HERVÉ CARRIER S.J

DIZIONARIO

DELLA CULTURA

PER L'ANALISI CULTURALE

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Ecologia. (inizio)

La parola ecologia, dal greco oikos (casa, habitat) e logos (scienza) è stata introdotta da E. Haeckel nel 1868 per descrivere lo studio dei rapporti tra gli esseri viventi e il loro ambiente naturale. Riservata, da principio, all'osservazione delle piante e degli animali, l'ecologia si è poi interessata dei rapporti dell'uomo con il proprio ambiente: suolo, acqua, aria, vegetazione, fauna. La medicina, per esempio, ha utilizzato l'ecologia per analizzare il diffondersi delle malattie e delle epidemie.

L'ecologia umana studia i reciproci rapporti tra l'uomo e il proprio ambiente naturale e considera, in particolare, gli effetti del comportamento degli uomini sull'equilibrio degli ecosistemi: trasformazione, valorizzazione o distruzione delle risorse naturali, protezione o inquinamento dell'ambiente. L'essere umano è in relazione d'interdipendenza con la biosfera e le sue scelte individuali e collettive possono favorire un equilibrio fecondo o, al contrario, costituire una minaccia per l'armonia necessaria tra tutti gli organismi dell'ecosistema.

Il metodo ecologico è utilizzato con profitto dai sociologi e dagli antropologi perché permette di situare meglio le comunità umane nei loro ambienti concreti al fine di comprendere come le popolazioni crescano e decrescano, si distribuiscano e si organizzino secondo diversi spazi o aree naturali. L'ecologia umana ha largamente ispirato le ricerche in sociologia urbana della Scuola di Chicago negli anni '20. L'occupazione del territorio urbano, vi si scopre, è oggetto di competizione tra i gruppi etnici, che si distribuiscono in diverse zone naturali, secondo un processo di competizione, di dominazione, di successioni, di mobilità, d'interdipendenza.

La sociologia attribuisce ora una grande importanza alla distribuzione spaziale dei fenomeni sociali, quali le densità demografiche, la ripartizione delle preferenze politiche, dei redditi, degli stili di vita. La semplice descrizione geografica dei fatti sociali ha spesso trascurato di stabilire i condizionamenti che esistono tra i comportamenti collettivi e l'ambiente naturale. I gravi danni causati alla natura dall'industrializzazione e dall'urbanizzazione hanno suscitato una riflessione originale che conduce ad un approccio socio-fisico dell'ecologia. Gli ecosistemi sono ora studiati con tutti i loro elementi: fisici, vegetali, biologici, di cui l'uomo è parte integrante con la sua tecnica. Le ricerche ecologiche non possono più essere confinate nel solo territorio nazionale: è l'insieme della biosfera che diventa oggetto delle preoccupazioni di carattere ecologico.

L'opinione pubblica nei paesi industrializzati è diventata molto sensibile ai problemi dell'ambiente. Sorgono numerosi gruppi di studio e d'azione, si costituiscono partiti politici, i " Verdi ". Il loro impatto è importante, ma la loro difesa dell'ambiente è spesso paralizzata dall'ambiguità dei concetti e dei programmi, che non sempre evitano lo scoglio della contestazione utopica, del naturismo antitecnico, del pacifismo ideologico. Malgrado queste difficoltà, la causa dell'ecologia merita ogni incoraggiamento e sostegno affinché, a livello delle politiche nazionali e dei rapporti internazionali, si presti attenzione responsabile ai gravi problemi dell'ambiente fisico e sociale.

Sono state create agenzie internazionali per la protezione dell'ambiente: regime delle acque, risanamento dei fiumi, difesa delle foreste, lotta contro le piogge acide, sorveglianza dell'aria, salvaguardia delle risorse non-rinnovabili, protezione delle terre arabili ecc. Le Nazioni Unite hanno organizzato, nel 1972, la Conferenza di Stoccolma sull'ambiente. Le nazioni industrializzate hanno, in quell'occasione, sostenuto varie proposte sul controllo demografico e la protezione delle risorse naturali che i paesi del terzo mondo hanno rifiutato con vigore, considerandole misure tese a perpetuare la divisione tra regioni ricche e zone povere. Nei paesi ricchi, si fa notare, un cittadino consuma una quantità di risorse equivalente a quelle di cento abitanti dei paesi poveri. Questi ultimi accusano i primi d'imperialismo e di terrorismo ecologico. Vi sono commissioni internazionali che organizzano incontri e studi che esercitano un crescente impatto sull'opinione pubblica e i governi: G. Bruntland, 1989.

L'attuale dibattito sull'ecologia difficilmente evita il tono emotivo. I nostri contemporanei prendono progressivamente coscienza che si tratta dell'avvenire della specie umana e del suo ambiente di vita. Il rapporto tra uomo e natura si pone ormai in termini drammatici. Senza cedere agli allarmismi o all'attivismo sterile, la nostra epoca è chiamata a situare i problemi ecologici in una prospettiva d'interdipendenza trasnazionale e ad immaginare nuove forme di collaborazione tra tutte le nazioni, poiché mai come ora la biosfera è stata così chiaramente percepita quale patrimonio comune da proteggere. Le soluzioni dipenderanno essenzialmente dalla assennatezza di tutti. Siamo in presenza di un valore che emerge con forza nella cultura di oggi.

Vedi: Area culturale, Industrializzazione, Urbanizzazione, Beni culturali.

Bibl.: A. Beauchamp 1991. P.C. Beltrao 1985. E. Bonifazi 1973. G.H. Bruntland et al. 1989. N. Deedy 1974. N. Myers 1985. P. Acot 1988. J.-P Deléage 1991. P. Simonnet 1991.

 

Educazione. (inizio)

Intimamente legate al progresso umano, l'educazione e la cultura non si comprendono che nel loro reciproco rapporto. Noi qui consideriamo l'educazione nella sua relazione con la cultura intesa nella sua duplice dimensione individuale e sociale: cioè la crescita delle persone, come anche il modo di vita tipico delle società umane.

Nessuna società può sussistere senza una forma, sia pure rudimentale, di educazione, grazie alla quale sono trasmessi alle giovani generazioni i valori, le conoscenze e il senso di un destino comune. L'educazione informale è anzitutto dispensata in famiglia, poi attraverso la progressiva iniziazione alle attività comunitarie: rapporti di parentela e di vicinanza, apprendistati diversi, partecipazione al lavoro, alle feste, alle celebrazioni, al culto religioso. Il bambino vi acquista la propria lingua, le proprie conoscenze, gli usi, le credenze, le tradizioni, i comportamenti, le regole sociali indispensabili alla sua integrazione nel gruppo.

Con il progredire delle società, l'educazione si è sviluppata come funzione specifica affidata a gruppi o istituzioni particolari: scuola, palestra, collegio, università.

Cultura greco-latina e educazione. Per quanto concerne l'essenziale, il modello educativo delle società moderne ha le sue origini nella cultura greco-latina e giudeo-cristiana. Questo modello scolastico ha segnato l'Occidente come tutti i paesi che hanno accolto la modernizzazione economica, politica, sociale e educativa.

Se è vero che le tradizioni culturali della Cina, dell'India e dell'Egitto hanno, anch'esse, prodotto delle forme pedagogiche ammirevoli da cui il nostro mondo può ancora trarre ispirazione, bisogna tuttavia riconoscere che i loro metodi educativi non hanno avuto la sistemazione e l'irradiamento universale del modello greco-latino diffuso dall'Occidente.

L'ideale greco dell'educazione proponeva un umanesimo, cioè una ragione di vivere degna dell'uomo. Questa pedagogia originale, chiamata paideia, mirava idealmente a formare l'uomo completo: corpo, anima, immaginazione, ragione, carattere, spirito. Il giovane si sviluppava attraverso la ginnastica, la musica, la danza, la matematica, la grammatica, la lettura, le lettere, le scienze, la retorica, l'arte, la filosofia. Il rapporto coi grandi autori offriva modelli di coraggio e di nobiltà e i giovani venivano così iniziati all'imitazione degli eroi. Omero fu una sorgente inesauribile per formare all'ideale della vita civile: egli fu l'" educatore della Grecia ". Rembrandt ha immortalato questa realtà dell'educazione civile nella sua famosa tela dove Aristotele contempla il busto di Omero. Bisogna soprattutto tenere presente che il genio ellenico ha creato tutte le discipline intellettuali, pratiche ed artistiche di cui ancora vivono i nostri sistemi educativi: grammatica, matematica, geometria, storia, teatro, scultura, musica, diritto, retorica, filosofia, scienza politica, medicina, fisica.

I Romani, conquistatori della Grecia, furono, a loro volta, conquistati dalla cultura greca ch'essi ebbero il merito di diffondere e di consolidare in tutto l'Impero: era il mezzo per " fare del mondo intero un'unica patria ": Rut. Nam. I, 63; Orazio, Ep. II, I, 156.

Eredi dei Greci, i Romani furono i propagatori di una pedagogia umanistica legata alla cultura classica: Cicerone traduceva paideia in humanitas, termine che esprimeva il divenire pienamente uomo. Questo modello pedagogico e culturale ha creato il mondo moderno. Questo umanesimo, di origine occidentale, è ora patrimonio universale. Henri Irénée Marrou nota: " Noi siamo Greco-Latini: tutto l'essenziale della nostra civiltà è nato da loro; e questo è vero ad un grado elevato per il nostro sistema di educazione ": H. I. Marrou 1965, p. 18.

La pedagogia cristiana delle origini. La diffusione del Cristianesimo in tutto l'Impero romano ha suscitato una sintesi culturale nuova, in cui i valori classici sono stati integrati ed arricchiti entro una visione evangelica del mondo e del destino umano.

" L'educazione cristiana ", di cui parla già san Clemente di Roma nel terzo secolo, consiste nell'apprendimento delle verità da credere per la salvezza e le regole morali che sono proprie del discepolo di Cristo. Si può dire che il cristianesimo è una fede insegnata e una pedagogia. Il suo Fondatore aveva detto: " Andate e ammaestrate tutte le nazioni ". Le Lettere di san Paolo contengono, sul piano pedagogico, una parte dottrinale e una parte morale. La conoscenza del Cristianesimo, religione del Libro, presuppone una formazione intellettuale, una iniziazione alla lettura, all'interpretazione, alla riflessione morale, all'integrazione culturale.

I primi maestri cristiani utilizzarono i metodi pedagogici dei Greco-Romani, attenti, tuttavia, a rifiutare le credenze e le pratiche pagane, inconciliabili con il Vangelo. Fin dai primi secoli, la Chiesa ha avuto letterati, filosofi e teologi che hanno fatto onore sia alla cultura classica che al pensiero cristiano: Origene, Giovanni Crisostomo, Agostino, Gregorio di Nissa, Girolamo e perfino Tertulliano, nonostante la sua posizione di categorico contrasto nei confronti degli autori pagani.

E soltanto nell'epoca barbarica e dell'estinzione della cultura classica che la Chiesa istituì, per una forma di esigenza pedagogica interna, sue proprie scuole collegate ai monasteri, alle sedi episcopali e alle parrocchie rurali. Il giovane vi apprendeva a leggere partendo dal testo sacro e veniva iniziato a venerare la Scrittura, ad interpretarla per alimentare la propria fede ed illuminare il proprio comportamento. Sotto la direzione di un insegnante, che era anche maestro di spirito, lo studente si formava alla vita interiore e alla comunicazione della propria cultura spirituale al popolo dei fedeli. I monasteri esercitarono una profonda influenza sulla cultura e sull'educazione in Europa. La regola di san Benedetto, nel sesto secolo, ha stimolato l'istruzione dei giovani maschi e, verso la stessa epoca, la regola di san Cesario ha dato impulso all'educazione delle ragazze.

Nascita delle Università. Le modeste scuole delle origini si svilupparono e prepararono la via a centri di studi superiori che divennero le università del Medioevo. Con la Scrittura, la teologia e la filosofia vi si insegnavano il diritto, la medicina e le arti liberali. La riscoperta dei classici greci, attraverso autori arabi, doveva condurre la pedagogia cristiana ad una sintesi originale fecondissima: quella che realizzeranno i grandi della Scolastica. Un posto particolare va riservato alla Somma Teologica di san Tommaso d'Aquino che integra i concetti essenziali di Aristotele e quelli della Rivelazione divina in una costruzione intellettuale scientifica che abbraccia Dio, l'uomo e l'universo. Nei secoli che seguiranno, la Summa e gli scritti della Scolastica diventeranno il compendium dell'insegnamento e del metodo pedagogico. La teologia si andò sviluppando in forma sistematica parallelamente alla filosofia, alla fisica, alla medicina, al diritto e alle arti liberali. Le università del Medioevo costituirono il prestigio dei grandi centri universitari d'Europa: Bologna, Parigi, Oxford, Salamanca, Vienna, Erfurt, Colonia, Basilea, Lovanio, Hannover, Budapest, Cracovia, Praga, Coimbra, Vilna, Upsala, Copenaghen.

