Capo VIII

L'economia

  1. Definizione

Per economia (vocabolo che deriva dal greco e significa governo della casa) si intende "il complesso delle istituzioni e dei processi che permettono di soddisfare in maniera pianificata, costante e sicura il bisogno umano di beni e di servizi materiali".(vedi nota)

La dottrina sociale della Chiesa ne tratta sia sotto il profilo dell'essere sia sotto quello normativo perché nell'economia sono impegnati gli uomini. Non entra nella materia specifica, ma si chiede, da un punto di vista filosofico e teologico, quale sia il senso ultimo e intrinseco dell'economia.

Ciò, dunque, che interessa alla dottrina sociale della Chiesa è l'etica economica, in quanto scienza del comportamento morale dell'uomo impegnato in economia.

La Chiesa infatti è convinta che sebbene l'economia e la morale si appoggino su principi propri, tuttavia "sarebbe errato affermare che l'ordine economico e l'ordine morale siano così disparati ed estranei l'un l'altro che il primo in nessun modo dipende dal secondo"(QA 42). Ci si pongono pertanto tre problemi:

- quale sia il fine oggettivo o intrinseco dell'economia;

- in che cosa consista l'ordinamento dell'economia;

- come vada attuato il processo distributivo in senso economico.

8.0.2

2. Il fine oggettivo dell'economia

a) premesse per la determinazione del fine oggettivo dell'economia

1- L'uomo è signore di questo mondo. Lo è a motivo della sua natura corporeo-spirituale. In quanto materia è legato a questo mondo; in quanto spirito lo trascende.

Questo dominio corrisponde sia alla natura dell'uomo sia ad una precisa vocazione assegnata da Dio allorché gli ha comandato di crescere, moltiplicarsi, riempire la terra e assoggettarla (Gn 1,28).

Se tutte le cose sono in suo dominio, egli tuttavia deve garantirne il godimento a tutti, intesi in senso orizzontale e verticale.

I beni di questa terra infatti sono stati originariamente destinati da Dio a tutta la famiglia umana (QA 45) e non a uomini determinati, come invece ad ogni singolo uomo è stato dato il dominio sul proprio corpo. Ciò richiede che l'uomo impari a dominare se stesso e il proprio egoismo.

2- La dipendenza dell'uomo dai beni materiali. In quanto corporeo l'uomo ha bisogno degli elementi di questo mondo sia per il suo sostentamento biologico sia anche per il suo progresso spirituale. Non è possibile infatti alcuna crescita nella scienza, nella cultura se non disponendo di mezzi.

Oggi vi è una sproporzione enorme nel possesso dei beni: un terzo della popolazione mondiale possiede l'80% dei beni, mentre gli altri due terzi devono accontentarsi del rimanente 20%.

3- Scarsità dei beni e dovere di economizzare. I beni di cui l'uomo ha bisogno non sono inesauribili. Inoltre certi beni esigono di essere continuamente riprodotti (cereali, ortaggi...). "Nell'era industriale gli uomini hanno senza dubbio scialacquato molti beni economici, come per esempio le fonti dell'energia: carbone, petrolio, gas naturale, legno... ". (vedi nota)

4- Collaborazione e divisione del lavoro. Gli uomini, insieme, producono di più. Adam Smith (1776) aveva notato che la produzione dei beni era stata notevolmente favorita dalla divisione e dalla specializzazione del lavoro. Diceva: "Un operaio non addestrato applicandosi al massimo difficilmente riuscirà a fare uno spillo al giorno. Ora invece io ho visto una piccola manifattura di questo tipo dov'erano impiegati soltanto dieci uomini. Erano in grado, quando ci si mettevano, di fabbricare fra tutti più di 48.000 spilli al giorno".(vedi nota)

La divisione del lavoro e lo scambio di merci, la compra-vendita, la valutazione e il credito presuppongono quale strumento indispensabile il sistema monetario, che va garantito da una politica monetaria che curi la stabilità dei prezzi, delle entrate e dell'occupazione.

b) quale il fine dell'economia

"Autore, centro e fine di tutta la vita economica è l'uomo" (GS 63). Questa affermazione aiuta a comprendere quale sia il fine intrinseco dell'economia. Esso "consiste nella creazione continua e sicura di quelle premesse materiali che rendono possibile al singolo e agli organismi sociali uno sviluppo degno dell'uomo".(vedi nota)

Suo scopo "non è quello di aumentare in maniera sempre crescente il volume di beni, bensì di servire tutti i valori umani, principalmente quelli sociali" .(vedi nota)

Dice la QA: "I beni debbono essere tanti quanti sono necessari sia a soddisfare ai bisogni e alle oneste necessità, sia a promuovere gli uomini a quella più felice condizione di vita che, quando la cosa si faccia prudentemente, non solo non è d'ostacolo alla virtù, ma grandemente la favorisce"(76).

È da ricordare inoltre che l'economia non è l'unico fine né il fine ultimo dell'uomo. Deve pertanto inserirsi convenientemente nell'ordine universale dei fini. Superiori ad essa sono la dignità e la libertà dell'uomo, il matrimonio e la famiglia, la religione e la morale, i valori culturali e "il fine ultimo di tutte le cose che è Dio"(cfr. QA 43).

Giovanni XXIII nella MeM afferma: "Rileviamo con amarezza che non sono pochi gli uomini nei quali i valori dello spirito sono trascurati o dimenticati o negati, mentre i progressi delle scienze, delle tecniche, lo sviluppo economico, il benessere materiale vengono caldeggiati e propugnati spesso come preminenti e perfino elevati ad unica ragione di vita"(163). E "i progressi scientifico-tecnici, lo sviluppo economico, i miglioramenti delle condizioni di vita sono certamente elementi positivi di una civiltà. Però dobbiamo ricordare che non sono né possono essere considerati valori supremi, nei confronti dei quali rivestono carattere essenzialmente strumentale"(162).

In CA si legge: "La domanda di un'esistenza qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé cosa legittima: ma non si possono non sottolineare le nuove responsabilità e i pericoli connessi con questa fase storica. Nel modo in cui sorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una concezione più o meno adeguata dell'uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita. È qui che sorge il fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario lasciarsi guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema economico non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostacolano la formazione di una personalità matura. È perciò necessaria e urgente una grande opera educativa e culturale, la quale comprenda l'educazione dei consumatori a un uso responsabile del loro potere di scelta, la formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori e soprattutto nei professionisti delle comunicazioni di massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche autorità.

Un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità dell'uomo e certo non facile a controllare, è quello della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema sociale e sottintende anch'essa una lettura materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni umani. Così la capacità innovativa dell'economia libera finisce con l'attuarsi in modo unilaterale e inadeguato. La droga come anche la pornografia e altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venuto a creare.

Non è male desiderare di vivere meglio, ma è sbagliato lo stile di vita che si presume essere migliore, quando è orientato all'avere e non all'essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare l'esistenza in un godimento fine a se stesso. È necessario perciò adoperarsi per costruire stili di vita, nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti" (36).

8.0.3

3. L'ordinamento dell'economia

Quale dev'essere l'ordinamento dell'economia perché possa attingere il suo fine?

Esso dipende essenzialmente dal concetto di persona e di società. Nella storia recente sono stati proposti diversi modelli.

a) l’ordinamento dell'economia secondo il liberalismo

Il liberalismo economico (detto anche "paleoliberalismo") fu fondato da Adam Smith (1723-1790).

La dottrina economica che ad esso si ispira può essere esposta in cinque punti:

1- Esiste un ordinamento "naturale" dell'economia. Come il cosmo è ordinato e armonico, così anche l'economia possiede un suo ordinamento naturale prestabilito, un'armonia prestabilita, in cui tutto procede spontaneamente nel modo giusto, purché si permetta alle forze naturali di svilupparsi.

La preoccupazione di far felici tutti è compito di Dio, non degli uomini. Non bisogna dunque intervenire nell'ordine della natura per non causare disordine.

2- La nostra ragione può cogliere l'ordinamento "naturale" dell'economia.

3- Il principio fondamentale dell'ordinamento economico è l'idea individualistica della libertà. I legami delle corporazioni vanno infranti. Ci deve essere assoluta libertà di proprietà, di contrattazione, di concorrenza, di mercato, di professione. Nel campo dell'economia ogni dirigismo e pianificazione statale produrrebbe soltanto danni. Di qui il "laissez faire, laissez passer".

4- Il motore naturale dell'economia è l'interesse personale. Chi persegue il proprio interesse promuove nello stesso tempo anche l'interesse della nazione in una maniera molto più efficace che se si mirasse intenzionalmente solo al bene comune.

L'esperienza dimostra che il lavoro degli schiavi è il più costoso di tutti, perché chi non può guadagnare niente per sé, non ha altro interesse che quello di mangiare il più possibile e di lavorare meno che può.

Queste affermazioni vengono giustificate con motivazioni teologiche. Hermann Heinrich Gossen (1810-1858) disse che come Dio ha messo ordine nei suoi mondi con la forza della gravità, così crea ordine tra i suoi uomini con l'interesse personale. È l'interesse personale che li abbraccia e li costringe a promuovere in reciproco scambio i bene del prossimo contemporaneamente al proprio.

Dice Smith: "Gli interessi e le inclinazioni naturali dell'uomo coincidono nel modo più esatto con gli interessi generali. Il singolo mira al proprio guadagno, ma mentre agisce così è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni".(vedi nota)

5- Il timone ordinatore dell'economia è la concorrenza. Per trasformare l'egoismo in altruismo la misteriosa mano invisibile di Dio si serve di un mezzo semplice, cioè della concorrenza.

Come l'interesse personale è il motore che fa girare l'economia, così la concorrenza è il timone che mette ordine e che guida i molteplici interessi particolari ad armonizzarsi a tendere al bene comune.

Dal momento che la concorrenza è la garante del bene comune, bisogna rifiutare le sovvenzioni ai mercanti che fanno la corte allo stato.

I padri del capitalismo ebbero molte speranze in questi principi. Pensarono di creare un'era felice per tutti, soprattutto con l'impiego della tecnica, della chimica e della biologia. Risultati ve ne furono. Nel mondo occidentale l'età media passò dai 30 ai 70 anni. Ma provocò anche la questione sociale e il proletariato, perché i lavoratori nullatenenti e inizialmente ancora non uniti in sindacato, non potevano gettare nella concorrenza alcuna proprietà, ma solo la loro forza di lavoro.

Del resto sono note le ripetute gravissime congiunture economiche che gettarono sul lastrico milioni di lavoratori e di famiglie. L'ultima crisi (1929-1931) segnò storicamente la nascita del neoliberalismo. Esso riconosce gli errori del vecchio liberalismo e cercò in qualche modo di prenderne le distanze.

Per ovviare alla "proliferazione" di tendenze prepotentemente monopolistiche, estranee e ostili all'economia di mercato" furono individuati quattro presupposti per riordinare la vita economica:

1- economia di mercato e libera concorrenza non sono la stessa cosa: infatti la costituzione di monopoli elimina la libera concorrenza e la libera contrattazione. Perciò bisogna impedire la formazione dei monopoli.

2- la libera concorrenza nella produzione non si sviluppa da sola, ma va piuttosto favorita dallo stato. Lo stato non è semplicemente un gendarme che garantisce la libertà di tutti, ma deve dare all'economia una struttura che permetta alla libera concorrenza di svilupparsi. Secondo la concezione neoliberale la libera concorrenza, garantita dalla politica economica costitutiva e regolativa, rappresenta la terza via tra capitalismo e collettivismo.

3- Esiste una lunga serie di cose che non sono accessibili al meccanismo di mercato e che sono pure di grandissima importanza per l'uomo. Alcune persone non sono in grado di provvedere a se stesse e non possono essere gettate sul mercato di concorrenza. Si dovrà allora provvedere diversamente (assistenza ospedaliera, scuola...).

4- Il mercato avrebbe unicamente una funzione di servizio, non sarebbe fine a se stesso, ma dovrebbe portare a provvedere nel modo più favorevole agli uomini.

Che dire del neoliberalismo?

Se del paleoliberalismo la QA diceva che "il retto ordinamento dell'economia non può essere abbandonato alla libera concorrenza delle forze" e che "la libera concorrenza quantunque sia cosa equa certamente e utile se contenuta in limiti ben determinati, non può essere in nessun conto il timone dell'economia"(89), la MeM dice del neoliberalismo che dove manca o fa difetto la doverosa opera dello stato, che ha carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di integrazione, vi è disordine insanabile, sfruttamento dei deboli da parte dei forti meno scrupolosi, che attecchiscono in ogni terra e in ogni tempo come il loglio tra il grano(cfr. 40 e 44).

b) l’ordinamento dell'economia secondo il socialismo

Marx affermò che "nella produzione sociale (economia) gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali.

L'insieme di questi rapporti economici costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.

Il modo di produzione della vita materiale condiziona in generale il processo sociale, politico o spirituale nella vita".(vedi nota) All’economia viene data la massima importanza. Essa condiziona tutto, anche il modo di pensare.

La caduta iniziale sarebbe consistita nell'appropriazione indebita, da parte di alcuni, dei mezzi di produzione.

Nella storia vi sono state tre grandi forme di schiavitù: quella antica, quella della gleba (feudale) e il sistema salariale capitalista.

Ma il capitalismo ha generato il proletariato e con esso la sua stessa sconfitta.

Il paradiso comunista non si instaurerà subito, dovendo passare prima per un periodo di transizione, di rigurgito capitalista, che richiederà l'impegno della forza repressiva. In un secondo momento sarebbe stata necessaria una guerra contro i paesi non socialisti perché avrebbero costituito un pericolo costante. "Solo dopo che avremo abbattuto, vinto ed espropriato completamente la borghesia in tutto il mondo e non in un solo paese, le guerre diverranno impossibili"(Lenin). Vi sarà allora la vera libertà.

All’interno del socialismo si è sviluppata una corrente definitasi di socialdemocrazia. Si discosta dal pensiero di Marx perché accetta il principio della proprietà privata da estendere a tutti i ceti della popolazione; propone il passaggio di alcuni rami dell'economia dal settore privato a quello pubblico; si rifà al socialismo utopico.

Testi del Magistero

Pio XI nella Quadragesimo anno

"L'ordinamento economico in cui generalmente si contribuisce all'attività economica dagli uni col capitale, dagli altri col lavoro... non è di sua natura vizioso: allora però viola il retto ordine quando il capitale vincola a sé gli operai ossia la classe proletaria col fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l'economia tutta, senza far caso né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale dell'economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune" (100-101).

Funeste conseguenze del sistema capitalista: "Ultime conseguenze dello spirito individualistico nella vita economica sono poi quelle che voi stessi vedete e deplorate: la libera concorrenza cioè si è da se stessa distrutta; alla libertà di mercato è sottentrata l'egemonia economica; alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata ambizione del potere; e tutta l'economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabilmente crudele" (109).

L'origine di tale sistema, secondo Pio XI, è da attribuirsi al razionalismo, in seno al quale è sorta una scienza economica separata dalla legge morale:

"Questi così gravi inconvenienti non potevano essere emendati, o piuttosto prevenuti, se non da una severa disciplina morale, rigidamente mantenuta dall'autorità statale. Ma questa purtroppo mancò. Infatti, avendo il nuovo ordinamento economico cominciato appunto quando le massime del razionalismo erano penetrate in molti e vi avevano messo radici, ne nacque in breve una scienza economica separata dalla legge morale; e per conseguenza alle passioni umane si lasciò libero corso " (133).

Il comunismo poi "insegna e propugna due cose: una lotta di classe la più accanita e l'abolizione assoluta della proprietà privata. E nel perseguire i due intenti non v'ha cosa che esso non ardisca, niente che rispetti: e dove si è impadronito del potere si dimostra tanto crudele e selvaggio che sembra cosa incredibile e mostruosa "(112). La sua natura è "empia e ingiusta "(ib.).

Il socialismo "non può conciliarsi con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. Giacché il suo concetto di società è quanto mai opposto alla verità cristiana"' (117).

Paolo VI in Populorum progressio

Rinnovata condanna del capitalismo: 'Ma su queste condizioni nuove della società si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell'economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale liberalismo senza freno conduceva alla dittatura, a buon diritto denunciata da Pio XI come generatrice dell’"imperialismo internazionale del denaro". Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi, ricordando ancora una volta solennemente che l'economia è al servizio dell'uomo. Ma se è vero che un certo capitalismo è stato la fonte di tante sofferenze, di tante ingiustizie e lotte fratricide, di cui perdurano gli effetti, errato sarebbe attribuire all'industrializzazione stessa dei mali che sono dovuti al nefasto sistema che l'accompagnava. Bisogna al contrario e per debito di giustizia, riconoscere l'apporto insostituibile dell'organizzazione del lavoro e del progresso industriale all'opera dello sviluppo"(26).

