "credere in Dio" [an Gott glauben] e "credere a un Dio" [einen Gott glauben]. Con l'espresione "credere in un Dio" si intende evidentemente: avere un Dio come oggetto ideale della propria fede; ne consegue invece che "credere a un Dio" per Kant, come dice espressamente, significa lo stesso che: credere a un Dio vivente. Credere a un Dio significa perciò: essere in un rapporto personale con Dio, come si può entrare in relazione con un essere vivente. Questa asserzione viene ulteriormente spiegata mediante un'aggiunta: "non a un essere che è soltanto idolo e non persona". Quindi un Dio che non è una persona vivente è un idolo. Tanto Kant si avvicina qui alla realtà della fede. Ma egli non la lascia prevalere: il sistema lo obbliga a limitare decisamente la portata di ciò che ha espresso. Nella stessa pagina del manoscritto si legge: "L'idea di Dio quale Dio vivente è soltanto il destino che attende l'uomo inevitabilmente". Se è "soltanto" questo, allora non si può legittimamente "credere a un Dio", cioè trovarsi in un rapporto personale con Dio. L'uomo - dice il filosofo - deve credere così come lui pensa Dio; ma il filosofo deve togliere a questa fede il carattere di verità e quindi a quello di realtà (che non sia soltanto quella psichica). Ciò che per Pascal (come per Abramo) era decisivo, l'amore per Dio, qui pare mancare necessariamente"21. Se la condizione del filosofo è quella di uno che non dovrebbe parlare di Dio, ma lasciare che si aprano le condizioni perché un Dio possa parlare, allora pare che la filosofia kantiana adempia abbastanza bene a questo compito; chiedere di più, chiedere che entri in ballo l'effettiva relazione d'amore con la persona di Dio, significa anche chiedere al filosofo (Kant) di cessare di essere tale. Compito della filosofia è quello di aprire lo spazio alla gratuita irruzione di Dio22, ma essa non può teurgicamente forzarla, né testimoniarla, quando essa sia avvenuta; perché l'una è una attitudine demoniaca, l'altra è, invece, la vera e propria - indeducibile a priori - realtà della vita religiosa. Nella misura in cui Buber è filosofo, se e per quanto lo è, ci sembra aver fatto tesoro proprio della lezione kantiana sulla inoggettivabilità di Dio, sulla relativizzazione radicale della presa delle nostre categorie razionali sulla realtà di Dio; si potrebbe anche dire, certamente semplificando il dato filosofico, che la parola fondamentale io-esso ha aria di famiglia con la ratio della moderna scienza della natura, e quindi anche con ciò che Kant chiama conoscenza teoretica, oggettiva23; mentre la parola fondamentale io-tu ha aria di famiglia con quella dimensione intersoggettiva a cui fa riferimento Kant nella sua filosofia pratica e con quel "comandamento divino" con cui si identifica la "religione". Infine distinguendo mediante il rasoio affilato della critica il Dio pensato dalla possibile realtà di Dio, dal Dio reale, Kant ha contribuito a "uccidere il Dio dei filosofi" per aprire spazio al Dio di Abramo, al Dio dell'invocazione e dell'incontro24.

Inoltre v'è una più fondamentale "aria di famiglia" tra i due pensatori, collocabile nel loro comune sostrato culturale biblico, e nel prevalere in loro di questo sostrato rispetto alla radice greca della filosofia occidentale. In fondo l'irrilevanza della teologia, quale scienza di Dio, l'accentuazione della "via etica", della halakah, la svalutazione dell'aspetto cultuale, rituale e "magicoteurgico" della religione, l'esigenza invocata di un Dio della giustizia, di un regno di pace e di giustizia, sono caratteri comuni alla filosofia di Kant e alla tradizione biblica ed ebraica.

Considerazioni accidentali sulla filosofia della religione.