Le università formarono i giuristi, gli avvocati, i notai, i teologi, i chierici, cioè i responsabili civili ed ecclesiastici che costruirono l'Europa. Una stretta simbiosi si stabilì dunque tra il sistema di educazione e lo sviluppo della cultura nell'Europa del Medioevo. Si può, con la stessa misura di verità, dire che l'Europa ha fatto le università e che le università hanno fatto l'Europa. Cultura ed educazione appaiono in tutta la loro interdipendenza. La pedagogia ha integrato lo studio della Scrittura e della teologia così come quello delle tradizioni intellettuali dei Greci e dei Romani, riscoperti dai Padri della Chiesa e dagli scrittori arabi che avevano, in maniera notevole, sviluppato la matematica, la filosofia, la medicina e l'astronomia.

Lo studio dei classici assume una notevole ampiezza nell'epoca del Rinascimento e particolarmente l'Università di Parigi acquista fama per il suo insegnamento umanistico orientato in prospettiva cristiana. Il metodo parigino, o modus parisiensis, sarà, in seguito, divulgato dai collegi dei Gesuiti eretti nelle principali città d'Europa e, poco a poco, in tutte le missioni della Compagnia di Gesù: nell'America del Nord e del Sud, in Asia ed anche in Africa. La Ratio Studiorum dei Gesuiti, cioè il loro metodo di insegnamento, segnerà profondamente la pedagogia e l'insegnamento umanistico fino all'epoca moderna: vedi Università.

L'umanesimo classico e cristiano. Che cosa caratterizza questa pedagogia e questo umanesimo cristiano? Si tratta di una certa rappresentazione dell'uomo, responsabile di fronte a Dio dei talenti ricevuti e tenuto a farli fruttificare per crescere personalmente e per servire la comunità umana. Il giovane si forma a questo ideale con una ginnastica intellettuale che l'inizia all'analisi grammaticale e logica, alla composizione, all'eloquenza, all'interpretazione dei grandi autori greci e latini, alla comprensione della storia dall'antichità e dei tempi biblici. Questa formazione s'inserisce in un'educazione spirituale alimentata dalla fede. Essa dà allo studente orientamento e senso di responsabilità nella società.

L'umanesimo classico seppe aprirsi alle scienze in sviluppo: matematica, fisica, astronomia, come testimoniano i programmi del Collegio Romano nel sedicesimo secolo. E questo umanesimo letterario e scientifico che ha formato i nuovi universitari dell'epoca, i grandi esploratori, i missionari audaci come Matteo Ricci in Cina, Roberto de Nobili in India e i grandi uomini intraprendenti di cui aveva bisogno il mondo moderno.

Se si volessero sintetizzare i valori tipici che questo modello di educazione ha apportato alla cultura dell'uomo moderno, se ne potrebbero così elencare gli elementi: concezione della felicità propria dell'uomo situata nell'economia divina, rispetto dello spirito e della libertà, inclinazione alla creatività e al superamento, razionalità nei confronti di un universo da conoscere e sfruttare, bisogno d'intraprendere e di distinguersi, ricerca di ciò che eccelle, senso della competizione e dell'emulazione, interesse per lo Stato e i diritti umani, disponibilità al servizio del bene comune con un lavoro competente, concezione della persona creata ad immagine di Dio e chiamata ad un destino eterno. L'educazione classica aveva raggiunto il suo scopo se i giovani erano portati a dire a se stessi: " La nobilità fa obbligo " e se erano convinti, come Pascal, che " l'uomo oltrepassa infinitamente l'uomo ".

Questa educazione non ha prodotto sempre uomini grandi e il suo ideale è spesso stato deluso, ma rimane un modello a cui la scienza pedagogica moderna continua a riferirsi. Questa pedagogia richiedeva un acume della mente e del cuore che ha profondamente segnato l'anima cristiana d'Europa e dei paesi in cui si è diffusa la sua cultura.

Ricerca di un nuovo modello culturale e educativo. Paradossalmente, è stato proprio il successo dell'educazione classica a provocarne il disorientamento; questa pedagogia, infatti, favorendo l'enorme sviluppo delle conoscenze ha portato alla rivoluzione tecnologica e alla nascita dello spirito moderno. L'educazione stenta a definirsi in una cultura ormai segnata dal pluralismo delle convinzioni e dei comportamenti, dall'obsolescenza e dalla rapida evoluzione delle conoscenze, dalla socializzazione dei beni culturali, dalla scolarizzazione generalizzata e dalle università di massa, dal ruolo dominante dei media moderni nella cultura, dallo sviluppo del settore quaternario che privilegia la costante innovazione e la ricerca, dall'aspirazione del terzo mondo all'educazione moderna, mentre ancora esistono quasi un miliardo di analfabeti nel mondo. La scuola e le università tradizionali sono decisamente in crisi di fronte ad un mondo in rapido cambiamento che difficilmente, accetta le élites e le gerarchie prestabilite e dove forti correnti antintellettualistiche sono in conflitto con chi detiene quel sapere che potrebbe sfociare, affermano, in dominio sociale, militarismo e distruzione ecologica.

La sociologia dell'educazione si è occupata di questi problemi per misurarne la gravità e la complessità, ma da sola le è difficile trovare delle soluzioni soddisfacenti. Nell'attuale stadio di riflessione pedagogica e filosofica, alcuni orientamenti fondamentali meritano d'essere sottolineati:

1. Più che mai è importante ridefinire i fini dell'educazione. La bimillenaria tradizione dell'educazione classica e cristiana offre una risposta sempre valida affermando che il fine dell'educazione è la formazione di uno spirito capace di giudicare nella libertà. E una contraddizione pedagogica il ridurre la scuola a puro mezzo di riproduzione ideologica, a indottrinamento politico, ad addestramento d'ispirazione militare o a semplice formazione tecnica quale è richiesta dal sistema economico. Senza negare gli scopi pratici dell'educazione, la sua finalità più alta, che è di ordine umanistico, esige di essere fermamente rivendicata.

2. Occorre realizzare il difficile equilibrio tra la formazione personale dello studente e la sua informazione enciclopedica. L'enorme sviluppo delle conoscenze in tutti i campi rende ormai impossibile un'assimilazione sintetica di tutto il sapere. Nella cultura moderna bisogna imparare a vivere con un immenso margine di non-sapere: gli estesi settori delle scienze riservati agli esperti di discipline sempre più specializzate. Uno sforzo comune s'impone, tuttavia, perché sia percepito ed affermato il fine umanistico ed etico del sapere che viene dispensato. La scuola dovrà dunque sforzarsi di far capire che la conoscenza è più importante del sapere, poiché essa soltanto può condurre alla responsabilità morale e alla saggezza.

3. La famiglia, in quanto primo ambiente educativo, e i maestri di professione conservano tutto il loro ruolo nella società moderna. Non si può, senza cadere in contraddizione, in nome di un razionalismo politico ed economico, mobilitare la scuola per farne uno strumento di potere, di manipolazione economica, di riproduzione sociale e ideologica. I partiti politici, i sindacati, soprattutto quelli degli insegnanti, i ministeri dell'educazione hanno certamente un ruolo da assolvere nell'avvenire della scuola, ma dovranno evitare il pericolo di minimizzare il ruolo degli educatori naturali quali la famiglia e i maestri di professione. Le forze politiche e sindacali hanno talvolta la pretesa di farsi educatori della nazione. L'esperienza dimostra che nessun progetto educativo può riuscire senza la partecipazione delle famiglie, dei maestri competenti e delle forze vive della cultura. La politica dell'educazione in una nazione è chiamata, prima di tutto, a favorire l'uguaglianza delle possibilità offerte nell'ambito dell'istruzione a tutti i livelli, ponendo le risorse dello Stato al servizio del sistema educativo. I poteri pubblici, tuttavia, non possono sostituirsi agli educatori in quanto tali e alle istituzioni specializzate, la cui esperienza e vocazione propria sono insostituibili. Stimolare, incoraggiare e coordinare i ruoli educativi della nazione tocca allo Stato, ma il compito di educare e d'istruire appartiene alla comunità umana, alle famiglie, alle scuole, alle università e a tutte le istituzioni culturali che formano l'ambiente educativo propriamente detto. Nelle società complesse d'oggi l'opinione pubblica deve essere efficacemente sensibilizzata a questa responsabilità collettiva, perché la missione educativa esige, come non mai per il passato, vigilanza e discernimento, insieme a un opportuno adattamento ai rapidi cambiamenti delle culture.

4. Pur difendendo la prospettiva umanistica dell'educazione, occorre riconoscere che la scuola del passato ha potuto favorire, più o meno coscientemente, un individualismo poco preoccupato delle responsabilità degli insegnanti e degli studenti nei confronti dei cambiamenti sociali. Una nuova presa di posizione s'impone alle culture che ora valorizzano - almeno intenzionalmente - la solidarietà e l'aspirazione generalizzata allo sviluppo e alla giustizia. Anche se la formazione umanistica della persona conserva tutta la sua validità, occorre, più che nel passato, mettere l'accento sulla funzione sociale dell'educazione. Le società tradizionali avevano la visione di un mondo relativamente statico, in cui i rapporti tra le classi sociali e i popoli erano percepiti come un dato praticamente immutabile. Uno dei mutamenti più profondi della nostra epoca è la crescente convinzione che le società possono effettivamente cambiare attraverso uno sforzo umano concorde. Questo reclama un'educazione alla responsabilità sociale, al senso civico e politico inteso nella sua accezione più ampia. Questo aspetto dell'educazione acquista una particolare urgenza in un mondo alla ricerca di giustizia e di universale partecipazione alla cultura. L'educazione è ormai concepita oltre che come servizio all'individuo, come fattore di sviluppo e di promozione per l'insieme della società.

5. L'attitudine all'analisi sociale e culturale è oggi parte integrante di ogni tipo di formazione umana. Non si tratta di chiedere a tutti gli studenti una specializzazione in sociologia, ma tutti, in una situazione di accelerato mutamento culturale, hanno bisogno di imparare a giudicare e discernere nel complesso dei valori pluralistici e delle contraddizioni ideologiche. La formazione al discernimento culturale è necessaria per evitare l'indeterminazione etica e la perdita d'identità.

Nel passato, l'ambiente e la stabilità delle istituzioni aiutavano gli individui a situarsi entro una cultura; oggi la responsabilità è in gran parte affidata alla singola persona. L'educazione classica insegnava ad analizzare le grandi opere letterarie del passato; l'educazione moderna, senza trascurare questo atteggiamento, deve preparare gli studenti ad analizzare le culture vive: i loro valori dominanti, la loro evoluzione, il loro impatto sulle mentalità e sui comportamenti. Educare significa oggi insegnare ad educare continuamente se stessi in un ambiente culturale fluido e in costante evoluzione; ne consegue la necessità di un'educazione permanente, diventata esigenza indispensabile per le culture in cambiamento: vedi: Educazione permanente.

6. Nella società moderna, il pluralismo culturale pone nuovi e difficili problemi ai responsabili dell'educazione. Una soluzione di falso razionalismo detta ad alcuni governi una politica educativa che fa astrazione da ogni convinzione religiosa e morale delle famiglie, lasciando che questi valori siano confinati nella sfera del privato. Si tratta di un atteggiamento che dimentica il diritto primario delle famiglie a trasmettere ai figli le proprie credenze e la propria eredità spirituale. In nome dello stesso pluralismo, un'altra soluzione è oggi rivendicata: quella di diversificare i servizi offerti ai cittadini, tenendo conto delle convinzioni delle famiglie e in base alle risorse di cui dispone lo Stato. Una politica educativa, rispettosa del pluralismo culturale, dovrà dunque riservare un posto legittimo all'insegnamento religioso e alla formazione morale. Si tratta di un diritto culturale fondamentale, come ricorda il Vaticano II: " Il Sacrosanto Sinodo dichiara che fanciulli e giovani hanno diritto di essere aiutati sia a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali, sia alla conoscenza approfondita e all'amore di Dio. Perciò chiede e raccomanda a quanti governano i popoli o presiedono all'educazione di preoccuparsi perché mai la gioventù venga privata di questo sacro diritto": Gravissimum educationis, 5. Le realizzazioni pratiche sono di competenza degli Stati in dialogo costruttivo con gli educatori e le famiglie. Molti governi hanno saputo dare una soluzione soddisfacente a questo problema: " La Chiesa loda quelle autorità e società civili che, tenendo conto del pluralismo esistente nella società moderna e garantendo la giusta libertà religiosa, aiutano le famiglie perché l'educazione dei loro figli possa aver luogo in tutte le scuole secondo i principi morali e religiosi propri di quelle stesse famiglie ": ibid., n. 7.