Giovanni Paolo II in Sollicitudo rei socialis

"Effettivamente oggi si comprende meglio che la pura accumulazione di beni e di servizi, anche a favore della maggioranza, non basta a realizzare la felicità umana. Né, di conseguenza, la disponibilità dei molteplici benefici reali, apportati negli ultimi tempi dalla scienza e dalla tecnica, compresa l'informatica, comporta la liberazione da ogni forma di schiavitù. Al contrario l'esperienza degli anni più recenti dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a disposizione dell'uomo, non è retta da un intendimento morale e da un orientamento verso il bene comune del genere umano, si ritorce facilmente contro di lui per opprimerlo.

Dovrebbe essere altamente istruttiva una sconcertante constatazione del più recente periodo: accanto alle miserie del sottosviluppo, che non possono essere tollerate, ci troviamo di fronte a una sorta di supersviluppo, egualmente inammissibile, perché, come il primo, è contrario al bene e alla felicità autentica. Tale supersviluppo infatti, consistente nell'eccessiva disponibilità di ogni tipo di beni materiali in favore di alcune fasce sociali, rende facilmente gli uomini schiavi del possesso e del godimento immediato, senza altro orizzonte che la moltiplicazione o la continua sostituzione delle cose, che già si posseggono, con altre più perfette...

Tutti noi tocchiamo con mano i tristi effetti di questa cieca sottomissione al puro consumo: prima di tutto, una forma di materialismo crasso, e al tempo stesso una radicale insoddisfazione, perché si comprende subito che -se non si è premuniti contro il dilagare dei messaggi pubblicitari e l'offerta incessante e tentatrice dei prodotti -quanto più si possiede tanto si desidera, mentre le aspirazioni più profonde restano insoddisfatte e forse anche soffocate.

L'enciclica di papa Paolo VI segnalò la differenza, al giorno d'oggi così frequentemente accentuata, tra l"'avere" e l"'essere".(vedi nota) In precedenza espressa con parole precise dal Concilio Vaticano II (GS 35). L "'avere" oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non contribuisce alla maturazione e all'arricchimento del suo "essere", cioè alla realizzazione della vocazione umana in quanto tale.

Certo, la differenza tra "essere" e avere", il pericolo inerente a una mera moltiplicazione o sostituzione di cose possedute rispetto al valore del’"essere" non deve trasformarsi necessariamente in un'antinomia. Una delle più grandi ingiustizie del mondo contemporaneo consiste proprio in questo: che sono relativamente pochi quelli che possiedono molto, e molti quelli che non possiedono quasi nulla. È l'ingiustizia della cattiva distribuzione dei beni e dei servizi destinati originariamente a tutti.

Ecco allora il quadro: ci sono quelli - i pochi che possiedono molto - che non riescono veramente ad "essere", perché, per un capovolgimento della gerarchia dei valori, ne sono impediti dal culto dell"'avere"; e ci sono quelli - i molti che possiedono poco o nulla -, i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni fondamentali.

Il male non consiste nell"'avere"in quanto tale, ma nel possedere in modo irrispettoso della qualità e dell'ordinata gerarchia che scaturiscono dalla subordinazione dei beni e dalla loro disponibilità all"'essere" dell'uomo e alla sua vera vocazione.

Con ciò resta dimostrato che, se lo sviluppo ha una necessaria dimensione economica, poiché deve fornire al maggior numero possibile degli abitanti del mondo la disponibilità di beni indispensabili per "essere", tuttavia non si esaurisce in tale dimensione. Se viene limitato a questa, esso si ritorce contro quelli che si vorrebbero favorire.(28)

Centesimus annus

"Tra i numerosi fattori della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere ricordati in particolare.

Il fattore decisivo che ha avviato i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei sistemi, che pretendono di esprimere il governo e anzi la dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in Polonia in nome della solidarietà...(23)

Il secondo fattore di crisi è certamente l'inefficienza del sistema economico, che non va considerata semplicemente come un problema tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani alla iniziativa e alla libertà nel settore dell'economia. A questo aspetto va poi associata la dimensione culturale e nazionale: non è possibile comprendere l'uomo partendo unilateralmente dal settore dell'economia, né è possibile definirlo semplicemente in base all'appartenenza di classe. L'uomo è compreso In modo più esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso i linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell'esistenza, come il nascere, l'amare, il lavorare, il morire. Al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più grande, il mistero di Dio. Le culture delle diverse nazioni sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso dell'esistenza personale: quando tale domanda viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale delle nazioni...

La vera causa delle novità, però, è il vuoto spirituale provocato dal marxismo, il quale ha lasciato prive di orientamento le giovani generazioni e in non rari casi le ha indotte, nell'insopprimibile ricerca della propria identità e del senso della vita, a riscoprire le radici religiose della cultura delle loro nazioni e la stessa persona di Cristo, come risposta esistenzialmente adeguata al desiderio di bene, di verità e di vita che è nel cuore di ogni uomo... Il marxismo aveva promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo, ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirvi senza sconvolgere il cuore "(24).

"La crisi del marxismo non elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole, traeva alimento "(26).

"La soluzione marxista è fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel terzo mondo, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei paesi più avanzati... Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema comunista in tanti paesi elimina certo un ostacolo nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi, ma non basta a risolverli. C’è anzi il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al libero sviluppo delle forze di mercato "(42).

8.0.4

4. La dottrina della Chiesa sull'ordinamento dell’economia

"La Chiesa non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono nascere solo nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro.

A tale impegno la Chiesa offre, come indispensabile orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che, come è stato detto, riconosce la positività del mercato e dell'impresa, ma indica nello stesso tempo la necessità che questi siano orientati verso il bene comune.

Essa riconosce anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi maggiori di partecipazione nella vita dell'azienda, di modo che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di altri, possano, in un certo senso, "lavorare in proprio"(LE 15) esercitando la loro intelligenza e libertà...

L'azienda non può essere considerata solo come una "società di capitali"; essa, al tempo stesso, è una "società di persone", di cui entrano a far parte in modo diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia coloro che vi collaborano con il lavoro"(CA 43).

Già in SRS Giovanni Paolo II aveva affermato che "la Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire"(41) e che la sua dottrina sociale "non è una terza via tra capitalismo liberista e collettivismo marxista" (ib.). Di capitale importanza è a questo proposito la dottrina sociale della Chiesa sulla destinazione universale dei beni e la proprietà privata.

8.0.5

5. La destinazione universale dei beni e la proprietà privata

"Di loro natura i beni della terra sono destinati a servire tutti gli uomini per soddisfare il loro diritto alla vita in modo consono alla dignità e alla responsabilità della persona che, specialmente quando si tratta di capifamiglia, esige che i beni siano disponibili in modo da usarne liberamente e in misura da avere in essi una base di sicurezza per il presente e per l'avvenire. Di qui il diritto naturale di proprietà privata, che è normalmente necessario perché l'uso dei beni sia ordinato, sollecito, pacifico e sicuro".(vedi nota)

1. l'uso dei beni è un'esigenza della natura umana

"Per beni della terra si intendono le cose materiali che possono e devono servire al sostentamento dell'uomo e all'incremento della società umana, come si rileva dalla loro stessa natura e capacità e come dichiara la Bibbia.

Ma questo concetto si estende alle forze della natura, alle risorse, alle materie prime..., a tutta una sfera di beni esterni all'uomo che, di loro natura, sono utili alla sua esistenza e vita.

Da questi beni non c'è ragione che alcun uomo venga escluso, quanto all'uso, se non limitatamente in certi casi di punizione, che però non può giungere alla negazione del necessario".(vedi nota)

Non è perciò ammissibile uno stato di cose in cui vi siano degli uomini che senza loro colpa non dispongono dei beni della terra per l'uso strettamente necessario a condurre un'esistenza degna di uomini, tanto meno può accettarsi un ordinamento giuridico-politico che pretenda instaurare o mantenere una tale situazione economico-sociale, radicalmente ingiusta e disumana.

Di qui l'imperativo etico a impegnarsi perché sempre più sia concesso potenzialmente a tutti di accedere all'uso dei beni della terra in misura sufficiente e in modo consono alla propria libertà e dignità di uomini.

2. ragioni che giustificano la proprietà privata

"La proprietà privata, cioè dei singoli o di gruppi particolari, non appartiene all'essenza della disponibilità e dell'impiego dei beni per tutti: ma è ad melius esse".(vedi nota)

È la via che si rivela più consona alla natura dell'uomo e che storicamente ha avuto la sua convalida e riprova, nonostante i suoi inconvenienti ( a cui bisogna rimediare), per le seguenti ragioni:

1- ragione psicologica: l'amore connaturale a sé e ai propri familiari rende più attenti, solleciti, interessati per la custodia, l'impiego e lo sfruttamento dei beni propri;

2- ragione sociale: vi è maggiore possibilità di ordine se ogni cosa è ben divisa e assegnata -entro i giusti limiti -per la sua disponibilità, e perciò è meglio assicurata la pace;

3- ragione psico-sociologica: ognuno tende alla sicurezza circa l'uso dei beni necessari, per il presente e per l'avvenire, sia pure in un quadro di garanzie, di aiuti, di interventi sociali: e la via più sicura per quest'uso è quella della proprietà;

4- ragione morale: con la proprietà si garantisce meglio la libertà della persona e le si concede di esercitare la propria facoltà di scelta, di disposizione, di dispensazione dei beni;

5- ragione ontologica: la proprietà dei beni sembra rispondere meglio alla naturale disposizione delle cose che implica una gerarchia, sul cui vertice è l'uomo persona, direttamente responsabile dinanzi a Dio e superiore a ogni altro potere e struttura, e al quale siano destinate le cose" (Spiazzi, ib.).

3. forme storiche e discussioni sulla proprietà

"La forma storica dell'uso personale dei beni, ordinato, pacifico, può variare nei tempi.

Le antiche differenze tra ricchi e poveri e le stesse eccessive sperequazioni nell'uso e nel possesso dei beni, se denunciavano sempre una carenza di solidarietà e l'imperfezione dell'ordinamento sociale, avevano però anche una spiegazione sociologica, date le condizioni economiche, tecniche, culturali della società.

La stessa schiavitù antica e il servaggio medievale hanno una spiegazione storica e sociologica, di cui bisogna tenere conto.

Nei tempi moderni, la rivoluzione industriale, indotta dall'introduzione della macchina, non poteva non importare la formazione dei grandi capitali -sostituiti ai tesori improduttivi e ai possedimenti terrieri del passato -come mezzi di intrapresa e di lavoro organizzato su vasta scala, e, in fondo, strumenti di benessere sociale. Vi corrisponde la concezione liberista, che porta alla massima affermazione dell'iniziativa privata, ma anche al potere economico dei grandi proprietari dei mezzi di produzione: il cosiddetto capitalismo.

Sono noti gli eccessi teoretici e pratici di questo assolutismo della proprietà, intesa secondo il diritto romano come "ius utendi, fruendi ed abutendi".

Per reazione si inventò la formula secondo la quale "la proprietà è un furto", a cui si riallaccia la critica marxista che vede nella proprietà privata lo sfruttamento del lavoro altrui, e l'appropriazione indebita del plusvalore che il lavoro umano rappresenta oltre il puro valore di scambio, perché il capitalista, una volta compensato il lavoro, sfrutta per sé tutta la ricchezza di cui esso è fonte".(vedi nota)

8.0.6

6. Le ragioni e gli approfondimenti portati dal Magistero

Leone XIII dedica alla proprietà privata tutta la prima parte dell'enciclica Rerum novarum (4-12). Egli la difende da chi pretende di definirla "furto".

Afferma che la proprietà privata è una risultante del lavoro e non è altra cosa che il frutto del lavoro: "Ed invero non è difficile a capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l'artigiano, è la proprietà privata. Infatti se egli impiega le sue forze, la sua industria, a vantaggio altrui, lo fa per procacciarsi il necessario alla vita: e però col suo lavoro acquista vero e perfetto diritto non solo di esigere, ma di investire come vuole la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie venne a fare dei risparmi e, per meglio assicurarli, l'investì in terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma e conseguentemente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come sa ognuno, consiste la proprietà, sia mobile sia stabile. Con l'accomunare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all'operaio la libertà d'investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di vantaggiare il patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono più infelice la condizione" (4).

La proprietà privata è un portato della persona e ne manifesta la trascendenza: "Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una patente ingiustizia, perché diritto di natura è la proprietà privata. Poiché anche in questo passa un gran divario tra l'uomo e il bruto. Il bruto non governa se stesso; ma due istinti lo reggono e lo governano, i quali dall'una parte ne tengono desta l'attività e ne svolgono le forze, dall'altra determinano e circoscrivono ogni suo movimento: cioè l'istinto della conservazione propria e l'istinto della conservazione della propria specie.

A conseguire questi due fini basta l'uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé: né potrebbe mirare più lontano perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile.

Ben diversa è la natura dell'uomo.

Possedendo egli nella sua pienezza la vita sensitiva, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale.

Ma l'animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell'uomo, ciò che lo costituisce tale e lo distingue essenzialmente dal bruto, è l'intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, vuolsi concedere all'uomo sui beni della terra qualche cosa di più che il semplice uso comune anche agli altri animali: e questa non può essere altro che il diritto di proprietà stabile, né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma pure di quelle che l'uso non consuma.(5)

Il che risulta più evidente ove si penetri più addentro nell'umana natura.

Infatti per la sterminata ampiezza del suo conoscimento che abbraccia oltre il presente, l'avvenire, e per la sua libertà, l'uomo, sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a se stesso.

Egli dunque deve poter eleggere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo pei momento che passa, ma pel tempo futuro. Ciò val quanto dire che oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all'uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo vede essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni avvenire. Imperocché i bisogni dell'uomo hanno per così dire una vicenda di perpetui ritorni, sì che soddisfatti oggi, rinascano domani.

Deve pertanto la natura aver dato all'uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso ond'egli abbisogna.(6)

L'aver poi Iddio data la terra ad uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone punto al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli fece a tutti, non già in quanto tutti ne dovessero avere un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò veruna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all'industria degli uomini e al giure speciale dei popoli.

La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servigio e benefizio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non ne riceva alimento da quella"(7).

Papa Leone afferma poi che la proprietà privata è di diritto naturale, è inseparabile dal lavoro ed è difesa dal comandamento divino "non rubare": "Così evidenti sono tali ragioni che non si sa capire come abbiano potuto trovare dei contraddittori in alcuni, che, rinfrescando viete utopie, concedono bensì all'uomo l'uso del suolo ed i vari frutti dei campi; ma del suolo, ove egli ha fabbricato, e del campo che ha coltivato, gli negano la proprietà.

Non si accorgono costoro che in questa guisa vengono a defraudare l'uomo degli effetti del suo lavoro.

Poiché il campo dissodato dalla mano e dall'arte del coltivatore non è più quel di prima: da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono siffattamente corpo in quel terreno, che la maggior parte ne sono inseparabili. Or che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non l'ha lavorato, subentrasse a goderne i frutti? Come l'effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora.

A ragione pertanto il genere umano, senza punto curarsi dei pochi contraddittori, e con l'occhio alla legge di natura, trova in questa medesima legge il fondamento della divisione dei beni, e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente confacente alla natura dell'uomo e alla pacifica convivenza sociale, l'ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli.

E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano dalla stessa legge naturale la propria autorità ed efficacia, confermano tal diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: "Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l'asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono"(Dt 5,21)"(8).

È necessaria per provvedere stabilmente alle necessità della famiglia: "Onde quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all'individuo, va applicato all'uomo come capo famiglia: anzi tal diritto in lui è tanto più forte, quanto più estesa e comprensiva è nel consorzio domestico la sua personalità.(9)

Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli un'immagine di sé, e quasi un espansione e continuazione della sua persona, egli è mosso a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa non possibile ad ottenersi se non mediante l'acquisto di beni fruttiferi, ch'egli poi trasmetta loro in retaggio"(10).

Giova, infine, alla pace nella società: "Ed oltre l'ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza e duro e odioso servaggio dei cittadini. Si aprirebbe la via agli astii, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, tolto all'ingegno e all'industria individuale ogni stimolo, inaridirebbero: e la sognata eguaglianza, non altro sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria.

Tutte codeste ragioni danno diritto a conchiudere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi fini a cui si ha da recare soccorso; offende i diritti naturali di ciascuno; altera le funzioni dello stato, e turba la pace sociale. Resti fermo adunque che nell'opera di migliorare le sorti della classe operaia, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto della proprietà privata"(12).

In CA, ricordando il magistero di Papa Leone, Giovanni Paolo II ricorda "l'uso dei beni, affidato alla libertà, è subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni creati e anche alla volontà di Gesù Cristo...: "I fortunati dunque sono ammoniti... i ricchi debbono tremare pensando alle minacce di Gesù Cristo...; dell'uso dei loro beni dovranno un giorno rendere rigorosissimo conto a Dio giudice", e citando s. Tommaso d'Aquino,(vedi nota) aggiungeva: Ma se si domanda quale deve essere l'uso di tali beni, la Chiesa... non esita a rispondere che a questo proposito l'uomo non deve possedere i beni esterni come propri, ma come comuni, perché sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo"(30).

