Lo Stato sociale

1. Nozione, storia e crisi dello Stato sociale

1. Sebbene le encicliche sociali non abbiano mai trattato sistematicamente l'argomento dello Stato sociale (detto anche Stato del benessere), tuttavia indirettamente hanno offerto il loro contributo che, a tutti gli effetti, non può essere considerato di secondaria importanza.

Ciò conferma come il mondo culturale cattolico e la Chiesa, anche nei suoi massimi vertici, non siano stati estranei all'elaborazione e all'attuazione di uno Stato democratico dal punto di vista politico, sociale, economico.

Il nostro studio verrà articolandosi in tre parti.

Nella prima si cercherà di illustrare, per sommi capi, il sorgere e il consolidarsi dello Stato del benessere, con particolare attenzione alle cause del suo sviluppo e della sua attuale crisi. Nella seconda parte, analizzando le principali encicliche sociali dei papi, a partire da Leone XIII, si tenterà di verificare, in merito alla figura dello Stato sociale, l'entità e l'originalità del loro contributo, soprattutto propositivo. Infine, nella terza parte, partendo dalla crisi contemporanea dello Stato del benessere, prendendo spunto dalle prospettive additate dai pontefici, si delineeranno alcuni orientamenti, teorici e pratici, per la realizzazione di uno Stato sociale più autentico, per la riforma profonda dell'attuale Stato del benessere.

2. Il termine "Stato sociale" o "Stato di benessere" (Welfare State) ha un significato analogico. Non solo, ma si è anche configurato nella sua realizzazione in varie maniere.

L'espressione Welfare state compare diffusamente negli anni '40 e designa l'Inghilterra laburista dopo la seconda guerra mondiale. In particolare, indica l'assetto complessivo del sistema sociale uscito dalla grande crisi economica e sociale del 1929-1933, e in Europa ha come pilastri fondamentali la teoria generale di J.M. Keynes(vedi nota) (1936) e il rapporto Beveridge (1942). È Beveridge che preferisce chiamare lo Stato del benessere come "Stato del servizio sociale" (Social Service State).

A. Briggs(vedi nota), nel 1961, tenendosi prevalentemente sul versante socio-economico, dopo che il Welfare state, tramite graduali universalizzazioni di servizi e di assicurazioni sociali era divenuto più adulto, propose di definirlo come quello Stato che si organizza mediante la politica e l'amministrazione in modo tale che gli individui e le famiglie possano godere di un reddito minimo e di una sicurezza sufficiente per fronteggiare malattie, vecchiaia e disoccupazione e che tutti i cittadini, senza distinzione di classe e di posizione sociale, possano godere dei migliori standards di vita, ottenibili in relazione ad una gamma convenuta di servizi sociali.

H. Wilensky(vedi nota), nel 1975, afferma che l'essenza del Welfare state "consiste nel fatto che il governo assicura standard minimi di reddito, alimentazione, salute, alloggio e istruzione ad ogni cittadino come diritto politico e non come carità".

P. Donati(vedi nota) osserva giustamente che il Wilensky, nella sua definizione, parla di diritto "politico" anziché di diritto "sociale" com'è nella tradizione europea, e che prescinde dalla forma politica del sistema. Il Welfare state sarebbe così identificato, riduttivamente, con la spesa sociale, mentre non si dà rilievo necessario alle importanti questioni morali, economiche, politiche che sono da esso implicate.

È soprattutto per queste ragioni che lo stesso P. Donati avanza una sua definizione di Welfare state: sarebbe quel sistema politico-amministrativo che si orienta a "liberare la popolazione dai bisogni sociali fondamentali (assicura, cioè, livelli minimi di sussistenza), assumendo tale obiettivo come compito specifico dello Stato parlamentare.

Proprio questo fatto merita qui una particolare attenzione. Infatti, esso ci consente subito di sgomberare il campo da alcuni pregiudizi, oggi abbastanza diffusi, nei confronti dello Stato del benessere. Secondo alcuni lo Stato del benessere non può che essere, quasi per natura intrinseca, uno Stato inefficiente, improduttivo, di spesa sociale illimitata e incontrollata. Sta di fatto, però, che dalla storia stessa dello Stato del benessere risulta chiaramente che esso sorge originariamente come mezzo per amministrare, saggiamente e razionalmente, una situazione economica di scarso sviluppo del reddito e della produzione; per governare una crisi finanziaria con effetti di penalizzazione degli strati sociali più poveri e più deboli; per limitare e ripartire equamente i costi di una situazione economica e sociale difficile; per orientare gradualmente la vita sociale ed economica nella direzione del miglioramento della qualità della vita per tutti, tramite lo sviluppo e il concorso di tutti. Il riformismo sociale e la politica sociale dello Stato del benessere, ideato fra le due guerre mondiali, non partivano dal presupposto di un'alta produttività esistente e da un surplus di ricchezza nazionale, tanto meno miravano a reggersi su una logica di spreco delle risorse.

3. Lo Stato del benessere affonda le sue radici ideologiche in una cultura di solidarietà, di uguaglianza, di sviluppo umanistico, che non ha nulla da spartire con l'inattività, la dissennatezza amministrativa, l'assistenzialismo paternalistico, il corporativismo egoistico. Difetti ed eccessi che oggi sono, in varia misura, fin troppo reali.

Di tutto ciò si può trovare una qualche conferma indiretta anche nella prima parte della sua storia, che alcuni studiosi fanno risalire agli ultimi decenni del secolo scorso.

Lo Stato del benessere, fino agli anni '20 di questo secolo, è caratterizzato dall'introduzione dell'assicurazione obbligatoria. Essa inizialmente copriva gli infortuni sul lavoro e poi, gradualmente, fu estesa alla malattia, all'invalidità, alla disoccupazione e alla vecchiaia, venendo così a sostituire le tradizionali leggi sui poveri, che venivano concepite come elargizioni concesse a persone ritenute sostanzialmente immeritevoli.

L'assicurazione sociale obbligatoria cercò di istituire programmi di assistenza su scala nazionale, che standardidazzavano, pianificavano e garantivano le risorse con cui far fronte alle principali avversità economiche e sociali. Con essa i lavoratori aiutavano se stessi mediante il pagamento dei premi all'assicurazione statale. Tale assicurazione assunse anche la valenza di strumento di regolazione del libero mercato, del meccanismo della domanda e dell'offerta di lavoro, in quanto consentiva ai disoccupati di essere in condizione di non cedere ai ricatti di salari di fame.

Il partito operaio la incluse nel suo programma politico e fu così che l'assicurazione obbligatoria fece dapprima la sua comparsa in Germania, Austria, Finlandia, Svezia e Italia, e solo successivamente in Inghilterra, Francia, Belgio e Olanda.

4. In una seconda fase, detta fase di consolidamento (1930-1950), avviene il passaggio dalla nozione più ristretta di assicurazione dei lavoratori a quella più ampia di assicurazione sociale. E questo perché il catalogo dei rischi venne allargato, e poi anche perché si inclusero, oltre ai lavoratori dipendenti, altri segmenti di popolazione, come ad es. i lavoratori agricoli, i familiari degli stessi lavoratori. Basti pensare al caso emblematico dell'istituzione degli assegni familiari, che è una forma di assicurazione la cui titolarità spetta al capofamiglia lavoratore ma le cui prestazioni sono erogate in base al numero dei familiari inattivi.

Ma, in tutto questo e al di là di tutto questo, va segnalato il profondo cambiamento "ideologico" con cui le varie parti sociali, specie quelle abbienti e più influenti, hanno affrontato l'instaurazione di un sistema di assicurazione sociale. La grave crisi economica del 1929, il crollo della concezione tradizionale dell'economia, la progressiva emancipazione delle masse popolari e dei lavoratori, una più diffusa crescita sociale e democratica, fecero maturare un diverso atteggiamento nei confronti della politica sociale. Si cessò di considerarla una deviazione nociva e fallimentare dalle leggi economiche. Anzi, entrò nella mente dei più, marxisti, cattolici, liberali, la convinzione che essa era utile per tutti, ricchi e poveri.

Inoltre, nel campo dell'assicurazione sociale, accanto alla tradizionale idea del risarcimento in base ai contributi versati, comparve quella di una protezione minima in base ai bisogni. Per tutto questo si poté attuare un insieme più strutturato e più adeguato di politiche sociali, senza tuttavia raggiungere ancora un sistema omogeneo. Crebbe, da parte dello Stato, un impegno più diretto nei confronti dell'occupazione, della casa, dell'istruzione e della sanità. Si giunse al punto che nel pagamento dei contributi assicurativi concorsero in varia misura, oltre ovviamente i lavoratori, lo stesso Stato e i datori di lavoro.

È da ascriversi anche alla seconda fase il passaggio dallo Stato di assicurazione sociale allo Stato di sicurezza sociale, che è un suo perfezionamento.

Rispetto allo Stato di assicurazione sociale, lo Stato di sicurezza sociale presenta due fondamentali differenze. Innanzitutto intende fornire protezione a tutti i cittadini, e non solo a coloro che si sono assicurati. In secondo luogo, le sue prestazioni vogliono corrispondere a un minimo nazionale, ritenuto indispensabile per condurre una vita dignitosa, e sono perciò largamente indipendenti dai contributi assicurativi versati.

In questo modo si realizza una protezione minima per tutti i cittadini in base ai bisogni, così da poter meglio far fronte agli sconvolgimenti economici ricorrenti.

5. La terza fase è quella dell'espansione dello Stato del benessere. In Italia inizia negli anni '70, mentre in altri paesi europei era già in atto dagli anni '60 e coincideva con uno sviluppo economico senza precedenti.

In questa fase si realizza un modello particolare di Welfare state: il modello di Stato assistenziale. Quest'ultimo succede (anche se il più delle volte si mescola con esso) a un altro modello particolare di Welfare state, ovvero il modello dello Stato riformista.

Il modello assistenziale è caratterizzato da un netto aumento delle spese di welfare (dal '60 al '75 sono cresciute quasi del doppio rispetto all'incremento del reddito nazionale), relative a servizi socio-sanitari, assistenziali, educativi e a consumi collettivi calmierati o gratuiti. Tendenzialmente vuole rispondere a tutti i bisogni del cittadino: sia ai bisogni "poveri" di natura materiale, sia ai bisogni "ricchi" d'ordine psicologico, affettivo, estetico, politico e culturale, il cui soddisfacimento nel modello di Stato riformista era lasciato alla libera iniziativa dei singoli. Il criterio principale di erogazione delle sue prestazioni non è la previdenzialità (che offre il proprio servizio a chi lavora o ha lavorato), ma la sicurezza sociale. Secondo questo criterio, fondamento e misura delle erogazioni è l'esistenza di cittadini-persone in stato di bisogno, indipendentemente dalla loro capacità lavorativa e contributiva.

Così gli interventi dello Stato non sono più riferiti allo status di lavoratore, bensì allo status di cittadino. Essi hanno una funzione preventiva e costitutiva invece che semplicemente reattiva e reintegrativa. L'obiettivo generale dell'impegno finanziario dello Stato assistenziale è quello di garantire per ogni cittadino, più che l'eguaglianza delle opportunità, l'eguaglianza di status, ossia un certo livello minimo di reddito, consumi, stile di vita, prestigio per tutti.

La modalità di copertura delle erogazioni non è la capitalizzazione, modalità tipica dello Stato riformista (le prestazioni di un certo periodo sono finanziate tramite contributi pagati nello stesso periodo e i frutti delle riserve costituite con contributi versati in periodi antecedenti). È, invece, ciò che la scienza economica chiama ripartizione. Per il finanziamento delle prestazioni si conta solo sulle entrate correnti, procurate con interventi ad hoc di politica fiscale, svincolati dal riferimento al rapporto razionale tra contributi e benefici di sicurezza sociale. In tal modo i crescenti oneri di sicurezza sociale vengono fatti gravare anche sul reddito futuro della collettività. Al fine di soddisfare i bisogni del cittadino, il ruolo dello Stato assistenziale, rispetto alla famiglia e all'economia di mercato, è centrale e tende a sovrapporsi alle loro iniziative.

6. La terza fase, oltre che fase di espansione, diviene fase di deterioramento del Welfare state o, almeno, di allontanamento dai paradigmi classici beveridgiani. Lo Stato, anche per la cattiva applicazione di una politica economica, che da alcuni è stata contrabbandata come keynesiana, si accolla per certe categorie di lavoratori dipendenti, specie per categorie di statali o di gruppi più vicini ai centri decisionali, oneri che vanno al di là del minimo uniforme (garantito a tutti, a parità di bisogno, anche senza previ accertamenti) di pensioni, di educazione, di cure sanitarie, di assistenza e di sicurezza sociale. S'instaura, nell'ambito delle erogazioni e delle prestazioni di Welfare state, un sistema che può essere definito particolaristico-clientelare-assistenzialistico, favorito in Italia soprattutto dai partiti a fini di legittimazione e di consenso "barattati ".

La politica sociale, in conseguenza di uno sviluppo economico sostenuto, viene praticata quale semplice predicato ed appendice di una situazione economica di complessiva opulenza nazionale, per distribuire la ricchezza accumulata. In tal modo essa perde una connotazione originaria: quella di essere mezzo di sostegno e di risoluzione delle crisi economiche ricorrenti mediante l'equa ripartizione dei costi fra tutte le parti sociali.

Così l'etica di solidarietà, motivo ispiratore della politica sociale, si tramuta gradualmente in etica neocorporativistica, individualistica. L'estensione progressiva, poi, delle attività e delle iniziative statali nella società civile e nell'economia, fa sì che lo Stato divenga sempre più amministratore, datore di lavoro, controparte contrattuale, un primus inter pares, a scapito della sua funzione propriamente politica supra partes. I corpi intermedi di rappresentanza e di partecipazione, primi fra tutti i partiti e i sindacati, si allontanano dal loro ruolo di canali collettori di una domanda sociale e politica da rappresentare e da armonizzare con le esigenze del bene comune.

Quest'impostazione dello Stato del benessere, cammin facendo, anche in concomitanza, negli anni '70, degli sbalzi nel prezzo del petrolio e del dollaro, della riduzione, a livello mondiale, del tasso di crescita dello sviluppo economico, sfocia e si esprime in una crisi valoriale-ideologica, strutturale, funzionale, distributiva, fiscale, produttiva. Si riscoprono le diseguaglianze sociali. L'intermediazione burocratica, necessaria per gestire servizi pubblici di welfare, che assorbe una quota cospicua della spesa pubblica, di fatto favorisce gli operatori del settore, cioè i ceti medi, anziché i destinatari bisognosi e meno abbienti. I trasferimenti pubblici per sicurezza sociale, per servizi e consumi pubblici, così come i prelievi tributari e contributivi, non avvengono secondo priorità di bisogni e di redditi. La spesa pubblica, in gran parte assorbita dalla spesa di sicurezza sociale e di benessere, lascia poco per l'incentivazione della produttività e dell'imprenditività nuova.

L'aumento delle spese sociali richiede un drenaggio fiscale che cresce ad un ritmo superiore a quello delle risorse economiche, con la conseguenza che, se da una parte si avanzano nuove domande di maggiori soddisfazioni da un punto di vista sociale e di benessere, dall'altra le stesse parti sociali richiedenti sono restie a che lo Stato si appropri di una percentuale sempre maggiore delle risorse produttive. La centralità dello Stato, che si esprime molte volte mediante un sistema burocratico impacciato, pletorico, assistenzialistico, finisce per coartare la libertà e per ingenerare disimpegno, deresponsabilizzazione, disincentivazione dell'iniziativa individuale e sociale. L'obiettivo dell'eguaglianza di status fra i cittadini, perseguito mediante una politica di sicurismo ad oltranza, senza tener conto della necessità di un rapporto razionale tra prelievo fiscale e spesa pubblica, conduce sia ad ignorare il merito e il dovere del cittadino di autopromuoversi sia ad un consumo arbitrario delle risorse senza serio pensiero del futuro.

4.1.1

2. Il pensiero della Chiesa

Dal canto suo la Chiesa non ha mancato di offrire il suo contributo alla soluzione della crisi, mantenendosi sul proprio specifico piano etico-religioso: "la luce del Vangelo, infatti, illumina anche i progetti di funzionamento dello Stato, in quanto le stesse strutture istituzionali chiamano in causa un'antropologia, ossia una concezione dell'uomo e della società, ed esercitano il loro influsso sulla vita delle persone".(vedi nota)

Intanto la Chiesa è convinta che "per il cristiano lo Stato sociale costituisce una realtà necessaria. Per esso si intende quella convivenza umana che si struttura su tre principi fondamentali, tra loro inscindibili: la sussidiarietà, la solidarietà, la responsabilità. Questa prospettiva oggi richiede di essere decisamente collocata nell’orizzonte della mondialità, per cui il bene comune, la sussidiarietà, la solidarietà e la responsabilità vanno concepiti e riprogettati in riferimento a tale orizzonte, che si presenta con il volto nuovo di una società multirazziale, multiculturale e multireligiosa".(vedi nota)

Parlando di Stato sociale, i documenti della Chiesa distinguono il "piano ideale", cioè la visione integrale dell'uomo e il riconoscimento dei diritti di cittadinanza e dei diritti sociali, che lo Stato sociale deve garantire, dal "piano politico-organizzativo", cioè dal sistema di regole con cui lo Stato interviene di fatto per equilibrare il gioco delle libere forze di mercato, per garantire agli individui e alle famiglie un reddito vitale minimo e i servizi sociali essenziali, per assicurare - specialmente alle fasce più deboli - le necessarie previdenze: la indennità di disoccupazione, l'assistenza agli invalidi civili, soprattutto le prestazioni sanitarie e le pensioni sociali.

Ebbene, ciò che oggi è entrato in crisi - spiega Giovanni Paolo II nel discorso del 25 aprile 1997 alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali - non è l'aspetto "ideale" del Welfare State. Già il Concilio Vaticano II ne aveva affermato la validità, sostenendo la necessità di creare "una rete di istituzioni sociali per la previdenza e la sicurezza sociale", vegliando peraltro "affinché i cittadini non siano indotti ad assumere di fronte alla società un atteggiamento di passività o di irresponsabilità" (Gaudium et Spes, n. 69). Oggi ancora - insiste il Papa - è "essenziale che l'azione politica assicuri un equilibrio di mercato nella sua forma classica, mediante l'applicazione dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, secondo il modello dello Stato sociale" (Discorso cit., n. 4).

Invece è entrata in crisi la "organizzazione" politica e amministrativa, attraverso cui si è tentato fin qui di realizzare l'"ideale". Perciò prosegue il Papa - occorre rivedere non l'"idea", ma il "funzionamento" dello Stato sociale: "Se quest'ultimo funzionerà in maniera moderata, eviterà anche un sistema di assistenza eccessivo, che crea più problemi di quanti ne risolva. Se così farà, sarà una manifestazione di civiltà autentica, uno strumento indispensabile per la difesa delle classi sociali più sfavorite, spesso schiacciate dal potere esorbitante del mercato globale"" (ibid.).

Scrive B. Sorge(vedi nota): "È importante questa distinzione, per evitare di ridurre il discorso sullo Stato sociale ai suoi soli dati quantitativi ed economici. Questi, certo, nessuno li nega. Infatti, da un lato, l'evasione fiscale ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la finanza pubblica, sulla cui solidità avrebbe dovuto basarsi il sistema di protezione sociale; d'altro lato, la partitocrazia e il dilagare della illegalità amministrativa, aggravati da una burocrazia elefantiaca e inefficiente, hanno favorito la degenerazione dello Stato sociale in Stato assistenziale e clientelare, portando alle stelle il debito pubblico e generando squilibri inaccettabili e insostenibili nella ripartizione delle provvidenze: dei quasi 450 mila miliardi (tanto "costa" oggi lo Stato sociale in Italia), il 60% del totale va alle pensioni, il 20% alla sanità, e il residuo 20% si disperde in numerosi altri rivoli.