La gestione di un sistema educativo moderno pone alla società problemi amministrativi molto complessi, ma le sfide più grandi sono di carattere culturale. Queste sfide, soprattutto quelle che pongono i media moderni, sono esaminate particolarmente negli articoli Culture nuove, Comunicazione sociale e Modernità. Si tratta di questioni analoghe a quelle sollevate dalla politica culturale e della comunicazione in una società moderna e pluralistica, preoccupata delle identità molto differenziate e della partecipazione di tutti allo sviluppo umano della collettività. Queste esigenze sono oggi rafforzate dagli imperativi dell'educazione permanente, che hanno fortemente ampliato le responsabilità educative delle nazioni.

Vedi: Educazione permanente, Politica culturale, Comunicazione sociale, Famiglia, Sviluppo culturale, Catechesi, Lingua, Arte, Scienze, Università.

Bibl.: M. Abdallah-Pretceille 1986. G. Bardy 1948. H. Carrier 1975, 1982a., 1990a. H. Chadwick 1966. C.N. Cochrane 1944. P. Delhaye 1961. J. Delumeau et D. Roche 1990. G.L. Ellspermann 1949. H. Gouhier 1987. H. Hagendhal 1958, 1988. J.B. Herman 1914. J. Maritain 1947, 1966. H.I. Marrou 1965, 1966. G. Mialaret et J. Vial 1981. F. Oser et al. 1991. P. Riché 1962. Vat. II, Gravissimum Educationis. J. Verger 1973. C. Camilleri 1985. L. Giard 1995. J. Grand'Maison 1992, 1993. A. Grafton 1990. M.T. La Vecchia 1995. H. Malewska-Peyre et al. 1991. F. Ouellet 1991. E. Sullerot 1992. E.E. Whitehead 1990.

 

Educazione permanente. (inizio)

L'educazione permanente è oggi considerata uno degli obiettivi prioritari e più promettenti della politica culturale degli Stati. C'è chi afferma che l'educazione permanente è la prima idea nuova nel campo dell'educazione dall'inizio del secolo. I grandi organismi internazionali che s'interessano della cultura dedicano un'attenzione speciale all'educazione permanente.

La formazione permanente degli adulti è sempre esistita; era uno degli scopi perseguiti dai saggi dell'antichità, dai filosofi e dai predicatori. I templi, le cattedrali, i monasteri, e in tempi più vicini a noi, i musei, i teatri, il giornalismo di qualità hanno avuto un compito di educazione permanente. Nel secolo XIX, sono sorti associazioni umanitarie, sindacati operai, gruppi culturali che si sono esplicitamente dedicati alla formazione delle masse, in vista della promozione della classe operaia. Le scuole e le università sono quindi entrate nel movimento organizzando corsi per adulti, corsi serali o per corrispondenza. Ma, da una quarantina d'anni, trasformazioni culturali di grande portata hanno dato un impulso veramente nuovo all'educazione permanente.

Dopo aver precisato l'attuale concetto di educazione permanente, esamineremo i fattori che hanno contribuito al suo sviluppo e gli obbiettivi a cui tende.

Il concetto di educazione permanente. Come accade per tutte le questioni che riguardano l'educazione, il concetto di educazione permanente suscita ampi dibattiti nei quali la terminologia riflette punti di vista difficilmente conciliabili, ciò che è comprensibile, dato che la formazione permanente deve soddisfare contendenti con interessi divergenti. Il mondo accademico, i sindacalisti militanti, i direttori d'imprese, i politici e gli stessi beneficiari dell'educazione sono orientati ad interpretare in modo diverso la formazione permanente, collegando ad essa promesse non sempre facilmente armonizzabili. Si tratta di un " concetto-gomma ", si è detto, volendo esprimere la possibilità per l'idea di dilatarsi in molte direzioni. Il termine educazione, infatti, può significare: insegnamento, formazione, tirocinio, perfezionamento, iniziazione. Il termine permanente, a sua volta, è spesso sostituito da parole come: continua, ricorrente, alternata, ininterrotta, per la vita. L'espressione " educazione degli adulti " può essere sostituita da " formazione o educazione permanente ", ma rimane ancora nel linguaggio corrente. La nostra opzione è per il termine " educazione permanente ", anche se ci riserviamo di utilizzare altre espressioni per illustrare le sfumature che potrà richiedere il contesto.

Fattori di sviluppo. Tra i fattori che hanno contribuito all'attuale sviluppo dell'educazione permanente, menzioniamo i seguenti:

1. Un'aspirazione universale all'educazione oggi, in quasi tutti i paesi, si manifesta nelle popolazioni a qualsiasi età e in qualsiasi condizione. L'educazione non è più riservata ai giovani di età scolare, ma è l'intera popolazione che ne è il soggetto. Nel secolo XIX l'obbiettivo era quello della scuola per tutti i bambini e gli adolescenti. Nel XX secolo l'educazione è offerta ad ogni persona nel tempo (a tutti i livelli di età) e nello spazio (anche fuori della scuola). Nei paesi più industrializzati si calcola che una percentuale dal cinquantacinque al settantacinque della popolazione adulta costituisca la potenziale clientela della formazione permanente. I paesi in via di sviluppo, da parte loro, vedono nell'educazione degli adulti un mezzo privilegiato di promozione culturale e socio-economica. Con l'educazione permanente si cerca così di rispondere ai bisogni di quasi un miliardo di analfabeti nel mondo, di cui seicento milioni sono donne.

2. Il processo rapido d'invecchiamento delle scienze e delle tecniche pone oggi uomini e donne nella necessità di rinnovare continuamente le proprie conoscenze. La cultura della società post-industriale pone l'accento sulla costante adattabilità ai cambiamenti, sulla creatività e la capacità di prevedere l'avvenire. Lo specializzato rischia di essere posto fuori fase, se non continua a perfezionarsi. Si dice che dopo Newton, la produzione scientifica si sia duplicata ogni quindici anni e, per la prima volta, nella storia, accade che cambiamenti decisivi si producano in un lasso di tempo più breve di una vita umana.

3. Emergono nuovi sistemi educativi e i governi rivedono la loro politica educativa in modo da estendere all'insieme della popolazione i vantaggi di una formazione continua. Un nuovo valore si afferma: l'uguaglianza di tutti nel campo dell'educazione. Ciò che ci si ripropone è un'educazione ininterrotta, offerta a tutti e dispensata in periodi alternati di studio, di lavoro e di tempo libero. E il concetto della scuola per la vita. I programmi, i criteri di ammissione, gli esami sono allora sistemati in funzione dell'occupazione e dell'esperienza dei candidati. Le scuole e le università cercano di definire meglio i loro programmi tenendo conto dei bisogni del settore economico e delle condizioni della popolazione attiva. Molti paesi dispongono che i datori di lavoro contribuiscano con una quota fissa dei salari al perfezionamento del loro personale. Prende così forma quella che è stata chiamata la società educativa. Le istituzioni d'insegnamento, i principali agenti della vita sociale, economica e sindacale, come anche i governi, si accordano per offrire una formazione ininterrotta all'insieme della collettività.

4. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale ha dato un considerevole impulso all'educazione estesa alla massa. Nuovi programmi di formazione beneficiano dei metodi audiovisivi, coadiuvati dal computer, dalla TV e dall'internet. L'UNESCO e i governi utilizzano ora i satelliti di comunicazione per diffondere programmi educativi nei paesi in sviluppo. La Gran Bretagna ha creato la Open University che raggiunge più di cinquantamila studenti. In Giappone e in diversi paesi si diffondono programmi educativi via radio, TV, cavo e videocassette, raggiungendo, in questo modo, popolazioni quasi illimitate. Un fenomeno nuovo è quello costituito da gruppi vari che offrono i loro servizi educativi alle ditte e agli organismi interessati alla formazione continua e al loro personale di competenza. Il mercato dell'educazione si presenta oggi come un nuovo campo di concorrenza in cui sono impegnati i giganti dell'elettronica e dell'editoria. In linea di massima, diventa possibile progettare la formazione permanente delle popolazioni ad un livello mai conosciuto nel passato.

Le osservazioni precedenti ci permettono di intravvedere i profondi mutamenti avvenuti nel campo dell'educazione e le innovazioni pedagogiche che si aprono al futuro della società educativa. L'importanza e la natura della formazione permanente appaiono ancora più chiaramente se si considerano gli obbiettivi sociali che le sono oggi assegnati:

1. Il perfezionamento permanente delle categorie attive. La formazione ricorrente è oggi considerata indispensabile per assicurare sia l'opportuno adattamento della mano d'opera, sia la capacità concorrenziale delle imprese e, in generale, la promozione socio-economica delle popolazioni. Questi obbiettivi riguardano sia i lavoratori manuali che i lavoratori intellettuali, gli individui come le imprese. In pratica, però, non è facile far beneficiare tutte le categorie di persone o d'imprese dei vantaggi della formazione permanente. Le ricerche in merito dimostrano, infatti, che le persone che già sono in possesso di un'istruzione secondaria hanno una maggiore possibilità di profitto riguardo ai programmi di perfezionamento e sono esse stesse, anche, a trarne i maggiori vantaggi economici. I gruppi più sfavoriti sono meno capaci di profittarne e spesso sono anche meno motivati psicologicamente al miglioramento della loro qualifica. La formazione permanente non è facile da organizzare nelle piccole imprese, nei posti privi di responsabilizzazione, nelle amministrazioni eccessivamente burocratiche, in certi ambienti rurali e là dove la donna è vincolata dagli impegni domestici. Queste osservazioni mettono in rilievo il fatto che i programmi di formazione permanente non possono limitarsi unicamente ad obbiettivi tecnici o professionali. Altri bisogni umani si manifestano nella popolazione attiva riguardo al perfezionamento personale e allo sviluppo culturale. Le imprese, le amministrazioni pubbliche e i governi sono diventati più sensibili a questi obbiettivi complementari della formazione permanente. Ne tratteremo in seguito.

2. Il recupero scolastico degli adulti. Un altro obbiettivo è quello di offrire una nuova possibilità a quegli adulti il cui corso di studi è stato deficiente. L'attuale società non accetta più l'idea che la prima competizione scolastica determini per una persona le possibilità di successo per tutta la vita. L'educazione permanente si propone di offrire periodi di recupero a quelli o a quelle che hanno subito una bocciatura e non hanno potuto terminare i propri studi. Il rapporto Faure (1972), preparato per l'UNESCO, addita l'importanza della formazione permanente a questo proposito: " Diventando continuo il processo educativo, i concetti di promozione e di bocciatura cambiano di significato. L'individuo che ad una data età, o a un dato livello del proprio corso di studi, avrà subito una bocciatura, troverà altre occasioni e non sarà più, per tutta la vita, confinato nel ghetto del proprio fallimento ": p. 89.

Oggi, tuttavia, ci si rende conto che l'obbiettivo è più facile da formulare che da realizzare praticamente. Offrire uguaglianza d'accesso all'educazione, infatti, non significa necessariamente garantire uguaglianza di possibilità di formazione. Anche a questo proposito occorre notare che i candidati più preparati sono avvantaggiati rispetto a quelli che lo sono meno. Gli adulti che sono già sul mercato del lavoro, devono allora poter beneficiare non soltanto delle possibilità, ma delle condizioni indispensabili per poter usufruire dei programmi di formazione permanente. Le imprese e i governi cercano, ad esempio, di facilitare l'alternarsi di periodi di lavoro e di periodi di formazione. Vantaggi fiscali sono offerti alle imprese a questo effetto. L'esperienza di molti paesi dimostra che l'educazione degli adulti ha molti ostacoli da vincere, che sono sia d'ordine economico che di ordine psicologico e culturale. L'essenziale è che i beneficiari possano sentirsi profondamente motivati ed interessati da un'offerta di formazione complementare. Bisogna, d'altra parte, vincere pregiudizi socio-culturali tenaci che portano a credere che la formazione scolastica iniziale sia decisiva per la vita.