Pio XI nella Quadragesimo anno, ribadendo la dottrina di Leone XIII, invita a superare sia l'individualismo che il collettivismo: "Pertanto occorre guardarsi dall'urtare contro un doppio scoglio. Giacché, come negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si rasenta il cosiddetto "individualismo", così respingendo o attenuando il carattere privato e individuale del medesimo diritto, necessariamente si precipita nel "collettivismo" o almeno si sconfina verso le sue teorie.

E chi non tenga presenti queste considerazioni va logicamente a naufragare negli scogli del modernismo morale, giuridico e sociale. E di ciò si persuadano coloro specialmente che, amanti delle novità, non si peritano d'incolpare la Chiesa con vituperose calunnie, quasi abbia permesso che nella dottrina dei teologi s'infiltrasse il concetto pagano della proprietà, al quale bisognerebbe assolutamente sostituire un altro che, con strana ignoranza essi chiamano cristiano"(46).

Nello stesso tempo precisa che la proprietà privata è ordinata alla promozione del bene comune. Per questo si richiede l'intervento regolatore dell'autorità: "E veramente dal carattere stesso della proprietà, che abbiamo detta individuale e sociale insieme, si deduce che in questa materia gli uomini debbono aver riguardo non solo al proprio vantaggio, ma altresì al bene comune. La determinazione poi di questi doveri in particolare e secondo le circostanze, e quando non sono gia indicati dalla legge di natura, è ufficio dei pubblici poteri. Onde la pubblica autorità può con maggior cura specificare, considerata la vera necessità del bene comune, e tenendo sempre innanzi agli occhi la legge divina e naturale, che cosa sia lecito ai possidenti e che cosa no, nell'uso dei propri beni"(49).

Ricorda inoltre che il possesso dei beni è ordinato anche a soccorrere le necessità altrui: "Non sono neppure abbandonate al capriccio dell'uomo le libere entrate di lui, quelle cioè di cui egli non abbisogna per un tenore di vita conveniente e decorosa; ché anzi la s. Scrittura e i Santi Padri chiarissimamente e continuamente denunciano ai ricchi il gravissimo precetto onde sono tenuti di esercitare l'elemosina, la beneficenza, la liberalità.(50)

L'impiegare però più copiosi proventi in opere che diano più larga opportunità di lavoro, purché tale lavoro sia per procurare beni veramente utili, dai principi dell'Angelico Dottore si può dedurre che non solo ciò è immune da ogni vizio o morale imperfezione, ma deve ritenersi per opera cospicua della virtù della magnificenza e in tutto corrispondente alle necessità dei tempi" (51).

Accenna infine ai titoli di acquisto della proprietà: "Che la proprietà poi originariamente si acquisti e con l'occupazione di una cosa senza padrone ("res nullius") e con l'industria e il lavoro, ossia con la specificazione come si suol dire, è chiaramente attestato sia dalla tradizione di tutti i tempi, sia da Leone XIII. Non si reca infatti torto a nessuno, checché alcuni dicano il contrario, quando si prende possesso di una cosa che è in balia del pubblico, ossia non è di nessuno; l'industria poi che da un uomo si eserciti in nome proprio e con la quale si aggiunga una nuova forma o un aumento di valore, basta da sola perché questi frutti si aggiudichino a chi vi ha lavorato attorno"(52).

Giovanni XXIII nella Mater et Magistra parla innanzitutto della mutata situazione dell'economia: oggi si garantisce meglio il proprio futuro con l'esercizio di un lavoro e i sistemi di previdenza che con la proprietà: "Ed è pure vero che non sono pochi oggi i cittadini, e il loro numero va crescendo, che dalla loro appartenenza a sistemi assicurativi o di sicurezza sociale traggono argomento per guardare con serenità l'avvenire: serenità che un tempo si fondava sulla proprietà di patrimoni sia pure modesti.(92)

Infine va osservato che ai nostri giorni, più che a diventare proprietari di beni, si aspira ad acquistare capacità professionali; e si nutre maggiore fiducia sul lavoro che sui redditi che hanno come fonte i capitale o diritti fondati sul capitale.(93)

Ciò del resto è in armonia con il carattere preminente del lavoro quale espressione immediata della persona nei confronti del capitale, bene di sua natura strumentale; e va quindi considerato un passo innanzi nell'incivilimento umano"(94).

Tuttavia la proprietà privata è necessaria anche oggi per la realizzazione della personalità dei singoli e per la difesa dei loro diritti: "Gli accennati aspetti che presenta il mondo economico hanno certamente contribuito a diffondere il dubbio che oggi sia venuto meno o abbia perduto di importanza un principio dell'ordine economico-sociale costantemente insegnato e propugnato dai nostri Predecessori; e cioè il principio del diritto naturale della proprietà privata sui beni anche produttivi.(95)

Quel dubbio non ha ragione di esistere. Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente, appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società. Del resto vano sarebbe ribadire la libera iniziativa personale in campo economico, se a siffatta iniziativa non fosse consentito di disporre liberamente dei mezzi indispensabili alla sua affermazione.

Inoltre storia ed esperienza attestano che nei regimi politici che non riconoscono il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni della libertà; perciò è legittimo dedurre che esse trovino in quel diritto garanzia e incentivo" (96).

"In materia pertanto facciamo nostri i rilievi di Pio XII: "Difendendo il principio della proprietà privata la Chiesa persegue un alto fine eticosociale. Essa non intende già sostenere puramente e semplicemente il presente stato di cose, come se vi vedesse l'espressione della volontà divina, né di proteggere per principio il ricco o il plutocrate, contro il povero e il non abbiente... la Chiesa mira piuttosto a far sì che l'istituto della proprietà privata sia quale deve essere secondo il disegno della sapienza divina e le disposizioni della natura". E cioè che sia garanzia dell'essenziale libertà della persona e al tempo stesso un elemento non sostituibile dell'ordine della società"(98).

"Inoltre oggi le economie, in molte comunità politiche, vanno rapidamente aumentando la loro efficienza produttiva. Senonché crescendo il reddito, giustizia ed equità richiedono che venga pure elevata, nei limiti consentiti dal bene, la rimunerazione del lavoro. Ciò permette più facilmente ai lavoratori di risparmiare e perciò di costituirsi un patrimonio.

Non si comprende dunque come possa essere contestato il carattere naturale di un diritto che trova la sua prevalente fonte e il suo perenne alimento nella fecondità del lavoro; che costituisce un mezzo idoneo alla affermazione della persona umana e all'esercizio della responsabilità in tutti i campi; un elemento di consistenza e di serenità per la vita familiare e di pacifico e ordinato sviluppo della convivenza"(99).

Per questo è necessario impegnarsi per una effettiva diffusione della proprietà privata: "Non basta affermare il carattere naturale del diritto di proprietà privata anche sui beni produttivi, ma ne va pure insistentemente propugnata la effettiva diffusione fra tutte le classi sociali.(100)

Come afferma Pio XII, la dignità della persona umana esige "normalmente come fondamento naturale per vivere il diritto all'uso dei beni della terra, a cui risponde l'obbligo fondamentale di accordare una proprietà privata possibilmente a tutti"; mentre tra le esigenze derivanti dalla nobiltà morale del lavoro vi è pure quella che comprende la conservazione e il perfezionamento di un ordine sociale che renda possibile una sicura, seppure modesta, proprietà a tutti i ceti del popolo"(101). Rimane intatto il principio che la proprietà privata è ordinata alla promozione del bene comune e possiede una funzione sociale. Per questo è giusto che sia contemperata da proprietà pubblica, nel rispetto del principio di sussidiarietà: "Quanto sopra esposto non esclude che anche lo stato e gli altri enti pubblici possano legittimamente possedere in proprietà beni strumentali, quando specialmente portano seco una preponderanza economica per cui non si possano lasciare in mano dei privati cittadini senza pericolo del bene comune.(103)

Nell'epoca moderna c'è la tendenza a un progressivo estendersi della proprietà che ha come soggetto lo stato ed altri enti di diritto pubblico. Il fatto trova una spiegazione nelle funzioni sempre più ampie che il bene comune domanda ai poteri pubblici di svolgere. Però anche nella presente materia è da seguirsi il principio di sussidiarietà. Per cui lo stato ed altri enti di diritto pubblico non devono estendere la loro proprietà se non quando lo esigono motivi di evidente e vera necessità di bene comune, e non allo scopo di ridurre e tanto meno eliminare la proprietà privata"(104).

"Un altro punto di dottrina è che al diritto di proprietà privata sui beni è intrinsecamente inerente una funzione sociale.

Nel piano della creazione infatti i beni della terra sono anzitutto preordinati al dignitoso sostentamento di tutti gli esseri umani, come insegna sapientemente il nostro predecessore Leone XIII nella RN: "Chiunque ha ricevuta dalla divina Provvidenza maggiore abbondanza di beni, sia esteriori e corporali, sia spirituali, li ha ricevuti allo scopo di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo, come ministro della Provvidenza a vantaggio altrui"(107).

Nella Pacem in terris scrive che "Torna opportuno ricordare che al diritto di proprietà privata è intrinsecamente inerente una funzione sociale" (10).

Il Concilio ecumenico Vaticano II, nella Gaudium et Spes, ha ribadito la dottrina precedente racchiudendola in questa affermazione: "Poiché la proprietà e le altre forme di potere privato sui beni esteriori contribuiscono alla espressione della persona, e inoltre danno occasione all'uomo di esercitare il suo responsabile apporto nella società e nell'economia, è di grande interesse favorire l'accesso a tutti, individualmente o in gruppo, ad un certo potere sui beni esterni.

La proprietà privata o qualche potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona indispensabile di autonomia personale e familiare, e devono considerarsi come un prolungamento necessario della libertà umana. Infine, stimolando l'esercizio della responsabilità, costituiscono una delle condizioni delle libertà civili.

Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale, che si fonda sulla comune destinazione dei beni. Se si trascura questo carattere sociale, la proprietà può diventare frequente occasione di cupidigia e di gravi disordini, così da offrire facile pretesto agli oppositori per mettere in discussione lo stesso diritto di proprietà" (71).

Precedentemente aveva ribadito che "l'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri"(69).

Paolo VI nella Populorum progressio insiste sulla funzione sociale della proprietà privata e sulla sua destinazione a servire meglio il bene comune: "Se la terra è fatta per fornire a ciascuno i mezzi della sua sussistenza e gli strumenti del suo progresso, ogni uomo ha dunque il diritto di trovarvi ciò che gli è necessario.(22)

Il recente Concilio ha ricordato: "Dio ha destinato la terra e tutto ciò che contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, dimodoché i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti, secondo la regola della giustizia che è inseparabile dalla carità" (GS 69). Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa: non devono quindi intralciarne, bensì al contrario, facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria"(22).

"Se qualcuno in possesso delle ricchezze che offre il mondo vede il suo fratello nella necessità e chiude a lui le sue viscere, come potrebbe l'amore di Dio abitare in lui?(1 Gv 3,17).

Si sa con quale fermezza i Padri della Chiesa hanno precisato quale debba essere l'atteggiamento di coloro che posseggono nei confronti di coloro che sono nel bisogno: "Non è del tuo avere, afferma s. Ambrogio, che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l'uso di tutto, ciò che tu annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi". È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. In una parola, "i diritti di proprietà non devono mai esercitarsi a detrimento della utilità comune, secondo la dottrina tradizionale dei padri della Chiesa e dei grandi teologi.

Ove intervenga un conflitto tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali, spetta ai pubblici poteri adoperarsi a risolverli con l'attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali" (23).

"Il bene comune esige dunque talvolta l'espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni, del danno considerevole arrecato agli interessi del paese, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva.

Affermandolo in maniera inequivocabile, il Concilio ha anche ricordato non meno chiaramente che il reddito disponibile non è lasciato al libero capriccio degli uomini, e che le speculazioni egoiste devono essere bandite. Non è di conseguenza ammissibile che dei cittadini provvisti di redditi abbondanti, provenienti dalle risorse e dall'attività nazionale, ne trasferiscano una parte considerevole all'estero, a esclusivo vantaggio personale, senza alcuna considerazione del torto evidente ch’essi infliggono con ciò alla loro patria"(24).

Giovanni Paolo II in Laborem exercens ricorda che il diritto alla proprietà privata è subordinato al diritto dell'uso comune, che il capitale è a servizio del lavoro, e che pertanto va superato il rigido capitalismo e il collettivismo per andare verso una vera socializzazione dei beni: "L’enciclica RN ricorda e conferma la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata; anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso ha fatto la MeM.

Il suddetto principio diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari paesi del mondo nei decenni seguiti all'epoca dell'enciclica di Leone XIII.

Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici che ad esso si richiamano. In questo secondo caso la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto e di intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni della creazione intera: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni...

La proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione.

Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del "capitale" al "lavoro", e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa dei questi mezzi e del loro possesso.

Essi non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l'unico titolo legittimo al loro possesso - e ciò sia nella forma della proprietà privata sia in quella della proprietà pubblica o collettiva - è che essi servano al lavoro; e che, conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell'ordine che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune.

Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e dell'accesso comune ai beni destinati all'uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di lavoro... In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo magistero della Chiesa.

Sono queste le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, i cosiddetto azionariato del lavoro, e simili. Indipendentemente dall'applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell'uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell'ambito stesso del diritto della proprietà dei mezzi di produzione...

Se dunque la posizione del rigido capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione... si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante la eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Occorre infatti osservare che la semplice sottrazione di questi mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente.

Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all'amministrazione e al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell'intera economia nazionale oppure dell'economia locale... Così quindi il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla "socializzazione" di questa proprietà.

Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, e cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il "comproprietario" del grande banco di lavoro, al quale s'impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita ad una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronto dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita"(14).

In Centesimus annus Giovanni Paolo II riprende il tema della destinazione universale dei beni e della proprietà privata approfondendone ulteriormente le ragioni:

"Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno. È qui la radice dell'universale destinazione dei beni della terra. Questa, in ragione della sua stessa fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell'uomo, è il primo dono di Dio per il sostentamento della vita umana. Ora, la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora. In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto si è acquistata col lavoro. È qui l'origine della proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la loro parte del dono di Dio, anzi deve cooperare con loro per dominare insieme tutta la terra. Nella storia si ritrovano sempre questi due fattori, il lavoro e la terra, al principio di ogni società umana; non sempre però essi stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la naturale fecondità della terra appariva e di fatto era il principale fattore della ricchezza, mentre il lavoro era come l'aiuto e il sostegno ditale fecondità. Nel nostro tempo diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali; diventa inoltre evidente come il lavoro di un uomo si intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è fare qualcosa per qualcuno"(31).

"Ora proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli, è un'altra importante fonte di ricchezza nella società moderna"(32).

Sottolinea poi un'altra forma di proprietà: "è la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Su questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle nazioni industrializzate molto più che su quella delle risorse naturali... Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare i bisogni dell'altro" (32).

"Non si possono tuttavia non denunciare i rischi e i problemi connessi con questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini, forse la grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono di entrare in modo effettivo e umanamente degno all'interno di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una posizione davvero centrale... Per i poveri alla mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di umiliante subordinazione. Purtroppo, la grande maggioranza degli abitanti del terzo mondo vive ancora in simili condizioni"(33).

 

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al capitolo precedente

Capo IX

Ambiente e sviluppo: la questione ecologica

1. Status quaestionis

a) perché si pone il problema

Il tema della protezione dell'ambiente è divenuto di grande attualità, perché sono sotto gli occhi di tutti i fatti dell'inquinamento dell'aria e delle acque, del disboscamento, del degrado del suolo dovuto a sfruttamento irrazionale, dell'estinzione di animali per caccia indebita...

Sempre più si prende coscienza che non si tratta di problemi casuali, che si sovrappongono gli uni agli altri, ma delle conseguenze di un determinato tipo di rapporti dell'uomo con la natura e con l'ambiente. E si è ormai convinti che tali rapporti vanno ripensati se non si vuole rendere invivibile il pianeta.

Si parla comunemente di "ecologia", della scienza dell'ambiente.

Il termine, coniato da Ernst Haeckel nel 1860, inizialmente fu riferito all'interdipendenza tra le varie specie animali e vegetali. Oggi viene applicato al rispetto dell'ambiente in genere, e, in modo particolare, di quella parte del pianeta intimamente collegato con la vita, e che viene chiamata "biosfera" (sfera della vita), termine quest'ultimo proposto dallo scienziato russo V.J. Vernandsky nel 1926.

La biosfera infatti è insidiata dal "disastro ecologico in atto" e che tocca:

- l'atmosfera (o cosmosfera) con l'inquinamento dell'aria causato dall'emissione di gas tossici provenienti dalle industrie pacifiche e militari, dalla circolazione stradale e aerea, che influenza anche l'energia solare (effetto serra) che giunge al suolo attraverso tutti gli strati dell'atmosfera.

