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MARTIRIO
Il genere letterario del martirio, si collega con il termine stesso "testimone" (martys), che dal s. II nel linguaggio cristiano, designa il credente che soffre e muore a causa della fede; il "semplice" testimone sarà chiamato "confessore" (Eus., HE V,2,3-4). Lo spettacolo del martirio è considerato come una testimonianza: le sofferenze e la morte del martire sono la manifestazione della forza della risurrezione, perché nei martiri il Cristo soffre e vince la morte.
I martiri sono i portatori dello Spirito, essi hanno visioni, si producono miracoli in relazione con la loro persona; il loro martirio ha un valore propiziatorio. Non soltanto i peccati personali sono cancellati (battesimo "di sangue" : Tert., De bapt. 16, Orig. Exh. mart. 30) ma la Chiesa intera riceve un grande dono (Tertull., Ad mart. 1; Cipr., Ep. 23; Ign. d'Ant., Eph. 1,1; Mart. Pol. 1,1; Iren., Adv. haer IV,33,9; Ipp., Comm. Dan. II,37,3; Tert., Scorp. 10.12).
Culto dei martiri, dei santi e delle reliquie.
Non c'è differenza d'origine tra i riti inerenti al culto dei morti e al culto dei martiri, perché l'uno deriva dall'altro. Non ne esiste nemmeno tra quello dei martiri e dei santi non-martiri, perché molto presto questi sono stati associati a quelli in una venerazione comune.
Non c'è infine alcuna differenza d'origine tra il culto dei santi, martiri o non, e quello delle loro reliquie, considerate come il segno della loro presenza e il tramite della loro azione, in senso spirituale, in mezzo ai vivi. Questo perché tutti questi culti sono nati l'uno dall'altro, come i rami di uno stesso tronco.
Le pratiche pagane legate al culto dei morti, non incompatibili con la fede cristiana, sono state trasferite al culto dei martiri. L'indicazione di aromi, non l'imbalsamazione, negli Atti dei martiri costituisce un cliché, che riflette un'usanza reale (Act. Eupl. II, 3,3). Il luogo di sepoltura compare di frequente nelle Passioni africane (Act. Cypr. 5,6; Act. Maximi, 3,4), e l'usanza trova conferma nelle Depositio episcoporum e Depositio martyrum romane.
Lo stesso avviene per la data della morte, la cui registrazione viene raccomandata da Cipriano (Epp. 12,2; 39,3). Anche questa usanza è confermata dalle Depositiones romane.
L'esempio più eclatante di questa tendenza conservatrice è costituito dalle libagioni e dai banchetti funebri che i cristiani di Roma compivano per i loro defunti nelle immediate vicinanze, in onore degli stessi apostoli Pietro e Paolo (iscrizioni della triclia a s. Sebastiano). Lo stesso avveniva in Spagna (Cipr., Ep. 67,6), mentre in Africa Tertulliano e Cipriano proibirono questo uso. A Roma resiste ancora alla fine del IV s. nella stessa basilica di s. Pietro (Agost., Ep. 29,10).
Dal culto dei morti nacque quello dei martiri, che già dal s.II cominaica a differenziarsi, come risulta dalla letteratura agiografica: Martirio di Policarpo, venerazione dei martiri del 177 nella Lettera delle chiese di Lione e Vienne, atti intercomunitari e liturgici (letti).
Nel III s. Cipriano attesta espressamente l'usanza cristiana di celebrare l'eucaristia per i martiri; afferma anche che l'uso ha radici antiche (Epp. 12,2;39,3), legato all'anniversario della morte, come si ricava dal Martirio di Policarpo e dalle lettere di Cipriano, e alla tomba, nelle cui vicinanze viene celebrato il rito. Quanto al carattere di questa eucaristia in onore dei martiri, in primo luogo ha carattere escatologico, in quanto l'eucaristia è insieme anamnesi della Pasqua (morte e risurrezione) del Signore e attesa della sua venuta (1 Cor 11,26). Del resto proprio per questo l'eucaristia nell'anniversario del martirio, conserva talvolta un secondo significato, di intercessione per i martiri, che compare in Cipriano (Epp. 12,2;39,3), e nella Liturgia di s.Giovanni Cris.