Nello stesso tempo, il declino della natalità e l'allungamento della vita media hanno modificato profondamente la struttura demografica della popolazione. Secondo le ultime previsioni ISTAT, nel 2020 in Italia la popolazione anziana (da 65 anni in su) costituirà il 23% di quella totale, e si avranno 36 anziani ogni 100 soggetti in età attiva (tra 15 e 64 anni) e 179 anziani ogni 100 soggetti sotto i 15 anni. Tuttavia, il problema non è tanto l'invecchiamento della popolazione, quanto il saldarsi di questo fenomeno con l'abbassamento dei tassi di natalità e di attività lavorativa.

Se poi si aggiunge l'aumento della disoccupazione strutturale, dovuto alla introduzione delle nuove tecnologie nei processi di produzione e di distribuzione, e aggravato dalla fortissima competitività determinata dalla globalizzazione dei mercati, nonché dalla tendenza a privilegiare gli investimenti finanziari rispetto a quelli produttivi, si ha un quadro eloquente delle gravi difficoltà che hanno reso inservibile la vecchia organizzazione politico-amministrativa dello Stato sociale".

 

4.2.1

3. Quali prospettive?

Scrive ancora B. Sorge: "Occorre perciò reagire con forza e prendere una posizione netta di fronte ai tre diversi atteggiamenti culturali con cui oggi si affronta la riforma dello Stato sociale.

Il primo atteggiamento, a tendenza radicalmente neoliberista, contesta la necessità dell'intervento pubblico e di un sistema di sicurezza sociale, che si vorrebbe perciò "tagliare" drasticamente o addirittura abolire. Questa posizione è inaccettabile, perché nega in pratica i principi fondamentali di giustizia sociale e di solidarietà, che soli garantiscono una convivenza civile e la pace sociale, impedendo agli interessi "forti" di prevalere su quelli "deboli".

Il secondo è l'atteggiamento opposto di chi invece vorrebbe mantenere lo Stato sociale così com'è, rigettando ogni ipotesi di riforma strutturale come un tentativo di espropriare i cittadini dei propri "diritti acquisiti". Anche questa posizione è da rigettare, perché si fonda su una logica sostanzialmente egoistica ("chi ha avuto ha avuto"), che finisce con il difendere gli interessi corporativi più forti, a scapito di quelli delle categorie più deboli e senza voce in capitolo.

Il terzo atteggiamento, infine, è quello di quanti ritengono che occorre sì mantenere lo Stato sociale, ma mettendo mano decisamente alla sua riforma strutturale, riqualificando la spesa sociale e armonizzando in modo nuovo efficienza e solidarietà, mercato e Stato, privato e pubblico.

La Chiesa italiana non esita a schierarsi con questi ultimi, fautori del rinnovamento. "Lo Stato sociale si trova oggi al centro del dibattito sulla crisi della finanza pubblica: la sua eccessiva espansione è stigmatizzata da alcuni come la causa maggiore ditale crisi; da altri invece sorgono resistenze all'intervento per risanare la crisi del bilancio e del debito pubblico, con la motivazione che un simile intervento finirebbe per compromettere le conquiste dello Stato sociale". (vedi nota)

Ora, di fronte a queste opposte posizioni, la Chiesa ritiene invece che occorra intraprendere una coraggiosa revisione del Welfare State. Non basta dire che si è d'accordo sull'"ideale", ma occorre elaborare una "organizzazione" politico-amministrativa strutturalmente diversa, che oltre alle istituzioni coinvolga pure i cittadini: "Un nuovo Stato sociale prosegue il documento -non può essere governato solo da un centro pensato come vertice della società, né può essere forgiato dalla 'mano invisibile" del mercato. Il binomio Stato-mercato, che ha costitutito l'asse portante di tutta la società moderna e su cui si sono retti i regimi di Stato sociale nel secondo dopoguerra, non è più sufficiente né adatto. È necessario far intervenire un terzo polo, il cosiddetto terzo settore o privato-sociale, costituito da libere associazioni, volontariato, cooperazioni di solidarietà sociale, fondazioni e organizzazioni varie del tipo non-profit".(vedi nota)

In altre parole, la Chiesa auspica che la vecchia forma organizzativa del Welfare State lasci il passo a una nuova struttura di Welfare Society, cioè a un sistema di sicurezza sociale, in cui mercato e Stato siano integrati da un terzo soggetto, grazie alla partecipazione responsabile del cosiddetto terzo settore, riconosciuto come vero soggetto sociale. Infatti, "la vasta area già esistente di organizzazioni non-profit, se potenziata e resa più autonoma, può migliorare e qualificare in modo nuovo la vita sociale. Essa dev'essere messa in grado di agire come soggetto sociale libero e responsabile" .(vedi nota)

Si tratta di un modo nuovo di concepire e di attuare la politica sociale, grazie all'intervento creativo della società civile, funzionante come terzo polo, accanto al mercato e allo Stato, con pari dignità nei confronti dell'uno e dell'altro. "Questo terzo polo - conclude il documento della CEI - si presenta oggi come il più dinamico, attivo e capace di assorbire l'insufficienza di regolazione che c'è nel mercato, così come l'alienazione di una società burocratizzata per via statuale, nella prospettiva di una democrazia più piena e nello spirito della dottrina sociale della Chiesa, i cui principi sono in buona parte presenti anche nella stessa Costituzione della nostra Repubblica".(vedi nota)

Pertanto, il compito del terzo settore nella nuova Welfare Society non sarà più - come oggi - quello di occupare gli spazi che lo Stato non riesce a coprire o che il mercato non ha interesse a gestire; il suo contributo sarà insostituibile e consisterà soprattutto nel recupero di valori e di esigenze essenziali della società civile (il rispetto della vita, la solidarietà, l'inserimento sociale degli emarginati), attraverso la partecipazione responsabile delle varie comunità della stessa società civile (famiglie, enti culturali, confessioni religiose, cooperazione, associazionismo, volontariato) alla programmazione e alla gestione della politica sociale.

In conclusione, per la Chiesa lo Stato sociale è un "ideale" necessario, però da ristrutturare secondo i principi fondamentali (tra loro inscindibili) di sussidiarietà, di solidarietà e di corresponsabilità, valorizzando pienamente le espressioni della società civile. Non più dunque il vecchio modello del Welfare State assistenziale e clientelare, ma la nuova Welfare Society dei cittadini e delle comunità".(vedi nota)

 

Capo V

Necessità della grazia per un perfetto ordinamento sociale

1. Necessità dell'integrazione della grazia

È necessario anzitutto ricordare che la carità non può sostituire la giustizia, ma la prerichiede, secondo il noto assioma teologico "gratia non destruit, sed perficit naturam".

Per perfezionarla, la presuppone.

Nel secondo scorso la scuola di Angers cadde nell’errore di pensare che la carità potesse sostituire la giustizia. Si diceva sostanzialmente: Dio permette nel mondo la miseria. I ricchi si salvano l’anima attraverso la carità e la beneficenza, i poveri pazientando e rassegnandosi.

Ma va ricordato che la carità, proprio in quanto è conformità con la volontà di Dio, non può sopportare che qualcuno non abbia o non possa fruire di quei beni che Dio gli ha dato perché possa realizzare la propria perfezione.

Pio XI, nella Divini Redemptoris, in termini molto forti ha detto: "Ma la carità non sarà mai vera carità se non terrà sempre conto della giustizia... Una carità che privi l’operaio del salario a cui ha stretto diritto, non è carità;, ma un vano nome e una vuota speranza di carità. Né l’operaio ha bisogno di ricercare come elemosina ciò che a lui tocca per giustizia; né si può tentare di esimersi dai grandi doveri imposti dalla giustizia con piccoli doni di misericordia" (n. 49).

E Pio XII: "Per essere autentica e vera, la carità deve sempre tener conto della giustizia da instaurare e non accontentarsi di mascherare disordini e insufficienze d’una ingiusta condizione".(vedi nota)

Si tratta di una dottrina costante nella Chiesa. Già S.Agostino aveva detto: "Non ci dobbiamo augurare che esistano dei disgraziati per avere la possibilità di compiere delle opere di misericordia.

Tu doni il pane a chi ha fame; ma meglio sarebbe che nessuno avesse fame e che tu non ne facessi dono a nessuno. Tu vesti chi è nudo; ma se tutti fossero vestiti e non vi fosse in modo assoluto tale necessità?...

Tutti questi servizi in effetti rispondono a delle necessità. Sopprimi i disgraziati: se ne saranno compiute opere di misericordia! Il fuoco dell’amore si spegnerà allora? Anzi, sarà più autentico l’amore che porterai a una persona felice, che tu non puoi obbligare in niente; questo amore sarà più puro e più schietto. Perché se tu obblighi un disgraziato, può essere che desideri di innalzarti di fronte a lui, che tu voglia magari che chi ti ha provocato a fare del bene, sia sotto di te... Auguragli invece di essere un tuo pari: siate sottomessi insieme a Colui che non può essere obbligato a nessuno".(vedi nota)

- Se la carità presuppone la giustizia, tuttavia la giustizia non ha le risorse adeguate per costruire un ordinamento sociale perfetto.

Se non fosse sufficiente l'esperienza della debolezza umana a confermarne la necessità, almeno per fede si deve ritenere che l'uomo con le sue sole forze non può compiere tutto il bene e adempiere perfettamente i comandamenti (DS, 1572).

Ciò significa che con le sue sole forze l'uomo non può costruire un ordine temporale perfetto.

La sola giustizia, che è la forma minima dell'amore, non è perfetta se non è integrata dalla grazia. Tanto meno può provvedere e rimediare a tutto. Diceva S. Agostino: "Non vivunt bene filii hominum, nisi effecti filii Dei".(vedi nota)

Di fatto, dopo il peccato originale, l'uomo può conoscere e realizzare pienamente se stesso solo in Cristo (GS 22).(vedi nota) Non si può dimenticare che tante debolezze sono congenite alla natura umana e che la giustizia è tentata spesso da ripiegamenti egocentrici e, anche quando viene applicata, talvolta non va al di là del freddo calcolo, mentre di suo, per essere virtuosa, richiederebbe di essere animata dall'amore.

Ci si chiede allora come si possano "colmare i dislivelli e avvicinare e unire tra loro gli individui e i gruppi, come supplire e rimediare alle separazioni, agli scompensi, alle sperequazioni che la stretta giustizia non impedisce, fors'anche favorisce, e animarla nella sua dilatazione sociale".(vedi nota) Si rende necessario allora un supplemento d'amore, dato da Dio con la carità. Essa ha per oggetto Dio, amato in se stesso e per se stesso. In tal modo l'amore umano rafforza se stesso nell'amore di Dio e si orienta a stabilire un ordine perfetto, alieno da ogni ingiustizia o acceptio personarum.

Diceva La Pira che se nella società si procedesse solo con lo stretto rigore di giustizia, che esige "occhio per occhio e dente per dente" (Es 21,24) secondo la legge del taglione, a quest'ora tutti saremmo ciechi e sdentati!

La giustizia sociale viene così ad essere realizzata non per pura obbedienza alla legge, ma per un'intima convinzione, animata da amore fraterno. "La nuova legge della carità fa parte di una giustizia superiore che eleva e perfeziona la giustizia terrena in tutte le sue forme e specialmente in quella della giustizia sociale. La vita sociale moderna, nonché abolirla o combatterla, postula la carità come anima immanente, che estende la sua azione oltre i limiti segnati dal diritto positivo per ottenere nel modo più pieno e vitale il bene comune e vincere la fatale tentazione a ridurre sempre più il margine di ciò che è dovuto al prossimo".

5.1.1

2. Bisogno avvertito da tutti

Di un supplemento di anima o di amore per riscaldare i rapporti sociali e per favorire la promozione del bene comune tutti hanno avvertito l'esigenza e, a modo loro, hanno tentato di portarvi rimedio.

I liberali hanno espresso tutto questo con il paternalismo o filantropia, concretata nella beneficenza.

Osserva R. Spiazzi: "Nella particolare contingenza sociale, poteva essere necessario attuare la beneficenza oltrepassando le divisioni delle confessioni religiose, mentre la sua pubblicizzazione rispondeva forse a una prima presa di coscienza dei compiti assistenziali dello stato; ma fu un errore incamerare i beni delle opere caritative, burocratizzarle, statalizzarle (prima forma, si può dire, di statalismo nel campo sociale), mentre lo stesso scopo benefico, anche in sede laica, si poteva ottenerlo con maggiore sicurezza ed efficacia potenziando le iniziative e le organizzazioni già operanti". (vedi nota)

I totalitaristi (di sinistra e di destra) hanno manifestato l'esigenza di un supplemento d'anima già nell'appellativo dato agli altri membri della società, chiamati "compagni" o "camerati". Hanno poi favorito il senso di appartenenza ad una classe o ad una nazione. Come si è visto, in questa solidarietà erano nascoste molte ambiguità, foriere di lotte contro altre persone e nazioni.

Giustamente è stato fatto notare che la solidarietà, se non è integrata dalla grazia, sta alla carità come la leucemia sta alla salute".(vedi nota)

E "credere che la solidarietà indettata da madre natura sopravviva e vinca ancora, quando si fa sfrenata concorrenza verso l'interesse singolo, è farsi una dannosa illusione".(vedi nota)

Urge pertanto la carità, "la quale non sostituisce affatto la giustizia, ma le dà un fondamento, perché quando la giustizia costa, a compierla è necessario l'amore. E se si attende di giustificare l'amore in terra, mai si arriva; perché l'amore senza contropartite terrene ha la sua giustificazione solo in Cielo". (vedi nota)

5.2.1

3. Che cosa deve animare la carità

"In passato la carità era soprattutto "supplenza" della giustizia; di qui anche la funzione suppletiva della Chiesa nel campo dell'assistenza, come in quello sanitario, scolastico, ecc...

La carità operava piuttosto l'elevazione della liberalità che non l'animazione e la dilatazione della giustizia.

Oggi la carità, secondo le esigenze dell'evoluzione socio-culturale in corso, commisurate ai bisogni e rilevate dalla nuova coscienza sociale dei popoli, diventa un sentimento di solidarietà e di fraternità che si traduce nell'impulso di azione e di collaborazione per attuare anzitutto la giustizia anche in quelle forme sociali che impegnano lo stato moderno, ma sempre sopravanzandola, perché la carità porta a dare oltre il richiesto sia agli individui, sia alle classi, sia ai popoli interi" (vedi nota)

Concretamente, in primo luogo la carità anima la solidarietà, integrandola con la fraternità in Cristo: "La fraternità è più forte delle ragioni avverse e può resistere nell'amore ad onta delle ragioni smontanti, perché il motivo dell'amore di Dio vale per tutti più di tutti e si sostituisce vittoriosamente a tutte le ragioni in contrario. Infatti se motivo della fraternità fosse la vicinanza, la consuetudine, la simpatia, la convenienza, l'interesse, la bontà dei simili, la loro levatura morale, la bellezza,... potrebbe in qualche momento mancare il motivo e mancare la fraternità. È difficile amare sempre gli uomini, se il motivo per amarli non è superiore ai loro difetti e alle loro inefficienze. Dio è sempre amabile, è sopra ogni cosa infinitamente amabile, ed allora per amore di Dio si possono amare tutti i suoi figli, qualunque presentazione abbiano. Come riuscire ad amare gli assassini, i ladri, gli impostori, se questo non lo si fa per amore di Dio? La fraternità non può vivere tra gli uomini senza l'amore di Dio. D'altra parte per fare pace tra gli uomini non basta una fraternità che discrimini i buoni dai cattivi, i seri dagli sciocchi e così via..., perché tale fraternità servirebbe più a dividere che ad unire.

Così la fraternità, appoggiata all'amore di Dio, è libera da ogni complesso di inferiorità dinanzi ai peccati e alle deformità degli uomini. Diciamo libera, perché la presenza del peccato o della deformità morale e fisica non la obbliga a retrocedere, o ridursi a farsi turbata e rabbiosa".(vedi nota)

Soltanto la motivazione teologale ("Egli ci ha amati per primo quando ancora gli eravamo nemici") è in grado di far cadere tutte le possibili riserve che impedirebbero la nostra benevolenza verso gli altri e (specialmente) verso i nemici.

L'incolmabile debito che abbiamo verso Dio annulla tutte le possibili pretese di giustizia "punitiva" nei confronti dei nostri nemici; il pensiero che i "conti" verso i nostri "debitori" dobbiamo saldarli con Dio capovolge la nostra prospettiva di giustizia e da "creditori" passiamo al ruolo di " debitori" verso tutti. E così che la carità anche verso i peggiori nemici diventa possibile e doverosa.

Integra la solidarietà anche con il perdono: "La fraternità nella mente di Gesù non la si distacca dalla legge del perdono. La legge del perdono non obbliga a rinunciare alla giustizia e ad aprire le porte ai malfattori: stabilisce però uno spirito di comprensione e di generosità anche quando si deve rimanere nel campo della giustizia. Esso porta sempre a vincere il male con il bene".(vedi nota)

Rafforza la solidarietà nella comunione: "La fraternità integralmente intesa impone tra gli uomini la comunicazione del benessere e tende naturalmente a diminuire le distanze tra loro. La comunicazione del benessere è dunque un dovere stretto e stabilisce la luminosa posizione del cristianesimo nel campo sociale. I fratelli comunicano tra loro qualcosa del principio della vita e questa comunicazione porta ad una assimilazione nel resto...

La comunicazione del benessere avverrebbe tra gli uomini senza bisogno di intervento della legge o dei pubblici poteri, se gli uomini fossero santi...

Il benessere non è fatto solamente di beni di consumo, ma comprende ogni realtà anche spirituale di cui possono avvantaggiarsi gli uomini: dignità, libertà, responsabilità, onore, partecipazione alla cosa pubblica, istruzione, educazione...

Il primo bene è Dio. Il benessere vero per gli uomini è il possesso di Dio, sommo bene... L'altro bene che essi debbono comunicare agli altri sono essi stessi. Come?

Gesù ci ha insegnato ad amare e ce lo ha insegnato anzitutto amando Lui gli uomini. Ha fatto così: ha reso se stesso, Dio, anche Uomo, ossia ha fatto di sé quello che sarebbe stato salvezza, vita e gioia degli uomini. Si amano gli altri rendendo buoni se stessi per amore di Dio, affinché gli altri stiano bene. Una simile verità sposta completamente l'angolo di visuale di questo mondo. Basta col pensare che ai fratelli si debba dare solo qualche vile cosa: dobbiamo dare noi stessi.

Questo premesso, il benessere da comunicare ai fratelli, nella forma più larga possibile, comprende tutti i valori che hanno onesto corso tra gli uomini: libertà, educazione, istruzione, scienza, arte, onore, dignità, responsabilità, partecipazione alla cosa pubblica e finalmente tutti i beni materiali di consumo con le riserve e i loro strumenti. Il benessere che si deve comunicare, secondo Cristo, è una cosa grande. È la più grande...

Se a questo punto si ricapitola, si ha modo di concludere che l'apertura sociale messa innanzi come meta agli uomini, di tutti i secoli, da Gesù Cristo è la più radicale di tutte, anzi è l'unica. Tutte le altre, senza eccezione, 'chiudono' qualcosa agli uomini o nell'anima o nel corpo".(vedi nota)

In secondo luogo l'animazione della carità tiene vivo il vero senso del bene comune ricordando che:

ogni questione va considerata ultimamente in riferimento a Dio, Legislatore supremo. La legge umana si iscrive all'interno della legge di Dio perché da essa deriva e da essa trae forza per vincolare in coscienza i cittadini.

Se Dio è assoluto, nessuno può rivendicare per sé tale valore: né lo stato, né la comunità umana, né alcun altro ideale umano.

