Parlare dell'integrità della persona umana, dicendo che cosa questa comporti, risulta problematico laddove, con Mounier, si giungesse ad affermare che la persona "non è suscettibile di definizione rigorosa".
E questa difficoltà dipende in larga misura dal fatto che il termine persona umana è spesso utilizzato per indicare la singolarità dell'uomo, che come tale resta preclusa ad ogni discorso o sapere che aspiri all'universale: si potrebbe dire, infatti che si vive la persona (o, come persona), ma che non si definisce mai compiutamente l'essere persona qui ed ora.
Ed è forse anche per questo motivo che io cerco di usare con estrema cautela la nozione di persona (che è analoga), ritenendo ancora ampiamente praticabile quella, univoca, di uomo, oppure semantizzando la persona umana in chiave ontologica prima ancora che etica.
Da questo punto di vista avrebbe perciò senso parlare di persona non integra né nel corpo, né nella dimensione morale o spirituale: nel caso, invece, che il termine persona avesse soltanto una connotazione etica, indicasse cioè alcune qualità morali che la persona sa manifestare, risulterebbe equivoco parlare di persona non integra o immorale: sarebbe allora più opportuno parlare di un uomo che non vive il suo essere persona, che non realizza il suo dover essere persona.
Ma se la persona umana è, prima di tutto, l'essere umano, allora la questione, correttamente posta, non riguarda il diventare persona ma il manifestare la persona che si cela nel cuore dell'umano.
Quanto poi all'integrità, bisognerebbe approfondire anche un altro aspetto: nella prospettiva metafisica (e ancor di più in quella della fede rivelata - e perciò della teologia) l'integrità della corporeità, come quella della persona non si daranno definitivamente se non dopo l'evento della morte, che coinvolge in modo evidente il corpo (così che per la filosofia sembra possibile parlare soltanto dell'immortalità dell'anima umana), lasciando peraltro solo alla fede la certezza che la decomposizione del corpo possa venire interpretata come una trasformazione che attende la sua manifestazione nella resurrezione dei morti.
Questa riflessione non entrerà in merito a questo aspetto della questione, ma cercherà, in chiave fenomenologica ed ontologica, di dire qualcosa tenendo conto di due altre elementi: l'artificiale e l'impersonale.
Il processo di autorappresentazione dell'uomo, cioè le modalità con cui egli pensa ed esprime se stesso, ha attraversato diverse fasi nella lunga storia della cultura e in quella, più breve, della filosofia.
Sarebbe azzardato tentare una sintesi: si può però forse fare una diagnosi di come oggi si stia profilando e ridefinendo l'immagine dell'uomo contemporaneo .
Il binomio corpo umano e persona umana (la specificazione non è del tutto pedante, dato che sia il termine corpo sia il termine persona sono analoghi e non si predicano esclusivamente dell'uomo), connessi da quel riferimento all'integrità, potrebbe certo servire per mostrare come, di volta in volta, il corpo sia stato posto e sentito come ostacolo alla vita personale (a cominciare dal mito platonico) o come condizione intrascendibile, a cui ricondurre ogni manifestazione dell'io.
All'affacciarsi del nostro secolo, in fondo, le pretese umane sembravano essere definitivamente umiliate dall'evoluzionismo darwiniano e dalla rilettura freudiana delle attività superiori della coscienza. Con maggiore radicalità, del resto, Nietzsche ha ricondotto ogni energia spirituale, ogni ideale ascetico ad una forma di mascheramento di un istinto umano, troppo umano.
Umano, cioè, in fondo mortale, cioè, ancora, finito. Il senso della finitudine ha portato con sé, come bilanciamento inaspettato ma non illogico, il desiderio di una certa onnipotenza, lo spirito di quello che Nietzsche profetizzava come volontà di potenza e che Sartre, acutamente, descriveva come il volersi fare Dio dell'uomo, pur nella consapevolezza che questo compito sarebbe impossibile perché, a suo avviso, Dio non é.