- L'idrosfera attraverso l'inquinamento delle acque dei fiumi, dei laghi, con l'immissione di materiali inquinanti, in particolare radionucleari e derivati dal petrolio. Anche le acque che scendono dall'alto sono inquinate: si pensi alle piogge acide che danneggiano soprattutto il patrimonio boschivo.

- La litosfera (il suolo) con pesticidi e altri rifiuti tossici o non degradabili. Questi sono i dati di fatto.

9.0.2

b) le cause

Sono di due tipi, prossime e remote.

Tre sembrano le più evidenti:(vedi nota)

- le varie necessità della produzione agricola;

- il notevole incremento delle aziende industriali e artigianali sempre più specializzate;

- il fabbisogno energetico.

Sono stati, dunque, gli interventi tecnici e industriali a causare l'inquinamento in atto. Di qui gli interrogativi: che cosa si deve fare, quale risoluzione prendere?

Alcuni pensano che questo sia inevitabilmente lo scotto da pagare al progresso scientifico e tecnologico.

Altri sono dell'idea che la natura troverà nuovi equilibri, secondo le leggi economiche della domanda e dell'offerta, ritenendo che si possano aprire nuove prospettive di mercato nel settore ecologico.

Altri sono tentati di dire: basta col progresso, torniamo alla natura.

La considerano in alcuni casi come un bene assoluto, a sé stante, come una divinità da proteggere. Al supporto ideologico aggiungono talvolta l'intolleranza e la violenza contro le mostruosità dell'industria. Quale la causa remota ditale situazione?

Sul banco degli imputati non vi stanno tanto la scienza e lo sviluppo tecnologico, quanto piuttosto il cattivo uso dell'intelligenza e i desideri di cupidigia che insidiano il cuore dell'uomo.

Il cattivo uso dell'intelligenza sta in questo: che soprattutto da due secoli a questa parte si è voluto separare la scienza dall'etica, dalla morale.

Il progresso scientifico è stato inteso spesso in chiave utilitaristica. Talvolta, parlando delle "esigenze della scienza se ne è voluto fare una nuova dea (la dea ragione) che chiede per se stessa il sacrificio anche di vittime umane. La "scienza" ha potuto fare da copertura ad uno sfrenato desiderio di profitto e alla volontà di dominio sugli altri. Giustamente Giovanni Paolo II in Redemptor hominis ha scritto che "l'uomo di oggi sembra essere sempre più minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani, e, ancor più, dal lavoro del suo intelletto, dalle tendenze della sua volontà... L'uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale al di fuori di quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece era volontà del Creatore che l'uomo comunicasse con la natura come "padrone" e "custode" intelligente e nobile, e non come sfruttatore e distruttore senza alcun riguardo"(15).

9.1.1

2. Principi teologici da tenere presente nella questione ecologica

a) il primato dell'uomo nella creazione

È riconosciuto da tutti, anche dai non credenti, se non altro perché si riconosce nell'homo sapiens et faber l'espressione e l'evoluzione più alta della materia.

Questo primato indiscusso, in forza del quale l'uomo di tutti i tempi ha provveduto alla propria conservazione attingendo ai beni della natura (sostanze inorganiche, vegetali e animali) è ulteriormente illuminato dalla Rivelazione cristiana.

Essa, fin dal principio, evidenzia due dati: lo statuto ontologico dell'uomo e i suoi rapporti con le altre realtà create.

Circa il primo ricorda che "Dio ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza"(Gn 1,27). Lo ha voluto perché partecipasse della sua vita non soltanto in maniera passiva come tutte le realtà infraumane, ma in modo attivo, responsabile, conformemente alla libertà di cui lo ha dotato. È stato notato che l'avverbio "ad" (imaginem) è di moto e indica "accessum quendam",(vedi nota) un certo avvicinamento, un progresso, una crescita.

Le bestie non si sviluppano oltre i loro istinti. Per questo non hanno creatività e nel loro esprimersi si comportano deterministicamente.

Già Aristotele notava che le rondini fanno il nido sempre nel medesimo modo. L'uomo invece si realizza progredendo e crescendo nella somiglianza del suo Creatore.

Circa il secondo dato (il rapporto dell'uomo con le altre creature) si legge nella Scrittura: "Il Signore Dio piantò un giardino in Eden e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male"(Gn 2,8-9), e: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse"(Gn 2,15).

Vi è qui un'indicazione esplicita del progetto di Dio: l'uomo, che è stato creato ad immagine di Dio Creatore, ha il compito di portare a compimento la creazione.(vedi nota)

In ordine a questo, è stato dotato di ragione, che gli permette di conoscere le leggi e i meccanismi della natura, di riesprimerle, di ricombinarle come fedele interprete dei disegni di Dio con la massima creatività. Anche in questo egli realizza la sua perfezione.

Non ha certo la libertà di abusare e di distruggere. Insieme col compito di coltivare il giardino, ha ricevuto anche quello di "custodirlo" per sé e per gli altri (compresi quelli delle generazioni future).

Le piste di questa custodia sono indicate nell'albero della scienza del bene e del male (la legge morale), che l'uomo non può manipolare, pena autodistruggersi.

Questa autodistruzione consiste anche nell'impoverire o addirittura nel rendere invivibile il pianeta, e nel trasformare la terra, che è uscita dalle mani di Dio come un giardino, in un inferno. Alla luce di questi due criteri (coltivare e custodire), si trova la soluzione del nostro problema. L'uomo ha innanzitutto il compito di coltivare: scienza e sviluppo, allora, sono in se stesse un bene, anzi un dovere per l'uomo.

Dio gli ha dato l'intelligenza perché la eserciti. Essa costituisce uno dei suoi beni più caratteristici. E poiché possiede una sete infinita di conoscenza, la crescita della scienza non ha e non può avere confini.

L'unico limite, che è poi la sua norma e il suo bene, riguarda il suo esprimersi e il suo uso. Non può evolversi infatti in maniera selvaggia, o per dare sfogo ai capricci dell'uomo. È soggetta all'albero della conoscenza del bene e del male. E cioè va coniugata con l'etica, con la morale, che è quella scienza che aiuta a ordinare tutto per metterlo a servizio del bene integrale dell'uomo. Ciò che si è detto per la scienza, vale anche per lo sviluppo. Dio ha messo l'uomo nel giardino di Eden "perché lo coltivasse".

Fino a quale punto si può estendere il dominio dell'uomo sulla natura? Fin dove egli vuole, purché questo dominio promuova e tuteli la dignità di ogni persona umana.

In Sollicitudo Rei Socialis (SRS) Giovanni Paolo II trae spunto da questo passo del Genesi per esporre la dottrina della Chiesa in materia di ecologia: "Ancora una volta risulta evidente che lo sviluppo, la volontà di pianificazione che lo governa, l'uso delle risorse e la maniera di utilizzarle, non possono essere distaccati dal rispetto delle esigenze morali.

Una di queste impone senza dubbio limiti all'uso della natura visibile. Il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada.

La limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione di "non mangiare il frutto dell'albero" (Gn 2,16) mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire.

Una giusta concezione dello sviluppo non può prescindere da queste considerazioni - relative all'uso degli elementi della natura, alla rinnovabilità delle risorse e alle conseguenze di una industrializzazione disordinata, - le quali ripropongono alla nostra coscienza la dimensione morale, che deve distinguere lo sviluppo"(n.34).

9.1.2

b) I principi morali ordinatori del dominio sulla natura

Occorre ricordare anzitutto che la legge di Dio - nel nostro caso si identifica con la legge naturale - non tutela i diritti di Dio, ma quelli dell'uomo. Dio infatti non ha bisogno di difendersi perché è perfettissimo e immutabile: "in lui non c'è variazione né ombra di mutamento"(Gc 1,17).

La legge di Dio difende e promuove il primato dell'uomo e la dignità della persona. Non vi è altro destinatario delle sue opere e della sua legge.

È l'uomo, la persona umana, il punto di riferimento anche della dottrina sociale della Chiesa, soprattutto in quello che ne costituisce un principio fondamentale e caratteristico: il bene comune. Esso consiste, al dire di Giovanni XXIII, "nell'insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona" (Pacem in terris = PT, 35). Non si tratta dunque del puro insieme dei beni individuali né del bene della società o dello stato intesi come qualcosa di sussistente e sovrastante le persone.

Il bene comune è il bene della persona umana, di quella persona umana che non è soltanto signora della creazione, ma anche fine, poiché è l'unica voluta da Dio per se stessa, come fine a se stessa e non in funzione strumentale (cfr. GS, 24).

In nessun caso dunque si dovrebbe trovare opposizione tra il bene della persona e il bene cosiddetto collettivo, oppure con l'ambiente o la scienza, perché tutte queste realtà sono a servizio della persona. Precisando poi il bene della persona, Giovanni XXIII ricorda che "gli esseri umani, composti di corpo e di anima immortale, non esauriscono la loro esistenza né conseguono la loro perfetta felicità nell'ambito del tempo. Per cui il bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del loro fine ultraterreno ed eterno" (PT 35.).

Paolo VI, proseguendo la riflessione, ha affermato che "lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuoI dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo" (Populorum Progressio=PP n. 14).

Pertanto tre sono i criteri che definiscono il bene comune: il bene della persona umana, il bene di tutta la persona umana, il bene di ogni persona umana.

Su quest'ultimo punto è ritornato Giovanni Paolo II in SRS, che è tutta pervasa dal concetto di interdipendenza (termine che vi ricorre almeno una dozzina di volte, mentre in PP è presente una volta sola, al n. 65), e non solo del singolo uomo nei confronti degli altri, ma anche delle nazioni, e persino degli emisferi, fra di loro.

"Quantunque la società mondiale offra aspetti di frammentazione espressa con i nomi convenzionali di Primo, Secondo, Terzo e anche Quarto Mondo, rimane sempre molto stretta la loro interdipendenza che, quando sia disgiunta dalle esigenze etiche, porta a conseguenze funeste per i più deboli"(SRS 17).

E dopo aver osservato che "nel mondo diviso e sconvolto da ogni tipo di conflitti si fa strada la convinzione di una radicale interdipendenza e per conseguenza la necessità di una solidarietà che la assuma e traduca sul piano morale" perché "oggi forse più che in passato gli uomini si rendono conto di essere legati da un comune destino" annota che tra i segnali positivi del presente occorre registrare la maggiore consapevolezza dei limiti delle risorse disponibili, la necessità di rispettare l'integrità e i ritmi della natura e di tenerne conto nella programmazione dello sviluppo, invece di sacrificarlo a certe concezioni demagogiche.

È quella che oggi va sotto il nome di "preoccupazione ecologica"(SRS 26).

9.2.1

3. Conseguenze morali

1- La scienza deve progredire

Se da una parte bisogna evitare che la scienza vada avanti in maniera selvaggia, disintegrata dalle leggi morali, bisogna anche evitare la reazione opposta, semplicistica, di "non toccare la natura", come se si trattasse di un idolo da adorare e da conservare senza interventi migliorativi.

Già Leone XIII nella RN notava che per l'industria dell'uomo "la terra è diventata, da silvestre, fruttifera e, da sterile, ferace"(n.8). Senza l'intervento umano la terra non sarebbe né ospitale né feconda. Le stesse "riserve ecologiche" non si conservano senza la cura dell'uomo. È dunque tanto insensato disintegrare il progresso dall'etica quanto impedirlo assolutamente per tornare all'età della pietra.

9.2.2

2- L’ambiente è patrimonio universale

La protezione e la cura dell'ambiente vanno assicurati in base al principio che si tratta di beni di ordine naturale primario che Dio ha affidato universalmente a tutti gli uomini. Nessuno ne è più padrone di un altro, come analogamente viene affermato degli altri beni universali primari, quali l'aria, la luce, l'acqua e via dicendo.

Qui è del tutto fuori posto il discorso sulla legittimità della proprietà privata. Essa si applica a determinate condizioni nei confronti dei beni secondari, circa i quali vi è stato un apporto di energie e di costi personali.

Cura dell'uomo e delle società è di garantire per ogni persona, per tutte le persone, per tutte le nazioni il bene preziosissimo della vivibilità dell'ambiente.

Il nulla osta per l'impianto delle industrie, per l'applicazione di determinati pesticidi all'agricoltura va dato tenendo presente questo bene fondamentale. Ad esso vanno subordinati i criteri di profitto e dello stesso sviluppo economico.

Giova ricordare poi che eventuali inquinamenti ledono la giustizia commutativa ed obbligano rigorosamente alla restituzione secondo i criteri stretti del lucro cessante e del danno emergente (anche se questa può essere una magra consolazione per chi avesse dovuto rimetterci la salute o addirittura la stessa vita).

9.2.3

3- Attenzione per l'esaurimento di alcuni beni

I criteri della giustizia distributiva impongono di tenere presente nello sfruttamento delle risorse della terra il concetto di interdipendenza fra le generazioni.

I beni della terra e dell'ambiente non sono infiniti e inesauribili, né si può pensare che il mondo finisca con chi in quel momento lo abita. È dovere di giustizia garantire anche a coloro che verranno dopo di noi i beni che Dio ha destinato universalmente a tutti gli uomini. E non solo a tutti gli uomini di una generazione (in senso orizzontale), ma di tutte le generazioni (in senso verticale).

9.2.4

4- Interdipendenza ecologica

Suolo, fiumi, laghi, mari, boschi, riserve minerarie, aria ecc. sono beni che la natura ha messo a disposizione di tutti. Il loro sfruttamento, anche ragionevole, deve tenere presente le ripercussioni che se ne possono avere altrove: in altre nazioni o in altri emisferi (si pensi all'inquinamento dei fiumi che toccano vari paesi, o che comunque cooperano all'inquinamento dei mari, ad eventuali disfunzioni delle centrali nucleari, a certi disboscamenti selvaggi che possono alterare il clima di interi continenti e anche di tutto il mondo, a costruzioni di dighe che mutano così profondamente l'ambiente da renderlo desertico e inabitabile).

Torna qui di nuovo il concetto, anzi il valore, dell'interdipendenza.

9.2.5

5- Un nuovo umanesimo

Vi è poi un concetto di uomo, uno stile di vita intimamente connesso con il rispetto e la protezione dell’ambiente.(vedi nota)

Già Paolo VI nella PP aveva avvertito che "se il perseguimento dello sviluppo richiede un numero sempre più alto di tecnici, esige ancor più degli uomini di pensiero, capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso, assumendo i valori superiori dell'amore, di amicizia, di preghiera e di contemplazione.

In tal modo potrà compiersi in pienezza il vero sviluppo che è il passaggio, per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane"(n.20). Vi è infatti un certo tipo di umanesimo deviante che traspare dall'appropriarsi in maniera selvaggia e utilitaristica dei beni primari senza tenere conto delle esigenze degli altrui.

Paolo VI invitava a un nuovo umanesimo, che non può essere degno dell'uomo, di tutto l'uomo e di ogni uomo, se estromette il senso religioso della vita, che in definitiva è l'unico a garantire in purezza la dignità della persona umana.

Già Benedetto Croce, in uno scritto dopo la seconda guerra mondiale, annotava: "Ma eccomi ritornato a uno dei miei pensieri che, per essere stato più volte ripetuto, rischia di prender l'aria di una fissazione. Al pensiero che la crisi presente nel mondo sia la crisi di una religione da restaurare o da ravvivare o da riformare, e che a soccorrere ad essa non bastino i soli politici e guerrieri, ma ci vogliano i geni religiosi e apostolici, dei quali noi, non vedendo la presenza, non perciò non sentiamo più o meno oscuramente il bisogno e come una tacita invocazione nei nostri cuori" .(vedi nota)

9.2.6

6- La nuova questione sociale

Da quanto detto, si capisce quanto grande sia il problema ecologico, soprattutto quello legato allo sviluppo tecnologico, al punto da costituire la nuova questione sociale.

Se alla fine del secolo XIX la questione sociale si identificava con quella operaia, ora, alla fine del XX secolo, si identifica con quella "morale", e riguarda il coniugarsi della scienza e dello sviluppo con l'etica, con il bene della persona umana.

Lo ricordava Giovanni Paolo II a Ravenna (11.5.1986): "È lo stesso progresso scientifico a imporre la "questione morale", come la nuova questione sociale del futuro...

Di fronte alle prospettive aperte dall'ingegneria genetica e alle connesse possibilità di conquiste smisurate, ma anche di degradazione irreversibile della specie, gli scienziati e gli Stati non possono non porsi i più gravi interrogativi del pensiero umano: chi è l'uomo e qual’è il suo destino?

E non sono pochi coloro che cominciano a riscoprire nella risposta della verità cristiana l'unica, vera garanzia della modernità e umanità della società di domani".