La legge di Dio va tenuta nel massimo conto, perché solo essa tutela integralmente il vero bene dell'uomo. "C'è pure una legge naturale che Dio ha scritto nelle cose da lui create, rilevabile dalla struttura, dalle caratteristiche e dalle finalità stesse. Come esistono leggi fisiche poste dal Creatore, sottratte nella loro essenza alla libertà degli uomini ed implacabili nella loro applicazione, così esistono nelle cose fisiche ed in quelle spirituali, per le ragioni sopraddette, delle indicazioni chiare proposte alla libera obbedienza degli uomini. Esse vanno osservate. Se non si osservano, hanno in se stesse una implacabile capacità di ricostruire l'ordine leso e di punire i trasgressori. Questa legge naturale indica norme per l'individuo, per le società minori, per la comunità umana, per l'economia".(vedi nota)

Infine richiama incessantemente l'esigenza del principio di sussidiarietà. Dio stesso ne da l'esempio, e con esso fissa le leggi della convivenza umana. Dio infatti non fa niente da solo, avendo deciso di fare tutto con la collaborazione della persona umana, delle comunità intermedie (famiglia, città, nazioni) e della Chiesa.

5.3.1

Testi del Magistero

Pio XI nella Quadragesimo anno:

"Se non che per assicurare a pieno queste riforme, è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità, "la quale è il vincolo della perfezione" (Col 3,14). Quanto dunque s'ingannano quei riformatori imprudenti, i quali solo curando l'osservanza della giustizia e della sola giustizia commutativa, rigettano con alterigia il concorso della carità! Ma quando pure si supponga che ciascuno abbia ottenuto tutto ciò che gli spetta di diritto, resterà sempre un campo larghissimo alla carità. La sola giustizia infatti, anche osservata con la maggiore fedeltà, potrà bene togliere di mezzo le cause dei conflitti sociali, non già unire i cuori e stringere insieme le volontà."(138)

" Ora tutte le istituzioni ordinate a consolidare la pace e a promuovere il mutuo soccorso tra gli uomini, per quanto sembrino perfette, hanno il loro precipuo fondamento di sodezza nel legame vicendevole delle volontà, onde i soci vanno uniti fra loro, e mancato questo, come spesso vediamo per esperienza, riescono vane le migliori prescrizioni. Una verace intesa di tutti ad uno stesso bene comune non potrà dunque aversi altrimenti che quando tutte le parti della società sentano di essere membri di una sola grande famiglia e figli di uno stesso Padre celeste, anzi di essere un solo corpo in Cristo e membri gli uni degli altri (Rm 12,5), di modo che se un membro patisce, patiscono insieme tutti gli altri(1 Cor 12,26). Allora soltanto i ricchi e gli altri dirigenti muteranno le primitive loro freddezze verso i loro fratelli più poveri in calda e operosa affezione... Gli operai, poi, dal loro canto, deposto sinceramente ogni sentimento di odio e di invidia, che i fautori della lotta di classe sfruttano tanto astutamente, non solo non disdegneranno il posto loro assegnato dalla Provvidenza divina nella società umana, ma l'avranno anzi in gran pregio, perché ben consapevoli che essi cooperano davvero utilmente e onoratamente, ciascuno secondo il proprio grado e ufficio al bene comune, e seguono in ciò più da vicino gli esempi di Colui che, essendo Dio, ha voluto essere sulla terra un operaio e stimato figlio di un operaio" (139).

Giovanni Paolo II in Dives in misericordia

"L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione, all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni. È stata appunto l'esperienza storica che, fra l'altro, ha portato a formulare l'asserzione: "summum ius, summa iniuria".

Tale affermazione non svaluta la giustizia e non attenua il significato dell'ordine che su di essa si instaura; ma indica solamente, sotto altro aspetto, la necessità di attingere alle forze dello spirito, ancor più profonde, che condizionano l'ordine stesso della giustizia" (12 d). "L'autentica misericordia è, per così dire, la fonte più profonda della giustizia. Se quest’ultima è di per sé idonea ad "arbitrare" tra gli uomini nella reciproca ripartizione dei beni oggettivi secondo l'equa misura, l'amore invece, e soltanto l'amore (anche quell'amore benigno, che chiamiamo 'misericordia)' è capace di restituire l'uomo a se stesso ".

"La misericordia autenticamente cristiana è pure, in certo senso, la più perfetta incarnazione dell'eguaglianza tra gli uomini, e quindi anche l'incarnazione più perfetta della giustizia, in quanto anche questo, nel suo ambito, mira allo stesso risultato. L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però nell'ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno sì che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria " (14).

"Il mondo degli uomini potrà diventare più umano solo quando in tutti i rapporti reciproci, che plasmano il suo volto morale, introdurremo il momento del perdono, così essenziale per il vangelo. Il perdono attesta che nel mondo è presente l'amore, più potente del peccato. Il perdono è inoltre, la fondamentale condizione per la riconciliazione, non soltanto nel rapporto di Dio con l'uomo, ma anche nelle reciproche relazioni tra gli uomini. Un mondo da cui si eliminasse il perdono, sarebbe soltanto un mondo di giustizia fredda e irrispettosa, nel nome della quale ognuno rivendicherebbe i propri diritti nei confronti dell'altro; così gli egoismi di vario genere, sonnecchianti nell'uomo, potrebbero trasformare la vita e la convivenza umana in un sistema di oppressione dei più deboli da parte dei più forti, oppure in un'arena di permanente lotta contro gli altri " (14).

"Perciò la Chiesa deve considerare come uno dei suoi principali doveri in ogni tappa della storia e specialmente nell'età contemporanea quello di proclamare e di introdurre nella vita il mistero della misericordia, rivelato in sommo grado da Gesù Cristo. Questo mistero, non soltanto per la Chiesa stessa come comunità dei credenti, ma anche in certo senso per tutti gli uomini, è fonte di una vita diversa da quella che l'uomo, esposto alle forze prepotenti della triplice concupiscenza, operanti in lui, è in grado di costruire " (14).

"Cristo sottolinea con tanta insistenza la necessità di perdonare gli altri, che a Pietro, il quale gli aveva chiesto quante volte avrebbe dovuto perdonare il prossimo, indicò la cifra simbolica di settanta volte sette, volendo dire con questo che avrebbe dovuto saper perdonare a ciascuno ed ogni volta. È ovvio che una così generosa esigenza di perdonare non annulla le oggettive esigenze della giustizia. La giustizia, propriamente intesa, costituisce per così dire lo scopo dei perdono. In nessun passo del messaggio evangelico il perdono, e neanche la misericordia come sua fonte, significano indulgenza verso il male, verso lo scandalo, verso il torto o l'oltraggio arrecato. In ogni caso, la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell'oltraggio sono condizione del perdono " (14).

- nel discorso al convegno "Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini", Loreto 11 aprile 1985.

"Il convegno, pertanto, se vuole raggiungere i suoi scopi, dovrà mettere in evidenza questo compito della comunità ecclesiale, fondato in ultima analisi sul fatto sconvolgente e gratificante che 'con l'incarnazione il Figlio si è unito in certo modo ad ogni uomo' (GS 22). Cristo è la principale via della Chiesa, ed è anche la via che conduce a ciascun uomo: 'Su questa via che conduce da Cristo all'uomo - ho scritto nell'enciclica Redemptor hominis - la Chiesa non può essere fermata da nessuno "(31).

Anche e particolarmente in una società pluralistica e parzialmente scristianizzata, la Chiesa è chiamata a operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia, o ricuperi, un ruolo-guida e un 'efficacia trainante nel camminare verso il futuro. Vorrei ricordare qui la precisa convinzione di Papa Giovanni XXIII che l'ordine etico-religioso incide più di ogni valore materiale sugli indirizzi e le soluzioni da dare ai problemi della vita individuale ed associata nell'interno delle comunità nazionali e nei rapporti tra esse (MeM, 193). La promozione dei valori morali è un fondamentale contributo al vero progresso della società.

Nell'adempiere a quest'opera la Chiesa non invade pertanto competenze altrui, ma agisce in virtù di ciò che originariamente le appartiene: 'La forza che essa riesce a immettere nella società umana contemporanea consiste infatti nella fede e nella carità portate ad efficacia di vita, non nell'esercitare con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore '(GS 42)... Occorre superare quella frattura tra Vangelo e cultura che è, anche per l'Italia, il dramma della nostra epoca; occorre por mano ad un'opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita (Ev. nunt., 19-20), in modo che il cristianesimo continui ad offrire, anche all'uomo della società industriale avanzata, il senso e l'orientamento dell'esistenza. Ciò potrà avvenire solo a condizione che non si appiattisca la verità cristiana, e non si nascondano le differenze, finendo in ambigui compromessi: il dinamismo inesauribile della riconciliazione cristiana e del perdono fino a settanta volte sette non annulla infatti le esigenze oggettive della verità e della giustizia (Dives in misericordia, 4). Non deve essere infatti sottaciuto il rischio di una "espropriazione" effettiva di ciò che è sostanzialmente cristiano sotto l'apparenza di una "approvazione" che in realtà resta soltanto verbale, con la conseguenza della assimilazione" al mondo invece che della sua cristianizzazione.

È dunque necessario avere fiducia, non solo per quanto concerne la Chiesa ma anche per la vita della società, nella forza unitiva e riconciliatrice della verità che si realizza nell'amore. Vorrei dire qui agli uomini e alle donne di questa grande Nazione: non abbiate paura di Cristo, non temete il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell'uomo e per il bene dell'Italia, nel pieno rispetto della convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica" (GS 75)"(n.7).

- in Centesimus annus

"Inoltre l'uomo creato per la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di redenzione. Questa dottrina non solo è parte integrante della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana. L'uomo tende verso il bene ma è pure capace di male; può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere a esso legato. L 'ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà l'interesse personale a quello della società nel suo insieme, ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa coordinazione. Difatti, dove l'interesse individuale è violentemente soppresso, esso e sostituito da un pesante sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti dell'iniziativa e della creatività. Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di un'organizzazione sociale perfetta che rende impossibile il male, ritengono anche di potenziare tutti i mezzi, anche la violenza e la menzogna per realizzarla. La politica diventa allora una "religione secolare", che si illude di costruire il paradiso in questo mondo. Ma qualsiasi società politica, che possiede la sua propria autonomia e le sue proprie leggi, non potrà mai essere confusa col regno di Dio. La parabola evangelica del buon grano e della zizzania insegna che spetta a Dio separare i soggetti del regno e i soggetti del maligno, e che siffatto giudizio avrà luogo alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin d'ora il giudizio, l'uomo si sostituisce a Dio e si oppone alla sua pazienza.

Grazie al sacrificio di Gesù sulla croce, la vittoria del regno di Dio è acquisita una volta per tutte; tuttavia la condizione cristiana comporta la lotta contro le tentazioni e le forze del male. Solo alla fine della storia il Signore ritornerà nella gloria per il giudizio finale con l'instaurazione di cieli nuovi e della terra nuova, ma, mentre dura il tempo, la lotta tra il bene e il male continua fin nel cuore nel dell'uomo.

Ciò che la s. Scrittura ci insegna in ordine ai destini del regno di Dio non è senza conseguenze per la vita delle società temporali, le quali - come dice la parola - appartengono alle realtà del tempo con quanto esso comporta di imperfetto e di provvisorio. Il regno di Dio, presente nel mondo senza essere del mondo, illumina l'ordine dell'umana società, mentre le energie della grazia lo penetrano e lo vivificano. Così sono meglio avvertite le esigenze di una società degna dell'uomo, sono rettificate le deviazioni, è rafforzato il coraggio dell'operare per il bene. A tale compito di animazione evangelica delle realtà umane sono chiamati, unitamente a tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani e in special modo i laici "(25).

"La dottrina sociale oggi specialmente mira all'uomo, in quanto inserito nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la centralità dell'uomo dentro la società e metterlo in grado di capir meglio se stesso, in quanto essere sociale. Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della Chiesa "(54).

"La Chiesa riceve il "senso dell'uomo" dalla divina rivelazione. 'Per conoscere l'uomo, l'uomo vero, l'uomo integrale, bisogna conoscere Dio' diceva Paolo VI e subito dopo citava s. Caterina da Siena, che esprimeva in preghiera lo stesso concetto: 'Nella tua natura, Deità eterna, conoscerò la mia natura'...

La dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana. Il che vale tanto nei confronti della soluzione 'atea', che priva l'uomo di una delle sue componenti fondamentali, quella spirituale, quanto nei confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali con vari pretesti mirano a convincerlo della sua indipendenza da ogni legge e da Dio, chiudendolo in un egoismo che finisce per nuocere a lui stesso e agli altri "(55).

 

 

Capo VI La famiglia

1. Nozione di famiglia

La Carta dei diritti della famiglia presentata dalla Santa sede il 24.11.1983 afferma nel preambolo: "La famiglia è fondata sul matrimonio, unione intima di vita nella complementarità tra un uomo e una donna, che si costituisce con il legame indissolubile del matrimonio liberamente contratto e pubblicamente espresso, ed è aperta alla trasmissione della vita" (EV 9/540).

È costante nel magistero della Chiesa l'affermazione che la famiglia è fondata sul matrimonio. La GS 48 afferma che "la famiglia nasce dal matrimonio", e al n.50 ugualmente si parla della struttura familiare che nasce dall'amore coniugale.

Il n. 48 della GS lascia intendere che la definizione di "comunità di vita e di amore" va bene sia per il matrimonio che per la famiglia. Nella lettera alle famiglie (2.2.1994) Giovanni Paolo II scrive che "la famiglia prende inizio dalla comunione coniugale, che il Concilio Vaticano II qualifica come alleanza nella quale l'uomo e la donna mutuamente si danno e si ricevono"(7).

Vi è un legame molto profondo tra matrimonio e famiglia: questa si fonda su quello, anzi è il matrimonio stesso in quanto è aperto alla trasmissione della vita.

Sebbene i concetti relativi al matrimonio e alla famiglia non si identifichino, tuttavia vi è tra loro un’unione intima e sostanziale. La famiglia è la risposta concreta alla vocazione assunta nel matrimonio. Non sempre viene realizzata come risultato effettivo del matrimonio, però in un matrimonio vero e non fittizio viene sempre realizzata intenzionalmente.

La famiglia è l'amore coniugale prolungato nella procreazione, è la procreazione prolungata nell'educazione.

Se la famiglia è questo, allora si capisce come non possano essere intese come famiglie le unioni di persone in cui manca la complementarità dei sessi e l'atto con quale i coniugi si danno e si ricevono con un vincolo fedele e indissolubile.

6.1.1

2. La famiglia, comunità di vita dei genitori con i figli

Socievole per natura, l'uomo appartiene simultaneamente a più società. In forza della generazione è membro della famiglia e della società civile. A motivo del lavoro e della professionalità entra in relazione con l'azienda e la categoria.

L'insieme di queste società viene indicato col termine generico di "società umana". Famiglia e società civile (nazionale e internazionale) vengono dette "società naturali" perché fluiscono dalla stessa natura dell'uomo (anche per distinguerle dalla Chiesa che è una comunità fondata su un vincolo soprannaturale).

Le altre invece non sono società naturali, ma costituite liberamente dall'uomo.

La famiglia dunque è la prima società cui l'uomo appartiene. Per mezzo di essa ha accesso alla vita e alla società.

È fondata sul matrimonio uno e indissolubile e si esprime in un complesso di relazioni interpersonali - nuzialità, paternità, maternità, filiazione, fraternità - mediante le quali ogni persona umana è introdotta nella 'famiglia umana e nella 'famiglia di Dio' che è la Chiesa" (FC 15).

6.2.1

3. La famiglia è cellula della società

Viene definita così non perché sia una società in miniatura, con tutta la complessità dei servizi che solo una società più ampia può garantire, ma perché" la origina sotto il profilo biologico e morale.

"La famiglia infatti possiede vincoli vitali e organici con la società, perché ne costituisce il fondamento e l'alimento continuo mediante il suo compito di servizio alla vita: dalla famiglia infatti nascono i cittadini" (FC 42).

a) la famiglia è cellula della società sotto il profilo biologico e di calore umano.

È "la prima e vitale cellula della società" (Apostolicam actuositatem,11).

La persona umana trova in essa:

1- Il luogo naturale della sua generazione. Sebbene i figli possano essere generati anche al di fuori del matrimonio e della famiglia, tuttavia vengono messi al mondo in maniera responsabile e degna solo all'interno dell'istituzione familiare. Solo essa infatti garantisce la presenza e l'impegno dei genitori in ordine a tutti i bisogni dei figli.

2- Il focolare, cioè il clima di amore, di calore e di intimità di cui ha bisogno ogni persona.

Se sono mutate, come si vedrà, molte funzioni della famiglia, questa tuttavia ha conservato e, si potrebbe dire, ritrovato una sua funzione primordiale.

La persona umana infatti ha bisogno di un luogo in cui raccogliersi per sentirsi, in tutti i sensi, a casa propria. Ha bisogno di autonomia materiale (abitazione), di autonomia spirituale (pensare e programmare senza essere indotti da persuasori occulti o manifesti), di autonomia morale (vivere secondo una personale gerarchia di valori).

Nello stesso tempo la persona ha bisogno di altre persone con cui vivere una più profonda comunione.

Le esigenze socio-culturali hanno mutato il tipo di abitazione. Mentre in passato vi era la casa fissa nella quale si nasceva, ci si sposava (almeno per i maschi) e si moriva, oggi si muta abitazione a seconda delle mutevoli esigenze della famiglia e delle persone che la compongono. E sebbene si stia in casa meno che un tempo, tuttavia la famiglia ha conservato il significato centrale e coesivo per le persone.

Meglio sarebbe avere un tipo di abitazione a misura veramente umana, come pensava (e sognava) Pio XII: "Fra tutti i beni che possono essere oggetto di proprietà nessuno è più conforme alla natura... di quanto è il terreno, il podere in cui abita la famiglia e dei cui frutti trae interamente o almeno in parte di che vivere" (1.6.1941). Se questo oggi sembra irrealizzabile e impossibile, va detto però che certe costruzioni moderne, come alcuni tipi di falansteri (come aveva concepito Fourier), sono talvolta inabitabili.

3- La comunità di mensa. Non si tratta semplicemente della soddisfazione più economica di alcune esigenze vitali, ma, ben di più, di una forma molto alta di conoscenza e di amore. In essa i figli sperimentano l'amore gratuito dei genitori. Per tutti è segno di condivisione delle proprie fatiche, del proprio lavoro, ed è circostanza in cui gli animi si aprono più facilmente al dialogo e alla comprensione.

4- Un’amministrazione più vantaggiosa dei propri beni. Molte spese (alloggio, riscaldamento, automobile, lo stesso vitto...) sono comuni e vanno a profitto simultaneamente di più persone con notevoli risparmi. A questo va aggiunto che oggi sta crescendo la volontà di valorizzare il ruolo delle casalinghe che vengono indennizzate in caso di sinistri e per le quali si invoca anche una rimunerazione, al fine di non penalizzare, come si sta facendo, le famiglie numerose, che sono quelle che di fatto che garantiranno alla società un più abbondante numero di servizi.

6.2.2

b) La famiglia è cellula della società sotto il profilo morale

"Nella famiglia i cittadini trovano la prima scuola di quelle virtù sociali che sono l'anima della vita e dello sviluppo della società stessa. Così in forza della sua natura e vocazione, lungi dal rinchiudersi in se stessa, la famiglia si apre alle altre famiglie e alla società assumendo il suo compito sociale"(FC 42).

Promuovendo un'autentica e matura comunione di persone, la famiglia diventa "la prima e insostituibile scuola di socialità, esempio e stimolo per i più ampi rapporti comunitari all'insegna del rispetto, della giustizia, del dialogo, dell'amore" (FC 43). In tal modo la famiglia costituisce il luogo nativo e lo strumento più efficace di umanizzazione e di personalizzazione nella società"(FC43).

Questo compito si rivela tanto più urgente "in una società che rischia di essere sempre più spersonalizzata e massificata, e quindi disumana e disumanizzante, con le conseguenze negative di tante forme di evasione come sono ad esempio l'alcoolismo, la droga e lo stesso terrorismo"(FC 43). E questo perché "la famiglia possiede e sprigiona ancora oggi energie formidabili capaci di strappare l'uomo dall'anonimato, di mantenerlo cosciente della sua dignità personale, di arricchirlo di profonda umanità e di inserirlo attivamente con la sua unicità e irripetibilità nel tessuto della società"(FC 43).