Ma tutto questo, in fondo, per certi aspetti, appartiene al passato (anche se ci è così prossimo): la nuova antropologia che si sta affacciando, e che percorre altre vie rispetto a quelle strettamente filosofiche, è quella dell'antropocentrismo tecnologico.
Antropocentrismo tecnologico
"Credo di essere capitato sulle tracce di un nuovo pudendum; di un motivo di vergogna che non esisteva in passato. Lo chiamo per il momento, per mio uso, vergogna prometeica, e intendo con ciò vergogna che si prova di fronte all'umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi"
1.Con queste parole si apre il libro, del 1956, di Anders, L'uomo è antiquato: un libro, esso stesso, sotto certi aspetti, antiquato, poiché è stato superato dallo sviluppo incredibile della scienza e della tecnologia, ma pur sempre significativo, poiché indica, profeticamente, un sintomo: l'inquietudine di un uomo che pone come modello di perfezione, pressoché irraggiungibile, proprio ciò che egli stesso produce.
Si può certo discutere su come Anders prospetti questa presunta vergogna, ma non si può misconoscere che la perfezione della macchina (modello che serve per interpretare tutti i corpi naturali), si realizza proprio grazie alla spersonalizzazione delle operazioni che compie e alla loro perfetta riproducibilità all'infinito. Non solo: la stessa macchina diventa il criterio ermeneutico dell'umano, come nelle contemporanee teorie
2 computazionali del cervello, in cui l'attività conoscitiva e percettiva è decifrata sulla base dei meccanismi che presiedono alla relazione tra il software e l'hardware del computer.La centralità della macchina nella linea dell'autorappresentazione dell'uomo è in fondo uno dei prodotti storici del pensiero moderno, che si alimenta dapprima del dualismo antropologico cartesiano e poi dell'univoca descrizione di La Mettrie dell'homme-machine.
Questa vergogna è peraltro l'altra faccia dell'uomo prometeico, che nelle recenti scoperte biologiche ha individuato la modalità di controllare la generazione umana scindendola dalla relazionalità uomo/donna e riducendola all'incontro tra gameti biologicamente controllabili.
Se riflettiamo sull'accelerazione del processo che ha posto, nel 1978, la Fivet come via per la risoluzione della sterilità umana ed ora la presenta come una nuova modalità di riproduzione (Harris e, in Italia, Mori, Rodotà e l'intera Consulta di bioetica laica), emerge questo nuovo imperativo: sostituire il senso dell'origine come esito dell'incontro di due persone con l'origine come prodotto della fusione di due gameti, in grado di soddisfare il bisogno della genitorialità.
Ma è ancora Anders a suggerirci una linea di riflessione quando scrive: "il desiderio dell'uomo moderno di diventare un self-made man, un prodotto, va visto dunque su questo sfondo mutato: non già perché non supporta più nulla che egli stesso non abbia fatto, vuole fare se stesso; ma perché non vuole essere qualcosa di non fatto. Non perché provi indignazione per essere fatto da altri (Dio, dei, natura), ma perché non è fatto per nulla e, nella sua qualità di non-fatto, è inferiore a tutti i suoi prodotti fabbricati".
3.Se colleghiamo la questione dell'impersonalità con quello della riproducibilità, possiamo forse comprendere perché, nelle recenti discussioni intorno alla possibilità della clonazione umana, dopo che si è tentata quella animale, l'iniziale orrore psicologico ha lasciato il passo ad un crescente interesse: eliminare o controllare la biodiversità è in fondo il sintomo del disagio di una relazionalità tra quelle persone, tra loro irriducibili ma pur sempre costitutive della stessa vicenda dell'io, che, in una prospettiva puramente mondana, faceva dire a Sartre che l'inferno sono gli altri.
Non è questa la sede per entrare in merito a questi temi: ciò che però può essere utile evidenziare è il fatto che in questo caso il tema dell'integrità corporea e personale assume nuove connotazioni. L'integrità non riguarda più l'intera persona ma alcuni suoi prodotti biologici (i gameti), che serviranno per garantire un'integrità del generato che sarà prima di tutto valutata secondo la prospettiva biologica.
