All'interno delle diverse prospettive della bioetica si è da tempo affermato per la sua fondamentazione e la sua autorevolezza il modello personalistico, che ha come punto di riferimento antropologico il personalismo, di fatto già implicitamente operante nella tradizione deontologica della medicina europea.
Le radici che lo caratterizzano sono il cognitivismo etico, teso a coniugare la fedeltà all'oggettività delle norme con la duttilità valutativa richiesta dalla situazione biomedica concreta, e la coerenza personale con cui la teoria si cala nello stile di vita del docente e nel suo ruolo professionale di operatore sanitario: medico, infermiere o altro; e inoltre, un giudizio ultimo pratico definito come metodo della triangolazione, perché sa fornire elementi di valutazione delle attività umane impegnate nel campo della ricerca e della prassi biomedica e riesce a mettere in risalto le potenzialità propositive presenti nelle scienze che si occupano della vita dell'uomo.
Esiste una metabioetica, il cui sfondo filosofico giustifica criteri etici che armonizzano, nelle relazionalità, l'interdisciplinarietà che connota la bioetica. Nel superare il dualismo che separa, per contrapporli, il piano della razionalità solamente umana da quello della razionalità credente, si mettono in luce gli argomenti filosofici e i pronunciamenti del Magistero della Chiesa cattolica, che forniscono un quadro informativo e formativo di notevole spessore.
L'antropologia personalistica accoglie il riferimento sostanzialistico di Tommaso, muovendosi lungo quella linea di dialogo e confronto con le istanze della modernità e della contemporaneità che hanno caratterizzato il contributo teoretico della neoscolastica milanese, ed in particolare di Sofia Vanni Rovighi. Essa fa capo alla tesi, di origine aristotelica ed espressa chiaramente da Tommaso, dell'unicità dell'anima umana intesa come forma sostanziale sussistente.
Come è noto, il termine anima (a differenza di quanto avviene con Cartesio, che lo rende indebitamente sinonimo di anima spirituale e riduce quindi tutti i corpi a pure macchine e, per dirla con Ryle, finisce con il proporre l'immagine dell'uomo come quella dello spettro in una macchina) indica quel principio di sostanziale coordinazione delle attività proprie di ogni vivente, i cui specifici caratteri (di vivente, di senziente, di pensante) vengono inferiti dalle qualità proprie di quegli organismi di cui appunto è principio (o, per usare un termine classico, è forma sostanziale). Così, quando si qualifica l'anima umana come anima intellettiva si vuole soltanto asserire che il principio per cui l'uomo è qualcosa, è qualcosa di vivente, è qualcosa di senziente è lo stesso principio per cui è qualcuno, ovvero è conoscente.
L'essere qualcuno all'inizio non si manifesta empiricamente se non con il presentarsi come qualcosa, ovvero come un organismo umano in cui è presente in atto quella differenza specifica che si manifesterà adeguatamente soltanto nel tempo e nell'interazione con l'ambiente entro cui è destinato a crescere.
La continuità biologica è pertanto il segno della continuità ontologica e la forma che qualifica e determina un vivente è sempre presente anche laddove quel vivente (sia esso una pianta, un animale o un uomo) è vivo. Anche l'uomo adulto affetto da schizofrenia non cesserebbe di essere ontologicamente uno, così come l'uomo allo stadio embrionale, a differenza di quanto scriveva Maritain, è un uomo e non soltanto una materia non ancora disposta a ricevere l'anima intellettiva.
Per poter affermare che l'embrione o il feto non siano stadi dello sviluppo del medesimo uomo si dovrebbe infatti accertare, tramite la ricerca biologica, un salto qualitativo analogo a quello che viene registrato nel processo di fusione dei due gameti, laddove si affaccia quell'organismo umano che, a determinate condizioni, esprimerà compiutamente ciò che già è. O, per usare una bella espressione di Tertulliano, ricordata dallo stesso Sgreccia per segnalare la continuità ontologica, è già uomo colui che lo sarà: felice definizione che può essere usata anche da chi non condivida tutte le tesi di chi l'ha formulata.