9.2.7

Testi del Magistero

Giovanni Paolo II in Redemptor hominis:

"Sembra che siamo sempre più consapevoli del fatto che lo sfruttamento della terra, del pianeta su cui viviamo, esiga una razionale e onesta pianificazione. Nello stesso tempo, tale sfruttamento per scopi non soltanto industriali, ma anche militari, lo sviluppo della tecnica non controllato né inquadrato in un piano a raggio universale e autenticamente umanistico, portano spesso con sé la minaccia all'ambiente naturale dell'uomo, lo alienano nei suoi rapporti con la natura, lo distolgono da essa.

L'uomo sembra spesso non percepire altri significati del suo ambiente naturale, ma solamente quelli che servono ai fini di un immediato uso e consumo. Invece era volontà del Creatore che l'uomo comunicasse con la natura come 'padrone" e "custode " intelligente e nobile, e non come sfruttatore e distruttore senza alcun riguardo" (n. 15).

Sollicitudo rei socialis

"Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere neppure dal rispetto per gli esseri che formano la natura visibile e che i Greci, alludendo appunto all'ordine che la contraddistingue, chiamavano il "cosmo". Anche tali realtà esigono il rispetto, in virtù di una triplice considerazione, su cui giova attentamente riflettere.

La prima consiste nella convenienza di prendere crescente consapevolezza che non si può fare impunemente uso delle diverse categorie di esseri, viventi o inanimati - animali, piante, elementi naturali - come si vuole, a seconda delle proprie esigenze economiche. Al contrario occorre tener conto della natura di ciascun essere e della sua mutua connessione in un sistema ordinato, ch’è appunto il cosmo.

La seconda considerazione si fonda sulla constatazione, si direbbe più pressante, della limitazione delle risorse naturali, alcune delle quali non sono, come si dice, rinnovabili. Usarle come se fossero inesauribili, con assoluto dominio, mette seriamente in pericolo la loro disponibilità non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.

La terza considerazione si riferisce direttamente alle conseguenze che un certo tipo di sviluppo ha sulla qualità della vita nelle zone industrializzate. Sappiamo tutti che risultato diretto o indiretto dell'industrializzazione è, sempre più di frequente, la contaminazione dell'ambiente, con gravi conseguenze per la salute della popolazione "(34).

Centesimus annus:

"Del pari preoccupante è la questione ecologica. L'uomo, preso da desiderio di avere e di godere, più che di essere e di crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c 'e un errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo. L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza riserve alla sua volontà', come se essa non avesse una propria forma e una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata che governata da lui.

Si avverte in ciò, prima di tutto, una povertà o meschinità dello sguardo dell'uomo, animato dal desiderio di possedere le cose anziché riferirle alla verità, e privo di quell'atteggiamento disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create. Al riguardo, l'umanità di oggi deve essere conscia dei suoi doveri e compiti verso le generazioni future"(37).

"Oltre all'irrazionale distruzione dell'ambiente naturale è qui da ricordare quella, ancor più grave, dell'ambiente umano, a cui peraltro si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario, di preservare gli "habitat" naturali delle diverse specie animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto che ciascuno di esse apporta un particolare contributo all'equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un'autentica "ecologia umana". Non solo la terra è stata data all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l'uomo è donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la struttura naturale e morale, di cui è stato dotato. Sono da menzionare, in questo contesto, i gravi problemi della moderna urbanizzazione, la necessità di urbanesimo preoccupato della vita delle persone, come anche la debita attenzione a un 'ecologia sociale del lavoro "(38).

10.0.1

Capo X

Lo stato

"Il termine stato ha cominciato ad essere adoperato per indicare una comunità politica all'inizio del secolo XVI negli stati rinascimentali dell'Italia settentrionale ed è poi entrato a far parte del vocabolario di tutte le lingue europee. Più antico e più sentimentale è il termine "nazione", che indica il popolo radicato nelle tradizioni ereditate quale portatore di una particolare idea culturale. Nel secolo XIII Tommaso d'Aquino chiamava la cristianità occidentale grandis natio.(vedi nota)

1. Origine e senso dello stato (molteplici interpretazioni)

1. Spiegazioni teocratiche

- Il culto del sovrano vedeva nel re, quale rappresentante dello Stato, il dio apparso corporalmente in terra.

Il Re siro Antioco (Il sec. a.C.) si fa chiamare "salvatore" (soter) e "manifestazione di Dio" (epifanes)

A partire dalla morte di Augusto, gli imperatori romani, per decreto del senato, vengono chiamati "divini".

Aureliano e Diocleziano si fanno chiamare "re e dio" (dominus et deus). Anche secondo la cultura inka l'imperatore è il dio sole incarnato e apparso in terra; la sua morte non è altro che un ritorno a casa, nell'abitazione di suo padre, il sole.

- Ma la teocrazia in senso stretto non si limita a far discendere Dio sulla terra. Piuttosto toglie il potere agli uomini e lo trasferisce in cielo. Ne segue che solo i sacerdoti, quali rappresentanti di Dio, possono esercitare il potere statale.

Al tempo di Cristo la pensavano così gli zeloti, i quali non riconoscevano alcun potere politico statale indipendente. Chi pagava il tributo ai romani e riconosceva in terra un sovrano accanto a Dio, tradiva il Dio d'Israele.

Nel Medio evo Egidio Romano (+1316) sostenne che "dopo la passione di Cristo non vi può essere alcun vero stato, in cui Cristo non domini come suo fondatore e guida".(vedi nota) Tutto il potere politico sarebbe concentrato nelle mani del papa, che delega ai laici il disbrigo delle faccende del governo.

Nel secolo XVI Francisco de Vitoria definisce la teoria teocratica un sofisma.

10.1.1

2. L'ideologia del potere

L'ideologia del potere si fonda sul fatto che il diritto del più forte è la più antica di tutte le leggi.

- Nicolò Machiavelli (1469-1527) ne è stato il grande teorico. Ne "Il Principe" ha scritto: "Degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno". Solo un principe potente può ridurre all'ordine l'uomo egoista. Il principe deve perciò esercitare il potere senza scrupoli, senza perplessità, lo eserciti in maniera giusta o ingiusta, mite o crudele, lodevole o biasimevole. Il principio della "ragion di stato" esige che si attui in maniera coerente tutto quel che serve al potere. Quanto più un principe è in grado di imitare la volpe astuta, quanto più cioè è maestro nell'arte di essere simulatore e dissimulatore, tanto più i suoi metodi saranno giudicati lodevoli, perché il volgo si lascia impressionare dall'apparenza e dal successo, "e nel mondo non è se non vulgo".(vedi nota)

- L'ideologia del potere è stata ripresa da alcuni sociologi moderni. Franz Oppenheimer(vedi nota) scrive che le due energie originarie che animano e portano avanti tutta la vita (la fame e l'amore, come principi dell'autoconservazione e della conservazione della specie) sono state affiancate già nei primissimi organismi da un terzo impulso, quello di farsi valere (il potere).

In questo processo l'uomo ha riconosciuto che il potere presuppone ricchezza e che è possibile procurarsi i beni terreni in due modi: o con il proprio lavoro (questo sarebbe stato il caso delle tribù contadine che si sarebbero guadagnate il pane col proprio lavoro, stabilendosi negli avvallamenti o pianure) oppure con l'appropriazione violenta del lavoro altrui (sarebbe stato il caso dei pastori bellicosi, che avrebbero assalito di sorpresa i contadini sedentari, derubandoli e uccidendoli). Molla di tutta la storia e base della nascita degli Stati sarebbe "il contrasto tra contadini e pastori, tra lavoratori e ladri, tra avvallamenti e steppe erbose".

Il primo gradino è costituito dalla rapina e dall'assassinio. Ma ben presto i pastori selvaggi capiscono che un contadino ucciso non può più arare e seminare. Allora lo lasciano vivere e lo difendono addirittura contro altre tribù nomadi. Così i due gruppi etnici diventano un solo popolo in possesso di un'unica lingua, un unico costume e un sol sentimento nazionale.

- Abbastanza vicina è l'interpretazione di Leopold von Wiese e di Vojtech Tuka. In un primo momento il gruppo sociale si sarebbe costituito su legami di sangue (carninità). Visto che era più vantaggioso ridurre al proprio servizio gli altri clan piuttosto che sterminarli, si sarebbero generati i capi, i re e quindi lo Stato. Il sovrano dona ai suoi compagni una casa solida di pietra, diventata il centro del sistema sociale imperniato sulla casa (domus).

- La teoria marxista-bolscevica dello stato è basata sull'interpretazione ideologica del potere: dopo

il periodo del comunismo iniziale, lo stato sarebbe sorto contemporaneamente al regime di proprietà privata, quale strumento per schiacciare e sfruttare le classi oppresse.

Dopo la vittoria del socialismo, lo stato continuerà a sopravvivere in un primo momento come dittatura del proletariato, ma poi scomparirà.

10.2.1

3. L'interpretazione individualista-illuminista dello stato

L'interpretazione individualista-illuminista dello stato vede nello stato una istituzione utilitaristica, basata su un contratto per motivi di economia e convenienza. In seno a questa interpretazione meritano di essere rilevate due letture: quella di Hobbes e quella di Rousseau.

Thomas Hobbes (1588-1679) respinge come sicuramente errata la dottrina della filosofia occidentale secondo la quale l'uomo sarebbe un essere sociale per natura. Afferma invece che la condizione naturale degli uomini sarebbe la guerra di tutti contro tutti ("bellum omnium in omnes"). Riprendendo un'espressione del commediografo romano Plauto (+ 184 a.C.), definisce l'uomo "lupo per l'uomo" ("homo homini lupus"), al quale nella condizione di natura sarebbe stato lecito "fare quel che voleva e contro chi voleva". La ragione avrebbe tuttavia indotto a mettere fine a tale condizione, che avrebbe portato alla morte di tutti, e a farlo per mezzo di un patto di unione (pactum unionis) concluso da tutti i singoli. Nel contempo ognuno avrebbe rinunciato alla propria libertà a favore di un terzo, che sarebbe così diventato sovrano assoluto: "L'essenza dello Stato consiste in questa unione o sottomissione...

Lo Stato nasce quando gli uomini si uniscono liberamente e i singoli stabiliscono tra loro delle condizioni contrattuali, in base alle quali tutti - chiunque sia l'individuo cui la maggioranza ha riconosciuto con la sua decisione il diritto di rappresentarli - gli devono obbedire (pactum subiectionis).

Hobbes polemizza poi contro la fede cattolica, che esige obbedienza anche ad altri: "Perciò riconosco qui al supremo potere dello Stato il diritto di decidere se certe dottrine sono incompatibili con l'obbedienza dei cittadini o meno, e, in caso affermativo, di vietarne la diffusione".

La sua opera principale, "Il Leviatano", diventò la magna carta dell'assolutismo dei principi. Il Leviatano, animale dell'AT, sarebbe il segno grandioso del ristabilimento dell'energia naturale della vita e dell'unità politica, capace di proteggere in modo efficace, opposto al pluralismo medievale e ad altri poteri indiretti.

Pio XII si chiese se lo stato non si fosse spinto fino al punto di essere quel Leviatano che domina tutto e vuole prendere tutto per sé (20.2.1946).

Jean Jacques Rousseau (1712-1778) parte, come Hobbes, dall'idea che gli uomini avrebbero stipulato il contratto della fondazione dello Stato per sottrarsi all'insicurezza generale della condizione primitiva: "dato che nessuno possiede per natura un poter sui suoi simili e dato che la forza non fonda alcun diritto, rimane soltanto l'accordo; perciò anche qualsiasi altro potere legale ; si fonda su un contratto". In questo modo, alla libertà naturale subentra quella del cittadino.

Rousseau esercitò un grande influsso, soprattutto a partire dalla Rivoluzione francese, sulla fondazione della democrazia liberale di stampo occidentale.

10.3.1

4. Origine e senso dello stato secondo la dottrina sociale della Chiesa

Il singolo uomo, da solo, non può coltivare e svolgere pienamente le sue facoltà. Neanche la famiglia è autarchica, così che possa far fronte a tutte le necessità della vita.

Per questo gli uomini si stringono quasi istintivamente in comunità, associazioni, imprese, strettamente collegate fra di loro e improntate al diritto, all'ordine e alla sicurezza.

Allo svolgimento di questo compito è necessaria una istituzione sociale terrena suprema, un organismo superiore e un tutore del bene comune, che, fondato sul diritto e dotato di potere promuova nel modo migliore il benessere terreno. Questo organismo è lo Stato, il cui compito è quello di creare quel complesso di premesse che aiuti tutte le persone e le comunità e la società stessa ad attendere ai loro fini.

Non occorre nessun contratto esplicito per dar vita alla stato. Essa nasce dalla consapevolezza, da parte dei cittadini, della reciproca dipendenza. Questa è all'origine di quella coscienza politica per la quale i cittadini sono consci di mutua appartenenza.

Si tratta dunque della consapevolezza di un legame esistente in natura. In questo organismo i cittadini sono nello stesso tempo soggetti della vita dello Stato e sudditi.

Dal momento poi che è fondato sulla natura umana, esso deriva ultimamente da Dio, creatore della natura. Disse Leone XIII: "È la natura umana o, meglio, Dio creatore della natura che impone agli uomini di vivere nello stato"(Diuturnum illud).

In questi elementi sta la differenza essenziale tra la filosofia cristiana dello Stato e la teoria individualista di Hobbes e Rousseau. Höffner si chiede poi "se gli stati nazionali tradizionali dell'Europa siano ancora in grado di svolgere con le loro forze le funzioni di garanti supremi del bene comune. Essi dipendono economicamente, politicamente e militarmente in misura tale gli uni dagli altri che possono far fronte a istanze supreme e vitali del bene comune solo se agiscono di concerto.

La questione decisiva è quella di sapere quali forze spirituali caratterizzeranno il volto di un'Europa unita federativamente. Un'Europa puramente tecnocratica non avrebbe consistenza. La cultura europea, in cui il cristianesimo ha integrato elementi greci, romani, germanici e slavi, è fondata sul rispetto della dignità dell'uomo e sul riconoscimento della libertà personale di decisione e di attività. Il cristianesimo deve rimanere anche in futuro l'anima dell'Europa".(vedi nota)

Si può riassumere il pensiero cristiano sullo stato in sei punti:

a- Lo stato non è il dio presente. La Sacra Scrittura (1 Tm 1,10) applica solo a Cristo le forme di divinizzazione del culto del sovrano (soter ed epifanes). Non l'imperatore, ma Gesù Cristo è il Salvatore e il Dio comparso tra noi. Inoltre esorta i fedeli a pregare per i re, e non a pregare i re.

b- La spiegazione teocratica dello Stato contraddice la Scrittura. Le parole di Cristo: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" (Mc 12,17) non lasciano trasparire alcun disprezzo per lo stato. La domanda dei farisei suonava così: hanno ragione i divinizzatori (ellenisti-pagani) dello Stato o gli zeloti, che affidano lo stato ai sacerdoti? Cristo respinge sia la divinizzazione dello stato che la teocrazia, e riconosce l'autonomia dello stato.

c- Lo Stato dotato di potere coercitivo appartiene all'eone posto tra la caduta nel peccato e il ritorno del Signore. Nel futuro regno di Dio non vi sarà più lo stato, così come non vi saranno più le istituzioni di diritto naturale (matrimonio e proprietà).

L'origine del potere coercitivo e giudiziario dello Stato va ricercata nel peccato, in quanto l'umanità decaduta ha bisogno della funzione ordinatrice statale contro gli ingiusti e i malvagi. "I governanti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fà il bene e ne avrai la lode, perché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male" (Rom 13,3-4).

d- Sebbene il potere coercitivo statale sia condizionato dal peccato, lo Stato tuttavia non ha la sua origine nel principe del peccato, in satana, ma in Dio. Dice s. Paolo: "Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio"(Rm 13,1-2).

e- La Scrittura, che riconosce la dignità e l'importanza dello Stato, ricorda però che lo Stato può trasformarsi in una potenza ostile a Dio. L'Apocalisse ne parla attraverso l'immagine della bestia. Essa fa sì che "tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevano un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome"(Ap 13,16-17). La divinizzazione dello stato è una possibilità reale.

10.4.1

Nota sull'Europa

Il tema dell'Europa unita è diventato costante da qualche anno a questa parte nel magistero di Giovanni Paolo II.

In vari momenti egli ha auspicato "una casa comune dall'Atlantico agli Urali", profetizzando un continente che respiri con due polmoni, quello dell'Est e dell'Ovest.

"Il mio voto è che l'Europa, dandosi sovranamente libere istituzioni, possa un giorno estendersi alle dimensioni che le sono state date dalla geografia e più ancora dalla storia. Come non potrei desiderarlo dato che la cultura ispirata dalla fede cristiana ha profondamente segnato la storia di tutti i popoli della nostra unica Europa, greci e latini, tedeschi e slavi, malgrado tutte le vicissitudini e al di là dei sistemi sociali e delle ideologie?