La legge del dono, che è il motore dell'educazione e della vita familiare, si manifesta ulteriormente nel fatto che la famiglia non è fine a se stessa, ma contiene in sé la legge della missione.

Se il matrimonio è indissolubile, essa, invece, è orientata a formare nuove famiglie e ad aprirsi ulteriormente alla società.

Höffner afferma che la famiglia è la comunità educativa e formativa più importante per la società umana. Il suo principio vitale è l'amore e l'affetto, e per questo essa esercita un influsso educativo e formativo senza eguali sulla personalità".(vedi nota)

Nella lettera alle famiglie il Papa ricorda che "l'esperienza dimostra quanto sia rilevante il ruolo di una famiglia coerente con la norma morale, perché l'uomo, che in essa nasce e si forma, intraprende senza incertezze la strada del bene, inscritta pur sempre nel suo cuore"(5). I maestri in questa prima scuola di virtù sociali sono i genitori, i figli, i nonni.

6.2.3

1- Il ruolo dei genitori: trasmettono la vita, sostentano ed educano.

"La famiglia è come il secondo grembo, il grembo spirituale, in cui il bambino partorito dalla mamma diventa una personalità morale.(vedi nota) Il bambino che non si vede rivolgere la parola con amore, intristisce psichicamente, per quanto sia ben curato sotto l'aspetto fisico..".(vedi nota)

"Quando la mamma sorride al bambino, il suo sorriso rappresenta una sollecitazione segreta a rispondere con un altro sorriso. Dal giorno in cui ciò avviene per la prima volta, la mamma sa di essere emozionalmente capita dal proprio piccolo".(vedi nota) Di qui la necessità di valorizzare la maternità come l'opera più grande che possa compiere una donna e che vale più di tanti altri mestieri. Essa è componibile con l'accesso agli uffici pubblici. Un impegno diretto nella società e nella Chiesa conferisce positivamente, oltre che alla chiesa e società stessa, anche all'esercizio della maternità. Tutto sta nel "dosaggio" e nella tutela dei diritti della maternità, affinché le madri non siano "costrette" a lavorare fuori casa solo perché ciò è necessario per il mantenimento dei figli.(vedi nota)

Contemporaneamente va sottolineata l'urgenza della presenza del padre. "Il fatto che la Bibbia definisca "l'essere a casa" come "l'essere presso il padre", dovrebbe fare riflettere. È peggiore un padre che non ha tempo di un padre che non ha soldi per la famiglia".(vedi nota) Analoga attenzione egli deve rivolgere alla sposa, nutrendo "profondo rispetto per l'eguale dignità della donna: "Non sei il suo padrone - scrive s. Ambrogio - bensì il suo marito; non ti è stata data in schiava, ma in moglie... Ricambia a lei le sue attenzioni verso di te e sii ad essa grata del suo amore. Con la sposa l'uomo deve vivere una forma tutta speciale di amicizia personale"(FC 25).

Va sottolineato infine l'impegno dei genitori a seguire i ragazzi nelle attività extrafamiliari e nello scegliere per i figli le istituzioni più idonee alla loro formazione morale, spirituale e religiosa.

Höffner conclude: "La migliore educazione consiste in una vita familiare serena e armoniosa: nella gioia comune per le cose belle e nelle attenzioni piene di amore, nella convivenza fedele, nella partecipazione comune alle gioie e alle pene, nella religiosità intima e viva. 'Quando tornate a casa - diceva s. Giovanni Crisostomo - non apparecchiate solo la tavola terrena, ma anche la tavola spirituale... così la vostra casa diventerà una chiesa!’".(vedi nota)

6.2.4

2- Il ruolo dei figli, fratelli e sorelle

I fratelli e le sorelle, senza saperlo, si educano a vicenda. Scrive J. Guitton: "Il regalo migliore che un giovane può ricevere è quello di avere una sorella, che gli sia vicina per età e per mentalità... Ci si può addirittura chiedere se la convivenza di fratelli e sorelle nella cerchia familiare non sia la scuola più perfetta dell'amore coniugale. Non è cosa naturale intrattenere solo rapporti erotici verso l'altro sesso. Nella cerchia familiare, dove la femminilità compare nella figura della sorella, essa si presenta sotto una forma intima, costante e pura".(vedi nota)

La FC ricorda che al bambino va prestata specialissima attenzione e stima profonda per la sua dignità, fin dal momento del concepimento.

I figli poi mentre crescono in età, sapienza e grazia, contribuiscono all'edificazione della comunità familiare e alla stessa santificazione dei genitori"(FC 26).

Nell'udienza generale del 17.8.1994 Giovanni Paolo II ha detto: "I bambini sono il sorriso del cielo affidato alla terra. Sono i veri gioielli della famiglia e della società. Sono la delizia della Chiesa. Sono come i gigli del campo dei quali Gesù diceva che "neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro" (Mt 6,28-29). Sono i prediletti di Gesù, e la Chiesa non può non sentir vibrare nel proprio cuore, per loro, i sentimenti di amore del cuore di Cristo.

Nella sua vita pubblica Gesù manifesta un grande amore per i bambini. L'evangelista Marco attesta (10,16) che "prendendoli fra le braccia e ponendo le mani su di loro li benediceva". Era "un amore delicato e generoso"(CL 47), con cui Egli attirava i bambini ed anche i loro genitori, dei quali si legge che "gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse"(Mc 10,13). I piccoli "sono il simbolo eloquente e la splendida immagine di quelle condizioni morali e spirituali che sono essenziali per entrare nel Regno di Dio e per viverne la logica di totale affidamento al Signore" (CL 47). Queste condizioni sono la semplicità, la sincerità, l'umiltà accogliente.

I discepoli sono chiamati ad essere simili ai bambini, perché sono dei 'piccoli' che hanno ricevuto la rivelazione come dono della benevolenza del Padre (Mt 1 1,25s). Anche per questo i bambini devono essere accolti come Gesù stesso: "Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me" (Mt 18,5).

Da parte sua Gesù professa profondo rispetto per i bambini, e ammonisce :"Guardatevi dal disprezzare anche uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli"(Mt 18,10). E quando i fanciulli gridano nel tempio in onore di Gesù: "Osanna al figlio di Davide", Gesù apprezza e giustifica il loro atteggiamento come lode resa a Dio" (Mt 21,15-16). Il loro omaggio contrasta con l'incredulità degli avversari... I bambini danno un esempio di innocenza, che fa riscoprire la semplicità della santità. Essi infatti vivono una santità corrispondente alla loro età e così contribuiscono all'edificazione della Chiesa... Sotto l'aspetto psicologico e pedagogico, è noto che il bambino entra facilmente e volentieri nella preghiera, quando vi viene stimolato, come prova l'esperienza di tanti genitori, educatori, catechisti, amici. Su questi punti deve essere continuamente richiamata la responsabilità della famiglia e della scuola...

S. Pio X, motivando l'anticipo dell'età della prima comunione, diceva: "Ci saranno dei santi tra i fanciulli". I santi ci sono effettivamente stati. Ma noi possiamo oggi aggiungere: "Ci saranno degli apostoli tra i fanciulli".

6.2.5

3- I nonni e gli anziani (FC 27)

Di per sé non costituiscono una componente essenziale della famiglia. Tuttavia cooperano grandemente alla sua ricchezza morale.

In genere "l'anziano è più sereno, più riflessivo e anche interiormente vicino al religioso e all'eterno che non il giovane e l'uomo pieno di forze".(vedi nota)

Nell'udienza generale del 7.9.1994 il Papa ha detto: "La Chiesa sa bene che non poche persone si avvicinano a Dio particolarmente nella cosiddetta 'terza età', e che proprio in quel tempo possono essere aiutate a ringiovanire il loro spirito nelle vie della riflessione e della vita sacramentale. L'esperienza accumulata nel corso degli anni porta l'anziano a capire i limiti delle cose del mondo e a sentire un bisogno più profondo della presenza di Dio nella vita terrena. Le delusioni provate in alcune circostanze gli hanno insegnato a porre la propria fiducia in Dio. La sapienza acquisita può essere di grande vantaggio non solo per i familiari, ma anche per tutta la comunità cristiana".

Vi sono culture che non estromettono gli anziani dalla casa. Rimangono in vario modo inseriti nella famiglia e ne prendono parte attiva.

Sono testimoni del passato e ispiratori di saggezza per i giovani e per l'avvenire. Altre culture, invece, tendono ad emarginarli.

Nella lettera alle famiglie (2.2.1994) Giovanni Paolo II, dopo aver affermato che la famiglia mediante la genealogia delle persone diventa 'comunione delle generazioni' osserva con rammarico che "i tempi in cui viviamo manifestano la tendenza a restringere il nucleo familiare entro l'ambito di due generazioni. Ciò avviene spesso per la ristrettezza delle abitazioni disponibili, soprattutto nelle grandi città. Non di rado però ciò è dovuto anche alla convinzione che più generazioni insieme siano di ostacolo all'intimità e rendano troppo difficile la vita. Ma non è proprio questo il punto più debole? C'è poca vita umana nelle famiglie dei nostri giorni. Mancano le persone con le quali creare e condividere il bene comune; eppure il bene, per sua natura, esige di essere creato e condiviso con altri: 'bonum est diffusivum sui', 'il bene tende a diffondersi'.(vedi nota) Il bene quanto più è comune, tanto più è anche proprio: mio - tuo - nostro. Questa è la logica dell'esistere nel bene, nella verità e nella carità. Se l'uomo sa accogliere questa logica e seguirla, la sua esistenza diventa veramente un dono sincero" (n.10).

Oggi gli anziani costituiscono un problema sociale. Il loro numero cresce progressivamente per il prolungarsi della vita ed il tenore dell'esistenza.

È necessario scoprire e valorizzare i loro compiti. La loro presenza aiuta:

- a far luce sulla scala dei valori umani;

- a fare vedere la continuità delle generazioni e a mostrare l'interdipendenza del popolo di Dio;

- gli anziani hanno il carisma di oltrepassare le barriere fra le generazioni.

Tenendo presente che oggi a sessant'anni si è ancora relativamente giovani, bisognerebbe non costringere a lasciare il lavoro ed andare in pensione obbligata, se non per dare occupazione ai giovani.

Le energie degli anziani possono essere impiegate nel tempo libero:

- nella vita della Chiesa (servizio materiale, culto, catechesi, assistenza ai bisognosi, istruzione personale...);

- nella vita della società civile: volontariato, università per gli anziani...

- nella famiglia: assistenza ai figli e ai nipoti, educazione, servizi domestici...

Una buona pastorale scopre in essi un tesoro di forze disponibili e generose quale mai c'è stato in passato.

Questo tesoro sembra diventare ancora più prezioso "quando il progredire dell'età impone la riduzione o la sospensione di queste attività"(Giovanni Paolo II, 7.9.1994). "La persona anziana conserva l'impegno di procurare alla Chiesa il contributo della sua preghiera e dei suoi eventuali disagi accettati per amore del Signore.

Infine dobbiamo ricordare, da anziani, che, con le difficoltà di salute e il declino delle forze fisiche, si è associati particolarmente al Cristo della Passione e della Croce. Si può dunque entrare sempre più in questo mistero del sacrificio redentore e dare la testimonianza della fede in questo mistero, del coraggio e della speranza che ne derivano nelle varie difficoltà e prove della vecchiaia. Tutto nella vita dell’anziano può servire a completare la sua missione terrena. Non c’è niente di inutile. Anzi, la sua cooperazione, proprio perché nascosta, è ancora più preziosa per la Chiesa (CL 48)"(ib.).

"La vecchiaia è un dono per cui si è chiamati a rendere grazie: un dono per l'anziano stesso, un dono per la società e per la Chiesa. La vita è sempre un dono grande. E anzi, per i fedeli seguaci di Cristo, si può parlare di un carisma speciale concesso all'anziano per utilizzare in modo appropriato i suoi talenti e le sue forze fisiche, per la propria gioia e per il bene.(vedi nota)

6.3.0

4. Perdita e cambiamento di funzioni nella famiglia del nostro tempo

La sociologia ha analizzato i profondi mutamenti avvenuti nella famiglia nel passaggio da una società prevalentemente rurale a una urbana e industrializzata. Si è potuto discernere due tipi di funzioni assolte dalla famiglia, alcune di ordine istituzionale (che riguardano la famiglia e il matrimonio come istituzione sociale) e altre di carattere personale (che riguardano la famiglia come gruppo sociale e comunità).

Vediamo partitamente queste funzioni e i mutamenti avvenuti.

6.3.1.

a) funzioni istituzionali

1- funzione biologica (trasmissione della vita). È rimasta.

2- funzione economica (provvedere ai beni materiali di sussistenza): in passato la famiglia era autarchica, luogo di produzione e di consumo; oggi è prevalentemente luogo di consumo. La produzione viene attuata fuori casa, spesso indirettamente mediante una professione.

3- funzione protettiva (sicurezza contro i rischi dell'esistenza): in passato l'assistenza era garantita dalla famiglia. Gli ospizi, di epoca tardiva, erano per gli abbandonati; oggi si provvede con i sistemi previdenziali e le opere di assistenza (ospedali, case di cura, di riposo...).

4- funzione culturale (trasmissione di valori etico religiosi): in passato era data quasi esclusivamente dalla famiglia; oggi è svolta prevalentemente da realtà esterne: scuola, mass-media...

5- funzione stratificativa (attribuzione dello stato sociale): in passato la distinzione in classi era netta e pressoché immutabile; oggi dipende dalle proprie capacità e soprattutto dalla professione;

6- funzione integrativa o di appartenenza: in passato tutta l'integrazione o appartenenza era legata alla famiglia e alla Chiesa; oggi le persone appartengono anche ad associazioni, sindacati, partiti, comunità varie, movimenti, circoli, gruppi...

6.3.2

b) funzioni personali

1- funzione coniugale: affettività e integrazione tra marito e moglie;

2- funzione parentale: genitori e figli;

3- funzione fraternale: fratelli e sorelle.

Perse e mutate molte funzioni istituzionali, si delinea un nuovo tipo di famiglia che assolve una quadruplice funzione di:

1- crescita della persona umana: la famiglia fa progredire l'individuo dallo stadio di passività infantile a quello di attività adulta;

2- crescita nell'inserimento attivo nella società: la famiglia fa progredire da uno stato di dipendenza a uno di indipendenza mediante l'inserimento professionale attivo;

3- crescita delle virtù sociali: la famiglia fa crescere in uno spirito di socializzazione permanente (spirito di responsabilità reciproca e solidarietà);

4- luogo di calore umano e di recupero di energie: rigenera le motivazioni della partecipazione alla vita sociale e infonde nell'individuo nuove ragioni di rilancio nell'impegno attivo. Rimedia le inevitabili frustrazioni e delusioni rigenerando, nel calore della famiglia, nuovi stimoli.

Come si vede, le funzioni della famiglia si sono ridotte quasi esclusivamente all'ambito della crescita personale. Ciò che è cambiato è il polo di interesse e di azione: dall'istituzione è passato alla persona.

Confrontando i due tipi di famiglia, si può ancora dire che:

1- nella famiglia istituzionale predomina l'unità fondata su leggi, tradizioni, specifici doveri imposti dalla società; nella famiglia personale si attua una comunità di amore e di solidarietà;

2- la famiglia istituzionale è estesa, patriarcale, gerarchica, autoritaria; la famiglia personale è caratterizzata da cameratismo, spirito di compagnia, nuclearità, corresponsabilità, supplementarietà di ruoli;

3- la famiglia istituzionale protegge i suoi membri; quella personale li promuove;

4- la famiglia istituzionale favorisce il massimo di unità (tutto avviene in essa: produzione, abitazione, immobilità geografica, professionale e sociale); nella famiglia di oggi prevalgono le funzioni di affetto, di integrazione reciproca, di rigenerazione e di recupero delle energie. Queste funzioni sono instabili e possono corrodere l'indissolubilità pratica del vincolo matrimoniale. Tuttavia sono capaci di portare a più grande maturità interiore.

6.4.1

5. La promozione della donna

1. È un segno dei tempi

Giovanni XXIII nella Pacem in Teris afferma che tre segni caratterizzano l'epoca moderna: l'ascesa economico-sociali delle classi lavoratrici, l'ingresso della donna nella vita pubblica, la trasformazione della famiglia umana. A proposito della donna scrive: "In secondo luogo viene un fatto a tutti noto, e cioè l'ingresso della donna nella vita pubblica: più accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, in seno alle altre tradizioni e civiltà.

Nella donna infatti diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non permettere di essere considerata e trattata come istrumento; esige di essere considerata come persona, tanto nell'ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica" (22).

Se questo era vero ai tempi di Giovanni XXIII, lo è ancor più oggi. La donna esige che sia debitamente apprezzato il suo specifico apporto.

6.4.2

2. Storia del femminismo

Già ai tempi della rivoluzione francese, in nome dell'uguaglianza, si pose il problema della donna. Alla fine del 1700, sotto il patrocinio e l'appoggio del marchese di Condorcet (+1794) si costituirono i primi gruppi femministi che rivendicavano, tra l'altro, il diritto al voto.

Affermava il Condorcet: "Il diritto di occuparsi degli affari del proprio paese è un diritto che gli uomini derivano non dal loro sesso, ma dalle loro qualità di esseri ragionevoli".

Sempre di quegli anni è una "Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina" dove si rivendica che "le donne hanno ben il diritto di salire sulla tribuna dato che hanno quello di salire sul patibolo".

L'emancipazione femminile fu portata avanti dal marxismo, in particolare da Engels, il quale affermò che "la preminenza dell'uomo nel matrimonio è una semplice conseguenza della sua preminenza economica e cadrà con questa". (vedi nota)

Anche la borghesia del mondo anglosassone (dove il movimento marxista era debole) contribuì notevolmente all'emancipazione della donna. J. Stuart Mill (1865), in particolare, indicava tre livelli di liberazione: il livello economico, con l'ammissione della donna a tutte le occupazioni maschili, con parità di retribuzione; il livello giuridico, con la piena eguaglianza dei diritti civili e con l'abolizione degli istituti di tutela e della inabilità giuridica; il livello politico, col diritto di votare e di essere eletti a tutte le cariche pubbliche, amministrative e politiche.

Se la tendenza marxista scorge opposizione tra la donna e la società capitalistica, la tendenza borghese trova l'opposizione tra la donna e il maschio. In quest'ultima fu presente anche una tendenza radicale. Essa affermava che la femminilità era una ideologia creata dai maschi per tenere soggiogate le donne.

Da queste tendenze è nato il femminismo di oggi (neo-femminismo) nel quale confluiscono talvolta posizioni estreme, al punto che il problema centrale è la lotta al maschio e a tutta la struttura maschilista della società, ritenuta essenzialmente oppressiva della donna.

La donna femminista non si propone la parità con l'uomo, ma la liberazione dall'uomo e dal suo predominio, per riappropriarsi della femminilità (finora derubata dal maschio e da una società creata a suo esclusivo vantaggio).

Per questo chiede la riappropriazione del corpo e la gestione della propria sessualità, con i conseguenti diritti all'amore libero, alla contraccezione, al divorzio e all’aborto libero e gratuito.

Chiede anche il capovolgimento della società maschilista, patriarcale, basata sulla famiglia. Questa, ormai sorpassata, dovrebbe essere superata con forme di associazione più libera tra uomo e donna, o anche da sole donne, da sciogliersi quando si vuole.

Alcune frange del movimento femminista accusano il cristianesimo di essere una religione maschilista. Nel 1976 la rivista "Effe" (mensile femminista romano) parlava di scontro frontale tra femminismo e cattolicesimo, sostenendo che il femminismo si pone come sistema etico alternativo al cristianesimo, e poggiato su principi ideologici che gli sono antitetici.