Nel s.IV vengono eliminati i residui che potevano far credere che fosse la chiesa a pregare per loro, perché i martiri sono già nella gloria di Dio, e sono essi al contrario che pregano per noi. Il culto che viene loro reso non li fa pari a Dio, ma li lascia nella loro condizione umana, anche se la santità, alla quale sono arrivati tramite il martirio, li rende degni della nostra venerazione, ed essi possono essere i nostri avvocati presso Dio (Agost., Serm. 285; De Civ. Dei, 8,27).
Il secondo importante mutamento relativo al culto dei martiri consiste nella progressiva soppressione dei banchetti funerari in loro onore. All'epoca in cui Agostino arrivò a Milano con sua madre (Conf. 6,2) Ambrogio li aveva proibiti.
Agostino stesso, a sua volta, dopo il suo ritorno in Africa, fece una campagna contro di essi. In terzo luogo si costituisce una liturgia particolare dei martiri con grandi raduni, in cui i banchetti sono sostituiti da vigilie di preghiera, con letture bibliche e di tipo agiografico, canti, discorsi o panegirici, commento alle Passioni. Vengono costruite basiliche in loro onore con annessa una o più dipendenze per accogliere i pellegrini venuti da lontano (Kalaat Sem'an, Tebessa).
Quando le persecuzioni ebbero termine, si posero sullo stesso piano dei martiri i vescovi che non versarono il sangue. Con la loro condotta improntata all'ascetismo e alla verginità, nel movimento di idee della fine del s.IV, essi avevano soferto un martirio. Antonio (Vita 91), Ilarione (Soz., HE 3,14) diventarono popolari; fra le donne, Radegonda, Batilde, Gertrude di Nivelles, Austreberta di Pavilly mostrano come ascetismo e verginità vadano assieme e costituiscano titoli per essere venerati dai fedeli. Gregorio di Tours negli opuscoli agiografici e Gregorio M. nei Dialogi verso la fine del s.VI danno un quadro della loro epoca.
Il culto delle reliquie e delle immagini. Il corpo dei santi viene deposto integro nella tomba, dove riceve gli onori. Non è possibile né dividerlo, né sottrarne alcuna parte, né trasferirlo. Questo è proibito dal Codice Teodosiano, sulla base di antiche norme legislative contenute nelle Dodici Tavole.
Le ossa andate disperse vengono riunite, nei limiti del possibile, e vengono tenute in conto del corpo intero. Gli occidentali rifiutarono di dividere i corpi dei loro santi, e vi sostituirono reliquie rappresentative per contatto o vicinanza (brandea).
Al contrario, in Oriente, traslazioni e divisioni di reliquie divennero abituali, cominciando da quelle di s. Babila ad Antiochia (351-4), e da lì passarono a Costantinopoli, dove costituirono una caratteristica, e al resto dell'Oriente. Dalla seconda metà del s.IV reliquie dall'Oriente giunsero nell'Italia del Nord, e questo spiega la diffusione della pratica delle traslazioni, della quale si fece promotore in questa regione Ambrogio.
Ma senza dubbio fu il ritrovamento delle reliquie di s. Stefano (415) a provocare in Occidente il mutamento più profondo e duraturo, in ragione della loro diffusione universale. Un eccellente esempio è in s. Agostino, indifferente inizialmente al culto delle reliquie, ma negli ultimi anni della vita attivo cultore. Punto terminale di questa evoluzione è rappresentato in Occidente da Gregorio di Tours, in Oriente da Giovanni Damasceno.
L'opera agiografica del primo è interamente orientata verso il culto delle reliquie, e si presenta come un catalogo dei miracoli da esse operati, e anche la sua Historia Brancorum presenta numerosi aneddoti agiografici. Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa 4,15) riprende la teologia greca in merito al culto delle reliquie, e la sua opera costituisce il preludio di quella di Tommaso d'Aquino per quanto riguarda questo campo: poiché è il tempio di Dio su questa terra, il corpo dei santi, sia intero che diviso, riceve "adorazione di venerazione" (prosku/nhsij timhtikh/), che deve essere resa a tutti coloro che hanno rivestito una qualche dignità; poiché questa dignità costituisce un riflesso della gloria divina, il culto che le viene reso ricade in definitiva su Dio stesso.