Infatti, o si pensa che esista una qualche materia senza forma (che riporterebbe la speculazione filosofica all'impianto platonico e sarebbe in contrasto con la metafisica professata da Maritain), oppure si dovrebbe pensare che ciò che è generato dall'uomo sia un corpo non umano (vegetale? animale?), procedendo in quella contaminazione tra l'evoluzionismo delle specie (che potrebbe anche essere pensato nei termini di una modificazione sostanziale che procede dall'inferiore al superiore) e l'evoluzione del singolo individuo nella specie.
Sarebbe certo interessante, ma ci condurrebbe lontano, riflettere sul fatto che Maritain parli, a proposito della generazione, di materia laddove dovrebbe parlare di organismo o di corpo (nel linguaggio della biologia) o di sostanza (nel linguaggio filosofico): si può ipotizzare che avvenga, di fatto, uno scivolamento linguistico analogo a quello operato nell'epoca moderna quando si confonde la sostanza con la pura quantità di materia, ovvero con quell'estensione amorfa e priva di qualificazione che corrisponde alla cartesiana res extensa, ovvero alla materia della fisica galileiano-newtoniana (di cui tratta Kant nella prima analogia dell'esperienza chiamandola sostanza).
Ma questa materia, frutto di un'astrazione metodologica che ha una sua legittimità all'interno di una disciplina come la fisica, non ha nulla a che fare con il concetto di sostanza (quell'essere in sé e per sé a cui inerisce l'accidente inteso come essere per altro) né con ciò che nel pensiero classico era la cosiddetta materia prima, principio di indeterminazione, a sua volta distinguibile dalla materia seconda che, essendo determinata, implicava sempre una qualche forma (intesa come principio di determinazione).
Pertanto, se l'anima indica la forma sostanziale di ogni vivente, risulta logicamente necessario affermare che laddove compare un nuovo organismo umano è in atto l'anima umana, ovvero quella forma sostanziale che procederà allo sviluppo progressivo di tutti i caratteri dell'umano. Il fatto che sulla base del pensiero aristotelico si usi parlare di anima razionale non significa che, come per Cartesio, la sostanza umana sia il pensiero (res cogitans) ma semplicemente indicare lo specifico sostanziale facendo riferimento a quell'attività da cui, per inferenza, lo si è colto.
Quanto all'origine dell'anima umana, risulta logicamente necessario ricorrere alla cosiddetta tesi dell'infusione da parte di Dio (immediata per i motivi sopra esposti) perché, per argomentazione, si è riusciti a provare che questa sostanzialità non è riducibile alla corporeità: la spiritualità sostanziale dell'uomo è infatti inferibile da un'attenta analisi delle attività conoscitive dell'uomo, dal suo emanciparsi, per dirla, in estrema sintesi, con Scheler, dall'Umwelt (ambiente) e guardare al Welt (mondo).
E per procedere sulla via dell'affermazione della spiritualità dell'uomo bisognerà anche stare attenti a non seguire acriticamente tutte le teorie medioevali (come quella, tutt'altro che evidente, che pone la materia come principio di individuazione e considera la capacità di universalizzare come smaterializzazione). Né si deve pensare all'infusione, come già ammoniva Sofia Vanni Rovighi, in termini infantili, come se Dio inviasse dal cielo l'anima spirituale ad un corpo già formato secondo le leggi biologiche. Piuttosto, poiché Dio non è solo il creatore di ciò che Dio non è, ma ne è anche l'attuale condizione ultima di esistenza (creazione e conservazione nell'essere coincidono), si deve affermare - rinunciando a dire il come, visto che non siamo Dio - che la formazione dell'organismo umano si attua quando è presente un'anima spirituale.
Il biologo può ricostruire l'itinerario che conduce alla formazione dell'embrione umano a partire dall'unione dei gameti dei due genitori, ma non può negare, come ricordava Sofia Vanni Rovighi, che se quello è un embrione umano (e non semplice materiale dell'uomo) è un uomo allo stadio embrionale, e un uomo è tale proprio perché ha un'anima umana, ovvero spirituale.
Molto opportunamente, Sgreccia ha evitato di entrare in merito a disamine dettagliate, ma i numerosi riferimenti bibliografici non lasciano però il lettore sprovvisto degli strumenti necessari allo sviluppo di un percorso ulteriore.