Il punto nodale dello scontro è la liberazione sessuale. Essa comporta il rifiuto dei tabù sessuali posto dal cristianesimo circa l'età dell'espressione sessuale, la scelta del sesso del partner e la fedeltà sessuale.

Inoltre muove l'accusa che Dio, secondo la Bibbia, sarebbe maschio e l'uomo superiore alla donna. Evidentemente le accuse talvolta si presentano a un livello tale di idiozia e di ignoranza che non meriterebbero neanche di essere prese in considerazione.

Comunque: dove è scritto o quando mai si è affermato che Dio è maschio? La teologia anche rabbinica ha sempre rivendicato la trascendenza di Dio sulla corporeità, e quindi anche sulla mascolinità e femminilità. Sappiamo poi dalla Rivelazione che Dio, pur dichiarando di voler essere sposo della sua creatura, manifesta i suoi sentimenti descrivendoli come quelli di una madre.

Inoltre tutta la Tradizione cristiana ha sempre rivendicato la dignità personale sia per l'uomo che per la donna. Già s. Agostino notava che la donna è stata tratta dalla costola, dal fianco di Adamo, per indicare la parità e l'uguaglianza.

La disistima dell'uomo per la donna non è frutto della divina rivelazione, ma del peccato originale. Una sua conseguenza affiora nel Giudaismo: la donna, creata dopo l'uomo, è all'origine del peccato. Verso di lei si nutre disprezzo. Nel Talmud si legge: "Fortunato chi ha figli maschi, infelice chi ha femmine". La legge non poteva essere insegnata alle donne: "Si brucino le parole della Thorah, ma non siano comunicate alle donne". Il rabbì non poteva intrattenersi in pubblico a conversare con donne, neanche con la moglie. La donna poi era incapace di rendere testimonianza, non poteva recitare la preghiera a tavola. Nella sinagoga aveva un posto speciale dietro le grate e non partecipava ai canti e alle preghiere.

6.4.3

3. La dignità della donna secondo la "Mulieris dignitatem"

In Mulieris dignitatem (parte V) Giovanni Paolo II afferma che Cristo si rivela anche come il redentore e il vero promotore della dignità della donna.

Suscita stupore il suo parlare in pubblico con donne, e peccatrici! Nel ripudio della donna (divorzio), egli svela il peccato dell'uomo, che si allontana "dalla verità del principio".

Le donne indubbiamente hanno grande rilievo nel Vangelo. Vengono chiamate "figlie di Abramo", titolo riservato nell'AT solo agli uomini, e anche "figlie di Gerusalemme". Sono protagoniste dei dialoghi più belli del Vangelo. E questo indica la loro dignità di essere partecipi delle profondità del mistero di Dio (in altre religioni, i "misteri" venivano rivelati solo ai maschi nei riti di iniziazione). Una donna impura tocca Gesù e ne riceve un elogio. Nel colloquio con l'adultera Gesù svela il peccato dell'uomo che abbandona la donna e poi l'accusa.

L'azione di Cristo è una protesta coerente contro ciò che offende le donne. Da lui esse si sentono liberate e per questo lo seguono.

Le donne poi sono protagoniste ai piedi della Croce, sono le prime presso la tomba, le prime testimoni incaricate di annunciare la Risurrezione.

Cristo, che ha svelato pienamente l'uomo all'uomo, ha svelato alla donna la sua identità e dignità (MD 2).

Nella creazione dell'uomo e della donna, Dio svela che la perfezione umana consiste "nell'unità dei due", dell'uomo e della donna. Essi si realizzano conformandosi alla SS. Trinità e vivendo l'uno con l'altro, anzi l'uno per l'altro (MD 3).

Il peccato ha attuato una rottura non solo nel rapporto con Dio, ma anche fra gli uomini. Se l'uomo è a somiglianza di Dio, col peccato comincia a farsi strada la non somiglianza. Offuscandosi l'immagine di Dio, si offusca anche la dignità della persona. L'uomo domina la donna e non la rispetta come persona (MD 4). È in Maria che la donna trova il suo "nuovo principio". Nella maternità la donna realizza pienamente il suo "essere per" l'altro, nel totale dono delle proprie energie fisiche e spirituali. Nella verginità per il Regno dei cieli la donna afferma la dignità della femminilità in se stessa" (MD 6).

La sottomissione della donna all'uomo (Cl 3,18; Ef 5,22) va letta alla luce della sottomissione vicendevole nel timore di Cristo (Ef 5,21), e cioè in riferimento a Cristo, vero e primo sposo di ogni persona umana. Nell'Eucaristia, poi, solo l'uomo può agire in persona Christi non per disistima della donna, ma perché è ben adatto a significare che Gesù è lo sposo che dona la vita per la sposa. I sacramenti devono essere "segni" leggibili e comprensibili tanto nelle cose quanto nelle persone di cui sono costituiti.

Va ricordato infine che la struttura gerarchica della Chiesa, riservata ai maschi, non è il fine della Chiesa, ma è finalizzata alla santità, che è ciò che in definitiva conta. E nella massima gerarchia della santità troviamo una donna, Maria (MD 7).

6.4.4

4. Le caratteristiche della femminilità

caratteristiche generali

La femminilità, in quanto espressione della sessualità, manifesta la natura sponsale della donna. Anch'essa, al pari dell'uomo, non può ritrovare se stessa se non vivendo con qualcuno, anzi per qualcuno. Pertanto la femminilità, come la mascolinità, è domanda di complementarità.

Questa poi si realizza in maniera veramente umana nel reciproco dono totale e sincero di sé, che è così generoso da costituire, almeno come inclinazione, l'inizio di una donazione nuova e ancora più grande, quella legata alla paternità e alla maternità.

La femminilità e la mascolinità orientano la persona umana a vivere nella logica del dono. Si tratta di una vocazione iscritta nella natura stessa dell'essere donna e dell'essere uomo.

Astraendo da questa chiamata, non corrispondendovi in alcuna maniera, non si può che essere insoddisfatti e infelici. La gioia infatti è legata all'amore che si fa dono (At 20,35).

caratteristiche specifiche

Si presta molta attenzione oggi a ciò che è specifico della femminilità, soprattutto nelle rilevanze di ordine psichico e spirituale.

Anche il mondo ecclesiale è partecipe ditale interesse.

La s. Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli ha tratteggiato nei seguenti termini l’apporto specifico della donna: "La donna è fatta particolarmente per tutto ciò che ha relazione con la vita, per agire secondo rapporti personali.

Certe qualità sono più propriamente femminili e costituiscono per l'evangelizzazione un sostegno privilegiato.

Costruttrici della vita, le donne conoscono le condizioni che da esse esige, e che in esse si sviluppa, questa lenta germinazione delle persone secondo la natura e secondo la grazia.

Esse manifestano una grande capacità di amare ciò che deve venire, e di vivere questa speranza attraverso gli indugi, i contrattempi, le prove. Affinché gli uomini abbiano la vita, tutta la vita per mezzo della grazia, perché l'abbiano in abbondanza, e cioè nella pienezza del Vangelo, dei Sacramenti e della Chiesa, le donne sono capaci di darsi senza calcolo.

La loro donazione è spesso più intuitiva di quella degli uomini, e capace di cogliere meglio le aspirazioni e le angosce, anche inespresse dell'umanità: di sentire quali risposte è opportuno darvi. Questa intuizione sbocca spontaneamente in iniziative concrete. L'uomo è un essere di idee e la donna è un essere di azione, senza d'altra parte forzare questa antitesi.

Nella sua azione, la donna esercita più facilmente dell'uomo una continuità e una fedeltà alla vita come essa si presenta. La sua fede nella vita sostiene la sua fede nella Grazia e le dà le lunghe pazienze necessarie alle opere di educazione naturale e soprannaturale.

Santuario in cui germina ogni persona vivente, la donna ha, della persona individuale e delle sue proprie caratteristiche, un senso più acuto e un rispetto più profondo. Ella discerne meglio i caratteri. E più facilmente che altri, è incline a far fiorire i germi di bene che ogni anima in ricerca racchiude. Nel lavoro multiforme dell'evangelizzazione ella dimostra una capacità particolare di stringere contatti, in una delicata simpatia, per radicare progressivamente e vitalmente le convinzioni della fede, per costruire in cento modi la famiglia dei figli di Dio. Infine, di fronte alle esigenze, così varie e talvolta così sorprendenti, della vita reale della società e della Chiesa, le donne rivelano, come dimostra l'esperienza, una grande capacità di adattazione personale, che permette loro, anche in situazioni difficili, di assicurare la sopravvivenza, e spesso il progresso, della evangelizzazione. Infatti la storia delle missioni ha da lungo tempo attestato il ruolo determinante della donna nell'evangelizzazione del mondo".(vedi nota)

6.5.1

Testi del Magistero

Giovanni XXIII, Pacem in terris, 18 (cf p. 72)

Paolo VI, Octogesima adveniens:

"Parimenti, in molti paesi, é oggetto di ricerche e talvolta di vive rivendicazioni uno statuto della donna che faccia cessare una discriminazione effettiva e stabilisca dei rapporti di uguaglianza dei diritti e il rispetto della sua dignità. Non parliamo di quella falsa uguaglianza che negherebbe le distinzioni poste dal Creatore, e che sarebbe in contraddizione con la funzione specifica, così fondamentale, della donna, tanto al centro del focolare come in seno alla società.

Al contrario, l'evoluzione delle legislazioni deve andare nel senso della protezione della vocazione propria della donna stessa e, insieme, del riconoscimento della sua indipendenza in quanto persona, dell’uguaglianza dei suoi diritti in ordine alla partecipazione alla vita culturale, economica, sociale e politica" (13 b).

Giovanni Paolo II, in Laborem exercens (sul salario e altre prestazioni sociali):

"L 'esperienza conferma che bisogna adoperarsi per la rivalutazione sociale dei compiti materni, della fatica ad essi unita e del bisogno che i figli hanno di cura, di amore e di affetto per potersi sviluppare come persone responsabili, moralmente e religiosamente mature e psicologicamente equilibrate.

Tornerà ad onore della società rendere possibile alla madre - senza ostacolarne la libertà, senza discriminazione psicologica o pratica, senza penalizzazione nei confronti delle sue compagne - di dedicarsi alla cura e all'educazione dei figli secondo i bisogni differenziati della loro età.

L'abbandono forzato di tali impegni, per un guadagno retributivo fuori casa, è scorretto dal punto di vista del bene della società e della famiglia, quando contraddica o renda difficili tali scopi primari della missione materna.

In tale contesto si deve sottolineare che, in via più generale, occorre organizzare e adattare tutto il processo lavorativo in modo che vengano rispettate le esigenze della persona e le sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, tenendo conto dell'età e del sesso di ciascuno. È un fatto che in molte società le donne lavorano in quasi tutti i settori della vita. Conviene, però, che esse possano svolgere pienamente le loro funzioni secondo l'indole ad esse propria, senza discriminazioni e senza esclusioni da impieghi dei quali sono capaci, ma anche senza venir meno al rispetto per le loro aspirazioni familiari e per i ruolo specifico che ad esse compete nel contribuire al bene della società insieme con l'uomo. La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l'abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, della quale ha come madre un ruolo insostituibile"(J9).

Familiaris consortio, 22-24; Mulieris dignitatem;

Christifideles laici, capo IV: Fondamenti antropologici e teologici.

"La condizione per assicurare la giusta presenza della donna nella Chiesa e nella società è una considerazione più penetrante e accurata dei fondamenti antropologici della condizione maschile e femminile, destinata a precisare l'identità personale propria della donna nel suo rapporto di diversità e di reciproca complementarità con l'uomo, non solo per quanto riguarda i ruoli da tenere e le funzioni da svolgere, ma anche e più profondamente per quanto riguarda la sua struttura e il suo significato personale...

La meditazione sui fondamenti antropologici e teologici della donna deve illuminare e guidare la risposta cristiana alla domanda così frequente, e talvolta acuta, circa lo 'spazio' che la donna può e deve avere nella Chiesa e nella società "(5 O).

- Missione nella Chiesa e nel mondo.

"Nella partecipazione alla vita e alla missione della Chiesa la donna non può ricevere il sacramento dell'Ordine e pertanto non può compiere le funzioni proprie del sacerdozio ministeriale. È questa una disposizione che la Chiesa ha sempre ritrovato nella precisa volontà, totalmente libera e sovrana, di Gesù Cristo che ha chiamato solo uomini come suoi apostoli: una disposizione che può trovare luce nel rapporto tra Cristo Sposo e la Chiesa sposa. Siamo nell'ambito della funzione, non della dignità e della santità. Si deve in realtà affermare: anche se la Chiesa possiede una struttura gerarchica, tuttavia tale struttura è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo.

Ma, come già diceva Paolo VI, se noi non possiamo cambiare il comportamento di Nostro Signore né la chiamata da lui rivolta alle donne, però dobbiamo riconoscere e promuovere il ruolo delle donne nella missione evangelizzatrice e nella vita della comunità cristiana.

È del tutto necessario passare dal riconoscimento teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella Chiesa alla realizzazione pratica. E in questo preciso senso deve leggersi la presente esortazione che si rivolge ai fedeli laici, con la deliberata e voluta specificazione "uomini e donne". Inoltre il nuovo Codice di Diritto Canonico contiene molteplici disposizioni sulla partecipazione della donna alla vita e alla missione della Chiesa: sono disposizioni che esigono d'essere più comunemente conosciute e, sia pure secondo le diverse sensibilità culturali e opportunità pastorali, attuate con maggiore tempestività e risoluzione

"In particolare, due grandi compiti affidati alla donna meritano di essere riproposti all'attenzione di tutti.

Il compito, anzitutto, di dare piena dignità alla vita matrimoniale e alla maternità. Nuove possibilità si aprono oggi alla donna per una comprensione più profonda e per una realizzazione più ricca dei valori umani e cristiani implicati nella vita coniugale e nell'esperienza della maternità: l'uomo stesso - il marito e il padre - può superare forme di assenteismo o di presenza episodica e parziale, anzi può coinvolgersi in nuove e significative relazioni di comunione interpersonale, proprio grazie all'intervento intelligente, amorevole, e decisivo della donna. Il compito, poi, di assicurare la dimensione della cultura, la dimensione cioè di una cultura degna dell'uomo, della sua vita personale e sociale.

"Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio dare un aiuto a lui simile (Gn 2,8). Alla donna Dio Creatore ha affidato l'uomo. Certo, l'uomo è stato affidato ad ogni uomo, ma in modo particolare alla donna, perché proprio la donna sembra avere una specifica sensibilità, grazie alla speciale esperienza della sua maternità, per l'uomo e per tutto ciò che costituisce il suo vero bene, a cominciare dal valore fondamentale della vita. Quanto grandi sono le responsabilità della donna in questo campo, in un tempo nel quale lo sviluppo della scienza e della tecnica non è sempre ispirato dalla vera sapienza, con l'inevitabile rischio di disumanizzare la vita umana; soprattutto quando essa esigerebbe amore più intenso e più generosa accoglienza "(51).

 

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7.0.1

Capo VII Il lavoro

Premessa

Il problema più drammatico, oggi, relativamente al lavoro è la disoccupazione.

Mentre ingentissime risorse del pianeta sono ancora da sfruttare e milioni di persone muoiono di fame, cresce nello stesso tempo la disoccupazione.

Questo costituisce il problema numero uno dei Paesi industrializzati. Sono sempre più numerose le aziende, che pur realizzando utili crescenti, licenziano migliaia di persone. Si calcola che agli inizi del Duemila l'Unione Europea potrà produrre la medesima quantità attuale di beni e di servizi con 25 milioni di posti di lavoro in meno; ma già oggi i livelli di disoccupazione destano un forte allarme: in Europa i senza lavoro sono 18 milioni (l’11% della popolazione attiva), mentre in Italia secondo l'ISTAT sono quasi 3 milioni (per l'esattezza 2.763.000), cioè il 12,1% della popolazione attiva.(vedi nota)

Tuttavia, l'aspetto strutturale più problematico dell'economia post-industriale è la nascita di un mercato finanziario globale. Si calcola che, fra Tokyo, New York, Londra e Zurigo, cambino padrone ogni giorno da 1.000 a 1.500 miliardi di dollari. Il mercato finanziario globale, cioè, è divenuto un settore di grande attrattiva per gli investimenti. Spesso si guadagna di più sul mercato finanziario che investendo nella produzione di beni e servizi. Per esempio, il gruppo multinazionale Siemens trae il 70% del suo utile dai mercati finanziari e solo il 30% dalla produzione. Insomma, oggi è possibile produrre di più e guadagnare di più, pur riducendo la forza lavoro occupata.

"Non c’è libertà, solo perché c’è libero mercato; piuttosto il mercato è libero in quelle società dove si persegue e si assicura la libertà". (vedi nota)

La prima riforma da fare - insistono i documenti dell'insegnamento sociale della Chiesa - è puntare a una nuova cultura del lavoro, che si costruisca sul principio del primato assoluto della persona: "Il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per il lavoro" (Laborem exercens, n. 6). Da questo primato indiscutibile dell'uomo deriva immediatamente la preminenza del lavoro umano sulla logica del profitto e sulla pura razionalità economica. Non si può ridurre il lavoro al suo aspetto di fonte di reddito, per quanto importante e necessario. Infatti, con il lavoro umano si perseguono anche altri fini e valori, che trascendono le mere necessità materiali: da un retto punto di vista culturale e di principio, il lavoro appartiene più all'ambito dell'essere che a quello dell'avere.

Una seconda riforma strutturale, che il Magistero sociale della Chiesa ritiene indifferibile al fine di risolvere il problema della disoccupazione, sta nel ripensare il modello e il concetto stesso di impresa. Questa ormai - nell'era post-capitalistica - non si può più intendere come luogo di interessi in conflitto, ma, nell'ottica nuova della globalizzazione, si deve realizzare piuttosto come una vera comunità di lavoro, che mira a conseguire il bene comune di tutti i suoi membri. Oltre tutto, ciò è richiesto dalla stessa evoluzione strutturale in atto nell'economia. Infatti, l'introduzione delle nuove tecnologie e la informatizzazione dei processi produttivi tendono a valorizzare sempre più ciò che vi è di specifico nel lavoro dell'uomo: l'uso della intelligenza al posto della forza fisica e la partecipazione corresponsabile di tutti i fattori produttivi al posto del dominio assoluto dei "padroni", divenuti anch'essi - in certo senso -"dipendenti" dell'impresa. Lavorare in équipe oggi è una necessità. In altre parole, la presente crisi strutturale esige che sia la politica economica in generale, sia la nuova concezione dell'impresa si ispirino al principio di solidarietà.

Su questo punto la Chiesa insiste da tempo. Vi è ritornato con forza Giovanni Paolo II in un importante discorso ai rappresentanti del mondo del lavoro: "Occorre - egli dice - fare del principio di solidarietà il criterio costante e qualificante delle scelte di politica economica. Purtroppo ancora oggi non manca chi crede che la più ampia libertà di mercato, favorendo l'iniziativa e la crescita economica, si traduca automaticamente in ricchezza per tutti. Ma la storia e la realtà sotto i nostri occhi mostrano a sufficienza che non è così.

Infine, la Chiesa insiste sulla importanza di un intervento creativo della società civile, che funzioni come terzo polo tra il mercato e lo Stato, con pari dignità nei confronti dell'uno e dell'altro, nella prospettiva di una democrazia piena e matura. "Dal momento che oggi si è in grado di produrre ricchezza con meno lavoro, la situazione attuale si presenta come una grande opportunità: finalmente potrebbero essere riconosciute e promosse attività che sono di grande importanza sociale, anche se non partecipano direttamente al processo produttivo di mercato (sostegno alle famiglie, cura delle persone anziane e dei portatori di handicap, protezione e cura dell'ambiente, ecc.). Perché ciò si realizzi è necessario che venga accolta l'idea che il valore del lavoro non è unicamente connesso al fatto di produrre un reddito, ma al fatto di essere attività della persona, da cui ricava il suo senso e la sua dignità".(vedi nota)

7.1.1

parte prima: Il lavoro e l’uomo

1. Che cosa è il lavoro

In passato lo si definiva come l'attività transitiva dell'uomo sulle cose al fine di trasformarle.