Quello che dice a proposito delle reliquie, Giovanni Damasceno lo estende alle immagini. Ma quest'ultima caratteristica è peculiare dell'Oriente, dove provocherà i tempi difficili dell'iconoclastia, mentre in Occidente bisognerà attendere il Medioevo perché il culto delle immagini si sviluppi in maniera analoga. [V.Saxer]
Atti, Passione, Leggende - Atti sono i documenti che riportano le decisioni dell'autorità giudiziaria in merito alla condanna dei martiri, le Passioni e i Martirî hanno carattere piuttosto narrativo, e riferiscono gli ultimi giorni e la loro morte, le Leggende sono racconti, comportanti più elementi di fantasia che verità storica.
Anche se queste definizioni sono almeno in parte convenzionali, tuttavia si applica anche all'agiografia il concetto di genere letterario, di uso normale nella letteratura profana, ma che ha dovuto attendere il nostro secolo perché potesse aver corso nella letteratura agiografica, e la nostra generazione perché acquistasse anche il diritto di cittadinanza della critica biblica.
Il bollandista H. Delehaye utilizzò l'ozio forzato a cui fu obbligato dalla prima guerra mondiale per esporre la teoria di questo criterio agiografico ed applicarlo alla letteratura sui martiri. Vi distinse le Passioni storiche dai Panegirici e questi dalle Passioni epiche. Furono segnalate tutte le possibili contaminazioni tra questi generi principali. Una trentina di anni più tardi, il canonico R. Aigrain, in un manuale che è ormai un classico, diede di queste idee un'esposizione didascalica. G. Lazzati, poco tempo dopo, le approfondì: limitandosi agli scritti dei primi quattro secoli, determinò i limiti e le condizioni storiche e liturgiche per stabilirne la autenticità, e li distinse dai rifacimenti che nacquero verso la fine del periodo a causa di una nuova mentalità.
L'opera di G. Lanata infine considera gli Atti come documentazioni della procedura in base alla quale i cristiani erano stati condannati al martirio. Si è così arrivati, con una limitazione progressiva della materia a mettere a punto la critica dei documenti concernenti i martiri, e a separare dal nocciolo autentico dei fatti, tutti i passaggi liturgici, redazionali o romanzeschi presenti in sede letteraria.
Dall'analisi di questi criteri risulta che i Panegirici non appartengono allo stesso genere letterario degli Atti, Passioni e Leggende. Il carattere comune a questi tre documenti è costituito dal fatto che contengono testi narrativi che, più o meno fedelmente, riportano i fatti e le gesta dei martiri, dal momento della loro comparsa davanti al tribunale fino all'esecuzione della sentenza pronunciata nei loro riguardi.
Passioni narrative. Il più antico testo di questo genere è il Martirio di Policarpo (BHG 1556), che si fissa al 167: i cristiani di Smirne ragguagliano quelli di Filomelio, che avevano chiesto informazioni, sulla morte del loro vescovo Policarpo, presentandolo come un martire secondo il vangelo.
La lettera è concepita come un documento circolare che gli abitanti di Filomelio sono pregati di far conoscere a tutte le comunità cattoliche. Sin dagli inizi il racconto del martirio è strutturato come una dimostrazione e presentato come una circolare, come avviene per la lettera di Lione.
Le chiese di Lione e di Vienne informano parallelamente le comunità sorelle d'Asia e di Frigia degli avvenimenti del 177, dei quali fu vittima un gruppo molto numeroso di cristiani delle due città (BHG 1573). Il testo è redatto secondo l'uso epistolare dei primi cristiani, e mira a dimostrare la tesi che il martirio equivale ad un combattimento, che i martiri sono i combattenti di Dio, che il diavolo è il nemico, e i persecutori i suoi scherani. Quando il nemico crede di averli annientati è allora che sono vincitori, perché hanno imitato il Cristo nella sua umiliazione e nella sua esaltazione e sono con lui divenuti testimoni fedeli e veritieri. In queste idee possiamo riconoscere le basi della tematica cristiana sul martirio, già abbozzata nel Martirio di Policarpo, e che riceve nella lettera di Lione un'orchestrazione biblica di eccezionale ricchezza.