Se una filosofia della religione è possibile, come tale in senso proprio, dove è venuta meno la possibilità di un discorso apofantico su Dio, dove è venuta meno la possibilità di una teologia razionale che ritenga di attingere validamente il suo "oggetto", tale condizione si è definitamente aperta nella cultura filosofica continentale con Kant; se non è possibile per il filosofo attingere Dio nella sua realtà, resta per lui aperta la possibilità di indagare come l'uomo si comporti in relazione a questa indefinibile realtà, cioè la possibilità di indagare filosoficamente quella relazione tra uomo e Dio che è la religione, a partire dal dato storico-antropologico che una tale relazione si dà. Buber si muove in questo spazio aperto dalla riflessione kantiana, che è lo spazio proprio di una filosofia della religione, e che rappresenta anche un ritorno alle radici ebraiche della cultura occidentale, con la loro riluttanza ad approntare una teologia. L'apporto buberiano alla filosofia della religione consiste nella tematizzazione approfondita della relazione religiosa che nel suo senso proprio è un incontro reale tra un io ed un tu, che non è mai riducibile ad un esso25; ma Martin Buber è di più che un mero filosofo della religione: è un uomo che riflette sulla sua esperienza religiosa per portarla ad un livello comunicativo il più universale possibile, e, se, per far questo, utilizza il linguaggio della filosofia, la sua riflessione nasce e tende al di là di esso; dato che il linguaggio della filosofia, per sua natura, sembra tendere a non poter non fare del tu divino anche sempre un esso: sembra che la filosofia trasformi in "cose" tutto ciò che maneggia. La filosofia, dunque, non deve parlar di Dio in sé, né dell'uomo in sé, ma della relazione che costituisce l'uno e l'altro come tali, ma, in quanto non si può "cosalizzare" una relazione, essa, se vuol parlare della relazione ad un livello non riduzionistico, è costretta sempre più a rinunciare alle istanze metafisico-definitorie che le derivano dalla sua origine greca, essa è costretta a mutare se stessa, a "convertirsi", a divenire probabilmente "evocativa" ed "edificante". L'armamentario concettuale non serve per trasmettere nozioni, ma per invitare l'interlocutore a vedere in sé, nella esperienza sua propria - che lo costituisce come quel sé che egli è - se egli non abbia già in proprio fatto quell'esperienza d'incontro che non può essere descritta, se egli non abbia già avuto quella "intuizione" che il "concetto" è impotente a trasmettere. In questo senso, la filosofia del binomio filosofia della religione, in quanto "concetto" vale fin tanto che permette il ripetersi della "intuizione" che è la religione; essa è simboleggiata della figura biblica di Giovanni Battista nella sua relazione a Gesù Cristo: deve diminuire per lasciar spazio all'incontro. In questo modo, però, la filosofia della religione è anche sempre una "filosofia verso la religione"26, e, nella sua radice originaria, una filosofia religiosa. Dunque Buber sembra essere innanziutto un pensatore religioso, un religioso che filosofa, più che un filosofo religioso, un mistico che vuol comunicare agli altri la sua esperienza di Dio; "aprire mediante concetti il sovraconcettuale" è un tentativo che di per sé rende la funzione di essi meramente evocativa e protrettica, un invito a riprovare in sé quell'esperienza del sovraconcettuale. Di ciò di cui non si può parlare sarrebbe opportuna tacere, ma se in esso è in gioco la salvezza dell'umanità diviene impossibile non tentare di parlare. Il tentativo di comunicare l'esperienza di Dio agli altri filosoficamente presuppone negli altri l'organo appropriato di questa esperienza, presuppone che ogni uomo possa essere in proprio un mistico27; ecco allora che si parlerà di "scintilla divina", di "lume del Signore", di "coscienza morale", di "sensus Dei", di strumenti ricettivi del darsi di Dio propri di ogni uomo; tali strumenti devono anche essere presentare affinità sonstanziali con ciò che sono destinati a ricevere: la conoscenza di Dio non può non avvenire che mediante Dio; nell'uomo deve sussistere, allora, una componente divina o una attitudine a ricevere una componente divina, una fünkelin Gottes o una potentia oboedientialis, che, in ambiente ebraico-cristiano, troverà il suo luogo proprio nella realtà dell'uomo quale imago Dei e nella sua definizione quale animal capax religionis28. Dalla esperienza genuina del Dio vero nasce, però, anche un contromovimento critico, che viene ad essere il vero e proprio momento filosofico, la vera e propria filosofia della religione: l'aver "toccato" la genuinità di Dio impone il rifiuto di tutte le sue contraffazioni, impone la demolizione di tutti gli idoli. La vera e propria funzione positiva della filosofia consiste nel suo esser "teologia negativa": negare le contraffazioni umane di Dio; ma ogni discorso apofantico (concettuale) su Dio ne rappresenta una potenziale contraffazione; dunque, la critica serve a mantenere ai nomi di Dio il loro esclusivo senso evocativo e protrettico. All'interno della personalità globale di un pensatore religioso si dà dunque una riflessione religiosa, che serve innanzitutto a lui stesso per capire quanto gli è capitato - e può tentare di capirlo solo quando tenta di comunicarlo ad altri, da cui la filosofia della religione, in senso proprio, sembra essere solo metodologicamente distinguibile, come suo interno momento critico, come semplice accortezza critica di non fare dei nomi di Dio altrettante suo definizioni apofantiche. Ma se le cose stanno così, sembra che il modello più nuovo di filosofia della religione sia anche il più antico: è contenuto in quegli scritti del corpus dionisyanum, Theologia Mystica e nel De divinibus nominibus in particolare, che sono all'origine della tradizione teologica cristiana occidentale ed anche orientale; in fondo, allora, un platonismo non ingenuamente inteso - laddove cioè le idee non siano intese come enti, come cose altrove dislocate, ma come proiezioni simboliche dell'esperienza, al tempo stesso prolettiche rispetto ad essa e tuttavia da essa originate - così come è il padre autentico della filosofia occidentale è anche il luogo e il metodo proprio della filosofia della religione. In fondo sia Kant che Buber si muovono nello schema aperto da Dionigi lo Pseudo-areopagita: 1)esperienza di Dio; 2) impossibilità di comunicarla concettualmente senza tradirla; e, tuttavia, 3) necessità di esprimerla a sé e agli altri per un insopprimibile bisogno di rendersene ragione; 4) consapevolezza critica del fatto che così facendo non si esprime alcun oggetto, ma si invita gli altri a fare loro stessi in prima persona quella stessa esperienza: rifiuto della teologia come scienza29. Il fatto che Platone e Aristotele concordino nell'individuare nel thauma l'origine della filosofia, sembra poter significare che essa stessa nasca all'interno di una esperienza che sopraffà l'uomo necessitandolo a riflettere: una esperienza del divino che abbiamo imparato a chiamare mistica. Quindi la filosofia della religione ci riporta anche vicinissimi all'origine propria della filosofia: l'incontro con una realtà interamente nuova e perciò sorprendente; ma questa realtà non ha alcun contenuto, essa può essere gioiosa o terribile: in sé non è alcunché di determinato e quando acquisisce una determinazione è già per me, è già espressa ed in parte falsificata, alterata, ridotta, e se non è sorta quella consapevolezza critica essa è addirittura "uccisa"; essa è la "morte di Dio". Il linguaggio del teologo ricade sempre su di lui e non sull'oggetto intenzionato.