Secondo questa definizione non andrebbero considerate come lavoro le attività immanenti o quelle che si portano sulla persona umana (attività medica, infermieristica, scolastica, assistenziale...).

Il lavoro, in quanto tale, veniva retribuito col salario; le prestazioni intellettuali o comunque quelle che si portavano sulla persona con l'onorario (ci si onorava di poter contribuire alle necessità del prestatore d'opera).

Oggi, unanimemente, si tende a superare questa distinzione.

Già Leone XIII lo definiva come 'l'attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione"(RN 36).

Il Dizionario di teologia morale (ed. Studium) lo presenta come "l'attività dell'uomo sulle cose esteriori per ritrarne una certa utilità economica

Secondo Höffner è "attività cosciente, seria, rivolta a un oggetto delle facoltà spirituali o corporee dell'uomo, finalizzata a realizzare dei valori, che servono al perfezionamento dell'uomo stesso voluto da Dio, nonché della società umana e, in fondo, alla gloria di Dio".(vedi nota)

E Giovanni Paolo II nella LE: "Con la parola lavoro viene indicata ogni opera compiuta dall'uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze, e cioè ogni attività umana che si può e si deve riconoscere come lavoro in mezzo a tutta la ricchezza delle azioni"(intr.). In queste definizioni lo si distingue dal gioco e dalla preghiera, anche se per alcuni, i professionisti del gioco e della preghiera, queste possono costituire l'impegno principale.

"Il lavoro è una "proprietà o caratteristica dell'uomo, che lo distingue dal resto delle creature, la cui attività, connessa con il mantenimento della vita, non si può chiamare lavoro" (LE, intr.). È infatti attività cosciente, impegna l'intelligenza e manifesta trascendenza sulla materia. Gli animali non lavorano.

7.1.2

2. Il vangelo del lavoro

a) la verità sul lavoro

Si potrebbe cercare il significato del lavoro partendo anche solo dal punto di vista razionale.

Ma in LE Giovanni Paolo II vuole congiungere il punto di vista umano con quello della fede "per estrarre dal patrimonio del Vangelo 'cose nuove e cose antiche"(Mt 13,52)"(n.2).

"La Chiesa attinge questa sua convinzione soprattutto alla fonte della Parola di Dio rivelata, e perciò quella che è una convinzione dell'intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione della fede...

La Chiesa pensa all'uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell'esperienza storica, non solo con l'aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente.

Riferendosi all'uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, Creatore e Redentore, ha legato all'uomo"(LE 4).

La verità prima sul lavoro si desume dalla Parola di Dio:" Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela"(Gn 1,27).

"Il lavoro inteso come un’attività "transitiva", cioè tale che, prendendo l’inizio nel soggetto umano, è indirizzata verso un oggetto esterno, suppone uno specifico dominio dell’uomo sulla terra,... È chiaro che col termine terra di cui parla il testo biblico, si deve intendere prima di tutto quel frammento dell’universo visibile, del quale l’uomo è abitante; per estensione, però, si può intendere tutto il mondo visibile, in quanto esso si trova nel raggio d’influsso dell’uomo e della sua ricerca di soddisfare alle proprie necessità" (LE, 4).

Scrive il Card. Siri: "Il lavoro è asserito da Dio anche nello stato di innocenza, anteriore al peccato originale. È questa anteriorità che mostra il lavoro come completivo. Infatti il libro della Genesi (1,29; 2,15) insegna che l'uomo deve custodire, coltivare la terra. Senza il lavoro l'uomo manca di qualcosa di essenziale alla sua vita. L'affermazione è estremamente importante. Induce a pensare che Dio ha posto nell'uomo qualcosa che non sarà rivelato se non dal lavoro. E siccome l'uomo ha tutta la terra da coltivare e questa contiene infinite varietà e sorprese, si ha la garanzia che il lavoro potrà e dovrà dipanarsi in infiniti modi e ad infiniti livelli. La Storia lo dimostrerà; questo appartiene, prima che alla Storia, al piano divino.

Tutto ciò dimostra come uomo e lavoro siano reciprocamente legati, dimostra anche come vada intesa l'espressione divina riportata dallo stesso testo della Genesi; 'essere l'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio' (Gn 1,26). La somiglianza non è tutta qui, ma è anche qui; infatti l'opera dell'uomo, che lavora, diviene somiglianza dell'azione di Dio, che crea".(vedi nota)

b) lavorando l'uomo di conforma al progetto di Dio e prolunga la sua opera creatrice

"Diventando sempre più il padrone della terra e confermando -ancora mediante il lavoro -il suo dominio sul mondo visibile, l'uomo, in ogni caso e in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell'originaria disposizione del Creatore...

Questo processo è al tempo stesso universale: abbraccia tutti gli uomini, ogni generazione, ogni fase dello sviluppo economico e culturale, ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano" (LE 4).

"Come dice il Concilio Vaticano II, "Per i credenti una cosa è certa: l'attività umana individuale e collettiva, ossia quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo infatti, creato a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere a sé la terra con tutto quanto essa contiene per governare il mondo nella giustizia e nella santità, e così pure di riportare a Dio se stesso e l'universo intero, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che, nella subordinazione di tutta la realtà all'uomo, sia glorificato il nome di Dio su tutta la terra " (GS, 34).

"Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l'uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato. Questa verità noi troviamo già all'inizio stesso della Sacra Scrittura, nel Libro della Genesi, dove l'opera stessa della creazione è presentata nella forma di un "lavoro" compiuto da Dio durante i " sei giorni " (Gn 2,2; Es 20, 8.11)), per " riposare" il settimo giorno (Gn 2,3). D'altronde, ancora l'ultimo libro della Sacra Scrittura risuona con lo stesso accento di rispetto per l'opera che Dio ha compiuto mediante il suo " lavoro" creativo, quando proclama: " Grandi e mirabili sono "le tue opere, o Signore Dio onnipotente " (Ap 15,3), analogamente al Libro della Genesi, il quale chiude la descrizione di ogni giorno della creazione con la affermazione: "E Dio vide che era una cosa buona"( Gn 1, 4.10.12.18.21. 25.31).

Questa descrizione della creazione, che troviamo già nel primo capitolo del Libro della Genesi è, al tempo stesso, in un certo senso il primo " Vangelo del lavoro " Essa dimostra, infatti, in che cosa consista la sua dignità: insegna che l'uomo lavorando deve imitare Dio, suo Creatore, perché porta in sé - egli solo - il singolare elemento della somiglianza con lui. L'uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice sotto la forma del lavoro e del riposo. Quest'opera di Dio nel mondo continua sempre, così come attestano le parole di Cristo: " Il Padre mio opera sempre..." (Gv 5,17): opera con la forza creatrice, sostenendo nell'esistenza il mondo che ha chiamato all'essere dal nulla, e opera con la forza salvifica nei cuori degli uomini, che sin dall'inizio ha destinato al "riposo " (Eb 4,1.9ss) in unione con se stesso, nella " casa del Padre " (Gv 14,2). Perciò, anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni " settimo giorno " (Dt 5,12), ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel riposo " che il Signore riserva ai suoi servi ed amici (Cf Mt 25,21).

La coscienza che il lavoro umano sia una partecipazione all'opera di Dio, deve permeare - come insegna il Concilio - anche " le ordinarie attività quotidiane. Gli uomini e le donne, infatti, che per procurarsi il sostentamento per sé e per la famiglia, esercitano le proprie attività così da prestare anche conveniente servizio alla società, possono a buon diritto ritenere che col loro lavoro essi prolungano l'opera del Creatore, si rendono utili ai propri fratelli e danno un contributo personale alla realizzazione del piano provvidenziale di Dio nella storia"" (LE 25).

7.1.3

c) Gesù Cristo, che proclama il Vangelo del lavoro, è stato "l'uomo del lavoro"

"Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l'uomo partecipa all'opera di Dio stesso, suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo - quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth " rimanevano stupiti e dicevano Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? ... Non è costui il carpentiere? " (40). Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l'opera il "Vangelo" a lui affidato, la parola dell'eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il "Vangelo del. lavoro" perché colui che lo proclamava> era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth (41). E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare - piuttosto, una volta, il divieto di una eccessiva preoccupazione per il lavoro e l'esistenza (42) -, però, al tempo stesso, l'eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al "mondo del lavoro", ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell'uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: " il Padre mio è il vignaiolo... " (43), trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell'Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi?" (LE 26)

7.1.4

d) l'insegnamento di Gesù si richiama spesso al lavoro umano e trova corrispondenza nella predicazione di S. Paolo.

"Nei libri dell'Antico Testamento non mancano molteplici riferimenti al lavoro umano, alle singole professioni esercitate dall'uomo: così per es. al medico (Sir 38, 1ss), al farmacista (Sir 38, 4-8), all'artigiano-artista ( Es 31, 1-5; Sir 38, 27), al fabbro (Gn 4, 22; Is 44, 12) - si potrebbero riferire queste parole al lavoro del siderurgico d'oggi -, al vasaio (Ger 18 3 ss; Sir 38 29 ss), all'agricoltore (Gn 9 20; Is 5,1 ss), allo studioso (Qo 12 ,9-12; Sir 39 , 1-8), al navigatore (Sl 107(108) 23-30; Sap 14 23), all'edile (Gn 11,3; II Re 12,12 ss; 22 ,5 ss), al musicista (Gn 4 21), al pastore (Gn 4,2; 37, 3 ; Es 3,1; 1 Sm 16, l1; passim), al pescatore (Ez 47,10). Sono conosciute le belle parole dedicate al lavoro delle donne (Pr 31,15-27). Gesù Cristo nelle sue parabole sul Regno di Dio si richiama costantemente al lavoro umano al lavoro del pastore (Gv 10,1-16) dell’agricoltore (Mc 12,1-12) del medico (Lc 4,3), del seminatore (Mc 4,1-9) del padrone di casa (Mt 13,52), del servo (Mt 24,45; Lc 12,42-48) dell amministratore (Lc 16,1-8) del pescatore (Mt 13,47-50) del mercante (Mt 13,45 ss) dell’operaio (Mt 20,1-16). Parla pure dei diversi lavori delle donne (Mt 13,33; Lc 15,8 ss). Presenta l’apostolato a somiglianza del lavoro manuale dei mietitori (Lc 9,37; Gv 4, 35-38) o dei pescatori (Gv 4,19). Inoltre, si riferisce anche al lavoro degli studiosi (Gv 13,52).

Questo insegnamento di Cristo sul lavoro, basato sull'esempio della propria vita durante gli anni di Nazareth, trova un'eco particolarmente viva nell’insegnamento di Paolo Apostolo. Paolo si vantava di lavorare nel suo mestiere (probabilmente fabbricava tende (At 18,3), e grazie a ciò poteva pure come apostolo, guadagnarsi da solo il pane (At 20,34 ss). "Abbiamo lavorato con fatica e sforzo, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi" 2 Ts 3,8). Di qui derivano le sue istruzioni sul tema del lavoro, che hanno carattere di esortazione e di comando: "A quanti... ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace", così scrive ai Tessalonicesi (2 Ts 3,12). Infatti, rilevando che alcuni vivono disordinatamente, senza fra nulla (2 Ts 3,11), l’Apostolo nello stesso contesto non esita a dire: "Chi non vuol lavorare neppure mangi" (2 Ts 3,10)" (LE 26).

7.1.5

e) una spiritualità cristiana del lavoro deve divenire patrimonio comune di tutti

Bisogna, dunque, che questa spiritualità cristiana del lavoro diventi patrimonio comune di tutti. Bisogna che, specialmente nell'epoca odierna, la spiritualità del lavoro dimostri quella maturità, che esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori: "I cristiani, dunque, non solo non pensano proprio di contrapporre le conquiste dell'ingegno e della potenza dell'uomo alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; ma, al contrario, essi piuttosto sono persuasi che le vittorie dell'umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno. E quanto più cresce la potenza degli uomini, tanto più si estende e si allarga la loro responsabilità individuale e collettiva... Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall'incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più pressante " (GS, 34).

La consapevolezza che mediante il lavoro l’uomo partecipa all'opera della creazione, costituisce il più profondo movente per intraprenderlo in vari settori: " I fedeli perciò - leggiamo nella Costituzione Lumen Gentium - devono riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio e aiutarsi a vicenda per una vita più santa anche con opere propriamente secolari affinché il mondo sia imbevuto dello spirito di Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace... Con la loro competenza, quindi, nelle discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla grazia di Cristo, contribuiscano validamente a che i beni creati, secondo la disposizione del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla civile cultura " (LG, 36).

7.2.1

3. I significati del lavoro e della professione

1- Il lavoro come necessità

"Povero di sensi, inerme, nudo, embrionale in tutto il suo comportamento, insicuro nei suoi istinti, egli è l'essere essenzialmente orientato all'azione".(vedi nota)

2- Il lavoro come via all'autosviluppo dell'uomo

"Il lavoro è un bene dell'uomo... perché mediante il lavoro l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo" (LE 9).

Al n.6 della LE vengono precisati i motivi di Dio Creatore a proposito del lavoro umano: "L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come immagine di Dio è una persona".

Nel plasmare la terra l'uomo esprime creatività e responsabilità, si perfeziona nella conoscenza e nell'amore. Plasmando la terra, infatti, si impossessa di quella verità che è partecipazione, segno e richiamo della Verità prima. Scopre la gloria di Dio diffusa nelle sue creature. Il lavoro, inoltre, gli permette, con i suoi frutti, di farsi dono, di amare, di sostenere la famiglia e di contribuire alle necessità della comunità umana. Dice LE: "La famiglia è una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo" (10).

"Come persona l'uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità" (LE 6).

3- Il lavoro come trasformazione e dominio del mondo

Il lavoro, si è detto, è un proprium dell'uomo. Di qui la sua nobiltà. Per Platone invece i governanti non dovevano lavorare perché la materia era considerata ignobile. I manichei, poi, la consideravano opera di satana.

Il cristianesimo supera radicalmente queste concezioni. Il mondo è opera di Dio e viene affidato all'uomo perché lo lavori e diventi strumento di sostentamento, di perfezione intellettuale e morale, di crescita nella partecipazione delle prerogative divine.

Attraverso il lavoro l'uomo è chiamato a prolungare in maniera attiva e responsabile l'opera della creazione.

4- Il lavoro è un servizio agli altri

Tramite il lavoro, la persona si apre concretamente agli altri, si fa dono e li serve.

Prima di essere considerato come attività degna di rimunerazione, va inteso come servizio, per il quale è giusto esigere quanto è necessario per poterlo continuare, e avendo riguardo di tutte le esigenze del servitore (famiglia).

Vari sono gli ambiti del servizio a seconda del bene prodotto e comunicato. Per questo il lavoro si classifica come:

- servizio spirituale: quando la persona è spiritualmente attiva per comunicare il santo (teologia), il vero (scienze), il bene (educazione), il bello (arte);

- servizio sociale: quando la persona si mette a servizio della salute fisica e psichica;

- servizio della polis (dell'ordine pubblico): quando si opera nella politica, nell'amministrazione della giustizia, nell'esercito...

- servizio economico: quando si lavora nel settore dell'economia. L'attività economica si riparte in tre settori: nel settore primario quando opera direttamente sulla natura ed è ordinata a produrre beni di consumo o a estrarre materie prime (si dispiega nell'agricoltura, nella pesca, caccia e nell'estrazione dei minerali); nel settore secondario quando opera sulle materie prime per trasformarle in beni economici produttivi e di consumo (si dispiega nel settore industriale); nel settore terziario quando tende in prevalenza a soddisfare immediatamente i bisogni umani e si concreta nella prestazione di un servizio (è il settore dei servizi, che oggi tende ad occupare uno spazio sempre più ampio).

5- Il lavoro come penitenza

La materia presenta una certa resistenza alla trasformazione. Il trattamento delle persone richiede l'esercizio di una grande pazienza.

In ogni caso, dunque, il lavoro esige perseveranza e comporta fatica. Come penitenza ha la capacità di portare a maturità d'animo e ad ingrandire l'amore per Dio e per il prossimo.

6- Il lavoro come espiazione

Dopo il peccato originale Dio ha detto: "Maledetto sia il suolo per causa tua (dell'uomo)! Con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita" (Gn 3,17).

Osserva il Card. Siri: "Da quel momento non è nato il lavoro, ma il lavoro è stato caricato della fatica... In questo senso esso diventava il testimone perenne della colpa dell'uomo. La fatica ricorda la colpa, il lavoro ricorda la creazione alla quale l'uomo in qualche modo viene associato da Dio" .(vedi nota)

Per questa fatica l'uomo viene associato all'opera della redenzione.

7- Il lavoro come glorificazione di Dio e preparazione della futura libertà dei figli di Dio

"Gloria Dei homo vivens", l'uomo vivente rende gloria a Dio, diceva s. Ireneo. Ed è vero. Attraverso il lavoro l'uomo rende evidente quella sapienza e bontà divina che è stata diffusa in tutte le creature.

Se il lavoro, visto dall'esterno, può sembrare assoggettamento di alcuni ad altri, va ricordato che la fede riscatta da tale visione ed è capace di capovolgere le apparenze. Scrive il Card. Siri : "Il mistero è questo: perché io devo lavorare tanto faticosamente e un altro fa un lavoro stando in poltrona? Perché io riesco a sbarcare il lunario soltanto, mentre altri nuotano nella più scandalosa abbondanza, perché io non riesco a salire ed altri riescono?...

Solo la religione dà la risposta, mostrando che di fronte a Dio non esistono lavori per sé privilegiati quanto al merito e che il valore dell'ultimo può essere maggiore del primo; e che ai più umili spesso accade di essere i veri salvatori, più che altri, assicurando la validità e la fecondità, ben oltre le apparenze della convivenza umana.

Dare agli uomini la certezza che ogni piano di distinzione umana può essere riportato al denominatore comune da una carica verso il Creatore, è ridare la vera dignità a coloro che ben netti interessi umani vorrebbero chiudere deterministicamente in un destino di inferiorità e di bisogno... La religione non la si vuole, perché essa impedirebbe quella rassegnata inferiorità della quale hanno bisogno tutti coloro che vi speculano sopra".(vedi nota)

Della dimensione soprannaturale dice ancora: "Col Battesimo siamo diventati figli adottivi di Dio. Tale realtà centrale eleva tutte le situazioni, tutti gli strumenti, tutte le linee d'azione dell'ambiente materiale e morale nel quale vive l'uomo. La produttività di lui, uomo, è elevata alla obiettiva dignità e all'obiettivo valore soprannaturale. Il lavoro entra in pieno in questo piano divino nel quale gli uomini, lavorando, operano per la vita eterna. Vi entra una componente di merito che riduce a pareggio tutte le apparenze di umane diversità e discriminazioni...

Forse che il lavoro, così duramente esigente per la maggior parte di quelli che operano, non ha bisogno di questa soprannaturale visione per avere la certezza di essere pienamente utile ed eternamente fecondo? La visione complessiva di queste dimensioni toglie al lavoro, qualunque esso sia, l'apparenza di una condanna alla inferiorità, perché lo collega alle cose supreme". (vedi nota)

La dignità del lavoro

"Qualsiasi tipo di lavoro perfeziona l'uomo, indipendentemente dal suo contenuto oggettivo"( LE 6).

Il lavoro ricava la sua massima dignità dal fatto che porta il sigillo dell'uomo. Nell'antichità i lavori manuali erano disprezzati, riservati agli schiavi.

LE ricorda, a proposito, una odierna "minaccia al giusto ordine dei valori"(7). Essa è data da due opposte ideologie che in questi due ultimi secoli hanno offuscato la verità evangelica sul lavoro.