3. Un arricchimento culturale permanente. Questo obbiettivo può sembrare astratto, ma è decisivo per il successo dell'educazione permanente, offerta con lo scopo di perfezionamento professionale e di promozione del senso democratico. Oggi ancora lo sviluppo culturale è troppo spesso considerato come un lusso e un privilegio, ma l'esperienza fa constatare che il rinnovamento della propria cultura è indispensabile all'individuo moderno, se vuole assumersi le proprie responsabilità nella società post-industriale e decidere in persona della propria vita. E evidente che la rapidità delle trasformazioni socio-culturali lascia un numero ancora troppo grande di uomini e di donne impreparati a far fronte alle condizioni di continuo cambiamento della società moderna. Milioni di adulti hanno bisogno di un'educazione rinnovata, non soltanto per perfezionare le loro attitudini professionali, ma anche per situarsi nella cultura nuova e partecipare pienamente alla vita democratica.

Si tratta di una premessa che costituisce la condizione per la dignità e la libertà della società moderna. Partecipare ai benefici della cultura, avere accesso all'eredità culturale dell'umanità, poter partecipare alla creazione culturale costituiscono delle attese che si possono considerare dei diritti culturali. L'obbiettivo dello sviluppo culturale acquista un'importanza capitale nei paesi del terzo mondo sempre più sensibili alla promozione della propria identità culturale in parallelo al proprio progresso economico.

4. Un fattore di crescita economica. L'educazione permanente appare ormai come un fattore vitale per la crescita delle nazioni e per assicurare la loro competitività economica. Questa idea si è concretata in Europa, particolarmente dopo la seconda guerra mondiale. Le imprese europee inviarono negli Stati Uniti delle missioni industriali per l'iniziazione ad un programma chiamato Training Within Industries (TWI) introdotto negli Stati Uniti dal 1940. I paesi socialisti cercarono d'imitare questi metodi, ma con molto minor successo. La tendenza oggi è di considerare l'impresa non soltanto come una unità di produzione o di servizio, ma anche come un centro di formazione permanente. I programmi di educazione e di perfezionamento fanno ormai parte della loro normale attività. Agli impiegati sono offerti congedi per periodi di aggiornamento e una parte del loro salario è riservato a questo fine. Alcune industrie provvedono in proprio ai programmi di formazione, altre si rivolgono a centri specializzati. La difficoltà, in pratica, è di definire programmi che possano conciliare i punti di vista dei datori di lavoro, dei sindacati, dei professori o degli istruttori e dei beneficiari stessi. Questi programmi di formazione offerti dalle imprese raggiungono, in molti paesi, un numero cospicuo di persone che può essere superiore al venticinque per cento degli adulti iscritti a tutti i tipi di formazione permanente. Tali esperienze evidenziano un nuovo tipo di approccio alla formazione permanente che intende affidare al mondo degli affari, all'industria e alle imprese agricole una larga funzione educativa. L'obbiettivo, è ovvio, non è di facile realizzazione, ma è tracciato un interessante orientamento per l'avvenire.

5. L'avvento della società autogestita. Molti, oggi, pensano che l'educazione permanente rappresenti una forma di silenziosa rivoluzione che prepari le masse alla partecipazione sociale e politica, alla democrazia economica e alla società autogestita. L'educazione permanente è già considerata come un mezzo di lotta per la libertà degli individui e il loro accesso alle decisioni collettive. Un passo in più è stato fatto: l'educazione stessa dovrà essere presa in mano dal grande pubblico. Pur senza concessioni alla demagogia, molti riconoscono che la democratizzazione dell'insegnamento avrà per presupposto una partecipazione molto generalizzata della popolazione alle decisioni che riguardano l'educazione nel suo complesso. La società autogestita tende anche all'autogestione dell'educazione. Lo scopo perseguito è l'autoformazione di ogni persona. Una nuova parola è stata creata per sottolineare l'educazione dell'adulto: l'" andragogia " che è in parallelo con il concetto tradizionale di pedagogia. La sfida dell'educazione è oggi la formazione delle persone nel corso di tutta la loro vita e il primo obbiettivo è imparare ad essere. Si tratta di una questione di maturità intellettuale, professionale e politica.

6. Verso un nuovo sistema di educazione. Ciò a cui si mira è, in fondo, un cambiamento radicale dei sistemi tradizionali di educazione. L'avvento dell'educazione permanente porterà, si dice, dei cambiamenti importanti paragonabili all'introduzione dell'istruzione obbligatoria alla fine del secolo scorso. Si dice ancora che le scuole e le università perderanno il loro monopolio, cesseranno d'essere al servizio esclusivo della cultura e delle classi superiori. Le critiche, rincarando la dose, dicono che occorre " descolarizzare " l'educazione.

Pur non condividendo questi eccessi, bisogna riconoscere che ormai s'impone l'esigenza di una profonda revisione dei sistemi educativi. L'educazione non può più essere considerata come una prerogativa della gioventù o come la somma delle conoscenze acquisite una volta per tutte nella vita. Un assioma fondamentale dell'educazione tradizionale crolla dunque.

L'introduzione dell'educazione permanente si presenta come un nuovo fenomeno di cultura e di civiltà. Le riforme proposte devono mettere in azione una stretta collaborazione tra i governi, le istituzioni educative, gli agenti di produzione, i movimenti politici, i gruppi culturali. E, insomma, tutta la nazione, nelle sue forze vive, che è chiamata a divenire una società educativa. E evidente che questi obbiettivi non possono essere raggiunti dall'oggi al domani, ma è un ideale che è tracciato e un orientamento che ora s'impone. Una democrazia educativa e culturale costituisce una nuova aspirazione dei popoli. L'educazione, in un certo senso, diventa più un problema politico che un problema scolastico e il nuovo modo di percepire l'educazione è, in fondo, un nuovo modo di guardare all'avvenire della società. E dunque tutta la politica dei governi che deve tendere direttamente o indirettamente alla crescita educativa e culturale. Questa finalità potrebbe rimanere un'utopia se mancasse una visione chiara delle poste in gioco, ma la sua realizzazione risponde decisamente ad una nuova aspirazione della cultura e raggiunge le richieste più alte di ogni politica culturale nei paesi moderni.

Vedi: Sviluppo culturale, Educazione, Politica culturale, Lavoro, Tempo libero, Animazione culturale, Culture nuove.

Bibl.: H. Bussery et al. 1989. H. Carrier 1982a. H. Dauber et E. Verne 1977. E. Faure et al. 1972. L. Kellermann 1987. Lifelong Education for Adults 1989.

 

Ethos. (inizio)

Il termine deriva dalla parola greca ethos - costumi, carattere - e si riferisce ai valori morali più alti, alle concezioni ideali della vita, alle ispirazioni dominanti del comportamento collettivo. L'ethos ha un'accezione più larga dell'etica o della morale, se s'intende questa come un codice di condotta, o l'insieme delle regole del bene e del male. L'ethos si riferisce, in maniera più comprensiva, all'ideale collettivo che dà la ragione d'essere fondamentale ad un gruppo. L'ethos indica le finalità e le più alte qualità di una cultura. A. L. Kroeber spiega che l'ethos non si riferisce tanto " al codice specifico, etico o morale della cultura, ma piuttosto alla sua qualità d'insieme, a ciò che nell'individuo corrisponde alla propria disposizione, al proprio carattere. L'ethos si riferisce al sistema di ideali e di valori che domina la cultura e che tende a condizionare il tipo di comportamento dei suoi membri ": Anthropology, New York, 1948.

L'ethos può essere interpretato come l'insieme delle norme di condotta e dei valori che un gruppo si propone come ideale. Il sociologo Pierre Bourdieu utilizza l'espressione " ethos di classe " per indicare i valori, le norme e le condotte tipiche di una categoria sociale. Riguardo all'etica oggettiva o alla morale cristiana, l'ethos di un popolo rimane suscettibile di una valutazione seconda, per discernere i suoi aspetti positivi o negativi. Per esempio, l'ethos del popolo greco presenta, accanto ad una notevole raffinatezza culturale, un'immagine dell'uomo libero coesistente con un sistema di schiavitù.

Vedi: Valore.

Bibl.: N. Elias 1973, 1988. C. Geertz 1973, cap. 3.

 

Etnologia. (inizio)

Etimologicamente, etnologia significa lo studio dei popoli. Da centocinquanta anni, etnologia e antropologia sono termini concorrenti e intercambiabili secondo le scuole e i paesi. Nel mondo anglosassone, l'etnologia indica piuttosto l'antropologia fisica, cioè lo studio della classificazione dei popoli, delle loro varianti anatomiche e della loro storia come etnie, chiamata anche etnostoria. La tendenza dei Britannici e degli Americani è ora quella di raggruppare questi studi sotto il termine più generale di antropologia, anche se la parola etnologia è ancora usata, all'occasione, come sinonimo di antropologia.

Anche nella tradizione francese il termine antropologia tende a prevalere dopo il 1950. Ma l'etnologia ha, per lungo tempo, indicato in Francia gli studi denominati antropologia sociale e culturale dagli Anglosassoni. Oggi ancora il termine etnologia conserva questo significato in molti autori, come testimonia l'enciclopedia, spesso citata, di Jean Poirier, Ethnologie Générale (1968). Uno sforzo di chiarificazione da parte di autori francesi di fama internazionale, come Claude Lévi-Strauss e André Leroi-Gourhan, ci invita a riservare il termine etnologia piuttosto allo studio dei gruppi singoli, mentre l'antropologia avrebbe un significato più largo riguardante lo studio dell'uomo in generale. Le due discipline appaiono come complementari secondo quanto osserva Leroi-Gourhan: " Un dialogo potrebbe aprirsi tra l'antropologia e l'etnologia, se è esatto che una studia l'uomo e l'altra un certo uomo. L'una, l'antropologia, avrebbe un atteggiamento generalizzante, alla ricerca di leggi di struttura, l'altra, un atteggiamento teso al particolare, alla ricerca delle regole del singolo (...). Non è in discussione che l'antropologia costituisca il tetto delle ricerche sull'uomo, il suo valore è corrispondente all'oggetto delle sue preoccupazioni in una misura che nessun altro termine può contestarle ": 1968. Per Lévi-Strauss, che ha fortemente contribuito ad accreditare il termine antropologia - è noto ch'egli ha dato alla sua cattedra nel Collegio di Francia il titolo di antropologia sociale -, l'etnologia rappresenta una tappa nella ricerca antropologica che comprende tre momenti: l'etnografia o l'osservazione monografica di un'unità sociale ben circoscritta; l'etnologia o la sintesi interpretativa dei tratti osservati in una data società; l'antropologia che in un terzo momento trae da questi studi etnologici singoli una spiegazione sistematica che permette di comprendere " l'esistenza di proprietà generali della vita sociale ".

Nell'attuale stato delle discussioni, è difficile dare una preferenza definitiva al termine antropologia nei confronti di quello di etnologia, anche se questa tendenza sembra progressivamente affermarsi. Appare allora legittimo ricordare le seguenti indicazioni:

1. Nell'uso corrente, l'etnologia è spesso sinonimo di antropologia, anche negli autori anglosassoni che sono sempre più reticenti a ritenere l'etnologia come una disciplina distinta.

2. L'approccio etnologico francese che per molto tempo inglobò l'antropologia fisica, sociale e culturale continua a coltivare il metodo etnologico per l'analisi sistematica dei fenomeni particolari della vita sociale e delle sue condizioni ecologiche: economia, demografia, linguistica, tecnologia, sistemi giuridici, storia, psicologia, psicanalisi, geografia, botanica, mineralogia, come testimoniano, per esempio, i principali temi trattati dall'enciclopedia Ethnologie di J. Poirier (1968) e gli articoli Ethnologie o Anthropologie dell'Encyclopaedia Universalis: Paris 1985: Vedi: P. Bonte et M. Izard, 1991.

3. Le scuole anglosassone e francese sono d'accordo nel riconoscere il ruolo indispensabile dell'osservazione diretta delle società particolari diverse dalle nostre, per scoprirne la complessità e il funzionamento propri. Questo studio delle società, chiamate abusivamente primitive, sprovvedute di tecniche moderne, costituisce anche un aiuto per gli occidentali a percepire meglio la loro propria identità culturale: " Questo più lungo giro, scrive Clyde Kluckhohn, è spesso il cammino più corto per ritrovare se stessi... perché ci aiuta a conoscere meglio noi stessi. Generalmente noi non siamo coscienti della lente molto particolare attraverso cui vediamo la vita. Il pesce è situato male per scoprire l'esistenza dell'acqua. Non ci si può aspettare che ricercatori che non hanno mai oltrepassato l'orizzonte delle loro proprie società, comprendano i costumi che si confondono con la materia stessa del loro pensiero ": in J. Cazeneuve, 1967. Questo uscire dal proprio ambiente è necessario e fecondo perché suscita, secondo Lévi-Strauss, " il dubbio antropologico " per scoprire i tratti particolari delle culture e della nostra propria identità.