Questo non toglie che la critica odierna sia generalmente d'accordo con lo stesso Eusebio di Cesarea (HE 5,1,2) nel riconoscere a questo documento una fedeltà storica pari al desiderio di edificazione spirituale. La lettera costituisce inoltre una fonte di primario valore per la storia delle origini cristiane di Lione.
Questi modelli letterari diedero impulso alla serie dei Martirî e delle Passioni, nella doppia filiazione greca e latina. Il termine Martyrion è in testa ai racconti concernenti Giustino e i suoi compagni nel 163-67 circa (BHG 973), Apollonio nel 183-85 circa (BHG 149), Carpo, Papilo e Agatonice nel 250 (BHG 294), Agape, Chione ed Irene nel 304 (BHG 34), Euplo nel 304 (BHG 629-30). Questi testi sono in primo luogo tributari delle tradizioni agiografiche anteriori, nel rispetto della verità storica e nella preoccupazione della presentazione apologetica, ma insieme inaugurano un nuovo genere letterario.
La forma epistolare è infatti abbandonata per il racconto puro e semplice; in più l'equilibrio tra storia ed apologetica sta per modificarsi a vantaggio di questa. In altri termini questi testi conservano spesso lembi più o meno importanti degli atti giudiziari, ma gli elementi retorici ai quali sono mescolati diventano sempre più invadenti. Il momento e la preoccupazione della testimonianza, resa e riportata per se stessa, stanno per scomparire, e cedono il passo ad una nuova presentazione del cristianesimo.
L'apologetica cristiana diventa militante nella difesa dell'identità cristiana e si porta all'attacco nella critica delle religioni che le fanno concorrenza la pagana e la giudaica. Questa nuova intuizione, che è propria degli apologisti da Atenagora a Tertulliano, si introduce nei Martirî di lingua greca, nei quali ha quasi il monopolio.
Le Passioni latine, che sono soprattutto africane, obbediscono a motivazioni e seguono un'evoluzione diversa. Si tratta delle Passioni di Perpetua (BHL 6633), di Mariano e Giacomo (BHL 131) di Montano e Lucio (BHL 6009), dei martiri di Abitina (BHL 7492), dei martiri donatisti (BHL 2303b,4473,5271). Si devono distinguere nell'agiografia africana antica due epoche: la prima riguarda le Passioni di Perpetua, di Mariano e Giacomo, di Montano e Lucio, circa il s.III, in cui le visioni occupano un ruolo molto importante.
La Passio Perpetuae è la prima della serie, caratterizzata anche dal fatto che il racconto delle visioni è un elemento autobiografico, incorporato nella compilazione del redattore definitivo. La Passio Perpetuae rivela l'intenzione apologetica del redattore di dimostrare che le visioni dei martiri sono l'equivalente del carisma profetico, e che la loro autobiografia costituisce uno scritto ispirato alla stessa stregua delle Scritture canoniche, come esse destinata alla lettura liturgica.
La seconda epoca è costituita dall'agiografia donatista. Comprende sia Passioni di martiri anteriori allo scisma, che con ritocchi ed aggiunte vengono annessi alla setta (per es. Passio Saturnini, BHL 7492), sia Passioni di martiri donatisti, sotto forme diverse (racconti, sermoni, lettere), tutte destinate a mostrare la chiesa donatista come la chiesa dei martiri, la sola vera, mentre la chiesa cattolica, la falsa, è la chiesa dei traditores. Le Passioni dei martiri dunque divennero non solo armi di polemica e di propaganda, ma servirono per stabilire i criteri dell'ortodossia. L'ideologia prende il sopravvento sulla storia.
Atti giudiziari - Nello stesso tempo fa la sua comparsa e si sviluppa il genere letterario degli Atti giudiziari, che sono costituiti dalle relazioni più o meno lunghe di quanto accadde tra il martire e il suo giudice.