Si potrebbe osservare, in margine, che il fatto che persino alcuni addetti ai lavori non siano in grado (perché non possiamo pensare che non vogliano) di risalire alle motivazioni implicite nella presentazione, derivi da una serie di contaminazioni concettuali, attuatesi nel corso dei secoli, che rendono di difficile comprensione il rigoroso e raffinato linguaggio della tradizione scolastica: ha indubbiamente il merito di ricostruire con chiarezza il percorso essenziale dando tutte le indicazioni atte a sciogliere possibili equivoci, ma forse potremmo anche auspicare, per il futuro, una graduale riformulazione terminologica che, senza cedere al rigore e rinunciare allo spessore teorico, tenga conto dell'uso di certe espressioni all'interno del linguaggio comune e, anche, di molta parte del linguaggio filosofico attuale.
A questo proposito, prendendo ora in esame il versante etico, mi sentirei di suggerire un accorgimento che potrebbe aiutare i lettori che non hanno formazione filosofica: penso al termine legge naturale che potrebbe essere integrato con un morale (quindi legge morale naturale). Infatti, nell'uso comune, per legge naturale si intende solitamente la trascrizione delle costanti fenomeniche studiate da alcune discipline scientifiche (e la legge di gravità viene detta legge naturale), mentre nel contesto tomistico la legge naturale esprime la dinamica ontologica dell'uomo come soggetto morale e perciò si identifica con quella recta ratio che permette all'uomo di scoprire la propria finalità e di individuare quei valori che la realizzano.
Lungo la linea, oggi accentuata in modo inadeguato, dell'autonomia del sapere morale, Sgreccia ha posto in risalto il carattere normativo della natura umana: questa impostazione permette al lettore di comprendere anche alcune affinità che si possono sviluppare tra il personalismo classico e l'assioma (di derivazione kantiana) che proclama il valore non strumentale della persona umana, da trattare sempre come fine e mai solamente come mezzo. Ma questa centralità della persona, per non risultare equivoca, ha bisogno di una fondazione e di una chiarificazione. In questo caso si sviluppa la linea tomistica, fondando il valore della persona (e quindi la legge morale naturale) nel creazionismo (la cosiddetta legge eterna, che non va certo confusa con la legge positiva divina).
Anche se di per sé questo riferimento appartiene alla fondazione dell'etica (che oggi si suole denominare metaetica) e quindi non elimina la possibilità di una autonoma conoscenza della dinamica ontologica dell'uomo come condizione per giustificare i valori umani (esprimono quella conformità alla natura umana di cui sono appunto realizzazione), esso è richiesto dalla avvertita necessità di sottrarre l'impegno umano per la costruzione della propria identità morale dalla illusorietà che potrebbe venire introdotta da una concezione metafisica di stampo irrazionalistico o panteistico.
Solo un'epoca imbevuta di deontologismo può infatti ritenere superfluo ritrovare il fondamento ultimo dell'intelligibilità del reale (quest'ultima testimoniata dalla stessa ricerca scientifica): se la realtà fosse frutto di una ceca casualità a che varrebbe questo impegno dell'uomo e per l'uomo? Distinguere la ragione che si interroga sulle ragioni ultime della realtà dalla ragione che ricerca i criteri dell'agire umano non significa infatti proporre due tipi di ragione, ma due tipi di indagini che si compenetrano.
Assolutamente fuori luogo e non pertinente è quindi l'idea che si abbia a che fare con una sorta di biologismo: proprio il riferimento metafisico permette di comprendere come la normatività della natura umana - che comprende anche la dimensione biologica - non sia arbitraria o riduttiva.
Avrebbe senso parlare di biologismo laddove venisse esclusa la teleonominicità della realtà e la valorizzazione della dinamica ontologica dell'uomo fosse ridotta all'enfatizzazione della sua semplice connotazione biologica, frutto di un'opzione che misconoscerebbe la realtà dello spirito come criterio per assegnare un ordine gerarchico ai beni che l'uomo è chiamato a realizzare. Ma la struttura dell'opera di Sgreccia è decisamente estranea a una simile impostazione, come si rileva anche dalle critiche, pienamente condivisibili, che egli rivolge al decisionismo, a cui obietta la fragilità dell'opzione valoriale da cui prende le mosse.