Nel liberismo economico il lavoro è considerato come merce. Fine del lavoro è il profitto; il guadagno, il capitale. Il lavoro umano fa parte del costo del lavoro.

Nel marxismo si trasferisce la proprietà dei mezzi di produzione dal singolo allo stato. Si ha un capitalismo di stato. Fine del lavoro rimane sempre la produzione. L'uomo viene trattato come strumento di produzione.

Giovanni Paolo II invita ad educare alla "laboriosità", e cioè ad amare e a stimare il lavoro, qualunque esso sia, perché è compiuto da una persona. Non si tratta di una realtà degradante, dalla quale varrebbe la pena rifuggire appena se ne può.

Certo, il lavoro costa fatica, è un bene arduo. Ma non cessa, per questo, di essere un bene, un valore per l'uomo.

Bisogna educare al lavoro, e non semplicemente insegnare un lavoro. Ciò comporta che si faccia attenzione perché mentre "la materia viene nobilitata, l'uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità" (LE 9).

Gesù, lavorando, ha conferito un'enorme dignità al lavoro e lo ha liberato da falsi pregiudizi. Egli ha passato la quasi totalità della sua vita lavorando manualmente perché tutti sapessero quale e quanta fosse la dignità del lavoro. Lavorando, egli ha proclamato la buona notizia sul lavoro" (LE, in finem).

Il "Catechismo cristiano del lavoro", preparato dall'archidiocesi di Genova nel 1981, ricorda in maniera abbastanza diffusa i valori nuovi del lavoro compiuto in grazia di Dio:

1- ha un valore eterno;

2- si diffonde a beneficio di tutti in forza della Comunione dei santi, senza che ne venga impoverito chi ha meritato. Le opere buone, quando cadono dalle mani libere, entrano nel bilancio della Divina Provvidenza, e compongono la misteriosa catena con cui si costruiscono i benefici dell'umanità;

3- è superiore a quanto è riconosciuto con un salario o stipendio, a volte misurato e forse ingiusto;

4- e conferisce ad ogni piccolo uomo, privo di onori umani, una incomparabile dignità. Questa dignità del lavoro diventa evidente quando si legge il messaggio evangelico: il Verbo fatto uomo ha passato la maggior parte della vita terrena lavorando al più umile livello del lavoro manuale, sicché nessuno potesse dubitare del valore e della dignità ditale lavoro.

Non sempre il lavoro più umile ha risonanze umane; è significativo che le risonanze le abbia quando la Fede in Cristo gli apre risonanze di eternità. E tutto questo spiega perché la moralità è più facile e più garantita andando verso le classi umili, e perché, colla Fede, in esse è più spontaneo quanto di felicità è aperto agli uomini in terra".(vedi nota)

5- La nobiltà di ogni lavoro si ricava dal fatto che è compiuto dalla persona umana ed è a servizio della persona umana.

Inoltre secondo il vangelo è più meritorio il lavoro che è fatto con più amore, che ha impresso in maniera più forte il sigillo della persona (la vedova e i due spiccioli).

7.3.1

Testi del magistero sulla dignità del lavoro

Leone XIII, nella Rerum novarum:

"Dei capitalisti poi e dei padroni sono questi i doveri: non tenere gli operai come schiavi; rispettare in essi la dignità dell'umana persona, nobilitata dal carattere cristiano.

Agli occhi della ragione e della fede non è il lavoro che degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di campare con l'opera propria onestamente la vita: quello che veramente è indegno è abusare d'un uomo, come cosa a scopo di guadagno, né stimano più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze " (1 O).

"Ai poveri poi la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che faccia vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con l'esempio suo; mentre a salute degli uomini "essendo ricco, si fece povero" ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un legnaiolo; anzi, non ricusò di passare lavorando la massima parte della vita: "Or non è questo il fabbro, il figlio di Maria? "(Mc 6,3).

Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell'uomo è tutta morale, ossia riposta nelle virtù: che la virtù è patrimonio comune conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio della eterna beatitudine "(J3).

"Quanto alla tutela dei beni corporali ed esteriori, prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio alla inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza discrezione alcuna delle persone e delle cose. Non è giusto né umano esigere dall'uomo tanto lavoro, da farne per troppa fatica istupidire la mente, e da fiaccarne i corpo. Come la sua natura, così l'attività dell'uomo è limitata. L'esercizio e l'uso l'affina, a condizione però che a quando a quando venga sospeso per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più che le forze non io comportino "(25).

Concilio Ecumenico Vaticano II: Gaudium et spes

"Il lavoro umano, che viene svolto per produrre e scambiare beni e per mettere a disposizione servizi economici, è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo natura di mezzo.

Tale lavoro, infatti, sia svolto indipendentemente che subordinatamente da altri, procede immediatamente dalla persona, la quale imprime nella natura quasi il suo sigillo e la sottomette alla sua volontà. Con il lavoro, l'uomo abitualmente provvede alle condizioni di vita proprie e dei suoi familiari, comunica con gli altri e rende servizio agli uomini suoi fratelli, può praticare una vera carità e collaborare con la propria attività al completarsi della divina creazione.

Ancor più: sappiamo per fede, che, offrendo a Dio il proprio lavoro, l'uomo si associa all'opera stessa redentiva di Cristo, il quale ha conferito al lavoro una elevatissima dignità, lavorando con le proprie mani a Nazareth" (67).

Paolo VI nella Populorum progressio

"Così pure, se è vero che talvolta può imporsi una mistica esagerata del lavoro, non è men vero che questo è voluto da Dio. Creato a sua immagine, l'uomo deve cooperare col Creatore al compimento della creazione, e segnare a sua volta la terra dell'impronta spirituale che egli stesso ha ricevuto. Dio, che ha dotato l'uomo d'intelligenza, d'immaginazione e sensibilità, gli ha in tal modo fornito il mezzo onde portare in certo modo a compimento la sua opera: sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore. Chino su una materia che gli resiste, il lavoratore le imprime il suo segno, sviluppando nel contempo la sua tenacia, la sua ingegnosità e il suo spirito d'invenzione. Diremo di più: vissuto in comune, condividendo speranze, sofferenze, ambizioni e gioie, il lavoro unisce le volontà, ravvicina gli spiriti e fonde i cuori: nel compierlo gli uomini si scoprono fratelli. (27)

Senza dubbio ambivalente, dacché promette denaro, il godimento e la potenza, invita gli unì all'egoismo e gli altri alla rivolta, il lavoro sviluppa anche la coscienza professionale, il senso del dovere e la carità verso il prossimo. Più scientifico e meglio organizzato, esso rischia di disumanizzare il suo esecutore, divenuto suo schiavo, perché il lavoro è umano solo se resta intelligente e libero. Giovanni XXIII ha ricordato l'urgenza di rendere al lavoratore la sua dignità, facendolo realmente partecipare all'opera comune: "Bisogna tendere a fare sì che l'impresa diventi una comunità di persone, nelle relazioni, nelle funzioni e nella situazione di tutti i suoi componenti". La fatica degli uomini ha poi per il cristiano un significato ben maggiore, avendo essa anche la missione di collaborare alla creazione del mondo soprannaturale, che resta incompiuto fino a che non saremo pervenuti tutti insieme a costituire quell'Uomo perfetto di cui parla s. Paolo, che realizza la pienezza di Cristo" (28).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens (oltre ai testi già citati):

"Il lavoro appare in questa analisi come una grande realtà, che esercita un fondamentale influsso sulla formazione in senso umano del mondo affidato all'uomo dal Creatore, ed è una realtà strettamente legata all'uomo, come al proprio soggetto e al suo razionale operare...

Anche se unito con la fatica e lo sforzo, il lavoro non cessa di essere un bene, sicché l'uomo si sviluppa mediante l'amore per il lavoro. Questo carattere del lavoro umano, del tutto positivo e creativo, educativo e meritorio, deve costituire il fondamento delle valutazioni e delle decisioni, che oggi si prendono nei suoi riguardi "(11).

Successivamente Giovanni Paolo II compie un analisi sul conflitto allora ancora presente nel mondo del lavoro e che contrapponeva imprenditori da una parte e prestatori d'opera dall'altra.

Il conflitto era nato da un malinteso concetto del lavoro e del capitale.

Oggi il marxismo, almeno nel mondo occidentale, è crollato. Ma "la crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento " (CA 26).

7.4.1

parte seconda: I diritti degli uomini del lavoro (occupazione, salario, associazione)

1. Il diritto all’occupazione, al lavoro

"Ogni uomo ha il dovere di svolgere una attività che, mentre è perfettiva del suo essere, gli serva per provvedere alla sussistenza personale e familiare e per contribuire al bene della società secondo la misura delle sue capacità e anche dei suoi obblighi personali e sociali; e quindi ha anche il diritto di lavoro e al lavoro, come mezzo necessario per la sua perfezione, per la sua sussistenza personale e familiare e per la sua integrazione attiva nella comunità di cui fa parte".(vedi nota)

Se sono così grandi i valori connessi al lavoro, ogni uomo ha il dovere di lavorare per il personale perfezionamento, per quello familiare e per quello sociale.

"Se uno deve lavorare, ha diritto di lavorare, e quindi a cercare lavoro, e anzi ad averlo dalla società qualora egli non riesca a trovare o a crearsi la possibilità di lavoro, in ragione della scarsità di mezzi, di genio inventivo, di abilità, di fantasia". (vedi nota)

È un dovere della società espandersi in modo tale da permettere a tutti di lavorare. È una esigenza del bene comune, tanto più che la disoccupazione non è solo un danno personale, ma anche un danno sociale, perché i disoccupati, certo involontariamente, sono parassiti che consumano e non producono. Non possono non sentirsi frustrati, soprattutto se a lungo si sono preparati per dare il loro contributo alla società.

Il diritto di lavoro comporta:

1- la facoltà di lavorare, svolgendo la propria attività senza ostacoli da parte di nessuno (impedimenti politici, tabù, pregiudizi di casta, imposizioni sindacali...);

2- la possibilità di espletare le doti fornite dalla natura, il che comporta:

- la libera scelta del lavoro, secondo le attitudini proprie;

- l'esecuzione consapevole e libera del lavoro, fuori di qualsiasi schiavitù politica, morale, ambientale o anche solo psicologica;

- la preparazione e il continuo aggiornamento nel campo professionale;

- condizioni di orario, di ambiente, di trattamento che corrispondano alle esigenze e possibilità dell'uomo;

- il rispetto dei patti stabiliti circa la modalità, la durata e il compenso del lavoro;

- la sicurezza del lavoro in modo che sia evitato alla persona e alla famiglia uno stato di continua ansietà dinanzi all'incertezza della sorte.

7.4.2

Testi del Magistero

Giovanni XXIII nella Pacem in terris

"Agli esseri umani è inerente il diritto di libera iniziativa in campo economico e il diritto al lavoro, A siffatti diritti è indissolubilmente congiunto il diritto a condizioni di lavoro non lesive della sanità fisica e del buon costume e non intralcianti lo sviluppo integrale degli esseri umani in formazione; e per quanto concerne le donne, il diritto a condizioni di lavoro conciliabili con le loro esigenze e con i loro doveri di spose e di madri "(10).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens

"Se il lavoro nel molteplice senso di questa parola è un obbligo, cioè un dovere, al tempo stesso esso è anche una sorgente di diritti da parte del lavoratore. Questi diritti devono essere esaminati nel vasto contesto dell'insieme dei diritti dell'uomo….

Il rispetto di questo vasto insieme dei diritti dell'uomo costituisce la condizione fondamentale per la pace nel mondo contemporaneo…..

L 'uomo deve lavorare sia per il fatto che il Creatore gliel'ha ordinato, sia per il fatto della sua stessa umanità il cui mantenimento e sviluppo esigono il lavoro. L'uomo deve lavorare per riguardo al prossimo, specialmente per riguardo alla propria famiglia, ma anche per riguardo alla società alla quale appartiene, alla nazione, della quale è figlio o figlia, all'intera famiglia umana, di cui è membro, essendo erede del lavoro di generazioni e insieme coartefice del futuro di coloro che verranno dopo di lui nel succedersi della storia "(16).

"L'obbligo delle prestazioni in favore dei disoccupati, il dovere cioè di corrispondere le convenienti sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e per le loro famiglie, è un dovere che scaturisce dal principio fondamentale dell'ordine morale in questo campo, cioè dal principio dell'uso comune dei beni o, parlando in altro modo ancora più semplice, del diritto alla vita e alla sussistenza... Gettando lo sguardo sull'intera famiglia umana, sparsa su tutta la terra, non si può non rimanere colpiti da un fatto sconcertante di proporzioni immense; e cioè che, mentre da una parte cospicue risorse della natura rimangono inutilizzate, dall'altra esistono schiere di disoccupati o di sottooccupati e sterminate moltitudini di affamati: un fatto che, senza dubbio, sta ad attestare che sia nell'interno delle singole comunità politiche, sia nei rapporti tra esse su piano continentale e mondiale -per quanto concerne l'organizzazione del lavoro e dell'occupazione -vi è qualcosa che non funziona, e proprio nei punti più critici e di maggiore rilevanza sociale "(18).

Sollicitudo rei socialis

"Altro indice, comune alla stragrande maggioranza delle nazioni, è il fenomeno della disoccupazione e della sottooccupazione.

Non c 'è chi non si renda conto dell'attualità e della crescente gravità di un simile fenomeno nei paesi industrializzati. Se esso appare allarmante nei paesi in via di sviluppo, con il loro alto tasso di crescita demografica e la massa di disoccupazione giovanile, nei paesi di grande sviluppo economico sembra che si contraggano le fonti di lavoro, e così le possibilità di occupazione, invece di crescere, diminuiscono. Anche questo fenomeno, con la sua serie di effetti negativi a livello individuale e sociale, dalla degradazione alla perdita del rispetto che ogni uomo o donna deve a se stesso, ci spinge a interrogarci seriamente sul tipo di sviluppo che si è perseguito nel corso di questi venti anni"(18).

Centesimus annus

"L'obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel creare nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti" (43).

7.5.1

2. Il salario

È la ricompensa dovuta per la prestazione d'opera.

Il problema del salario nasce dal fatto che uno non è indipendente nel lavoro, ma offre le proprie prestazioni d'opera a chi impegna il capitale, ottenendone in cambio una ricompensa.

Il regime salariale è tipico della società industriale.

La QA definisce questo sistema capitalistico come "quell’ordinamento dell'economia con cui generalmente si contribuisce alla attività economica dagli uni col capitale, dagli altri col lavoro"(100).

Secondo Marx il regime salariale è alienante: "L’operaio si sente perciò presso di sé soltanto al di fuori del lavoro e alienato da se stesso sul lavoro. Egli è a casa quando non lavora, mentre non lo è quando lavora. Il suo lavoro non è perciò libero, ma coatto, un lavoro forzato... la sua estraneità si manifesta nel fatto che, non appena scompare la costrizione fisica o di altro genere, esso viene fuggito come la peste... Il lavoro appartiene a un altro, è la perdita di se stessi".(vedi nota)

Ci si chiede se il regime salariale sia intrinsecamente ingiusto, se il lavoro dia diritto alla comproprietà dei mezzi di produzione e quale sia il criterio della giusta retribuzione.

Secondo la concezione cristiana, il sistema salariale non può essere definito immorale e contrario alla dignità umana".(vedi nota)

"Il salario è la rimunerazione certa, immediata, determinata anticipatamente, che il lavoratore riceve in cambio dell'opera da lui prestata sotto l'autorità, la direzione e la sorveglianza di un datore di lavoro o di altri dirigenti.

In cambio del salario il prestatore d'opera cede al datore di lavoro il frutto immediato della sua attività, il plus-valore realizzato nella materia che ha trasformato o altri frutti del ruolo che ha svolto, mentre resta libero dalla diretta responsabilità e dai rischi dell'impresa".(vedi nota)

"Il sistema del salariato è in sé legittimo perché importa un effettivo compenso delle energie impiegate e può costituire una forma di solidarietà e di collaborazione per la sussistenza e il progresso, mentre non è facile costituirlo con un regime di società tra datori di lavoro e prestatori d'opera... dato che i lavoratori hanno bisogno di una retribuzione immediata, sicura, esente da fluttuazioni e rischi, quale è appunto il salario...

Del resto si può dire che lo sviluppo dell'economia moderna, con le sue proporzioni quantitative e le sue specializzazioni, difficilmente è componibile con un gran numero di piccoli proprietari dei mezzi di lavoro".(vedi nota)

Pio XI nella QA accennava all'opportunità che il contratto di lavoro venisse temperato con un contratto di società, che desse diritto agli operai di partecipare agli utili dell'azienda.

Sebbene tale forma di società non si possa imporre in forza del diritto naturale, perché secondo il magistero di Pio XII non esiste nei lavoratori un diritto alla gestione e cogestione economica dell'impresa,(vedi nota) tuttavia, "salva la necessaria unità di direzione dell'impresa, bisogna promuovere l'attiva partecipazione di tutti alla sua gestione" (GS 68). Il regime salariale è caratterizzato dal contratto di lavoro o contratto di offerta e prestazione d'opera.

Secondo la base che serve per calcolarlo, si distingue in salario a tempo, a cottimo (corrispondente alla quantità di lavoro svolto), a premio.

7.5.2

Testi del Magistero

Leone XIII nella Rerum novarum:

"Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che né le divine né le umane leggi permettono opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e trafficare sulla miseria del prossimo "(17). "Tocchiamo ora un punto di grande importanza e che va bene inteso per non cadere in uno dei due estremi opposti.

La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra debitore di altro. Soltanto allora, che o non paghi l'intera mercede il padrone, o non presti tutta l'opera pattuita l'operaio, si commette ingiustizia, e solo a tutela di questi diritti, non per altre cagioni, è lecito l'intervento dello stato. A questo ragionamento non può un equo estimatore delle cose consentire né facilmente né in tutto, perché esso non riguarda la cosa da ogni lato. Il lavoro è l'attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla sua conservazione... Ha dunque il lavoro nell'uomo come due caratteri impressigli dalla natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria di chi lo esercita e al cui vantaggio fu data...; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro abbisogna all'uomo per il mantenimento della vita..."(34).

"Or se si guardi al solo aspetto della personalità, non vi è dubbio che l'operaio può pattuire una mercede inferiore al giusto: poiché siccome egli offre volontariamente l'opera, così può, volendo, contentarsi di un esiguo salario, o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità; due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti conservarsi in vita è un dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa.

Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. L'operaio e il padrone allora facciano pure di comune consenso il contratto e stabiliscano la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che la quantità del salario non dev'essere inferiore al sostentamento dell'operaio, sobrio e onesto. Se costui, costretto dalla necessità, o per timore di peggio, accetta patti più duri, perché imposti dal proprietario o dall'imprenditore, e che volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta "(34).

"Quando l'operaio riceve un salario sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia, in una certa quale agiatezza, s'egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare "(35).

Pio XI nella Quadragesimo anno

"Orbene chi per guadagnarsi il vitto e il necessario alla vita non ha che il lavoro, come potrà, pur vivendo parcamente, mettersi da parte qualche fortuna se non con la paga che trae dal lavoro? Affrontiamo dunque la questione del salario, da Leone XIII definita "assai importante... "(65).

Il contratto di società: "E da prima l'affermazione che il contratto di offerta e di prestazione di opera sia di natura sua ingiusto, e quindi si debba sostituire col contratto di società, è affermazione gratuita e calunniosa contro il Nostro Predecessore, la cui enciclica RN non solo lo ammette, ma tratta a lungo sul modo di disciplinarlo secondo le norme della giustizia.(66)

Tuttavia nelle odierne condizioni sociali, stimiamo sia cosa più prudente che, quando è possibile il contratto del lavoro venga temperato alquanto col contratto di società. Come già si è cominciato a fare in diverse maniere, con non poco vantaggio degli operai stessi e dei padroni. Così gli operai diventano cointeressati o nella proprietà o nella amministrazione, e compartecipi in certa misura dei lucri percepiti.(67)

Sono certo in errore coloro i quali non dubitano di proclamare come principio, che tanto vale il lavoro d'altrettanto deve essere rimunerato quanto valgono i frutti da esso prodotti, e perciò il prestatore del lavoro ha il diritto di esigere quanto si è ottenuto col suo lavoro: principio la cui assurdità appare anche da quanto abbiamo esposto, trattando della proprietà"(69).