La redazione è conforme alle abitudini delle cancellerie dei tribunali romani, conosciute grazie ad alcuni processi verbali utilizzati già nell'antichità: processo di Dionigi di Alessandria (Euseb., HE 6,40; 7,11,1-19), Gesta apud Zenophilum (CSEL 26,185-97), Acta purgationis Felicis ep. Aptung. (ibidem 197-204), Gesta collationis Carthaginensis (SCh 194,195,224), o scoperti di recente nei papiri (U. Wilcken-L. Mitteis, Grundzüge und Chrestomathie der Papyruskunde, Leipzig-Berlin 1912). Ricorrere agli archivi pubblici in cui i documenti erano conservati era possibile, e questo uso è attestato (Agost., Serm. Denis 19,18). Il ricorso agli archivi è attestato dagli Atti di Taraco, Probo ed Andronico (BHL 7981), il cui redattore afferma di aver ottenuto a prezzo d'oro una copia degli atti pubblici del loro processo. H. Delehaye era piuttosto incline a non dar credito a questo esempio. In ogni modo, anche supponendo che non ci sia stato alcun inganno da parte del redattore, questi Atti costituiscono un caso unico, dal quale non si può ricavare una regola generale, e perciò si preferiscono altre spiegazioni. In casi di udienze uniche e brevi, il cui corso era peraltro conosciuto a causa del carattere pubblico della procedura, si può pensare che siano stati messi per scritto i ricordi di uno o più testimoni che avevano con le proprit orecchie ascoltato il processo.
Nel caso di udienze multiple o prolungate, niente impediva agli stessi testimoni, se non forse il rischio di tradirsi come cristiani, di stenografare le domande e le risposte e di usarle nei loro resoconti con più libertà di un cancelliere d'ufficio.
Essere cristiani era un delitto punibile con la morte; solo i governatori delle province (a Roma il prefetto della Città o quello del Pretorio) avevano lo ius gladii e potevano pronunciare la sentenza capitale. Perciò i cristiani che abitavano in una città residenza di un governatore erano tradotti davanti al suo tribunale, e questo poteva raccorciare l'intervallo tra l'istruzione del processo e la sentenza. Vediamo cosl alcuni processi svolgersi in una sola seduta (Acta Scillitanorum, BHL 7527), ma normalmente le sedute erano più di una: gli Atti di Filea ne indicano ben cinque (AB 81,12).
Perenne aveva concesso tre giorni di riflessione ad Apollonio (BHG 149), Saturnino ne propose trenta ai martiri Scillitani. Se alla scadenza l'accusato persisteva nel dirsi cristiano, il magistrato, aiutato dal consiglio, pronunciava la sentenza, il cancelliere trascriveva su una tavoletta l'atto di condanna, che il magistrato leggeva all'imputato davanti a tutti (ex tabellis recitare).
La sentenza veniva immediatamente eseguita. Se si trattava di cristiani residenti fuori dal capoluogo, comparivano prima davanti all'istanza municipale, che doveva istruire il processo (cognitio pro tribunali) per accertare l'identità e l'appartenenza al cristianesimo (all'occorrenza alla gerarchia) dell'accusato. Veniva steso un processo verbale (acta), costituito un dossier (elogium), che erano trasmessi al governatore insieme agli accusati (ed era il caso più frequente), oppure si attendeva il suo arrivo, nel caso fosse in viaggio di ispezione (Atti di Pionio, BHG 1545). Davanti al governatore si leggevano gli acta, e l'accusato poteva confermare o ritrattare le sue dichiarazioni precedenti. Veniva poi, secondo i casi, condannato o rilasciato.
Le circostanze del processo variavano: il governatore poteva o presiedere in secretario, cioé privatamente, nel suo ufficio, o pro tribunali, in udienza pubblica. Le autorità municipali istruivano il processo in un luogo pubblico, per Pionio nel foro di Smirne.
L'indagine poteva comprendere la quaestio, cioé la tortura (quaestio per tormenta), e il corso dell'inchiesta stessa veniva lasciata all'iniziativa del governatore, che aveva anche il potere di soprassedere su una condanna, o di non avviare un'inchiesta (Tert., Scap. 4,3-5). Spesso il governatore si comportava con garbo nei riguardi degli accusati come fece Perenne nei confronti di Apollonio, Paterno con Cipriano, Culciano con Filea. Anche Saturnino non volle condannare a tutti i costi gli Scillitani, e credette che fosse possibile un accomodamento.
Ma la divergenza stava proprio in questo: davanti al sincretismo pagano, il monoteismo cristiano era irriducibile, da qui la risposta degli Scillitani e di Cipriano: in una causa così giusta, non c'è alcun bisogno di deliberare!