Infatti, il riferimento alla scelta di alcuni valori, come base da cui muovere l'indagine bioetica, non può farci dimenticare che questi valori sono spesso frutto dell'educazione ricevuta e quindi sono segno soltanto di quella pressione sociale che è come una seconda natura dell'uomo. Se, infatti, non si può stabilire la verità o la falsità di un giudizio di valore come è possibile assumerlo a guida dell'azione? Soltanto perché una maggioranza - o una minoranza - dispotica sceglie un certo valore esso deve essere assunto come guida? Questa scelta verrebbe soltanto a costituire nuovi costumi e determinerebbe una nuova pressione sociale, e non potrebbe avere la forza della ragione ma soltanto la ragione della forza, persuasiva o impositiva. Ognuno di noi ha assunto, con il latte materno, anche un certo orientamento valoriale (mediato da una certo linguaggio), ma questo fatto non legittima la consistenza di questi valori: il compito del filosofo è quello di andare a vedere se questi convincimenti, questi pre-giudizi reggono ad un'analisi critica e possono quindi trasformarsi in giudizi. E questo impegnativo compito è assolto soltanto da una ragione ragionante a tutto campo.
È importante fare una breve disamina del non-cognitivismo, per mostrare, nel rispetto di un disegno essenziale, quali siano le vie per superarne il carattere postulatorio (o, per maggior coerenza, dissolutorio, di ogni discorso morale). Sgreccia collega due tesi (la legge di Hume e la critica alla fallacia naturalistica di Moore) all'impianto non-cognitivista: la prima regola aurea si limita a denunciare l'impossibilità di dedurre da semplici fatti dei doveri (e costituisce la via regia per confutare certe linee del positivismo etico).
La seconda, invece, apre le porte all'intuizionismo, facendo del bene, come diceva Moore, qualcosa di analogo al colore giallo e quindi negando la possibilità di conoscere argomentativamente ciò che è bene sulla base dell'asserto che il bene non è una cosa o una qualità naturale.
Le due tesi, a ben vedere, non costituiscono un'obiezione al pensiero tomistico e non portano al non cognitivismo se non sulla base di un altro presupposto, non sempre dichiarato, traducibile nell'asserto che vero o falso sono predicabili soltanto di proposizioni o enunciati descrittivi. A sua volta questa affermazione implica che si possa descrivere soltanto ciò che c'è (il dovere invece rimanda a ciò che non c'è ancora) e trova sostegno nel cosiddetto principio di verificazione, che nella formulazione dello Schlick suona all'incirca così: "il senso di una proposizione si risolve nel metodo della sua verifica". Ora, come è noto, questa stessa proposizione che fissa i confini del senso e perciò la possibilità del vero e del falso, è essa stessa priva di senso (poiché inverificabile).
Soltanto una concezione statica della realtà, che pensa l'essere nell'accezione empirica (come cosa) può pensare che tutte le proposizioni descrittive escludano il riferimento al dover essere. Iniziamo con un esempio banale: quando stabilisco la morte cerebrale di un individuo, affermo che poiché non c'è un certo fenomeno - che dovrebbe esserci - allora il soggetto è morto. Pertanto posso affermare che un uomo vivo deve avere attività cerebrale: da dove deriva questo dovere, questa necessità?
Dai caratteri intrinseci che la medicina ritiene di poter assegnare ad un certo vivente: la verità di questa proposizione deriva dalla verificabilità dell'esistenza di un nesso costante tra la cessazione dell'attività cerebrale e il progressivo venir meno di tutte quelle funzioni che portano, nel tempo, alla stessa dissoluzione corporea. Pertanto, in analogia con questo ragionamento, potrei affermare che l'uomo, considerato come soggetto morale, deve (e si tratta di una necessità particolare poiché implica la possibilità che questo non avvenga, data la presenza della libertà) compiere determinate azioni. Se non le compie, l'uomo continua ad essere ontologicamente uomo ma non è più un soggetto morale (e, entro certi limiti, questo è anch'esso verificabile) ma un soggetto immorale (o, in mancanza di certi requisiti, un soggetto a-morale).