Vedi: Antropologia.

Bibl.: P. Bonte et M. Izard 1991. J. Cazeneuve 1967. D. M. Fetterman 1989. C. Geertz 1973 cap. 13. A. Leroi-Gourhan 1968. C. Lévi-Strauss 1958. E. Livingston 1987. J. Poirier 1968. D. H. Price 1990. P. Laburthe-Tobra et J.-P. Warnier 1993.

 

Etnologizzazione. (inizio)

E la tendenza di alcuni osservatori occidentali a vedere negli altri gruppi etnici soltanto i loro aspetti esterni e folcloristici. I primi etnologi, di origine europea o americana, erano inizialmente colpiti dagli aspetti originali, bizzarri, pittoreschi delle culture indigene e, per prima cosa, sottolineavano quanto differenziava gli autoctoni dagli occidentali. Fermarsi a questa percezione superficiale, schematica, dei popoli sarebbe ridurli ad un semplice oggetto di osservazione etnologica, ciò che equivale a " etnologizzare ".

E soltanto attraverso metodi di analisi più raffinati che gli etnologi sono poi pervenuti a studiare dall'interno e per i loro valori propri le culture delle popolazioni indigene, superando così una rappresentazione semplificatrice delle culture straniere.

Attraverso un'osservazione partecipata, la coabitazione con i popoli studiati e, soprattutto, con l'apprendimento delle lingue indigene, gli etnologi riuscirono a comprendere le culture in se stesse, nel loro significato profondo e nei loro elementi strutturali. Per esempio, invece di fermarsi semplicemente al modo di mangiare degli indigeni, l'osservatore scopre il significato del pasto nel complesso della vita sociale e nei diversi avvenimenti comunitari: feste, matrimoni, funerali, celebrazioni religiose.

L'etnologizzazione è un modo riduttivo di vedere gli altri popoli da parte degli occidentali e non soltanto da parte degli etnologi. Questo è un atteggiamento frequente nella stampa, nei media e nel linguaggio corrente. La pubblicità delle agenzie turistiche ed anche la letteratura degli organismi umanitari o di sviluppo non sempre evitano l'etnologizzazione o la folclorizzazione dei popoli stranieri. I paesi del terzo mondo reagiscono con durezza contro questa frequente tendenza degli Europei o dei Nordamericani perché vi percepiscono un'offesa alla loro dignità e alla loro identità.

 

Etologia. (inizio)

Dal XVII secolo è stata proposta una scienza per studiare le usanze e i costumi - l'ethos - dei popoli che si chiamava l'etologia. J. S. Mill sembra essere il creatore del termine. W. Wundt, nella sua Völkerpsychologie (1900) considerava l'etologia uno studio storico delle usanze. Il termine è stato utilizzato da Emile Waxweiler, fondatore dell'Istituto di Sociologia di Bruxelles (1901), che concepisce l'etologia come l'adattamento degli esseri umani al loro ambiente per mezzo di una specie di " fisiologia dei fenomeni di reazione causati dalle mutue eccitazioni degli individui ". I suoi studi hanno suscitato numerose ricerche negli Archivi Sociologici. Ma il suo orientamento non ha avuto più seguito e il termine etologia è oggi poco usato in sociologia.

Il termine etologia è stato anche utilizzato in zoologia per indicare lo studio del comportamento animale, a cui Konrad Lorenz, di Vienna, ha procurato una certa fama. I tentativi per applicare queste osservazioni al comportamento umano hanno, all'inizio, riscosso un discreto successo. Il tedesco Irenaüs Eibl-Eibesfeldt, discepolo di Lorenz, ha perseguito per più di venti anni una ricerca comprensiva sull'etologia umana ch'egli definisce come " la biologia del comportamento umano ". L'uomo e il suo comportamento, egli osserva, sono il risultato dell'" adattamento filogenetico e culturale ".

L'opera monumentale di Eibl-Eibesfeldt (1989) costituisce una sorgente di documentazione empirica e bibliografica molto utile, ma rimane discutibile nella sua pretesa di trattare un oggetto troppo vasto e male integrato. L'analisi culturale del comportamento umano richiede un'osservazione che oltrepassa i condizionamenti dell'adattamento biologico. Sembra poco concludente affermare, per esempio, il contributo dell'etologia all'estetica, alle arti ed anche all'etica.

Dopo la seconda guerra mondiale, una collaborazione più critica è iniziata tra l'etologia, la psicologia e la neuropsicologia per esplorare gli aspetti genetici nell'apprendimento di certi comportamenti umani. Si possono citare, per esempio, gli studi recenti sulla musicologia. Per sant'Agostino, la musica è l'ars bene modulandi; è un tipo di comportamento umano che oggi viene analizzato congiuntamente dall'etnomusica e dalla neuromusicologia, come riferiscono le ricerche specializzate di Mihai Ioan Botez e della sua équipe internazionale.

Bibl.: J. Piaget et al. 1987. I. Eibl-Eibesfeldt 1989, 1993. M. Botez 1996, L. Cavalli-Sforza 1996.

 

Evangelizzazione della cultura. (inizio)

Prendendo coscienza della drammatica rottura prodottasi tra la fede cristiana e le attuali mentalità, la Chiesa chiama i credenti ad un'evangelizzazione in profondità della cultura e delle culture. Il considerare la cultura come una realtà da evangelizzare riveste un carattere di novità di cui bisogna cogliere il significato.

L'espressione è piuttosto nuova nella Chiesa. Secondo la concezione tradizionale, l'evangelizzazione si rivolge unicamente alle persone, poiché ad ogni persona è rivolto l'invito a rispondere all'annuncio della Buona Novella di Cristo. In senso proprio, soltanto le persone sono capaci di convertirsi, di ricevere il battesimo, di pronunciare l'atto di fede e di aderire alla Chiesa. Ma, pur ammettendo che i primi destinatari dell'evangelizzazione sono le persone, la Chiesa parla oggi di evangelizzare le culture, cioè le mentalità, gli atteggiamenti collettivi, i modi di vivere. Come interpretare questa estensione del concetto di evangelizzazione? L'evoluzione si spiega attraverso due principali ragioni.

Da una parte, si è prodotto un allargamento del concetto di cultura, applicato non solo alle persone, ma anche alle comunità umane. Queste due accezioni, individuale e collettiva, della cultura formano espressioni quali ad esempio: " la cultura dello spirito ", " una persona di cultura ", o " la cultura francese " o ancora " la cultura dei giovani ". Inoltre, sotto l'impulso del Vaticano II, la Chiesa è entrata in un dialogo nuovo con il mondo moderno e le sue culture, percepite come elemento vitale per l'avvenire religioso dell'uomo.

La cultura come campo di evangelizzazione. Fermiamoci, prima di tutto, sul concetto di cultura. Tradizionalmente si parlava di cultura riguardo alle persone, indicando col termine il loro sviluppo intellettuale, la loro creatività artistica, le loro produzioni scientifiche. Si parla, così, ancora di una persona colta nel senso ch'essa è erudita, istruita, ed ha sviluppato i propri doni e talenti. Quest'accezione rimane sempre valida, ma accanto a questa cultura, detta classica o umanistica, ai nostri contemporanei si è imposto un concetto antropologico della cultura. In questo senso, si parla di identità culturale, di cultura popolare, di mutamenti culturali, di sviluppo culturale, di dialogo delle culture. La cultura indica allora i tratti caratteristici di un gruppo umano, i suoi modi tipici di pensare, di comportarsi, di umanizzare un dato ambiente. Ogni comunità umana si riconosce dalla sua propria cultura.

Questa realtà culturale, collettiva e storica, è oggi percepita come oggetto di evangelizzazione. Non basta più raggiungere gli individui uno ad uno, ma è importante raggiungere anche la collettività nella sua propria cultura per evangelizzarla, come, con forza, ha detto Paolo VI: " Per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza: Evangelii nuntiandi, n. 19.

Il Vangelo si rivolge, dunque, sia alla coscienza individuale che a quella collettiva, cercando di rigenerare la cultura delle persone come la cultura dei gruppi umani, cioè le mentalità tipiche di un dato ambiente.

Per cogliere, al di là delle formule, ciò che significa evangelizzare le culture, occorre partire da un dato che si potrebbe chiamare socio-teologico: il fatto che il Vangelo è di per sé creatore di cultura. Giovanni Paolo II lo ricordava nel suo discorso all'UNESCO (2 giugno 1980) quando sottolineava " il legame fondamentale del Vangelo, ossia del messaggio di Cristo e della Chiesa, con l'uomo nella sua stessa umanità. Questo legame è in effetti creatore di cultura nel suo fondamento stesso ". Tutta la storia del cristianesimo illustra la potenza civilizzatrice del Vangelo.

Una lunga esperienza di evangelizzazione della cultura. Dall'origine, la Chiesa ha esercitato la sua azione sulla cultura illuminando, purificando ed elevando lo spirito umano con l'annuncio del Vangelo. I grandi pensatori cristiani, come Origene e Agostino, hanno espresso il messaggio di Cristo in categorie intelligibili per i loro contemporanei. Più tardi, teologi di genio, come san Tommaso d'Aquino, hanno arricchito il pensiero razionale e religioso elaborando audaci sintesi tra la filosofia classica e la dottrina di Cristo. Questo aspetto, più intellettuale, dell'evangelizzazione della cultura rimane sempre attuale e costituisce per ogni generazione cristiana una sfida vitale della Chiesa. Questa sfida si estende anche alla creazione artistica. La storia testimonia un'autentica evangelizzazione dell'immaginario e del simbolico, attraverso le creazioni della pittura, dell'architettura, della musica, della poesia ispirate dalla fede cristiana. Si pensi, per esempio, all'impressionante profusione di immagini del Cristo e della Vergine Maria, che hanno sempre arricchito la storia dell'arte. Pensiamo a Fra Angelico che creava opere meravigliose, pregando ed evangelizzando. Ricordiamo i tesori della musica gregoriana. Si può così tracciare un legame preciso tra il progresso dell'evangelizzazione e la nascita di un autentico umanesimo cristiano.

La diffusione del Vangelo in tutto l'Impero romano ha introdotto una nuova pedagogia delle intelligenze e delle coscienze. Iniziando da modeste scuole, da principio incentrate sullo studio della Scrittura, alimento di vita interiore e sorgente della predicazione, la Chiesa sviluppò, in seguito, le prime facoltà dedicate alla teologia e alle scienze allora conosciute. Nacquero, così, le università che segnarono profondamente tutta l'Europa e i paesi che risentirono della sua influenza. La cultura è stata segnata da un umanesimo nello stesso tempo teologico, letterario e scientifico, che ha formato l'élite intellettuale impegnata nella costruzione dell'Europa e della sua civiltà. Questa cultura dell'intelligenza e del cuore ha creato i grandi esploratori e gli evangelizzatori di genio quali Matteo Ricci in Cina, Roberto de Nobili in India, Las Casas nell'America Latina.

Attraverso una lenta osmosi tutta la civiltà è stata allora impregnata dai valori del Vangelo e tutti i suoi aspetti sono stati influenzati dallo spirito cristiano. Leone XIII ha ricordato questo risultato dell'evangelizzazione in una formula viva: " Ci fu un'epoca in cui la filosofia del Vangelo ha governato gli Stati e, in quel tempo, la forza e l'influenza sovrane dello spirito cristiano avevano impregnato le leggi, le istituzioni, i costumi dei popoli e le organizzazioni dello Stato ": Immortale Dei, 1o nov. 1885, n. 9.

Queste brevi annotazioni storiche permettono di comprendere ciò che significa trasformare le culture attraverso la forza del Vangelo. Si ha la percezione di come il Vangelo agisca a livello delle persone, dei costumi, delle istituzioni. Questa azione della Chiesa sulla cultura delle persone e delle comunità umane è stata esercitata fin dalle origini del cristianesimo, cioè molto tempo prima che i nostri contemporanei parlassero di evangelizzare le culture. Dobbiamo allora chiederci come si spieghi il grande successo di questa espressione, relativamente recente, ed occorre riflettere sulla novità che essa connota nell'approccio pastorale della Chiesa di oggi.