Le nazioni europee si sono tutte distinte nella loro storia per la loro apertura verso il mondo e gli scambi vitali che hanno stabilito con i popoli di altri continenti. Nessuno può immaginare che un'Europa unita possa rinchiudersi nel suo egoismo. Parlando all'unisono, unendo le sue forze, essa sarà in grado, più ancora che nel passato, di consacrare risorse ed energie nuove al grande compito dello sviluppo dei paesi del terzo mondo, specialmente quelli che intrattengono già con essa legami tradizionali...

Il messaggio della Chiesa riguarda Dio e il destino ultimo dell'uomo, problemi che hanno caratterizzato al massimo grado la cultura europea. In verità, come potremmo concepire l'Europa privata di questa dimensione trascendente? Da quando, in terra europea, si sono sviluppate, in epoca moderna, le correnti di pensiero che a poco a poco hanno allontanato Dio dalla comprensione del mondo e dell'uomo, due visioni opposte alimentano una tensione costante fra il punto di vista dei credenti e quello dei fautori di un umanesimo agnostico e a volte anche ateo.

I primi, ritengono che l'ubbidienza a Dio sia la sorgente della vera libertà, che non è mai libertà arbitraria e senza scopo, ma libertà per la verità e il bene, due grandezze che si situano sempre al di là della capacità degli uomini di appropriarsene completamente. Sul piano etico questo atteggiamento fondamentale si traduce nell'accettazione di principi e di norme di comportamento che si impongono alla ragione o derivano dall'autorità della Parola di Dio, di cui l'uomo, individualmente o collettivamente, non può disporre a suo piacimento, secondo l'arbitrio delle mode o dei propri mutevoli interessi.

Il secondo atteggiamento è quello che, avendo soppresso ogni subordinazione della creatura a Dio, o a un ordine trascendente della verità e del bene, considera l'uomo in se stesso come il principio e il fine di tutte le cose, e la società, con le sue leggi, le sue norme, e sue realizzazioni, come sua opera assolutamente sovrana.

L'etica non ha allora altro fondamento che il consenso sociale, e la libertà individuale altro freno se non quello che la società ritiene di dover imporre per la salvaguardia di quella altrui.

Presso alcuni, la libertà civile e politica, già conquistata attraverso un capovolgimento dell'antico ordine fondato sulla legge religiosa, viene ancora concepita come accompagnata dall'emarginazione, ovvero la soppressione della religione, in cui si tende a vedere un sistema di alienazione. Per alcuni credenti, invece, una vita conforme alla fede non sarebbe possibile se non attraverso un ritorno a questo antico ordine, d'altronde spesso idealizzato.

Questi due atteggiamenti antagonisti non portano soluzioni compatibili con il messaggio cristiano e lo spirito dell'Europa. Poiché, quando regna la libertà civile e si trova pienamente garantita la libertà religiosa, la fede non può che guadagnare in vigore raccogliendo la sfida che deriva dalla non credenza; e l'ateismo non può che misurare i suoi limiti di fronte alla sfida che la fede gli pone

A questo riguardo mi sembra importante ricordare che è nell'humus del cristianesimo che l'Europa moderna ha attinto il principio - sovente perso di vista nel corso dei secoli di "cristianità" - che governa in modo più fondamentale la sua vita pubblica: mi riferisco al principio, proclamato per la prima volta da Cristo, della distinzione fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio (Mt 22,21). Questa distinzione essenziale fra la sfera dell'amministrazione esteriore della città terrena e quella dell'autonomia delle persone si illumina a partire dalla rispettiva natura della comunità politica a cui appartengono necessariamente tutti i cittadini e della comunità religiosa a cui aderiscono liberamente i credenti.

Dopo Cristo, non è più possibile idolatrare la società come grandezza collettiva divoratrice della persona umana e del suo destino irriducibile. La società, lo stato, il potere politico appartengono al quadro mutevole e sempre perfettibile di questo mondo. Nessun progetto di società potrà mai stabilire il Regno di Dio, cioè la perfezione escatologica, sulla terra. I messianismi politici sfociano spesso nelle peggiori tirannidi. Le strutture che le società si danno non valgono mai in modo definitivo; esse non possono neppure procurare da sole tutti i beni ai quali l'uomo aspira. In particolare, non possono sostituirli alla coscienza dell'uomo, né alla sua ricerca della verità e dell'assoluto. La vita pubblica, il buon ordine dello Stato, riposano sulla virtù dei cittadini, che invita a subordinare gli interessi individuali al bene comune e a non darsi e a non riconoscere per legge altro che ciò che è obiettivamente giusto e buono. Già gli antichi greci avevano scoperto che non vi è democrazia senza assoggettamento di tutti alla legge, e non vi è legge che non sia fondata su una norma trascendente del vero e del giusto.

Dire che spetta alla comunità religiosa e non allo Stato di gestire "ciò che è di Dio", significa porre un limite salutare al potere degli uomini e questo limite della sfera della coscienza, dei fini ultimi, del senso ultimo dell'esistenza, dell'apertura verso l'assoluto, della tensione verso un compimento mai raggiunto, è ciò che stimola gli sforzi ed ispira le scelte giuste. Tutte le correnti di pensiero del nostro vecchio continente dovrebbero riflettere su quali oscure prospettive potrebbe condurre l'esclusione di Dio dalla vita pubblica, di Dio come istanza ultima dell'etica e garanzia suprema contro tutti gli abusi del potere dell'uomo sull'uomo.

La nostra storia europea mostra abbondantemente quanto spesso la frontiera fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia stata attraversata nei due sensi. La cristianità latina medievale - per non menzionare altro - che d'altra parta ha teoricamente elaborato, riprendendo la grande tradizione di Aristotele, la concezione naturale dello stato, non è mai sfuggita alla tentazione integralista di escludere dalla comunità temporale coloro che non professavano la vera fede. L'integralismo religioso, senza distinzione tra la sfera della fede e quella della vita civile, praticato ancora oggi in un'altra realtà, appare incompatibile con lo spirito proprio dell'Europa quale è stato caratterizzato dal messaggio cristiano.

Ma è da un'altra parte che, nei tempi nostri, sono venute le più gravi minacce, quando delle ideologie hanno assolutizzato la stessa società o un gruppo dominante, a detrimento della persona umana e della sua libertà. Laddove l'uomo non si appoggia più su una grandezza che lo trascende, rischia di abbandonarsi al potere senza freno dell'arbitrio e degli pseudo-assolutismi che lo annientano".(vedi nota)

Nel dicembre del 1991 si celebrò a Roma un Sinodo speciale sull'Europa. La prospettiva fu quella della sua evangelizzazione.

Circa l'edificazione della società civile, nella Relazione finale, si legge. "Sotto l'impulso della rivelazione cristiana e attraverso lunghe vicissitudini storiche, la civiltà europea ha raggiunto la distinzione senza separazione dell'ordine religioso e dell'ordine politico, che tanto contribuisce al progresso dell'umanità. Benché favorisca decisamente la democrazia rettamente intesa, la chiesa non è legata ad un determinato sistema politico. Ha però una propria responsabilità riguardo alla formazione della società umana, cui non può rinunciare e che adempie anzitutto per mezzo della sua dottrina sociale, che appartiene al compito della nuova evangelizzazione.

Il principio della dignità della persona umana -con di diritti fondamentali che le appartengono antecedentemente a ogni statuizione sociale, e che pertanto, non possono venirle negati o sottratti neppure attraverso una decisione della maggioranza, il principio di sussidiarietà che concerne i diritti e le competenze di tutte le comunità, e quello della solidarietà - che postula l'equilibrio tra i più deboli e i più forti -, possono costituire in verità, come le colonne della nuova società che dev'essere edificata in Europa. Perciò la conoscenza della dottrina sociale è necessaria per tutti coloro che in spirito cristiano sono impegnati nella costruzione della nuova Europa"(n. 10).

10.5.1

2. L’Autorità: principio promotore e coordinatore del bene comune

1. Necessità dell'autorità

La società non sarebbe in grado di sopravvivere se ognuno dei suoi membri perseguisse i propri interessi particolari senza badare alle esigenze degli altri e a quelle della società stessa.

Cosi pure in nessun modo potrebbe sussistere senza una disciplina (legge) che diriga i singoli e li faccia convergere verso la promozione del bene comune.

È vero che l'uomo è naturalmente socievole, e lo si nota soprattutto nei momenti di calamità. E tuttavia si rende ugualmente necessario un principio coordinatore, un'autorità ("auctoritas" da "auctum", supino di "augeo", incrementare) che abbia il compito preciso di promuovere il bene comune coordinando le azioni dei singoli e tutelandolo dalla disgregazione o sopraffazione.

10.5.2

2. Origine dell'autorità

Per alcuni deriva direttamente da Dio. È la teoria teocratica.

Per altri risiede tutta ed esclusivamente nella volontà popolare. Chi governa sarebbe commissario del popolo e le leggi da lui fatte hanno valore solo per il consenso antecedente o conseguente del popolo. È la teoria immanentista o contrattualista, alla quale si rifanno i regimi di ispirazione liberale e marxista, accomunati dalla negazione dell'esistenza del diritto naturale.

Secondo il pensiero cattolico, invece, l'autorità fluisce da un ordinamento naturale che ha la sua origine in Dio creatore e legislatore. In questo senso s. Paolo afferma che "ogni autorità viene da Dio" (Rm 13,1). Le parole del Signore: "Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio" (Mt 22,29) significano che l'autorità trae origine da un ordinamento divino. Obbedendo a Cesare, si obbedisce a Dio che costituisce l'autorità civile con potere autonomo nell'ordine temporale.

L'ambito del potere umano è quello di determinare e prolungare, nella sfera che gli compete, la legge di Dio. Per questo il comando dell'autorità obbliga in coscienza.

Qualora, invece, l'autorità esorbitasse da tale ambito e comandasse al di fuori della propria competenza, perderebbe la propria forza obbligante, e se il contrasto con la legge di Dio fosse evidente perderebbe il suo carattere di legge, e non andrebbe obbedita.

Scrive l'Höffner: "Lo Stato è tutore supremo del bene comune, per cui la sua autorità deve essere unitaria, vasta, sovrana e coercitiva. Tuttavia il pensiero cristiano si rifiuta di vedere nella sovranità statale un potere illimitato e addirittura illimitabile dall'interno e dall'esterno".(vedi nota)

Giovanni XXIII ha trattato ampiamente l'ordinamento della società e in particolar modo dell'autorità nella Pacem in terris.

In essa si legge: "La convivenza tra gli esseri non può essere ordinata e feconda se in essa non e presente un'autorità che assicuri l'ordine e contribuisca all'attuazione del bene comune in grado sufficiente.

Tale autorità, come insegna s. Paolo, deriva da Dio: Non vi infatti autorità se non da Dio (Rm 13,1-6). Il quale testo dell'Apostolo viene commentato nei seguenti termini da s. Giovanni Crisostomo: "Che dici? Forse ogni singolo governate è costituito da Dio? No, non dico questo: qui non si tratta infatti dei singoli governanti, ma del governare in se stesso. Ora il fatto che esista l'autorità e che vi sia chi comanda e chi obbedisce, non proviene dal caso, ma da una disposizione della Provvidenza divina".(vedi nota) Iddio, infatti, ha creato gli esseri umani sociali per natura; e poiché non vi può essere società che si sostenga se non c è chi sovrasti gli altri, muovendo ognuno con efficacia ed unità di mezzi verso un fine comune, ne segue che alla convivenza civile è indispensabile l'autorità che regga; la quale, non altrimenti che la società, è da natura, e perciò stesso viene da Dio"" (n. 19).(vedi nota)

Continua il medesimo Pontefice: L'autorità non è una forza incontrollata: è invece la facoltà di comandare secondo ragione. Trae quindi la virtù di obbligare dall'ordine morale: il quale si fonda in Dio che ne è il primo principio e l'ultimo fine. 'Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini che mostra l'uomo come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili, radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche lo stato come società necessaria, rivestita dell'autorità, senza la quale non potrebbe né esistere, né vivere... E poiché quell'ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio personale, nostro Creatore, consegue che la dignità dell'autorità politica è la dignità della sua partecipazione all'autorità di Dio'"(20).(vedi nota)

E: "L'autorità umana può obbligare moralmente solo se è in rapporto intrinseco con l'autorità di Dio, ed è una partecipazione di essa.

In tal modo è pure salvaguardata la dignità personale dei cittadini, giacché la loro obbedienza ai Poteri pubblici non è sudditanza di uomo a uomo, ma nel suo vero significato è un atto di omaggio a Dio creatore e provvido, il quale ha disposto che i rapporti della convivenza siano regolati secondo un ordine da Lui stesso stabilito; e rendendo omaggio a Dio, non ci si umilia, ma ci si eleva e ci si nobilita, giacché "servire Deo regnare est"'(22).

"Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare in coscienza, poiché 'bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini'(At 5,29); in tal caso, anzi, l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso: ‘La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza'"(21).(vedi nota)

10.5.3

3. Il detentore del potere statale e il diritto di designazione

La dottrina circa il detentore originario del potere statale si può compendiare in due affermazioni.

1- Secondo la concezione cattolica, sostenuta in modo particolare dai grandi studiosi di diritto naturale del secolo XVI, il potere statale risiede originariamente in tutto il popolo, cioè non nei singoli individui in quanto tali, ma nel popolo politicamente unito in comunità statale.

2- Il potere statale non può essere esercitato bene dalla stessa collettività. Il suo esercizio va perciò affidato a uno o più individui, cosa che dà origine alle varie forme di Stato. Il governo riceve di conseguenza il potere direttamente dalla totalità del popolo; infatti la comunità statale, come insegna Francisco de Vitoria, non affida "al re un altro potere, bensì la propria autorità".(vedi nota) E D. Banez: "Il potere detenuto dal principe deriva completamente dallo stesso popolo... e per questo si distingue dal potere spirituale, che possiede il papa; infatti il potere spirituale del papa deriva immediatamente da Dio, mentre il potere temporale dei principi deriva direttamente dal popolo... e questa è la dottrina unanime dei discepoli di s. Tommaso. Di qui segue a sua volta che il principe non detiene una potestà superiore, bensì quella stessa detenuta dal popolo, perché questo gli trasmette appunto il proprio potere". (vedi nota)

I teologi aggiungono che il potere statale, quando viene trasmesso a un principe, continua a rimanere radicalmente in possesso del popolo quale suo detentore originario e che, quando il principe diventa tiranno, il popolo è autorizzato a riprendersi il potere e a deporre il sovrano. Il 2.X. 1945 anche Pio XII si dichiarò favorevole a questa concezione liberale e in fondo democratica dello Stato, sostenuta in ogni tempo da eminenti pensatori cristiani, e ultimamente anche dal Paolo VI, nel famoso inciso del n.31 della PP.

3. La sovranità popolare va intesa nel senso che risiede negli uomini, e quindi nel popolo, il diritto di determinare le forme di governo e di designare colui che governa.

Il popolo è sovrano, poi, nel senso che ha il mandato di trasmettere l'autorità. La possiede "vialiter", nella linea della causa seconda, che provvede a se stessa nell'ambito indicato dalla legge di Dio

Dice il Concilio: "È dunque evidente che la comunità politica e l'autorità politica hanno il loro fondamento nella natura umana e perciò appartengono all'ordine prestabilito da Dio, anche se la determinazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini"(GS 74).

4. "Quando si tratta di questioni puramente politiche, ad es. della forma migliore di costituzione dello Stato o della sua amministrazione, si possono avere opinioni diverse senza con questo andare contro la legge morale. Non è perciò giusto muovere rimproveri alle persone che la pensano diversamente su tali questioni, e ingiustizia molto più grande ancora è accusarle di aver apostatato dalla fede o di non essere perfettamente ortodosse nella fede, come con nostro rincrescimento è talvolta avvenuto"(Leone XIII, Immortale Dei).

"Tutti i cristiani... devono ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali e rispettare i cittadini, che, anche in gruppo, difendono in maniera onesta il loro punto di vista"(GS, 75).

 

Capo XI

La comunità dei popoli

1. L'unità del genere umano quale fondamento della comunità dei popoli

Osserva J. Höffner che "mentre il mondo animale è suddiviso in innumerevoli generi e specie, che spesso si combattono spietatamente tra di loro, gli uomini, per quanto diversi siano il colore della loro pelle e il loro carattere razionale, costituiscono un'unità biologica e sono metafisicamente uniti dalla medesima natura umana".(vedi nota) E suffraga la sua affermazione con quanto disse J. Lejeune: "Tutti gli uomini attualmente viventi hanno i medesimi cromosomi. Di qui ne segue che il cariotipo dell'uomo, così come noi oggi lo conosciamo, è comparso originariamente in un gruppo molto ristretto, anzi in unica copia".(vedi nota) E "dal momento che gli uomini non sono soltanto molti, ma molti della medesima specie, essi costituiscono un'unità originaria prestabilita, indipendentemente da un loro accorso o consenso, sotto il profilo spirituale, morale, giuridico ed economico".(vedi nota)

Da questa premessa si traggono alcune deduzioni:

1- L'umanità ha un'unità spirituale e morale, basata sull'uguale dignità e fine di ogni persona umana.