Come in medicina si cerca di stabilire un - ipotetico - nesso necessario (un dover essere) tra certe attività e l'esistenza di un uomo, in morale si cerca di stabilire un - ipotetico - nesso necessario tra certe attività che qualificano l'uomo e la presenza della moralità.
Se, come nel perdonalismo proposto da Sgreccia, il dover essere indica la via per realizzare il fine specifico dell'uomo, la sua piena realizzazione, allora è legittimo passare dall'essere dell'uomo al suo dover essere. Il riferimento al termine ipotetico in etica qualifica infatti l'imperatività che si rivolge ad un soggetto libero, il quale può sottrarsi a questo imperativo: mentre laddove si parla di ipotetica necessità sul piano delle relazioni che intercorrono tra certe condizioni biologiche e certi effetti si esprime semplicemente la condizione conoscitiva di quelle discipline empiriche che non possono individuare, come ricordava già Hume, la necessità ma la costanza di un nesso.
Il termine uomini può essere inteso in senso empirico (in tal modo l'espressione indica gli individui che rubano e quelli che non rubano, che uccidono o non uccidono e così via) ma può essere pensata anche l'essenza dell'uomo o la natura umana propria della persona razionale o la dignità dell'uomo, e allora si può - e si deve - trovare una fondazione razionale per cui tra chi ruba e chi non ruba possa essere stabilita una differenza sul piano morale. Il dover essere ricavato analiticamente dalla natura umana non implica certo che si abbia un'intuizione adeguata di questa natura, ma che si possa inferirla ragionando su quelle inclinazioni ontologiche che la connotano.
Etica ed antropologia si coniugano, infatti, soltanto in una prospettiva teleologica della realtà, poiché, per dirla in sintesi, la moralità è la via con cui la persona umana costruisce nella libertà, e quindi nella consapevolezza, la propria identità, diventando appunto soggetto morale. Il fatto che la bioetica sia sorta in clima d'emergenza operativa e sia spesso sollecitata dalla domanda sul che fare non può legittimare la rinuncia ad una prospettiva globale entro cui formulare una risposta pertinente.
Se la medicina può metodologicamente confinare l'orizzonte delle proprie valutazioni a certi aspetti dell'umano (e in primo luogo ha da dedicarsi alla salute dell'uomo) questo non significa che l'uomo sia definito solo da quegli aspetti, e che la bioetica possa trascurare la domanda costitutiva riguardante non soltanto l'esistere dell'uomo ma il suo senso (significato e direzione).
Del resto l'attività biomedica, come ogni attività scientifica, si attua all'interno di verità il cui fondamento è extra-scientifico (basti pensare al riferimento all'onestà della ricerca, alla fedeltà ai dati rilevati e così via) che trovano nel sapere filosofico la loro collocazione teoretica e la loro specifica analisi: l'insufficienza fondativa della deontologia professionale non coincide con la sua inutilità, ma con la riscoperta delle ragioni entro cui potenziarla, correggerla, ripensarla, svilupparla.
Sgreccia, distaccandosi dal deduttivismo schematico che ha affascinato i cultori del principialismo nordamericano, ricorda la necessità di passare dall'analisi biomedica, condotta con le metodologie appropriate, all'approfondimento antropologico (in cui entrano in campo nozioni di ordine filosofico) per giungere ad una valutazione della situazione che veda coniugato sul campo il sapere scientifico con quello etico, al fine di promuovere un'azione in cui cessi la dicotomia metodologica tra, per così dire, scienza e coscienza morale.
Non è questa l'occasione per approfondire questa linea di metodologia bioetica, in cui si manifesta la consapevolezza che non si salvano i princípi senza salvare la persona umana nella sua integrità e che, reciprocamente, proprio chi salva integralmente la persona umana salva anche i princípi che sono l'esplicitazione teorica di ciò che è conforme al bene dell'uomo.