Un rinnovato approccio dell'evangelizzazione. La novità è dovuta a diversi fattori. C'è, prima di tutto, il fatto che tutte le culture sono ormai sottoposte a profondi e rapidi mutamenti. I nostri contemporanei si chiedono quale potrà essere l'avvenire dei valori culturali che fino ad oggi hanno dato stabilità ai costumi, agli atteggiamenti, alle istituzioni, ai comportamenti tradizionali. Proiettati nell'era moderna, tutti i gruppi umani s'interrogano sulla propria identità culturale e sentono la necessità di prendere in mano il proprio avvenire secondo criteri di scelta di cui è evidente la posta in gioco morale e spirituale. Ciò ha fortemente sensibilizzato i nostri contemporanei nei confronti dei cambiamenti culturali, del loro significato e del loro orientamento. Le intuizioni degli antropologi e dei sociologi che riguardano l'analisi e l'azione culturali sono oggi largamente condivise da un gran numero di persone. E accaduto, quindi, che i governi si siano impegnati in audaci politiche culturali, creando ministeri della cultura e diversi organismi di promozione culturale.

La Chiesa, soprattutto a partire dal Vaticano II, ha accolto questo modo moderno di guardare alle culture, come realtà umane da comprendere, da discernere e da evangelizzare. Giovanni Paolo II ha creato a questo scopo il Pontificio Consiglio della Cultura orientato a sensibilizzare tutta la Chiesa ai compiti concreti dell'evangelizzazione delle culture e dello sviluppo culturale. La cultura è diventata, anche per la Chiesa, una categoria dinamica indispensabile per l'analisi sociale e per la definizione dell'impegno cristiano nel mondo moderno. In questa prospettiva storico-antropologica, in cui l'avvenire delle società esige d'ora in poi l'analisi culturale in vista dell'azione culturale, si può cogliere tutto il significato che riveste l'evangelizzazione delle culture.

L'evangelizzazione culturale che la Chiesa realizzò un tempo con una lenta e paziente azione di osmosi nei confronti delle mentalità e dei costumi, oggi deve essere intrapresa con uno sforzo più cosciente e metodico.

La frattura tra fede e cultura. Il fatto massiccio e drammatico della secolarizzazione esige ormai un approccio rimeditato per l'evangelizzazione degli spiriti e delle mentalità. Nel mondo moderno, religione e cultura non camminano più insieme come nelle società del passato. Le culture dissacralizzate e scristianizzate sono diventate un terreno nuovo di evangelizzazione. E questa presa di coscienza che motiva e giustifica l'evangelizzazione della cultura. Paolo VI così ne ha sottolineato l'urgenza drammatica: " La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture ": E.N. n. 20.

Questo richiede innanzi tutto che chi evangelizza abbia la percezione mentale della cultura, come campo specifico da cristianizzare. Occorre una formazione orientata all'osservazione, al discernimento e alla scoperta dei settori culturali in cui il Vangelo potrà penetrare. Ciò significa che lo sforzo dell'evangelizzazione deve esplicitamente perseguire contemporaneamente la conversione delle coscienze individuali e la conversione della coscienza collettiva. Paolo VI descriveva così i due aspetti, personale e collettivo, dell'evangelizzazione: " La Chiesa evangelizza allorquando, in virtù della sola potenza divina del messaggio che essa proclama, cerca di convertire la coscienza personale e insieme collettiva degli uomini, l'attività nella quale essi sono impegnati, la vita e l'ambiente concreto loro propri " E.N. n. 18.

L'ethos, da evangelizzare. Percepire la cultura come campo di evangelizzazione significa distinguere, in un ambiente culturale, ciò che, da una parte, contraddice il Vangelo e ciò che chiede di essere purificato, rigenerato, elevato. La cultura è, infatti, precisamente costituita da modelli di comportamento e da modi tipici di pensare, di giudicare, di sentire, ed è a livello dell'agire collettivo che occorre far penetrare la luce e la forza del Vangelo. E l'ethos di un ambiente che bisogna raggiungere, cioè i codici di condotta comunemente accolti in un gruppo umano. L'ethos può spesso contraddire l'etica, proponendo come normali alcune condotte che finiscono per distruggere l'essere umano e la sua dignità: pensiamo alla pratica dell'aborto, dell'eutanasia, del razzismo, ricordiamo la permissività e l'individualismo eretti a stile di vita.

Evangelizzare le culture obbligherà spesso i cristiani a mostrarsi come contro-culturali: essi dovranno criticare e denunciare ciò che nella loro propria cultura è accolto come cosa normale e tende ad oscurare le coscienze e a smorzare il senso morale. La pressione esercitata dalle mode, dai giudizi e dagli interessi collettivi agisce in profondità sulle culture vive e condiziona i comportamenti comuni. Evangelizzare significherà discernere questi modelli di comportamento secondo i criteri dell'insegnamento di Gesù Cristo, venuto a salvare tutto l'uomo, nella sua dimensione personale, sociale e culturale.

La denuncia del male, del peccato individuale e collettivo, richiamerà in maniera positiva l'annuncio dell'ideale evangelico, che raggiunge le aspirazioni più segrete di ogni persona e di ogni cultura. Il Vangelo dovrà influire sui settori-chiave dell'agire collettivo, quali la famiglia, il lavoro, l'educazione, il tempo libero, gli ambienti sociali, economici, politici. Non si tratta soltanto di richiamare i principi di una morale sociale, ma di convertire le mentalità e di rovesciare, con la forza del Vangelo, le scale dei valori che segnano la cultura viva sia nel bene che nel male. Bisogna che gli effetti della Redenzione trasformino i modi di pensare e l'ideale di comportamento di un dato ambiente. Ogni cultura richiede d'essere interpellata nei suoi modi, nei suoi costumi, nelle sue tradizioni. Molto concretamente, un dato ambiente culturale deve scoprire che c'è un modo cristiano di lavorare, di vivere in famiglia, di educare i propri figli, di dirigere una scuola, di servire il bene comune, d'impegnarsi politicamente, di difendere i diritti umani. Questa azione sulle mentalità non è facile, e si esercita iniziando dalle persone e dalle famiglie. Essa cerca di sensibilizzare le opinioni e i giudizi collettivi nell'ottica di una conversione reale dei comportamenti.

Conversione delle coscienze e delle culture. E certamente indispensabile proporre un'etica sociale, ma l'insegnamento morale non costituisce che una prima tappa dell'evangelizzazione. Non c'è evangelizzazione senza conversione, senza cambiamento delle coscienze. La fede deve giungere a trasformare la cultura viva di un'ambiente. Certo, la conversione delle culture deve essere intesa in senso analogico in rapporto alla conversione individuale, ma occorre sottolineare che la coscienza collettiva ha anch'essa un autentico bisogno di purificazione e di metanoia. Esistono nelle società delle " strutture di peccato " o delle " colpe sociali ", che risultano da molteplici peccati personali, da corresponsabilità o da complicità più o meno confessate, da omissioni, da cupidigia, da pregiudizi collettivi. La conversione della coscienza collettiva esigerà uno sforzo comune e la collaborazione di molte persone, pronte a riconoscere il fatto del peccato socialmente diffuso e il bisogno di redenzione della cultura. L'evangelizzazione delle culture avviene allora attraverso la mediazione delle persone che accettano il messaggio salvifico del Cristo nella loro vita individuale e nel loro ambiente di vita. Si produce così una specie d'influenza reciproca tra le conversioni individuali e le conversioni collettive. La fede deve dunque raggiungere contemporaneamente le coscienze e le culture. E questa, la sintesi che l'evangelizzazione della cultura deve operare, come dice Giovanni Paolo II: " La sintesi tra cultura e fede non è soltanto un'esigenza della cultura, ma anche della fede. Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non vissuta fedelmente ": Lettera di fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura, 20 maggio 1982.

La sfida della cultura di massa. Per cogliere tutta la portata ed anche la difficoltà dell'azione sulle culture d'oggi, è utile osservare attentamente ciò che si chiama la cultura di massa e l'impatto dei media sulle mentalità moderne. I mass-media offrono oggi un mezzo particolarmente efficace nei confronti dell'azione culturale. I media sono diventati potenti agenti di produzione e di trasmissione di una cultura di massa che condiziona le intelligenze e le coscienze. Ogni sforzo metodico di evangelizzazione delle culture dovrà accordare speciale attenzione ai media e i cristiani dovranno imparare a discernere e ad efficacemente criticare la cultura prodotta da questi mezzi moderni. E soprattutto importante che i valori cristiani trovino la loro espressione nella produzione e nella diffusione dei mass-media. Si tratta di una posta in gioco decisiva per l'avvenire della cultura e dell'evangelizzazione. E precisamente l'irruzione dei media nella vita moderna che ha radicalmente rivoluzionato i valori e le mentalità, al punto che le famiglie, le scuole e le Chiese si sentono minacciate nel loro modo tradizionale di educare le nuove generazioni.

Se s'insiste sul significato dei mass-media nella società moderna, non è perché questi vengano considerati come l'unica causa dei mutamenti culturali, ma è, prima di tutto, perché i mass-media rappresentano ai nostri occhi il punto-leva di ogni azione sulle attuali culture. I media sono, certamente, produttori di cultura, ma essi sono soprattutto i rivelatori della coscienza moderna, con i suoi valori, i suoi gusti, le sue tipiche aspirazioni. E a questo livello che si situa il nuovo campo dell'evangelizzazione. E questo fatto di civiltà, come tale, che interpella i cristiani.

La modernità come cultura. La questione nuova e molto complessa che si pone alla Chiesa è di sapere se le prodigiose creazioni della civiltà moderna serviranno al bene spirituale o alla rovina delle coscienze. La modernità stessa è da intendere come una cultura da evangelizzare. La cultura contemporanea è segnata dall'impatto che i fenomeni di urbanizzazione e d'industrializzazione esercitano continuamente sui modi di pensare e di agire. La cultura moderna si accompagna innegabilmente ai progressi umani e alle attese che l'evangelizzatore deve saper assumere, in vista di uno sviluppo culturale aperto alla speranza cristiana. Ma, la cultura moderna deve essere criticata nei suoi aspetti negativi che costituiscono ostacolo al progresso umano e spirituale delle persone e delle società. La coscienza moderna deve oggi affrontare problemi morali che hanno una dimensione planetaria, come la costruzione della pace, la solidarietà nello sviluppo di tutti, la protezione della natura. Questi problemi superano le capacità dell'individuo, ma nessuno può sentirsi indifferente di fronte alle responsabilità comuni. Queste esigenze fanno oggi parte della cultura che emerge nel mondo.

Lo sforzo di evangelizzazione deve ormai raggiungere questa vasta dimensione delle culture nuove. L'ampiezza della sfida suggerisce che l'impegno non potrà essere condotto a buon termine senza uno sforzo più concorde e metodico di tutti i responsabili dell'evangelizzazione. Nessuna diocesi, nessuna parrocchia, nessun istituto o movimento religioso riuscirà, da solo, ad assumere la missione di evangelizzazione delle culture d'oggi. Uno sforzo congiunto, a tutti i livelli, è ormai palesemente indispensabile. E in questo che risiedono la novità e la promessa dell'evangelizzazione delle culture. Questo approccio è oggi oggetto di ricerche e di studi particolari, aventi per centro il problema connesso dell'inculturazione del Vangelo. Le due questioni s'illuminano reciprocamente: l'evangelizzazione della cultura e l'inculturazione del Vangelo sono da comprendere nei loro mutui e complementari rapporti: vedi Inculturazione del Vangelo.

Si tratta, insomma, della richiesta di una nuova sensibilizzazione dei responsabili dell'evangelizzazione. E loro chiesto di percepire la dimensione culturale dell'azione pastorale e di promuovere un approccio concorde, a livello di tutta la comunità cristiana, perché la fede penetri e rigeneri le culture vive. E una delle sfide più urgenti dell'evangelizzazione, come afferma Giovanni Paolo II: " Voi dovete aiutare la Chiesa a rispondere a queste questioni fondamentali per le attuali culture: come il messaggio della Chiesa è accessibile alle nuove culture, alle forme attuali d'intelligenza e di sensibilità? Come la Chiesa di Cristo può farsi capire dallo spirito moderno, così fiero delle sue realizzazioni e nello stesso tempo così inquieto per l'avvenire della famiglia umana? Chi è Gesù Cristo per gli uomini e le donne d'oggi? ": al Pontificio Consiglio della Cultura, 15 gennaio 1985.

Vedi: Inculturazione del Vangelo, Nuova evangelizzazione, Modernità.