Scrive il Pavan: "L'uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, essenzialmente è sempre lo stesso. Gli uomini infatti nascono liberi e uguali in dignità, per cui tutti, ovunque e sempre, hanno gli stessi fondamentali doveri e gli stessi fondamentali diritti...

L'uomo è soggetto a siffatti doveri e diritti in quanto è uomo: e quindi lo è in qualsivoglia tempo e a qualunque classe o razza appartenga. Né egli si può dispensare da tali doveri e diritti; né altri glieli può negare o ledere".(vedi nota)

La base più profonda della pace mondiale non è garantita dalla formazione dei blocchi, né dall'equilibrio degli armamenti, ma dall'unità spirituale degli uomini e dei popoli.

2- L'umanità è una comunità giuridica. Già F. De Vitoria affermava che tutto l'orbe terrestre è in qualche modo una comunità. E Suarez aggiungeva: "in qualche modo politica e morale".

Ciò è rilevato anche dal fatto il bene comune di ciascun popolo non può essere raggiunto se non nella cooperazione vicendevole degli Stati. Pio XII, in un celebre discorso ai giuristi cattolici sulla comunità degli stati e dei popoli, disse: "In questa Comunità dei popoli ogni Stato è dunque inserito nell'ordinamento del diritto internazionale, e con ciò nell'ordine del diritto naturale, che sostiene e corona tutto. In tal modo esso non è più 'sovrano nel senso di una totale assenza di limiti... Ogni Stato è immediatamente soggetto al diritto internazionale... Nessuno Stato potrebbe muover lagnanze come di una limitazione della sua sovranità, se gli si negasse la facoltà di agire arbitrariamente e senza riguardo verso gli altri Stati. La sovranità non è la divinizzazione o la onnipotenza dello stato, quasi nel senso di Hegel o a modo di un positivismo giuridico assoluto"(6.12.1953).

Nella MeM Giovanni XXIII scrive: "La reciproca fiducia tra gli uomini e tra gli Stati non può nascere e rafforzarsi che nel riconoscimento e nel rispetto dell'ordine morale.

Sennonché l'ordine morale non si regge che in Dio: scisso da Dio si disintegra. L'uomo infatti non è solo un organismo materiale ma è anche spirito dotato di pensiero e di libertà. Esige quindi un ordine etico religioso, il quale incide più di ogni valore materiale sugli indirizzi e le soluzioni da dare ai problemi della vita individuale e associata nell'interno delle Comunità nazionali e nei rapporti tra esse...

La tragica esperienza che le forze gigantesche messe a disposizione della tecnica possono essere utilizzate tanto per finalità costruttive che per la distruzione mette in evidenza la prevalente importanza dei valori spirituali affinché il progresso scientifico-tecnico conservi il suo carattere essenzialmente strumentale in ordine all'incivilimento"(219).

3- La solidarietà economica dell'umanità. Dio ha destinato originariamente i beni della terra a tutta la famiglia umana e non a determinati popoli o uomini (QA 45).

L'umanità forma quindi un'unità solidale anche sotto il profilo economico.

S. Giovanni Crisostomo (+407) diceva che Dio ha fatto in modo che non tutto crescesse e fosse prodotto dappertutto, al fine di unire più intimamente i popoli tra di loro mediante lo scambio delle merci. Teodoreto di Ciro (+458) paragonava il mare posto fra i vari paesi al mercato di una immensa città e le isole alle locande destinate a ospitare i commercianti.

Giovanni XXIII nella MeM ricorda che non è possibile che fra gli uomini regni una pace duratura e feconda quando sia troppo accentuato lo squilibrio nelle loro condizioni economiche sociali "(144).

Il Concilio ha affermato che "la solidarietà attuale del genere umano impone anche che si stabilisca una maggiore cooperazione internazionale in campo economico"(GS 85).

In SRS Giovanni Paolo II ha scritto: "Bisogna ricordare ancora una volta il principio tipico della dottrina sociale della Chiesa: i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti. Il diritto alla proprietà privata è valido e necessario, ma non annulla il valore ditale principio: su di essa, infatti, grava un'ipoteca sociale, cioè vi si riconosce, come qualità intrinseca, una funzione sociale, fondata e giustificata precisamente sul principio della destinazione universale dei beni"(42).

11.1.1

2. Necessità di organizzare la comunità dei popoli

"Il cammino verso la comunità dei popoli e la sua costituzione non ha come norma unica e ultima la volontà degli Stati, ma piuttosto la natura, ossia il Creatore"(Pio XII, 6.12.1953).

Il Magistero della Chiesa è intervenuto diverse volte su questo tema. Giovanni XXIII rileva che "il problema forse maggiore dell'epoca moderna è quello dei rapporti tra le Comunità politiche economicamente sviluppate e le Comunità politiche in via di sviluppo economico" (MeM 167), e che "noi tutti siamo solidamente responsabili delle popolazioni sottoalimentate. Perciò occorre educare la coscienza al senso di responsabilità che pesa su tutti e su ciascuno, specialmente sui più favoriti.

È ovvio che il dovere sempre reclamato dalla Chiesa di aiutare chi si dibatte nell'indigenza e nella miseria deve essere maggiormente sentito dai cattolici, trovando essi un motivo nobilissimo nel fatto che sono membri del Corpo Mistico di Cristo"(170).

E scende poi a determinare concretamente gli ambiti di aiuto: aiuti di emergenza (172), cooperazione scientifico-tecnico-finanziaria (174), evitare gli errori del passato (178-9), rispetto delle caratteristiche delle singole comunità (180), opera disinteressata e non nuovo colonialismo (182).

Nel celebre discorso all’O.N.U. Paolo VI si diffuse ampiamente sul ruolo delle Nazioni Unite. Disse: " Il nostro messaggio vuole essere in primo luogo una ratifica morale e solenne di questa altissima Istituzione... I popoli considerano le Nazioni Unite come il palladio della concordia e della pace" (1); "L'edificio che avete costruito non deve mai più decadere, ma deve essere perfezionato e adeguato alle esigenze che la storia del mondo presenterà. Voi segnate una tappa nello sviluppo dell'umanità dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare"(2); "Voi esistete e operate per unire le Nazioni... per mettere insieme gli uni con gli altri... Siete un ponte tra i popoli. Siete una rete di rapporti tra gli Stati. La vostra caratteristica riflette in qualche modo nel campo temporale ciò che la nostra Chiesa cattolica vuole essere nel campo spirituale: unica ed universale"(3); "Non l'uno sopra l'altro. È la formula dell'eguaglianza... Non si può essere fratelli se non si è umili"(4); "Se volete essere fratelli, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con le armi offensive in pungo... Finché l'uomo rimane l'essere debole e volubile quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie, purtroppo; ma voi state studiando come garantire la sicurezza della vita internazionale senza ricorso alle armi"(5); "Qui si lavora non solo per scongiurare i conflitti tra gli Stati, ma per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri... Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l'appoggio concorde e ordinato da tutta la famiglia dei popoli per il bene comune e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell'organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l'ideale dell'umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, noi osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra"(6); "Questo edificio che state costruendo si regge non già solo su basi materiali e terrestri; sarebbe un edificio costruito sulla sabbia; ma si regge, innanzitutto, sopra le nostre coscienze. È venuto il momento della metanoia, della trasformazione personale, del rinnovamento interiore... È l'ora in cui si impone una sosta, un momento di raccoglimento, di ripensamento, quasi di preghiera: ripensare, cioè, alla nostra comune origine, alla nostra storia, al nostro comune destino. Mai come oggi, in un'epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l'appello alla coscienza morale dell'uomo. Il pericolo non viene né dal progresso né dalla scienza: questi, se bene usati, potranno anzi risolvere molti dei gravi problemi che assillano l'umanità. Il pericolo vero sta nell'uomo, padrone di sempre più potenti strumenti, atti alla rovina e alle più alte conquiste!"(7).

In SRS (9 e 42-45) Giovanni Paolo II ha ripreso e sviluppato il tema.

Nel n.9, facendo riferimento alla Pp, rileva l'ampiezza di orizzonte indicata da Paolo VI. "In verità, l'enciclica MeM di papa Giovanni XXIII era già entrata in questo più ampio orizzonte ed il Concilio se ne era fatto eco nella costituzione GS. Tuttavia il Magistero sociale della Chiesa non era ancora giunto ad affermare in tutta chiarezza che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, né aveva fatto di questa affermazione, e dell'analisi che l'accompagna, una "direttrice di azione", come fa Paolo VI nella sua enciclica.

Una simile presa di posizione così esplicita offre una grande ricchezza di contenuti, che è opportuno indicare.

Anzitutto, occorre eliminare un possibile equivoco. Riconoscere che la "questione sociale" abbia assunto una dimensione mondiale, non significa affatto che sia venuta meno la sua forza d'incidenza, o che abbia perduto la sua importanza nell'ambito nazionale e locale. Significa, al contrario, che le problematiche nelle imprese di lavoro o nel movimento operaio e sindacale di un determinato Paese o regione non sono da considerare isole sparse senza collegamenti, ma che dipendono in misura crescente dall'influsso di fattori esistenti al di là dei confini regionali e delle frontiere nazionali.

Purtroppo, sotto il profilo economico, i Paesi in via di sviluppo sono molto di più di quelli sviluppati: le moltitudini umane prive dei beni e dei servizi, offerti dallo sviluppo, sono assai più numerose di quelle che ne dispongono.

Siamo dunque di fronte a una grave problema di diseguale distribuzione dei mezzi di sussistenza, destinati in origine a tutti gli uomini, e così pure dei benefici da essi derivanti. E ciò avviene non per responsabilità delle popolazioni disagiate, né tanto meno per una specie di fatalità dipendente dalle condizioni naturali o dall'insieme delle circostanze.

L'Enciclica di Paolo VI, nel dichiarare che la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, si propone prima di tutto di segnalare un fatto morale, avente il suo fondamento nell'analisi oggettiva della realtà. Secondo le parole stesse dell'enciclica, ognuno deve prendere coscienza di questo fatto, appunto perché tocca la coscienza, che è la fonte delle decisioni morali.

In tale quadro la novità dell'enc. non consiste tanto nell'affermazione, di carattere storico, circa l'universalità della questione sociale, quanto nella valutazione morale di questa realtà. Perciò i responsabili della cosa pubblica, i cittadini dei Paesi ricchi personalmente considerati, specie se cristiani, hanno l'obbligo morale - secondo il rispettivo grado di responsabilità - di tenere in considerazione, nelle decisioni personali e di governo, questo rapporto di universalità, questa interdipendenza che sussiste tra i loro comportamenti e la miseria e il sottosviluppo di tanti milioni di uomini. Con maggiore precisione l'enc. paolina traduce l'obbligo morale come "dovere di solidarietà", ed una tale affermazione, anche se nel mondo molte cose sono cambiate, ha oggi la stessa forza e validità di quando fu scritta.

D'altra parte, senza uscire dalle linee di questa visione morale, la novità dell'enc. consiste anche nell'impostazione di fondo, secondo cui la concezione stessa dello sviluppo, se lo si considera nella prospettiva dell'interdipendenza universale, cambia notevolmente. Il vero sviluppo non può consistere nella semplice accumulazione di ricchezza e nella maggiore disponibilità dei beni e servizi, se ciò si ottiene a prezzo del sottosviluppo delle moltitudini, e senza la dovuta considerazione per le dimensioni sociali, culturali e spirituali dell'essere umano"(9). In particolare nel n. 42 ha scritto:" La dottrina sociale della Chiesa, oggi più di prima, ha il dovere di aprirsi a una prospettiva internazionale in linea col Concilio Vaticano II, con le più recenti encicliche, e in particolare con quella che stiamo ricordando (PP).

E al n. 43 individua la necessità di particolari riforme:

- la riforma del sistema internazionale di commercio, ipotecato dal protezionismo e dal crescente bilateralismo;

- la riforma del sistema monetario e finanziario mondiale, oggi riconosciuto insufficiente;

- la questione degli scambi delle tecnologie e del loro uso appropriato;

- la revisione della struttura delle Organizzazioni internazionali esistenti, nella cornice di un ordine giuridico internazionale.

E precisa: " Il sistema internazionale di commercio oggi discrimina frequentemente i prodotti di industrie incipienti dei Paesi in via di sviluppo, mentre scoraggia i produttori di materie prime. Esiste, peraltro, una sorta di divisione internazionale del lavoro, per cui i prodotti a basso costo di alcuni Paesi, privi di leggi efficaci sul lavoro o troppo deboli per applicarle, sono venduti in altre parti del mondo con considerevoli guadagni per le imprese dedite a questo tipo di produzione, che non conosce frontiere.

Il sistema monetario e finanziario mondiale si caratterizza per l'eccessiva fluttuazione dei metodi di scambio e di interesse, a detrimento della bilancia dei pagamenti e della situazione di indebitamento dei Paesi poveri.

Le tecnologie e i loro trasferimenti costituiscono oggi uno dei principali problemi dell'interscambio internazionale e dei gravi danni che ne derivano. Non sono rari i casi di Paesi in via di sviluppo a cui si negano le tecnologie necessarie o si inviano quelle inutili.

Le organizzazioni internazionali, secondo l'opinione di molti, sembrano trovarsi a un momento della loro esistenza in cui i meccanismi di funzionamento, i costi operativi e la loro efficacia richiedono un attento riesame ed eventuali correzioni. Evidentemente, un processo così delicato non si potrà ottenere senza la collaborazione di tutti. Esso suppone il superamento delle rivalità politiche e la rinuncia ad ogni volontà di strumentalizzare le stesse Organizzazioni, che hanno per unica ragione il bene comune.

Le Istituzioni e le Organizzazioni esistenti hanno operato bene a favore dei popoli. Tuttavia, l'umanità, di fronte a una fase nuova e più difficile del suo autentico sviluppo, ha oggi bisogno di un grado superiore di ordinamento internazionale, a servizio delle società, delle economie e delle culture del mondo intero".

Diverse sono le organizzazioni mondiali: O.N.U. (organizzazione nazioni unite); OIL (organiz. internazionale del lavoro); O.M.S. (organiz. mondiale sanitaria); UNESCO (organiz. educativa, scientifica e culturale); FAO (organiz. per l'alimentazione e l'agricoltura).

BIBLIOGRAFIA

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Sigle principali

CA=Centesimus annus

CL=Christifideles laici

FC=Familiaris consortio

OA=Octogesima adveniens

MD=Mulieris dignitatem

LE=Laborem exercens

QA=Quadragesimo anno

RN=Rerum novarum

SRS=Sollicitudo rei socialis

MeM=Mater et Magistra

PiT=Pacem in terris

PP=Populorum progressio

Appendice

GIORGIO LA PIRA

III Domenica d’Avvento 1951

Rev.ma Madre, ...

La domanda che dobbiamo instancabilmente porci è questa: - è vero o non è vero che l'essenza del cristianesimo, ciò che lo specifica, che gli dà volto e definizione, è appunto la grazia di Cristo? Id quod est potissimum in lege novi testamenti est gratia Spiritus Sancti quae datur Christi fidelibus, dice S. Tommaso: e vero o non è vero che questa grazia è una luce anticipatrice della gloria [quaedam incoatio gloriae?] Che è una certa partecipazione della vita divina in noi? Che è una " qualità " deiforme che si radica e si " diffonde " nell'anima umana per renderla atta ad unirsi a Dio e ad " ospitare " in sé l'adorabile Trinità? Se qualcuno mi amerà il Padre mio lo amerà e verremo a Lui e faremo sosta presso di lui (come il Signore ha rivelato).

Se tutto questo è vero, come è vero, allora è evidente che l'atto supremo della -creatura umana - il fine pel quale essa è creata - è un atto interiore di unione con Dio, di adorazione di Dio, di fruizione, quanto è possibile ininterrotta, di Dio: è l'atto supremo della creatura associata, per grazia e per gloria, all'Atto che è Dio. S. Agostino lo dice: fecit Deus creaturam rationalem ut Summum Bonum intelligeret, intelligendo amaret, amando possideret, possidendo frueretur: conoscere Dio, amare Dio, possedere Dio, gioire di Dio!

Non è il Magnificat di Maria? Non è questa la lode interiore dell'anima cristiana che guarda il Signore e lo ama? Non è questo il cantico nuovo che zampilla come acqua pura nelle anime verginali? Non è questa la beatitudine " ultima " che Gesù annunzia: beati i puri di cuore perché vedranno il Signore?

Se il cristianesimo è, come è, la grazia e la gloria, l'adorazione - col canto di lode e con la liturgia amante che ne deriva - è il vertice dell'azione umana: nella scala dei valori essa costituisce il valore che tutti i valori a sé ordina e finalizza. È l'azione finale, come Dante dice.

Ecco fondata saldamente, legittimata, la contemplazione come il valore dei valori, come la radice ed il coronamento della vita cristiana: perché la grazia è una contemplazione iniziata e la gloria è la contemplazione consumata: haec est vita aeterna ut cognoscant Te solum verum Deum et quem misisti Jesum Christum.