Sorge così un nuovo modo di pensare l'integrità e la corporeità, in cui, almeno nel caso citato, il corpo è integro anche se le sue funzionalità non sono più svolte dall'intera persona ma soltanto da parti o elementi biologici: l'avvento di una riproduzione extracorporea, almeno nelle sue fasi iniziali, apre così nuovi interrogativi, finora sollevati da quegli esperimenti mentali a cui ci aveva abituato la letteratura fantascientifica o utopica.
4Ma forse ciò su cui occorre riflettere, a proposito della prassi della generazione extracorporea, è il trionfo dell'impersonale come condizione per realizzare progetti e desideri che si radicano nel cuore della persona: il figlio, prodotto e protetto dalle possibili violenze della malattia e del dolore, può sorgere a condizione che il padre e la madre deleghino al servizio sanitario, nella figura del medico e del biologo, l'atto più intimo della relazionalità personale e diano ad una provetta, ad un vetrino, il compito di permettere l'origine di un uomo nuovo.
Quel minuscolo organismo che la biologia chiama embrione e che i genitori riconoscono come un figlio allo stadio embrionale, è così consegnato a qualcosa di più rassicurante della Provvidenza, della natura, del caso: alla scienza. Per garantire l'integrità altrui la condizione è quella di rinunciare all'integrità, corporea e personale, di un atto umano come la procreazione, ripensato e ripresentato sotto l'aspetto zoologico della riproduzione.
L'esaltazione, perciò delle capacità personali dell'uomo sembra verificarsi nell'avvento della spersonalizzazione di certi atti umani. E in questa neutralità emerge meglio l'affinità con le macchine, capaci di eseguire programmi in modo più sicuro ed efficace di quanto non possano gli esseri umani, impastati di sensazioni, debolezze, paure, gioie, desideri e speranze.
L'uomo tecnologico è perciò posto nelle condizioni di ripensare la propria integrità corporea e personale perché sembra (il condizionale è d'obbligo) poter estendere i confini della propria corporeità con un'integrazione, finora impensabile, con l'artificiale. L'aspetto umano (forse troppo umano) della tecnica, è proprio quello di essere uno strumento al servizio dei desideri dell'uomo e, nello stesso tempo, di essere uno specchio indotto dell'umano stesso.
L'integrità personale tra naturale ed artificiale
Il confine tra naturale ed artificiale, tra il corpo-macchina e il corpo naturale sembra ormai sfumare in una progressiva integrazione dell'uno con l'altro, ponendo in dubbio, come ho cercato di dire, se si proceda verso una naturalizzazione dell'artificiale o verso una rappresentazione del naturale sulla base dell'artificiale.
Indubbiamente non possiamo sminuire il contributo che proprio l'artificialità, cioè l'opera dell'uomo, ha dato alla conservazione della vita umana e al miglioramento della sua qualità funzionale: basterebbe pensare, senza dover citare gli interventi più clamorosi della medicina in campo preventivo e curativo, a quel piccolo strumento che sono le lenti per poter dar voce all'apologia della tecnica.
L'astensione del nostro campo visivo, laddove si ripristinano funzionalità in declino o si potenziano capacità già in atto (dal microscopio al cannocchiale elettronici), permette l'allargamento, per così dire, dell'intenzionalità del nostro corpo, che si apre fiducioso nei confronti dell'ambiente. In fondo siamo sempre meno estranei al mondo.
Senza entrare in merito all'obseleta disputa circa la differenza tra ciò che nell'uomo è naturale e ciò che è culturale, basti dire che l'intera impresa scientifica, nel suo versante conoscitivo ed applicativo, testimonia comunque di un carattere umano, e quindi personale, dell'opera di razionalizzazione del mondo e di umanizzazione dell'ambiente.