Gli Atti giudiziari avevano lo stesso scopo della Passio Perpetuae, per esplicita ammissione del compilatore redatta per servire come lettura liturgica. L'inizio è noto: datazione in base alle ripartizioni del mese romano e all'anno consolare, indicazione del luogo, interrogatorio per stabilire l'identità dell'accusato. Formule spesso precedute, nei testi cristiani, da un titolo o da un preambolo, in cui al santo viene dato l'appellativo di "martire" o di "beato martire", sconosciuto nelle cancellerie pubbliche; oppure, negli Atti di Giustino, da un riferimento alle circostanze del martirio, al tempo delle "persecuzioni empie e idolatre" (espressione-firma cristiana, che non ne inficia la verità). Altri particolari frequenti: l'eroe è qualificato come martire; le lungaggini del processo verbale sono abbreviate, il carattere cristiano delle risposte del martire è sottolineato con cura, la relazione dell'udienza viene completata con il racconto dell'esecuzione.
La chiusa del testo con la dossologia ha uno stile eminentemente liturgico. Questi ritocchi non inficiano la sostanza del documento ma gli danno solo un aspetto cristiano.
In base al tipo dei ritocchi possiamo tuttavia distinguere due serie di Atti giudiziari: 1.Atti dei martiri Scillitani (BHL 7527), Cipriano (BHL 2037), Massimiliano (BHL 5813), Marcello (5253-55) Fruttuoso, Augurio ed Eulogio (BHL 3196); 2.Atti di Giustino (BHG 973) Apollonio (BHG 149), Carpo, Papilo e Agatonice (BHG 294), Agape, Chione ed Irene (BHG 34), Euplo (BHG 629-30).
Mentre gli Atti latini, ad eccezione di quelli di Fruttuoso, conservati in una redazione che deve essere del IV s., seguono con molta fedeltà l'andamento generale degli atti giudiziari, negli Atti greci assistiamo ben presto ad un'evoluzione. Solo quelli di Giustino (preambolo a parte, che data al IV s.), e in misura già minore quelli di Apollonio, sono costituiti per la maggior parte dai documenti processuali, che sussistono ancora negli altri Atti, ma in un contesto in cui sempre più invadenti si fanno gli interventi del redattore, fino al caso del Martirio di Pionio (fine del IV s.-inizi del V), nel quale i capitoli che riferiscono il processo verbale dell'udienza sono solo due su un totale di venti. Questa evoluzione prepara il momento delle Passioni romanzate.
Leggende epiche e romanzesche - Costituiscono un genere di documenti, in cui la parte storica è ridotta a vantaggio di elementi puramente fantastici. Sono testi che si avvicinano al genere epico o al romanzo storico e possono sfociare nel comune genere folcloristico. Questa tendenza a trasformare in romanzo un testo agiografico si è manifestata per documenti la cui sostanza è incontestabilmente storica.
Nella Passione greca che lo concerne (BHG 149), Apollonio, martire romano del 183-85, si vede mutato il nome in Apollo, contemporaneo di s. Paolo (Act 18,24;19,1; 1 Cor 1,12;3,4; Tit 3,13), il prefetto di Roma Perenne diventa Perermio, proconsole d'Asia, peraltro sconosciuto dai fasti della provincia; nella versione armena (BHO 79), Apollonio conserva il suo nome, mentre è il proconsole d'Asia che perde il suo, diventando Terenzio, insieme alla sua carica, diventando prefetto o chiliarco.
Nel Martirio di Pionio (BHG 1546), non si hanno solo casi fortuiti nella trasmissione testuale, ma alterazioni che investono la sostanza. L'autore del testo ha la pretesa di fondarsi su uno scritto del martire (su/ggramma) e su note prese all'udienza (u(pomnh/mata), e in effetti alcuni frammenti sono rimasti, ma gli interventi dell'autore sono lampanti come nelle visioni di Caterina Emmerich, elaborate da C. Brentano. Ancora più emblematico è il caso del Martirio di Dasio (BHG 491): se si toglie il racconto dei Saturnali, che serve da cornice al Martirio e fa tanto colore locale, il Martirio si riduce a dei luoghi comuni, senza nessuna consistenza storica.