Quali ricchezze di cose, di valori, di luci, di purezze, in questo dolce mistero di Dio in noi: nella vita umana e terrestre si radicano le fioriture intatte di quella divina e celeste! Fioritura di anime verginali, profumo di Cristo, vera anticipazione, nel mondo, delle cose e della vita del Cielo. Tutto si consolida a questa luce: perché la vita umana, introdotta - in quella divina di Cristo risorto, acquista la trasparenza e la saldezza della resurrezione finale: diventa una prefigurazione della vita futura.

Le conseguenze sociali e storiche di questi valori? Immense: perché se l'asse sociale e storico diventa questa scala di valori ordinata alla contemplazione ed alla pace interiore, allora tutte le cose si dispongono in armonia profonda, diventano pietre di un tempio unico, edificano nel tempo la Gerusalemme eterna: ut aedificentur muri Jerusalem!

La civiltà cristiana altro non è: questa gerarchia di valori espressa in tutte le attività dell'uomo: da quelle culturali ed artistiche: una teologia riflessa in tutte le cose: una cattedrale che ha al suo centro Dio e l'atto di adorazione di Dio.

Madre Rev., quale dolce ideale questo ideale che la grazia dello Spirito Santo ci pone nel cuore: è per noi fonte di infinita dolcezza e di infinita consolazione: esso solo ci fa comprendere cosa sia e cosa valga la più alta delle creature contemplatrici, la Madre vergine del Verbo umanato; esso solo ci fa comprendere cosa valga nel mondo la presenza ed il profumo - sostanza unica del loro apostolato - di tante creature che portano Dio nel loro cuore intatto, nella loro mente pura e nel loro corpo consacrato; esso solo ci fa comprendere che veramente il Paradiso è la dolce città che ci aspetta: che siamo di esso i cittadini attesi: vado a prepararvi un posto!

Ebbene, questo ideale sia la luce che ogni giorno ci avviva e ci riscalda: sul mondo affaticato e sulle anime stanche è questa la rugiada che vivifica, l'amore che rinnova, la speranza che ravviva! Versare dagli occhi puri la luce pura di Dio: l'olio del samaritano che sana le piaghe profonde dell'anima contemporanea è questo: sulle cose corrotte, sugli affetti corrotti, sui pensieri corrotti, -altro non si richiede: versate questa purezza degli occhi, questa purezza del cuore, questa purezza del corpo: chinarsi - sulle creature malate per donare ad esse - conte- Gesù donava - la purezza restauratrice che è dono del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo.

Le cose si ricompongono ad armonia ed unità, Madre Rev., nonostante tutto, il regno del Signore è in cammino: la gerarchia dei valori viene rifatta: le anime si aprono alla bellezza ed alla luce: il cantico verginale di Maria si insinua dolcemente nei cuori: la civiltà riprende i suoi lineamenti di cattedrale cristiana: albeggia una grande speranza nel mondo: sta a noi, Madre Rev., di fare in modo che - almeno col desiderio e la preghiera - questa alba divina diventi fra gli uomini un meriggio di bellezza e di carità.

Preghi sempre più e faccia sempre più pregare la Madonnina per me. GIORGIO LA PIRA

Domenica di Sessagesima, 1952.

Rev.ma Madre,

che dolce cosa questo colloquio che lo Spirito Santo ha, da oltre un anno, stabilito fra di noi!

Di che parliamo? Se rifletto sul contenuto delle circolari precedenti e sulle innumerevoli lettere che esse hanno provocato nei 500 monasteri di clausura ai quali sono state dirette, la risposta viene fuori chiaramente:

la sostanza del nostro colloquio è stata, in ultima analisi, una sola: contemplare, sotto la guida dell'apostolo dell'amore, la città divina - la sposa dell'Agnello (Ap 21,9, 9) - per trarre da questa contemplazione le architetture essenziali della città umana.

Come costruire una nuova città cristiana ed una nuova civiltà cristiana? Da dove ricavare le linee architettoniche essenziali per questa ricostruzione? A quale sicuro modello ispirarci? In tanta incertezza di situazioni e di eventi a quale certezza ancorarci?

Per tutte queste domande - che sono le domande

più urgenti e più impegnative del cristianesimo nella storia contemporanea - noi non abbiamo trovato che una risposta sola: quella che ha costituito, costituisce e costituirà l'oggetto direi unico del nostro dialogo: l'architettura de//a città dell'uomo non può ricavarsi che dalla contemplazione e dalla imitazione dell'architettura della città di Dio: solo la inserzione nella città temporale di questa " forma " e di questo lievito della città eterna può dare alla società umana ed alla civiltà umana una fisionomia cristiana ed una ispirazione cristiana. Questo è il significato ultimo del salmo che dice: - nisi Dominus aedificaverit domum in vanum laboraverunt qui aedificant eam; e dell'altro che dice: Jerusalem quae aedificatur ut civitas.

La validità costruttiva, ontologica, di questi principi è radicata nella essenza stessa del cristianesimo. Cosa è il cristianesimo? È Cristo crocifisso e risorto.

Ma la crocifissione e la resurrezione di Cristo non hanno una efficacia limitata a Cristo. investono la persona umana, investono la società umana, investono l'universo intiero: iniziano nell'uomo, nella società e nel cosmo una esistenza nuova che è incoata nel tempo e che sarà perfezionata nell’eternità.

Nel tempo viene a maturazione un germe che avrà nell'eternità la sua mietitura.

Ma allora una cosa si rende chiara per chi voglia operare nel mondo alla luce e col lievito dell'evangelo: la costruzione temporale deve essere come l'abbozzo della costruzione eterna: la città terrena come il cantiere ove si pongono, per così dire, le impalcature e le prime pietre della città celeste.

Per costruire saldamente nel tempo devo contemplare senza stancarmi il modello che splende nell'eterno. Esistono questi " modelli? ". È possibile, in qualche modo, fissare in essi lo sguardo? Queste architetture divine possono in qualche modo essere trascritte nelle architetture umane? Siamo qui nell'ordine delle cose veramente reali o ci muoviamo, invece, nell'ordine delle cose soltanto fantastiche?

Tutte queste domande traggono la loro risposta da un fatto solo: dalla resurrezione di Cristo, pegno ed inizio della finale resurrezione degli uomini e delle cose.

Se Cristo è risorto - come è risorto - e se gli uomini, perciò, e le cose risorgeranno, allora la realtà presente (temporale) è veramente un abbozzo della realtà futura (eterna). La realtà futura - cioè la persona umana risorta, la società umana risorta (la celeste Gerusalemme), il cosmo risorto (nuovi cieli e nuove terre) - è il modello sul quale va modellata la realtà presente: il tempo deve divenire ciò che esso è per essenza e per destinazione, una preparazione ed un abbozzo dell'eterno. Non siamo qui nell'ordine delle cose fantastiche: siamo nell'ordine delle cose reali: e questa realtà è autenticata e manifestata dalla realtà del corpo glorioso di Cristo risorto (e di Maria Assunta).

Come e dove " vedere " questi modelli eterni? Come fissare l'occhio sulle " cose " future? Chi ci introdurrà nella conoscenza delle architetture celesti?

Il Nuovo Testamento - collegato con l'Antico -è la via che introduce alla contemplazione di queste architetture divine: Cristo risorto è la via, la verità e la vita: nessuno ha mai visto Dio: il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, ce l'ha fatto conoscere. (S. Giov. prol.).

Possiamo ora, Madre Rev., riproporre con più chiara consapevolezza la domanda che sempre ci facciamo: - in questa ricostruzione di una società cristiana e di una civiltà cristiana che posto hanno i monasteri di clausura? La risposta si ricava dalla contemplazione della città celeste: il trono di Dio (Apoc. XXII, 1) non è forse il centro attorno al quale si edifica la città divina? L'adorazione non è forse l'atto che definisce la vita degli eletti? L'orazione dei santi non è forse il

profumo che si espande sull'intiera corte celeste? Il cantico verginale non è forse la lode che diletta il Cuore immacolato dell'Agnello?

Ma allora le conseguenze costruttive per una città umana modellata sulla città divina sono evidenti: il centro attorno al quale si edifica la città umana non può essere diverso: l'architettura della città dell'uomo non può essere diversa, in certo senso, dalla architettura della città di Dio.

Queste cose, che sembrano forse nuove ed inaudite nel tempo nostro, erano tanto chiare nella cristianità medioevale: la civiltà cristiana medioevale - nella totalità ordinata delle sue espressioni: da quelle economiche a quelle politiche, sociali, culturali e religiose - centrò sulla cattedrale e sull'abbazia: ebbe come pietra d'angolo la casa di Dio e dell'orazione. Con espressione felice 5. Tommaso decisamente lo afferma: tutto l'ordine delle cose umane ha come fine unico la contemplazione di Dio (ut sic, si recte consideretur, omnia humana officia servire videantur contemplantibus veritatem. C. g. 111.37).

Riprendere, aggiornate, queste cose; riprendere, aggiornati ed inseriti nel tempo presente e nella realtà sociale presente, questi principi: ravvivare questi modelli perfezionandoli alle vaste costruzioni del tempo nostro: ecco l'opera che ci attende! L'edificio che il Signore risorto affida alla nostra costruzione è davvero una cattedrale; le fatiche sono immense; le proporzioni vastissime; ma che importa se l'architettura è divina e se divina è la forza che ci sostiene?

Madre Rev., all'opera, tutti uniti in questa impresa di edificazione divina!

La dolcissima Madre nostra Maria spiri nel nostro cuore il suo canto verginale; ponga nell'anima assetata l'acqua che sgorga dalla fontana celeste; ci inebrii con le sue immacolate purità; faccia di tutti noi un esercito solo di costruttori che imitano in terra, nell'orazione e nel lavoro, l'esercito dei vincitori del Cielo.

Preghi sempre più e sempre più faccia pregare per il Suo in X0 GIORGIO LA PIRA

Pasqua di Resurrezione, 1952.

Rev.ma Madre,

Questo colloquio benedetto che lo Spirito Santo suscita ed alimenta riprende il suo corso: dove eravamo? L'occhio dell'anima era come fisso - nella precedente circolare - nella contemplazione amorosa della città divina: quali bellezze, che rapiscono ogni creatura nella quale sia presente la grazia del Signore! Perché non si tratta di un sogno o di una fantasia: si tratta della realtà medesima di quella città eterna che 5. Giovanni vide e di cui Egli trasmise a noi i lineamenti essenziali: la città dalle " mura di oro puro ", la città che ha lo splendore delle pietre preziose, la città che ha Dio come sole, di cui l'Agnello è la lampada: la città santa ove sono adunate le ricchezze supreme di tutti gli uomini e di tutte le nazioni.

La città dei risorti, collocata sopra un monte grande ed elevato, al centro di un universo rigenerato, fra terre nuove e nuovi cieli. Tutto qui è vivo di una vita rinnovellata: qui la giovinezza è eterna: qui scorre luminoso come cristallo puro, il fiume della grazia che ha nel trono di Dio e dell'Agnello la sua scaturigine infinita. In questa città beata - beata visione di pace! -le creature glorificate cantano un cantico nuovo che echeggia, con note di divina armonia, dall'un punto all'altro di questo universo luminoso ove la gloria di Dio penetra tutte le cose e tutte interiormente le illumina!

Sogno di poeta? Fantasia di artista? No, solida realtà che saldamente poggia sul corpo glorificato di Cristo! Se Cristo è risorto - come è risorto - tutto si fa chiaro: la città di Dio, la città dei risorti, con l'universo nuovo, rigenerato, in cui essa è collocata, non è che il " prolungamento ", per così dire, della resurrezione di Gesù: il corpo glorioso del redentore partecipa la sua vita eterna e la sua eterna gloria a tutte le creature: fa rinascere a vita nuova tutte le cose: tutte le cose risorte - come è risorto il Corpo di Cristo -sono intimamente penetrate dalla stessa luce di gloria che penetra e fa splendere, come sole, il corpo del Signore!

Tutto il cristianesimo è qui: è nella esistenza di questo mondo glorificato, di questa città glorificata, di questa eternità di gloria nella quale tutti gli uomini e tutte le cose trovano una esistenza di gloria che li farà eternamente vivi ed eternamente luminosi ed eternamente felici! E questa costruzione eterna di gloria, di pace, di esultazione, di amore ha una pietra d'angolo di cui conosciamo tutti - in certo modo - il valore e la struttura: è il Corpo glorioso del Redentore risorto:

quel Corpo glorioso che gli apostoli ebbero agio di contemplare per quaranta giorni e che nel corso de' secoli non manca di manifestarsi ancora alle anime più elette della Sua Chiesa!

Tutto è così chiaro, posta la resurrezione di Cristo: se guardiamo da questo divino angolo visuale la realtà futura - che è la germinazione totale di quella presente: la gloria non è che il totale dispiegamento della grazia! - allora tutto si chiarisce: nessuna meraviglia che S. Giovanni abbia visto i lineamenti così precisi del mondo futuro e della città futura: le strutture del mondo della gloria non possono essere radicalmente diverse, senza rapporto alcuno, con quelle del mondo della grazia: la Chiesa trionfante - la città eterna non è senza rapporti di profonda somiglianza con la Chiesa militante.

Come è consolante questa visione cristiana della eternità! Essa dà valore a tutte le cose del mondo presente: dà valore al corpo umano, tempio di Dio, destinato a splendere eternamente, come una lampada di purità e di gloria; dà valore alle cose che ci circondano, esse pure destinate ad illuminarsi di una che darà loro una consistenza indistruttibile e luminosa; dà valore a tutte le costruzioni ed opere dell'uomo: nessuna di esse perirà: ma tutte risorgeranno per costruire per sempre, per ogni uomo, una corona di luce e una sorgente di amore!

Valore indistruttibile della vita presente perché già radicata in quella futura: ecco la conclusione che si trae dalla contemplazione di Cristo risorto e delle cose e delle creature, per virtù di Lui, e sul modello di Lui, esse pure risorte!

Ma quest'opera di universale resurrezione e di universale illuminazione, questa rigenerazione a vita eterna di tutti gli uomini e di tutte le cose ha un " operatore "divino: lo Spirito Santo che opera negli uomini e nelle cose la loro intima santificazione e trasfigurazione. Modellati su Cristo, certo; splendenti dello stesso splendore di Cristo, certo; ma tutto ciò in virtù di quella misteriosa opera di rigenerazione interiore che opera negli uomini e nelle cose lo Spirito di Cristo!

Madre Rev., come vengono alle labbra, spontaneamente, le parole del Signore alla Samaritana: si scires donum Dei: se conoscessi il dono di Dio!

Se le creature si rendessero conto - e noi per primi! - di questi divini misteri che da ogni parte ci circondano e ci sollecitano per farci entrare sempre più a fondo in questo dolce regno della grazia e della gloria!

Questo bisogna ridire al mondo moderno: bisogna fare come fece l'angelo con S. Giovanni: indicare agli uomini i lineamenti della realtà vera; mostrare le delicate bellezze del mondo che non finisce! Incantare le anime col profumo di una verginità intatta; elevare gli intelletti ed i cuori sino alla contemplazione della bellezza eterna!

Il cristianesimo non è solo bontà: è anche, essenzialmente, bellezza, purità, luce: bonum et pulchrum convertuntur: bisogna mostrare agli uomini contemporaneamente questi due aspetti indissociabili dell'unica redenzione!

E qui il ragionamento ritorna necessariamente sui monasteri di clausura: a che servono? quale ne è la funzione nel corpo della Chiesa ed in quello della civiltà? La risposta è chiara: essi sono destinati a rifrangere nel mondo presente la bellezza verginale del mondo futuro: son destinati a mostrare del cristianesimo l'aspetto di bellezza, di purità, di verginità, di orazione: son destinati a rappresentare in qualche modo, con le mura custodite della loro clausura, le " mura d'oro " di quella divina clausura che è la città dei beati, il dolce Tabernacolo di Dio e degli uomini!

Son questi i valori di luce, di incanto, di elevazione, di purezza che il mondo cerca con tanta, spesso inconsapevole, ansietà: col pane materiale - il lavoro, la casa, l'assistenza e così via - esso cerca quest'altro pane: il pane degli angeli: cerca volti angelici, bellezze restaurate e celestiali, rifrazioni, sul volto delle creature, della luce infinita ed eterna che splende nel volto adorabile di Dio!

Rev. Madre, avanti in questa dolce opera di apostolato, di silenzio, di pace, di orazione, di amore, di purità, di luce: bontà e bellezza sono le due ali della grazia e sono i due aspetti eterni della gloria.

La dolcissima Madre di Dio - nella quale ogni bontà ed ogni beltà si aduna - ci conceda di vedere ogni giorno più splendente nell'animo questo ideale divino: essere nel mondo come i proiettori di quella luce che fa, essa sola felici gli uomini e che anticipa ad essi le gioie verginali della vita futura.

Preghi e faccia sempre pregare il Signore per me. Saluti in Cristo.

Giorgio La Pira