Ma, per parafrasare Husserl, che cosa ci insegna questo progressivo dominio della vita e questo incessante lavoro di modificazione dell'ambiente? L'ambiguità dell'impresa tecnologica corre sul filo di una questione irrisolta, quella del motivo ultimo per cui impegnarsi a creare nuove condizioni di esistenza in un pianeta così refrattario ad assumere il volto di uno dei suoi componenti.
Anzi, si può facilmente constatare che quest'opera di razionalizzazione della realtà si è verificata, per usare suggestioni weberiane, con il progressivo disincantamento del mondo stesso: cioè con un'opera di spogliazione del significato simbolico (e quindi dell'originaria e costitutiva capacità di indicare un senso) della realtà, ricondotta entro i canoni di una ragione geometrica o, come si usa dire, calcolante.
Ma chi voglia spostarsi dal piano fenomenologico a quello assiologico, può tentare una risposta alla questione dell'integrità della persona umana soltanto ripristinando questo versante.
Da una parte, infatti, l'uomo è tanto più manipolabile quanto più rappresenta se stesso come una parte della natura, un prodotto tardivo dell'evoluzione: dall'altra, poi, la stessa natura è tanto più comprensibile quanto più è ridotta a quella meccanicità che corrisponde al modello culturale di tutta l'ermeneutica scientifica moderna. Così il progresso scientifico sembra testimoniare la trascendenza dell'uomo dall'ambiente, indefinitamente plasmabile, quanto più immanentizza se stesso nella natura e progetta linee di autoconservazione in cui ogni limite è soltanto un ostacolo, qualcosa da superare.
E qui sorge un'aporia di cui si vedono già chiari segni: mentre la medicina sorge e si sviluppa, anche nel suo versante sperimentale, con una dedizione verso quella ineffabile singolarità che è bene espressa dalla nozione di persona, prendendosi cura della corporeità della persona, la familiarizzazione con il modello macchina fa propendere verso una eugenetica che guarda non più al singolo ma alla specie: così come le macchine obsolete vanno smantellate, magari utilizzandone i pezzi come ricambi per auto nuove o almeno ripristinabili nelle loro funzionalità, anche gli uomini (non più pensati e colti come persone) che si trovano in certe condizioni di vita (anencefalici, malati di mente, uomini in coma), possono essere pensati, secondo il suggerimento di Harris, come risorsa per l'integrità corporea di uomini-persona.
Così si sfuma la finalizzazione sperimentale strettamente connessa anche al bene del singolo e si prospetta una funzionalità alla specie: impresa antropocentrica che vorrebbe essere biocentrica.
In queste pieghe si affaccia perciò un'immagine della persona umana che non misura più la sua grandezza confrontandosi con Dio (riferimento centrale nella semantizzazione del concetto di persona), né cercando difficili distanze qualitative dal regno animale, ma descrivendosi come artefice della propria identità: un'integrità personale che non è perciò da attuare ma da reinventare, nel solco di una sottaciuta persuasione della morte di Dio e quindi del senso dell'esistere.
A questo ambiguo progetto sembra resistere, per ora, un dato dell'esperienza e della conoscenza: l'essere mortali. l'esperienza, infatti, ci insegna che l'integrità del corpo e della persona non sono degli stadi definitivi ma soltanto delle tappe, in una dinamica che sembra avere come esito la dissoluzione del corpo e la morte della persona. E la linea catastrofistica segnala che, appunto, l'esito certo dello sviluppo tecnologico sarà la scomparsa dell'uomo e dell'intero pianeta, fagocitato da prodotti che forse sopravviveranno al dissesto ecologico, come i pomodori biologicamente modificati resistono a quegli stessi pesticidi che ci avvelenano.
La morte, che qualcuno ha cantato come sorella e che altri hanno visto nella duplice dimensione del peso e della benedizione, sembra peraltro indicarci che ci è preclusa ogni via alla definizione dell'integrità della persona se l'intelligibilità della realtà, testimoniata dalla ricerca scientifica, non viene percorsa anche lungo la linea del senso di questa intelligibilità, del suo Fondamento.