Bibl.: H. Carrier 1987, 1990, 1993a, 1997. R. Guardini 1967. L. J. Luzbetak 1988. A. Vergote 1983. J. Delumeau et al. 1992. F. E. George 1990. D.J. Hesselgrave 1991. G. Langevin et al. 1991, 1993. W. Meeks 1992. L. Metzler 1991. C. Scriven 1988. P. Suess 1992. G. Theissen 1987. P. Tillich [1931] 1992.

Evangelizzazione e cultura nell'America Latina. (inizio)

La penetrazione del cristianesimo nel continente iberoamericano costituisce un settore di ricerca privilegiato per comprendere le tappe e le condizioni dell'evangelizzazione delle culture nel mondo. La Chiesa è andata prendendo progressivamente coscienza delle sfide che presenta l'inculturazione del Vangelo nella complessa situazione dell'America Latina. Si tratta di una maturazione che concerne tutte le persone e le istituzioni impegnate nell'opera di evangelizzazione, i rappresentanti delle Chiese locali, come i responsabili della Chiesa universale. La diffusione del Vangelo nelle culture iberoamericane deve essere intesa come un avvenimento di massimo rilievo nella vita della Chiesa cattolica.

Ci fermeremo soprattutto sui seguenti punti: la prospettiva culturale di questo sforzo di evangelizzazione; le tipiche questioni che oggi presentano lo sviluppo e la modernizzazione; l'incontro sul piano della salvezza con le culture autoctone; la mobilitazione per una nuova evangelizzazione. Vedremo come questa importante esperienza di inculturazione abbia avuto una formulazione, ogni volta più precisa, nei maggiori documenti della Chiesa latinoamericana di Medellín, Puebla e Santo Domingo.

  1. La prospettiva culturale dell'evangelizzazione dell'America Latina
  2. L'abbondante documentazione ecclesiastica degli ultimi decenni ci offre una chiara testimonianza di come la Chiesa cattolica, accettando le sfide della cultura emergente e di tutte le culture vive, sia venuta formulando e perfezionando la sua posizione, da far sì che la cultura sia giunta ad essere uno spazio privilegiato della sua azione. Se le analisi che portano la Chiesa a questa convinzione costituiscono un fatto d'importante significato per il mondo intero, per l'America Latina esse hanno una risonanza forse ancora maggiore, dati i vasti contesti socioculturali e storici che hanno costituito e costituiscono la vita del continente, particolarmente derivanti dai cinque secoli del suo incontro con il cristianesimo, a partire dal momento in cui esso irruppe prendendo la mano alla cultura iberica, fino ai nostri giorni.

    E inoltre illuminante osservare come il linguaggio della Chiesa sia andato gradualmente passando dall'analisi delle civiltà all'analisi delle culture per giungere, ai nostri giorni, all'idea e alla prassi dell'inculturazione. Ai tempi di Leone XIII si affermava la missione civilizzatrice della Chiesa nel mondo, contro gli attacchi degli agnostici liberali dell'epoca che l'accusavano di frenare il progresso moderno. Leone XIII afferma, così, nella sua prima enciclica Inscrutabili (1878), che la Chiesa " ha civilizzato il genere umano nei suoi costumi privati e pubblici ".

    Nell'Enciclica Quarto abeunte saeculo del 16 luglio 1892, in occasione del IV Centenario della scoperta dell'America, Leone XIII non usa il concetto di cultura, ma quello di civiltà, termine che è riservato agli Europei e che li distingue dai non civilizzati che vivono nell'ignoranza e nella superstizione; essi (i popoli iberamericani) erano infatti " una moltitudine immensa di gente che si trovava al di là del mondo conosciuto, sommersa nella più pietosa ignoranza, dedita a venerare i falsi dei con riti spaventosi e superstizioni: poiché se è cosa lamentevole vivere in maniera selvaggia e violenta, lo è ancor più il vivere nell'ignoranza delle realtà superiori e dell'esistenza dell'unico e vero Dio ". Con l'arrivo di Colombo " alter emersit orbis ", " un mondo abitato da milioni di uomini che sarebbero passati dallo stato selvaggio alla civiltà " (Leonis XIII, Acta XII, pp. 179-180, 1882).

    Ad un secolo di distanza, il linguaggio della Chiesa sulla cultura indigena riflette l'approccio nuovo ispirato al progresso dell'antropologia e alla teologia del Vaticano II. Rivolgendosi agli indigeni del Guatemala il 7 marzo 1983, Giovanni Paolo II diceva loro: " Le vostre culture indigene sono ricchezza dei popoli, mezzi efficaci per trasmettere la fede, esperienza della vostra relazione con Dio, con gli uomini e con il mondo. Meritano, per tanto, il massimo rispetto, stima, simpatia e sostegno da parte dell'umanità intera. Queste culture, infatti, hanno lasciato impressionanti monumenti - come quelli dei Maia, degli Atzechi, degli Incas e altri - che noi contempliamo con meraviglia " (cf Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 1989, pp. 626-627).

    La contrapposizione tra i concetti espressi nel 1892 e quelli che si esprimono nel 1983 è grande: la novità sta nell'accostamento della Chiesa alle culture, come la manifestano fatti e documenti quali il Concilio Vaticano II, il primo ad occuparsi esplicitamente di esse nella costituzione Gaudium et spes e nel decreto Ad gentes; l'esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI; il discorso di Giovanni Paolo II all'UNESCO nel giugno 1980; la creazione di un dicastero nella Curia Romana, il Pontificio Consiglio della Cultura, nel maggio del 1982; la presenza di Giovanni Paolo II di fronte al mondo della cultura e particolarmente nell'America Latina per inaugurare le sessioni di Puebla nel 1979 e di Santo Domingo il 12 ottobre 1992. Le diverse tappe di questa " novità " aiutano a comprendere il significato culturale dei temi di questa ultima assemblea: Nuova evangelizzazione, Promozione umana, Cultura cristiana.

    La Chiesa non ha mai temuto le lezioni della storia; nei suoi due millenni di esistenza, la storia è stata sua grande alleata e la sua maggiore testimonianza. Questo esige rettitudine nella sua lettura, oggettività nell'interpretazione dei suoi contesti per non distorcere la verità dei fatti con l'ideologia con cui la si legge. Questi i criteri di oggettività, franchezza critica e valutazione che hanno condotto alla celebrazione del V Centenario dell'Evangelizzazione de Le Americhe " con umiltà, senza trionfalismi né falsi pudori: guardando solo alla verità per ringraziare Dio per i successi, confessare gli errori che sono motivo per proiettarsi con rinnovazione verso il futuro " (Giovanni Paolo II, Omelia per l'apertura del novendiale, Santo Domingo 12 ottobre 1984).

    Così, in modo obbiettivo e sereno, si possono seguire i cammini che ha percorso la Chiesa per modernizzare la sua percezione della cultura, non soltanto nel continente Iberoamericano, ma in tutto il mondo.

    La Chiesa e il patrimonio culturale Latinoamericano. Dal tempo di Leone XIII, in occasione del Concilio Plenario dell'America Latina (1899) e in vari interventi dei suoi successori, soprattutto in occasione della creazione di nuove diocesi, nei messaggi ai diversi episcopati del continente, e, in seguito, con ancora più chiarezza, nei decenni posteriori all'emancipazione e nei primi anni del XX secolo, si ha reiterata menzione del patrimonio culturale del continente, particolarmente sul piano religioso e letterario.

    A partire da Pio XII, che iniziò un'assidua comunicazione radiale con il Nuovo Continente, i pontefici romani hanno posto in rilievo i valori della cultura, sia riguardo alle nobili antichissime tradizioni cristiane ereditate dalla Spagna e dal Portogallo, come ai valori delle culture indigene. Valori che sono da identificare, rispettare e conservare. " La Vostra Comunità - afferma Giovanni Paolo II - si è sforzata per secoli di conservare i propri valori e la propria cultura. Non si tratta di opporsi ad una giusta integrazione e convivenza... E perfettamente legittimo cercare la preservazione del proprio spirito nelle sue varie espressioni culturali " (Discorso agli indigeni nel Latacunga, Ecuador, cf Insegnamenti, VIII, 1, 296-304). Particolarmente quelle della eredità precolombiana conservate attraverso monumenti " impressionanti " (Discorso di Guatemala, prima citato); tradizioni popolari e fede cristiana: " Sarà conveniente utilizzare gli elementi della pedagogia cristiana contenuti nelle vostre tradizioni popolari; canzoni popolari, confraternite, processioni, pitture, manifestazioni folcloristiche e tante altre espressioni artistiche " (Discorso di Santa Cruz, Bolivia 1988).

    E un lavoro di evangelizzazione e di cultura ammirevole quello realizzato dai primi evangelizzatori: religiosi, catechisti, sacerdoti e vescovi, molte volte col sacrificio della propria vita per la fede che annunziavano, perché " sapevano molto bene quanto sia importante la cultura come veicolo di trasmissione della fede, per far progredire gli uomini nella conoscenza di Dio " (cf Discorso agli indigeni a Cuilapan, Messico, 29 gennaio 1979). In questo lavoro di evangelizzazione e cultura Spagna e Portogallo costituiscono un documento storico gigantesco, riconosciuto con entusiasmo da Giovanni Paolo II nel V Centenario celebrato nel 1992, con le sue luci e le sue ombre, con l'eredità del meticciato della comunità, della lingua, della religione e degli elementi culturali. Dagli inizi, l'incarnazione della fede cristiana nella cultura latinoamericana appare con un'accentuata caratteristica cristologica e mariana.

    Il meticciato umano e culturale è quello in cui sono da riconoscere le qualità e i valori dell'attuale " uomo latinoamericano ", risultato di un fecondo incontro tra la fede cattolica e la religiosità indigena; incontro che ha creato una cultura artistica autoctona portatrice e trasmettitrice di grandi valori umani, nobilitati dal Vangelo. A questo meticciato creativo si riferisce il documento di Puebla del 1979 (n. 307) come una delle grandi opere della prima evangelizzazione del continente.

    Purtroppo, si constatano minacce alla cultura e alla fede per le deficienze, le limitazioni e i rischi in cui si dibattono le stesse culture e i popoli latinoamericani, ed anche per i disvalori che di frequente s'incontrano nella cultura oggi emergente: un continente cattolico con una fede non sufficientemente radicata; con veloce accrescimento urbano, impoverimento della popolazione, esplosione demografica, disuguaglianza sociale, manipolazione della povertà da parte di ideologie straniere, proliferazione delle sette, carenza di mezzi e di persone per rispondere alle esigenze culturali e di evangelizzazione. Tuttavia, come afferma Giovanni Paolo II, " in mezzo a questo oscuro panorama della realtà non dobbiamo lasciarci invadere dallo scoraggiamento. Al contrario, dobbiamo avere motivi di grande speranza. Basta che contempliamo l'enorme ricchezza di valori culturali, sociali e religiosi che vi distinguono tra tutti i popoli " (Discorso a Santa Cruz, Bolivia, 13 maggio 1988).

    Tutte le cose che abbiamo prima ricordato permettono di comprendere come la Chiesa abbia potuto realizzare, anche avanti lettera, un lavoro imponente di inculturazione del Vangelo in questo grande continente e rispondere alla grande sfida che comportano le provocazioni della modernizzazione, con un'evangelizzazione nuova delle coscienze e delle culture.

    La sfida della cultura moderna e lo sviluppo

    Per la Chiesa evangelizzare la cultura e promuovere lo sviluppo umano sono cose congiunte. La Chiesa si situa nel mondo moderno e si adopera per aiutarlo ad essere più giusto e più umano, agendo sia nel campo della coscienza individuale che in quello della coscienza collettiva.

    Paolo VI nel discorso di chiusura del concilio Vaticano II, ricordava che " il Concilio ha avuto vivo interesse per lo studio del mondo moderno " e " mai come in questa occasione la Chiesa ha avvertito la necessità di conoscere, di affermare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società che la circonda " (Allocuzione, del 7 dicembre 1965). Da questo, conseguentemente, il compito prioritario che si sono proposti gli ultimi pontefici nei confronti dell'America Latina.

    Inizialmente, nel 1955, c'è stata, per iniziativa di Pio XII, la convocazione della prima Assemblea Generale dei vescovi del continente che, nello stesso anno, si è riunita a Rio de Janeiro; da questa Assemblea è nato il CELAM.