La storia di Dasio ci introduce nelle Passioni propriamente epiche, genere le cui caratteristiche sono state ben rilevate da H. Delehaye. Esse comprendono di regola dei personaggi (imperatori, magistrati, carnefici, testimoni oculari, seppellitori) ed episodi (interrogatori, torture, prodigi, risurrezioni) convenzionali, elementi dei quali le passioni egiziane abusano in vista dell'apologia, con l'intervento di Giulio di Aqfahs in veste di segretario del giudice, di seppellitore dei martiri, e di redattore delle loro passioni prima di diventare lui stesso l'eroe della propria. Si sono paragonate queste Passioni all'epopea, perché sono guidate dallo stesso bisogno di esaltare l'eroe attraverso il moltiplicarsi delle sue imprese e le difficoltà di queste.
Insieme alle Passioni epiche, dal s.III si fanno strada le Passioni romanzesche. Il romanzo agiografico può assumere tutte le forme del romanzo profano. Il più celebre romanzo cristiano di avventure è senza dubbio costituito dalla trama delle Recognitiones clementine. Il papa Clemente, che è senza ombra di dubbio un autentico personaggio storico e un autore della letteratura cristiana degli ultimi anni del I s., viene trasformato, in virtù della predicazione di s. Pietro e della propria, in un eroe alla ricerca della propria famiglia dispersa. A questo genere appartengono anche gli Atti di Paolo e Tecla (BHG 1710). L'autore di questo romanzo venne deposto in quanto ritenuto bugiardo, malgrado le sue proteste di avere scritto per amore verso l'apostolo.
Ma il culmine dell'inverosimiglianza è raggiunto dalle avventure del generale Placida che muore con il nome di Eustazio o Eustachio (BHL 276061), sconosciuto nella prosopografia dell'esercito romano. Altrettanto si potrebbe dire di numerosi santi, trasformati in militari.
Simile al romanzo di avventure è il romanzo idilliaco: al posto delle trame libidinose tipiche degli antichi, i cristiani ne fanno delle storie edificanti.
La Passione di Marciana di Cesarea di Mauritania (BHL 5256-57) è tutta incentrata sul tema della verginità. La storia di s. Cecilia spinge più oltre il tema: l'eroina promette, la sera stessa delle nozze, di rimanere vergine, e ottiene dallo sposo di poter mantenere la promessa (BHL 1495). Il racconto è un calco della fine del V s. di un episodio raccontato da Vittore di Vita (Hist. pers. Afr. I,30-35), in cui la protagonista è una certa Massima africana.
Il racconto utilizza come eroi alcuni martiri e personaggi romani, le cui tombe potevano essere conosciute e venerate da chiunque, mentre la chiesa di Trastevere, intitolata a s. Cecilia porta in realtà il nome della sua fondatrice e illustra un processo storico ben conosciuto per le chiese romane, quello cioè della santificazione di fondatori di chiese.
Quanto alla storia di Alessio (BHO 36-44, BHL 289) essa sviluppa un tema che ha conosciuto una certa fama nel corso dei tempi, il tema del giovane sposo che lascia la moglie, la sera delle nozze, per vivere una vita di povertà mendicando per amore di Cristo. Simili temi edificanti pullulano nella letteratura agiografica, e dai martiri sono passati ai santi nonmartiri. Tra gli altri si possono citare: il martirio che rende la purezza all'anima in peccato, l'innocenza perseguitata fino alla morte il perdono delle offese spinto fino al disprezzo della propria persona; il martirio della carità che fa prendere a un innocente il posto di un condannato; l'attore che si lascia coinvolgere nella conversione come in un gioco; la vergine nascosta sotto vesti maschili in un convento di uomini, la cui identità è scoperta solo quando muore.
L'evoluzione porta con sé la confusione tra i generi letterari: l'agiografia, la novella, il folclore e il mito. Si arriva così al punto che santi autentici si trasformano in maghi, e che i miti assumono la forma di vite di santi. Uno dei fenomeni più curiosi di questa evoluzione è il costituirsi di cicli agiografici: intorno ad un santo che dà il suo nome e una fittizia unità all'insieme, si raggruppano santi che il caso ha messo insieme nel calendario (ciclo di Policronio per i santi dalla fine di luglio alla metà di agosto) o nella topografia (Sebastiano, Quattro Coronati).