Vorrei piuttosto soffermarmi su due questioni, non marginali, evocate anche da quanto detto: la prima concerne il linguaggio bioetico, in cui a volte compaiono dei termini-ponte tra discipline diverse (come nel precedente riferimento al compito di salvare l'uomo), che occorre semantizzare per non incorrere in confusioni pericolose. Penso a termini come individualità, corporeità, natura, salute che alcuni bioeticisti di area non cognitivista usano in modo equivoco per avallare tesi pregiudiziali o per equivocare su tesi filosofiche che pure hanno una lunga e solida tradizione. Possiamo forse ignorare che gran parte del nostro linguaggio, sia quello comune sia quello puramente descrittivo è di fatto imbevuto di valutazioni pregiudiziali? (Basti pensare al termine progresso, usato persuasivamente al posto di sviluppo al fine di indurre un atteggiamento favorevole nei confronti di certi interlocutori). Il merito di Sgreccia è quello di dichiarare apertamente, e di motivare l'orizzonte valoriale entro cui i termini filosofici e quelli bioetici trovano la loro specifica semantizzazione: nella fedeltà a questa chiarezza si misurerà sempre più la consistenza epistemologica della bioetica come ambito interdisciplinare.
La seconda considerazione attiene appunto a questa interdisciplinarità: essa può di fatto, piaccia o meno, essere garantita laddove si ritiene che anche la filosofia e l'etica abbiano una propria consistenza metodologica ed una propria identità epistemologica. Ma storicamente questa autonomia della filosofia (e a Husserl che la voleva definire scienza rigorosa Scheler ribatteva che era preferibile mantenerle la semplice edizione di filosofia per non incorrere in equivoci) sembra da molti scordata e negata (anche se poi, come già ricordava Aristotele, per poterla negare argomentando occorre filosofare).
Laddove la filosofia è ridotta ad un'opzione esistenziale che integra dogmaticamente una ricerca sperimentale risulta difficile pensare alla bioetica come ambito di ricerca e di riflessione interdisciplinare e si protende, al più, ad una regolamentazione giuridica (su fondamenti diversi) dell'attività biomedica, invece, ritiene che non si possano e non si debbano confondere i piani e che si debba tornare a pensare secondo una prospettiva architettonica che non rinunci alla fatica delle distinzioni.
Indubbiamente la via intrapresa per proporre un orizzonte etico-antropologico è più complessa di quella che potrebbe formulare (e di fatto formula) chi, magari in nome del non-cognitivismo, si pone dogmaticamente a difesa di tutto quanto la scienza compie (in una sorta di banalizzazione della tesi hegeliana per cui tutto ciò che è reale è anche razionale), o si limita a ribadire una generica professione di fede (razionale?) nella persona umana, salvo poi discriminare gli esseri umani in base a semantizzazione d'occasione.
La bioetica, pur essendo disciplina di recente formazione, ha purtroppo conosciuto anche molte incursioni dilettantesche in cui si è coniugata una specifica formazione scientifica con quel retroterra fatto di buonsenso e vago umanesimo che è il substrato generico dell'occidente: ne è prova l'incapacità di alcuni autori di distinguere i livelli di discorso e le sfumature linguistiche che percorrono i complessi legami tra le discipline che concorrono a formare la bioetica. Il personalismo può essere discusso e criticato: la sua complessa articolazione, fedele alla complessità del reale e alla fatica della speculazione concettuale, non si sottrae all'apporto del confronto e della disamina critica, poiché si situa in un orizzonte conoscitivo pubblico e si sottrae alle ineffabili intuizioni degli intuizionisti e alle opzioni dei non-cognitivisti, nel convincimento (questo sì di tipo dogmatico) che la verità non sia patrimonio esclusivo di qualcuno ma bene condivisibile da tutti, almeno da tutti coloro che la cercano.
Il futuro della bioetica, la sua vivacità speculativa, la sua efficacia normativa, dipenderanno in larga parte dall'impegno di tutti coloro che sapranno dialogare in un contesto interdisciplinare trasformando l'inevitabile pluralismo degli approcci conoscitivi alla realtà nella via comune per raggiungere, nel rispetto delle strutture epistemologiche delle varie forme di sapere, una maggiore comprensione del significato e del valore dell'esistenza umana.