"Ora è facile intendere che oltre al carattere personale e individuale deve considerarsi il carattere sociale come della proprietà, così anche del lavoro "(70).

"Da questo doppio carattere, insito nella natura stessa del lavoro umano, sorgono gravissime conseguenze, a norma delle quali il salario vuole essere regolato e determinato "(71).

a) il sostentamento del lavoratore e della sua famiglia: salario familiare

"In primo luogo, all'operaio si deve dare una mercede che basti al sostentamento di lui e della sua famiglia. È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze contribuisca al comune sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell'età fanciullesca né della debolezza della donna. Le madri di famiglia prestino l'opera loro in casa soprattutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un lavoro remunerato fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri e particolarmente la cura e l'educazione dei loro bambini, è una pessima abitudine, che si deve con ogni sforzo eliminare. Bisogna dunque fare di tutto perché i padri di famiglia percepiscano una mercede tale che basti per provvedere convenientemente alle comune necessità domestiche. Che se nelle presenti circostanze della società ciò non sempre si potrà fare, la giustizia sociale richiede che s’introducano quanto prima quelle modifiche che assicurino ad ogni operaio adulto tali salari.

Sono altresì meritevoli di lode tutti quelli che con saggia e utile decisione hanno sperimentato e tentato diverse vie, onde la mercede del lavoro si retribuisca con tale corrispondenza ai pesi della famiglia che, aumentando questi, anche quella si somministri più larga; e anzi, se occorra, si soddisfi alle necessità straordinarie "(72).

b) La situazione dell'azienda (necessità che ogni azienda operi senza gravi difficoltà)

"Nello stabilire la quantità della mercede si deve tenere conto anche dello stato dell'azienda e dell'imprenditore di essa, perché è ingiusto chiedere esagerati salari quando l'azienda non li può sopportare senza la rovina propria e il conseguente danno degli operai "(73).

c) la necessità di favorire il bene comune (il salario contemperato al pubblico bene)

"Finalmente la quantità del salario deve contemperarsi col pubblico bene economico. Già abbiamo detto quanto giovi a questo bene comune che i prestatori d'opera mettano da parte la porzione di salario che loro sopravanza alle spese necessarie, per giungere a poco a poco ad un modesto patrimonio...

È contrario dunque alla giustizia sociale che per badare al proprio vantaggio senza aver riguardo al bene comune, il salario degli operai venga troppo abbassato o troppo innalzato; e la medesima giustizia richiede che, nel consenso delle menti e delle volontà, per quanto è possibile, il salario venga temperato in maniera che a quanti più è possibile sia dato di prestare l'opera loro e percepirne i frutti convenienti per il sostentamento della vita "(75).

Giovanni XXIII nella Mater et magistra

"Riteniamo perciò nostro dovere riaffermare ancora una volta che la retribuzione del lavoro, come non può essere abbandonata alle leggi di mercato, così non può essere fissata arbitrariamente; va invece determinata secondo giustizia ed equità.

Il che esige che ai lavoratori venga corrisposta una retribuzione che loro consenta un tenore di vita veramente umano e di far fronte dignitosamente alle responsabilità familiari; ma si esige pure che nella determinazione della retribuzione si abbia riguardo al loro effettivo apporto nella produzione e alle condizioni economiche delle imprese; alle esigenze del bene comune delle rispettive comunità politiche, specialmente per quanto riguarda le ripercussioni sull'impiego complessivo delle forze di lavoro dell'intero paese, come pure le esigenze del bene comune universale e cioè delle Comunità internazionali di diversa natura e ampiezza "(58).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens

"Il salario, cioè la rimunerazione del lavoro, rimane una via concreta, attraverso la quale la stragrande maggioranza degli uomini può accedere a quei beni che sono destinati all'uso comune: sia beni della natura, sia quelli che sono frutto della produzione. Gli uni e gli altri diventano accessibili all'uomo del lavoro grazie al salario, che egli riceve come rimunerazione per il suo lavoro. Di qui, proprio il giusto salario diventa in ogni caso la concreta verifica della giustizia di tutto il sistema socio-economico e, ad ogni modo, del suo giusto funzionamento. Non è questa l'unica verifica, ma è particolarmente importante ed è, in un certo senso, la verifica chiave.

Questa verifica riguarda soprattutto la famiglia. Una giusta rimunerazione per il lavoro della persona adulta, che ha responsabilità di famiglia, è quella che sarà sufficiente per fondare e mantenere degnamente una famiglia e per assicurarne il futuro. Tale rimunerazione può realizzarsi sia per il tramite del cosiddetto salario familiare - cioè un salario unico dato al capo famiglia per il suo lavoro, e sufficiente per il bisogno della famiglia, senza la necessità di far assumere un lavoro retributivo fuori casa alla coniuge -, sia per il tramite di altri provvedimenti sociali, come assegni familiari o contributi alla madre che si dedica esclusivamente alla famiglia, contributi che devono corrispondere alle effettive necessità, cioè al numero delle persone a carico per tutto il tempo che esse non siano in grado di assumersi degnamente la responsabilità della propria vita.

Accanto al salario, qui entrano in gioco ancora varie prestazioni sociali, aventi come scopo quello di assicurare la vita e la salute dei lavoratori e quella della loro famiglia. Le spese riguardanti le necessità della cura della salute, specialmente in caso di incidenti sul lavoro, esigono che il lavoratore abbia facile accesso all'assistenza sanitaria, e ciò, in quanto è possibile, a basso costo, o addirittura gratuitamente.

Un altro settore, che riguarda le prestazioni, è quello collegato al diritto al riposo: prima di tutto, si tratta qui del regolare riposo settimanale comprendente almeno la domenica ed inoltre un riposo più lungo, cioè le cosiddette ferie una volta all'anno, o eventualmente più volte durante l'anno per periodi più brevi.

Infine si tratta qui del diritto alla pensione e alla assicurazione per la vecchiaia e in caso di incidenti collegati alla prestazione lavorativa. Nell'ambito di questi diritti principali, si sviluppa tutto un sistema di diritti particolari, che insieme con la rimunerazione per il lavoro decidono per la corretta impostazione di rapporti tra il lavoratore e il datore di lavoro. Tra questi diritti ve sempre tenuto presente quello ad ambienti di lavoro e a processi produttivi che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale "(19).

7.6.1

3. Il diritto di associazione (il sindacato)

"Per la difesa dei loro legittimi interessi, i lavoratori hanno il diritto di unirsi in associazioni il cui scopo non può essere di suscitare, perpetuare, acuire la lotta di classe, ma di difendere i diritti della propria categoria in armonia con l'economia del Paese, con gli interessi e i diritti delle altre categorie, e insomma col bene comune della società di cui fanno parte".(vedi nota)

Il diritto di associazione, in generale, deriva dal bisogno di collaborazione e di integrazione che si identifica con l'istinto naturale della società. L'individuo per vivere bene e per progredire ha bisogno degli altri; di qui nasce la collaborazione sociale.

Uno degli aspetti di questa collaborazione è la difesa dei comuni interessi. Per questo nacque la società e, all'interno di essa, i vari tipi di associazione.

Non si può conculcare o negare questo diritto, ma solo regolarlo, disciplinarne l'esercizio in ordine al bene comune.

Nel nostro caso l'avvenimento più drammatico è costituito dall'abolizione delle corporazioni durante la Rivoluzione francese (Legge Le Chapelier 1791), senza sostituire nulla, anzi proibendo la costituzione di qualsiasi associazione. La libertà (ideale della rivoluzione francese) fu privilegio di soli pochi, e per questo masse di operai furono costrette a lavorare in condizioni pietose.

Per un moto di rivolta si ebbe così il movimento operaio, come promozione e organizzazione dell'azione degli operai, uniti per rivendicare i propri interessi e ottenere condizioni migliori di lavoro col peso della propria forza.

a) fasi storiche del movimento operaio(vedi nota)

1- Nella seconda metà del '700 il movimento operaio si concreta in organizzazioni di mutuo soccorso, che sorgono quasi contemporaneamente alla scomparsa delle corporazioni.

Queste organizzazioni, per lo più caritative, non avevano lo scopo di contrapporre una classe all'altra. Ma l'atteggiamento degli stati fu negativo.

2- La massa operaia è indotta a forme di violenza disorganizzata e oltrepassante la semplice richiesta di miglioramenti sociali (lotta contro le macchine nel primo '800 in Inghilterra, moti rivoluzionari del 1830, 1831,1832.

La reazione dei pubblici poteri è ancora negativa. Però in Inghilterra viene abrogata nel 1824 la legge del 1799 contro le coalizioni operaie, e in Francia nel 1864.

3- Sia in Francia che in Inghilterra il movimento operaio si sente obbligato a spostare la propria azione sul piano politico. Le organizzazioni operaie in entrambi i paesi superano ormai la fase del mutuo soccorso.

In Francia assumono la figura di "società di resistenza" a sfondo rivoluzionario, mentre in Inghilterra si trasformano in movimenti di rivendicazione.

È una fase di ampia ma disordinata azione politica. È il tempo del Manifesto di Marx.

4- La costituzione e il consolidamento delle organizzazioni sindacali. Inghilterra: fondazione delle unioni nazionali dei lavoratori e Consiglio dei sindacati a Londra, fondato su una stretta solidarietà tra i massimi dirigenti, premessa della solidarietà fra tutti i lavoratori.

5- L’insufficienza dell'organizzazione sindacale in tutti i paesi (eccetto l'Inghilterra) determina la necessità della creazione di una forza politica con fini analoghi a quelli perseguiti dal sindacato sul terreno economico-sociale.

Si costituiscono perciò i vari partiti a sfondo socialista. Germania (1875), Francia, Italia (1880), Belgio (1865), Spagna (1878) Austria (1898).(vedi nota)

6- Il problema del miglioramento delle condizioni dei laboratori (salario, ambiente, previdenza, assistenza, formazione, professione...) è generalmente risolto o in via di risoluzione.

Il miglioramento è ottenuto con la lotta sindacale e anche mediante l'azione politica, stimolata e sostenuta dal movimento operaio, che così ha assunto un'ampiezza di respiro che mai aveva avuto in precedenza. Oggi esso tende ad allargare il suo campo d'azione oltre i settori strettamente legati al lavoro, per affrontare i problemi della società dove il lavoro si inquadra come uno dei valori preminenti sul piano economico, politico, culturale e sociale.

Nello stesso tempo le organizzazioni sindacali si sono arricchite di persone esperte e competenti che sono in grado di vedere meglio i problemi generali dell'economia e della vita sociale in uno stato moderno, così da essere in grado di portare un contributo notevole alla impostazione e allo svolgimento di programmi di politica economico-sociale.

b) accanto ai sindacati sorgono le associazioni professionali

"Nella società moderna è da favorire il più ampio sviluppo delle organizzazioni professionali che hanno come scopo di difendere e sostenere gli interessi comuni e di risolvere i conflitti dei loro membri e delle stesse associazioni, su di un terreno e in un ambiente di propria competenza, che precede l'intervento dello stato".(vedi nota)

Si tratta delle associazioni degli industriali, commercianti, agricoltori, oppure delle unioni dei vari rami delle professioni (medici, avvocati, magistrati, giornalisti, tecnici, docenti...).

Queste organizzazioni si fondano in base al legame che si crea naturalmente tra coloro che sono più vicini e sentono il bisogno di stabilire una solidarietà nell'esercizio della professione, della produzione dei beni, e nella prestazione dei servizi.

È bene che per l'esercizio dei diritti in seno alla categoria, in vista del bene comune, si stabilisca un organo rivestito di qualche autorità e incaricato di dare convenienti norme regolamentari, gestire i servizi della professione, comporre eventuali conflitti interni, trattare con altre categorie e con lo stato in modo rappresentativo. Lo Stato dovrà svolgere anche in questo campo un ruolo di promozione, coordinamento e supplenza, lasciando, da una parte, la massima libertà di costituzione e di azione per tali organizzazioni e anzi servendosene, trattando con esse, chiedendo i loro pareri e i loro "desiderata": e dall'altra vigilando perché la loro azione, al pari di quella dei sindacati e di qualsiasi altro ente e organo sociale, sia veramente ordinata e utile al bene comune.

c) la libertà dell'organizzazione sindacale e professionale

Principio fondamentale di tutta l'articolazione della vita sociale in uno stato veramente democratico è che le organizzazioni sindacali e le associazioni professionali sorgano, liberamente, per spontanea iniziativa e azione degli interessati -ossia degli appartenenti alle varie categorie e ai vari settori dell'attività produttiva e culturale -e non per una imposizione dell'autorità pubblica che praticamente ne faccia dei semplici organi esecutivi della politica generale dello stato contro gli interessi dei gruppi sociali che devono rappresentare.

Nei regimi totalitari tutto questo non è garantito, anzi avviene tutto l'opposto: l'attività sindacale non ha altro compito che quello di attuare la politica dello stato secondo le direttive del partito e del regime collettivista da esso imposte.

In questo caso si ha la negazione o il travolgimento della funzione stessa del sindacato, mentre le categorie lavoratrici restano senza difesa dinanzi al nuovo unico padrone o datore di lavoro che non ammette discussioni sui suoi piani e tanto meno permette resistenze o scioperi.

7.6.2

Testi del Magistero

Leone XIII nella Rerum novarum

"Il sentimento della propria debolezza sospinge l'uomo a voler unire la sua opera all'altrui. La s. Scrittura dice: "È meglio essere in due che uno solo; perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, uno rialza l'altro. Guai invece a chi è solo; se cade, non ha nessuno che lo rialzi" (Qo 4,9-12). E altrove: "Il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata "(Pr 18,19). L'istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione "(37).

Lo stato non può proibire la formazione di queste associazioni, poiché il diritto di unirsi in società l'uomo l'ha dalla natura; e i diritti naturali lo stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddice se stesso, perché l'origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell'uomo "(38).

"Degnissimi d'encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo al fine di migliorare onestamente la condizione degli operai...

A tal fine vediamo spesso adunarsi dei congressi... Altri si ingegnano di stringere acconciamente in società le varie classi operaie... Di qui pigliamo augurio a sperar bene per l'avvenire, purché tali società fioriscano sempre più e siano saggiamente ordinate.

Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini, non si intrometta nell’intimo della organizzazione e disciplina" (41). "Avendo libero arbitrio di legarsi in società, debbono avere altresì diritto di scegliere per i loro consorzi quell'ordinamento che giudicano più confacente ai loro fine...

In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante, doversi le associazioni degli operai ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più acconci e spediti ai conseguimento dei fini, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale "(42).

Giovanni XXIII nella Pacem in terris

"Dall'intrinseca socialità degli esseri umani fluisce il diritto di riunione e di associazione; come pure il diritto di conferire alle associazioni la struttura che si ritiene idonea a perseguire gli obiettivi delle medesime, e i diritto di muoversi all'interno di esse di propria iniziativa e sulla propria responsabilità per il concreto perseguimento dei detti obiettivi.

Nell'enc. MeM a ragione è detto che la creazione di una ricca gamma di associazioni o corpi intermedi per il perseguimento di obiettivi che i singoli esseri umani non possono efficacemente perseguire che associandosi, si rivela un elemento necessario e insostituibile perché sia assicurata alla persona umana una sfera sufficiente di libertà e di responsabilità"(11).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens menziona, tra i diritti dei lavoratori anche "Il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni.

Queste unioni hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini del lavoro sono fino a un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo riflesso particolare.

I sindacati trovano la propria ascendenza, in un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e, quindi, in base al lavoro che effettuavano.

Al tempo stesso, però i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto essenziale: i moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei mezzi di produzione. La difesa degli interessi essenziali dei lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti, costituisce il loro compito. L'esperienza storica insegna che le organizzazioni di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate... Sì, essi sono un esponente della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni.

Tuttavia, questa lotta deve essere vista come un normale adoperarsi per il giusto bene: in questo caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta "contro" gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene della giustizia sociale, e non per la lotta, oppure per eliminare l'avversario.

Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità...

Alla luce di questa fondamentale struttura di ogni lavoro, …l'unione degli uomini per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro, rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da cui non è possibile prescindere...

Le richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di "egoismo" di gruppo o di classe... In questo senso l'attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della "politica", intesa questa come una prudente sollecitudine del bene comune.

Al tempo stesso, però, il compito dei sindacati non è di "fare politica" nel senso che comunemente si da oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il carattere di 'partiti politici" che lottano per il potere. In una tale situazione essi perdono facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di assicurare i giusti diritti degli uomini dei lavoro nel quadro del bene comune dell'intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri scopi "(20).

7.7.1

Lo sciopero

1. Che cosa è

"È la sospensione collettiva del lavoro concordata dai lavoratori e decisa dai loro organi rappresentativi per rivendicare dei loro diritti riguardo alla giusta retribuzione del lavoro o anche alle condizioni fisiche, ambientali, economiche, morali in cui esso si svolge. Secondo questa definizione, lo sciopero è di natura sua un atto di lotta col quale si intende ottenere la soluzione di un conflitto economico cui non si è giunti per via pacifica. È paragonabile ad una guerra; in certe condizioni ed entro certi limiti è lecito e giusto". (vedi nota)

7.7.2

2. Perché è lecito

Perché l'altra parte è venuta meno ai suoi impegni oppure si rifiuta di prendere in considerazione nuove legittime richieste.

7.7.3

3. Quando è lecito

Perché sia ammissibile si richiede che si siano esperiti tutti i mezzi di soluzione pacifica (trattativa), che ci siano ragioni gravi, che sia contenuto nei limiti di tempo d'azione strettamente necessari a raggiungere lo scopo prefisso, che i danni provocati siano almeno proporzionati agli effetti buoni.

È lecito lo sciopero di solidarietà.

Per certe categorie è inammissibile lo sciopero anche solo parziale, poiché ne andrebbe di mezzo l'ordine pubblico e la pace sociale (ad es., la forza pubblica). Altre categorie (medici...) devono garantire almeno un minimo si servizio.

7.7.4

Testi del Magistero

Leone XIII nella Rerum novarum

"Il lavoro troppo lungo e gravoso, e la mercede giudicata scarsa, porgono, non di rado, agli operai motivo di sciopero. A questo sconcio grave e frequente occorre che ripari lo stato: perché tali scioperi non recano danno ai padroni solamente e agli operai insieme, ma al commercio e ai comuni interessi; e per le violenze e i tumulti a cui di ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare si è di prevenire il male con l'autorità delle leggi e impedirne lo scoppio, rimuovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere tra operai e padroni il conflitto "(31).

Concilio Ecumenico Vaticano Il: Gaudium et Spes

"In caso di conflitti economico-sociali si deve fare ogni sforzo per giungere a una soluzione pacifica. Benché sempre si debba ricorrere innanzitutto a un dialogo sincero tra le parti, lo sciopero può tuttavia rimanere anche nelle circostanze odierne un mezzo necessario, benché estremo, per la difesa dei propri diritti e la soddisfazione delle giuste aspirazioni dei lavoratori "(68).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens

"Adoperandosi per i giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche del metodo dello sciopero, cioè del blocco del lavoro, come di una specie di ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di lavoro.

Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti.

In relazione a ciò i lavoratori dovrebbero aver assicurato il diritto allo sciopero, senza subire personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che questo è un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo sciopero rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può abusare; non se ne può abusare specialmente per giochi "politici". Inoltre non si può mai dimenticare che, quando trattasi di servizi essenziali alla convivenza civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se necessario, apposite misure legali".(20)