In conclusione la letteratura agiografica ha un dominio vasto e vario come la letteratura profana: documenti appena abbozzati o quasi, o sommariamente rielaborati, racconti composti per informare e per l'edificazione dei correligionari, o con fini esplicitamente apologetici o polemici; opere di pura fantasia, nelle quali la storia serve solo come punto di aggancio alle acrobazie dell'immaginazione. Su questa scena di consistenza variabile si muovono personaggi il cui spessore storico è anch'esso vario: vicino ai martiri autentici e riconoscibili, alle coordinate conosciute e verificabili, ce ne sono altri i cui tratti, sfigurati dall'agiografia, sono irriconoscibili sotto gli strati di pittura della forma letteraria o della trasformazione leggendaria; e ce ne sono anche alcuni inventati del tutto, prendendo a pretesto personaggi di favole, di novelle, di romanzi o di miti.
Gli epitaffi, iscrizioni funerarie, fanno menzione del titolo martyr, da solo o con la parola passus, la data, e talvolta dettagli sul martirio. Sono frequenti a Roma dove il culto resta per molto tempo legato ai cimiteri (alle catacombe), sono più rari là dove venne precocemente praticata la traslazione dei corpi con conseguente dispersione delle reliquie. Pochi testi sono contemporanei alla sepoltura: copie tarde o nuove redazioni erano fatte in varie occasioni (iscrizioni damasiane).
Altre iscrizioni segnalano la presenza di reliquie. Sia che le reliquie siano reali (dal s.IV in Oriente) oppure solo simboliche (generalmente in Occidente brandea di tessuto o terra consacrata), una o più iscrizioni segnalano la loro presenza e precisano le circostanze della "deposizione". L'epigrafe si differenzia a seconda del tipo e della collocazione: quando i reliquari sono di grandi dimensioni e visibili o accessibili ('ad olio' in Oriente), l'iscrizione unica è incisa sul coperchio o sulla cassa del cofanetto. In Grecia e nell'Occidente, in cui il reliquiario è sito sotto l'altare o alla sua base, si possono avere tre tipi di testi:
•a) testo sul cofanetto con un'"autenticazione" del o dei nomi dei martiri da parte dell'autorità ecclesiastica, oppure all'esterno del cofanetto o del recipiente; •b) la relazione verbale della "deposizione" con il nome delle reliquiae (spesso memoriae), la designazione dei santi, il verbo positus o depositus, il nome del vescovo consacrante (ab..., poi per manus), la data, o limitata al giorno del mese (per la commemorazione), o con l'anno preciso, talvolta anche il nome del committente o del donatore; •c) quando l'autenticazione o il verbale di deposizione non sono visibili, si affigge semplicemente all'esterno il nome dei martiri, con, nella maggior parte dei casi, la data che serve alla commemorazione.
Una categoria propria della tradizione dell'Africa, ma documentata anche altrove (Axiopolis in Scizia Minore) è quella delle mensae martyrum, iscrizioni su una lastra disposta in piano modanata rettangolare o semicircolare, con sopra il nome dei martiri precededuto da mensa memoria, nomina, talvolta con una formula votiva.
Ma le mensae martyrum di provenienza incerta, non hanno più carattere funerario. Non sono altari, come si è creduto, e non segnalano reliquie. Il loro ruolo nella chiesa non è certo: si tratta di semplici ex voto o di mense per le offerte?
Le inumazioni ad sanctos e le invocazioni ai martiri negli epitaffi si svilupparono per porre la tomba di un defunto sotto la protezione del "patrono", che poteva intercedere in cielo per lui, o per la vicinanza della sepoltura o mediante la formula d'invocazione.
Oltre le categorie, delimitate dal supporto, dall'ubicazione o dal formulario, si trovano altre menzioni di martiri in testi vari: elogia in versi (che possono confondersi con epitaffi o dediche, come le iscrizioni damasiane di Roma), invocazioni o semplici liste. Due termini hanno suscitato numerose discussioni: memoria e nomina che venivano considerati una volta come un equivalente di reliquie.
Iconografia. Nell'arte cristiana si evitano in genere scene tristi o violente inerenti, ad esempio, alla passio Christi. Rare pure si presentano le scene di martirio pro tribunali, rispetto a quelle che colgono i martiri in situazioni di apoteosi e coronazione in paradiso.