    La difficile problematica sociopolitica, la crescente situazione di sottosviluppo e d'impoverimento e la sproporzione tra i compiti da eseguire e i mezzi umani di cui disponeva la Chiesa cattolica, erano elementi che minacciavano il lavoro di questa tra il popolo latinoamericano, incalzato dal deterioramento sociale ed economico, dal marxismo e dalle sètte. Era quindi urgente trovare forze ed unirle.

    Lo sviluppo distrugge se stesso se si limita unicamente agli aspetti materiali e tecnici. Per realizzare lo sviluppo di ogni uomo e di tutti gli uomini, la Chiesa si è dunque proposta come obbiettivo una cultura della solidarietà fondata sul Vangelo.

    Fede cristiana e modernizzazione sociale. I popoli latinoamericani aspirano ad una società giusta, fraterna, moderna politicamente ed economicamente. La grande sfida sta nel poter far partecipare tutte le persone e tutti i gruppi ai vantaggi della modernità, senza cadere nella tentazione del materialismo e dell'edonismo consumistico.

    Nell'Assemblea di Medellín (1968) si è tracciato il cammino di uno sviluppo umano rispettoso delle esigenze politiche, sociali, economiche e spirituali.

    Il discorso inaugurale di Paolo VI a Bogotá, a seguito del suo incontro con i più diseredati e i " campesini ", come il lavoro stesso dell'Assemblea e i suoi documenti, hanno precisato, per tutta l'America Latina, la posizione della Chiesa di fronte alle grandi sfide dello sviluppo e della cultura in continua e rapida trasformazione.

    Paolo VI nel suo discorso, come nelle allocuzioni precedenti non ha usato il termine " inculturazione " che è un neologismo per il linguaggio ecclesiastico ufficiale ed è stato usato per la prima volta nel Messaggio al popolo di Dio dopo il IV Sinodo dei Vescovi nell'ottobre del 1977, ma le sue espressioni ne erano l'equivalente. In quel tempo si usavano, in tutto il continente, termini quali " incarnazione ", " inserimento " e " liberazione ", quest'ultimo, come risposta evangelica al sottosviluppo, all'emarginazione e all'ingiustizia considerate " strutture di peccato ".

    Risposta a tutte le forme di povertà. Il concetto di povertà è al centro di tutte le discussioni che riguardano lo sviluppo. La opzione per i poveri è diventata una parola ispiratrice per tutti gli evangelizzatori. Il movimento sorto intorno alla Conferenza di Medellín, con i suoi aspetti pastorali di " presenza della Chiesa " e di " opzione per i poveri ", ha ridato forze di presenza evangelizzatrice della Chiesa in seno alle comunità emarginate. Nelle Comunità Ecclesiali di Base (CEB) religiosi, religiose, sacerdoti e molti vescovi hanno animato questo movimento nel quale, d'altra parte, non sono mancate ideologizzazioni e riduzionismi orizzontali. L'enciclica Sollecitudo rei socialis ha nettamente chiarito le diverse forme di povertà che minacciano gli uomini e le donne di oggi e li fanno " vivere senza speranza ". Nel nome del Vangelo, i cristiani si impegnano a lottare concretamente contro tutte le forme di povertà che umiliano la dignità dell'uomo. " Senza dubbio - affermano i vescovi latinoamericani a Puebla (1979) - il presupposto più importante della Nuova Evangelizzazione è la scelta preferenziale e solidale per i poveri con l'obbiettivo della loro liberazione integrale " (n. 1134). Giovanni Paolo II ad Haiti (1983) diceva ai vescovi del continente: " I più poveri devono avere la preferenza nel vostro cuore di padri e nella vostra sollecitudine di pastori ". La Chiesa, in virtù del suo impegno evangelico, si sente chiamata a rimanere unita a questa moltitudine di poveri, a comprendere le sue giuste rivendicazioni e ad aiutare a realizzarle senza perdere di vista il bene dei gruppi in funzione del bene comune (cf Sollicitudo rei socialis, n. 39).

    Il criterio di discernimento: la verità su Cristo, sull'uomo e sulla Chiesa. La Chiesa nell'America Latina ha vissuto intensamente questa esperienza di discernimento che ha fatto emergere, in tutta la sua concisione e la sua forza, il primo principio che deve guidare l'azione dei cristiani nella promozione della società: " La verità su Cristo, sull'uomo e sulla Chiesa ". Documenti pontifici, come l'esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975) e le encicliche di Giovanni Paolo II: Redemptor Hominis (1979), Laborem exercens (1981), la dichiarazione Libertatis nuntius (1984), Libertatis conscientia (1986), l'enciclica sociale Centesimus annus (1991), come i discorsi di apertura a Puebla (1979) e a Santo Domingo (1992) illuminano riguardo alla dignità dell'uomo e alla sua autentica liberazione, mentre offrono correttivi alle deviazioni ideologiche con le nuove prospettive sulla relazione tra l'evangelizzazione, la giustizia, la liberazione e la promozione umana integrale, dando come criterio di discernimento dell'autentica promozione umana la verità sull'uomo, su Cristo e sulla Chiesa: un trittico teologico-culturale che ha avuto la sua migliore formulazione nel tema-programma di evangelizzazione della IV Conferenza dei Vescovi Latinoamericani a Santo Domingo nell'ottobre 1992: Nuova evangelizzazione, Promozione umana, Cultura cristiana, Gesù Cristo il medesimo ieri, oggi e sempre.

    Nell'America Latina, date le situazioni sociali, la Chiesa cattolica, tanto nei suoi documenti come nei suoi piani d'azione, convinta che la promozione della giustizia e della cultura sono inseparabili, si è prefissa di aiutare l'uomo a passare da situazioni d'inferiorità umana a situazioni più umane. Nel Documento di Santo Domingo (1992) i Vescovi, in continuità con le conferenze di Medellín e di Puebla, si sono così espressi: " Facciamo nostro il grido dei poveri. Assumiamo con rinnovato ardore l'opzione evangelica preferenziale per i poveri, in continuità con Medellín e Puebla. Quest'opzione, non esclusiva né escludente, illuminerà, a imitazione di Cristo, tutta la nostra azione evangelizzatrice. In tale luce invitiamo a promuovere un nuovo ordine economico, sociale e politico, conforme alla dignità delle persone considerate singolarmente e nel loro insieme, dando impulso alla giustizia e alla solidarietà e aprendo loro orizzonti di eternità " (n. 296).

    Le culture autoctone dell'America Latina

    Abbiamo già potuto constatare come la Chiesa sia venuta progressivamente maturando un nuovo modo di accostamento culturale e pastorale nei confronti dell'America Latina sul piano delle sue culture autoctone. Il passo dalla " cultura selvaggia " (fero cultu) alla cultura che desta ammirazione sarebbe troppo rapido ed inspiegabile se non si considerassero i cento anni di evoluzione sul piano umanistico e culturale passati tra i due momenti. Ricordiamo che nei documenti di Leone XIII, per esempio, si usava il termine " civiltà "; e pertanto, nella concezione di quel tempo, l'assenza di civiltà ben si esprimeva con termini quali " selvaggio " o " feroce ". D'altra parte, l'evoluzione di concetto e di metodo della missiologia è stata molto grande da un secolo ad oggi, fino a culminare negli ammirevoli orientamenti conciliari di Ad Gentes del Vaticano II. Occorre, infine, notare che i termini moderni di " cultura ", di " inculturazione ", di " sviluppo culturale " ecc. con tutto il loro attuale significato, sono così recenti che sarebbe un grosso errore giudicare espressioni di più di un secolo fa con elementi di giudizio d'oggi.

    La valorizzazione delle culture autoctone, tanto nel loro stato di " cultura attuale " dei popoli, come in quello delle " etnie precolombiane ", è uno degli aspetti più eminenti dell'evoluzione del pensiero dei pontefici riguardo alla cultura latinoamericana in questo secolo. Il grande numero di interventi degli ultimi pontefici, e particolarmente dell'attuale pontificato, possono dare l'idea dell'importanza che attribuisce loro la Chiesa, sia come valori degni del massimo rispetto, sia come oggetto e soggetto di evangelizzazione.

    E stato a partire dal pontificato di Pio XII che si sono moltiplicati gli espliciti riferimenti agli autoctoni del continente. Prima di allora quei riferimenti erano molto ridotti e consistevano in brevi accenni in occasione della creazione di nuove diocesi o circoscrizioni missionarie, di anniversari storici, di congressi eucaristici o mariani e, praticamente, erano ristretti alla religiosità popolare, alla devozione mariana e alle tradizioni familiari.

    A partire dal Vaticano II e durante i tre ultimi pontificati si è sviluppata una nuova coscienza riguardo alla cultura e alle tradizioni proprie dei popoli autoctoni. La Chiesa si è quindi impegnata particolarmente nello sforzo dell'evangelizzazione e dello sviluppo delle culture indigene. Qui di seguito alcuni dei suoi aspetti.

    Dare voce a quelli che non hanno voce. Questa è stata la consegna di Paolo VI, il primo papa che ha visitato il continente latinoamericano, il 22 agosto 1968. Il bacio simbolico alla terra - cosa poi continuata da Giovanni Paolo II ogni volta che visita per la prima volta un paese - e il cenno alle cultura aborigene hanno costituito un punto di partenza importante. Ai rurali e agli indigeni ha promesso che la Chiesa sarebbe stata la voce di quelli che non hanno voce (Discorso nel campo di San José, 23 agosto 1968).

    La Chiesa ama gli autoctoni e stima la loro cultura. Giovanni Paolo II, fin dall'inizio del suo pontificato, è entrato in contatto diretto con le culture autoctone dell'America Latina in occasione del suo viaggio a Messico, nel gennaio del 1979, per l'inaugurazione delle sessioni di Puebla. Agli indigeni di Culiapán, il 29 di gennaio del 1979 ha detto: " Il papa e la Chiesa sono con voi e vi amano; amano le vostre persone, la vostra cultura, le vostre tradizioni; ammirano il vostro passato, vi incoraggiano per il presente e sperano tanto per l'avvenire ".

    La fede fa parte della identità dei popoli autoctoni latinoamericani. In molti luoghi e, con particolare enfasi, a Salvador de Bahìa (Brasile) il 7 luglio 1980 Giovanni Paolo II dice: " Dalle vostre radici storiche si può dire che ci trasmettete due insegnamenti: il primo è una cultura impregnata, fin dal primo momento della sua esistenza, dei valori della fede e la capacità di questa fede di integrare le razze e le etnie le più diverse ". A Panama (4 marzo 1983) il Papa incoraggia i " campesinos " ad " andare avanti senza perdere la propria identità cristiana e storica ".

    Dinamismo evangelizzante della cultura. Al compiersi dei 450 anni dell'apparizione di Guadalupe (Messico 1531-1981), riferendosi alla " realtà culturale " dell'avvenimento di Guadalupe nel Messico e di quello mariano in tutto il popolo latinoamericano, Giovanni Paolo II indicava un fenomeno su cui ha insistito in tutti i paesi del continente da lui visitati: " Il sentimento religioso del popolo costituisce un elemento potenziale che deve essere valorizzato in tutte le sue virtualità di evangelizzazione... Senza dubbio è nella radice religiosa che ispira tutti i vostri ordini di cultura, dal vostro vincolo di fede con Dio e dalla caratteristica mariana, che devono essere ricercati nel Messico, come nelle altre nazioni, i canali di comunicazione e di partecipazione che conducono all'evangelizzazione dei diversi settori della società ".

    Meticciato creatore di cultura cristiana. L'incontro della cultura autoctona con il messaggio cattolico quale stupendo meticciato può formare, esclamò con entusiasmo Giovanni Paolo II il 1o febbraio 1985 dal Tempio della Compagnia di Quito, uno dei vestigi artistici più ammirevoli del barocco creolo e indigeno. Una nuova menzione di questo meticciato d'integrazione, realizzato sotto la protezione della Chiesa è stata fatta dal papa a El Callao, in Perú, quando ha ricordato che " l'impero inca del Tahuantinsuyo seppe vincere la formidabile barriera delle Ande e poi dell'evangelizzazione; questo nome parla di grandi figure quali quelle dei santi Toribio da Mogrovejo, Rosa da Lima, Francisco Solano, Martin de Porres, Juan Macías, Suor Ana da Los Angeles. Questo Paese - ha concluso - ha permesso un processo di integrazione, non soltanto razziale, ma anche culturale e umano, che si articola in molti modi della vostra vita quotidiana ".

    La Chiesa difende la terra e la cultura degli autoctoni. Per gli autoctoni la difesa della proprio cultura e dei propri costumi è in stretta relazione con la difesa del diritto alle terre che occupano. Nell'America Latina, come in nessun'altra parte del mondo, ha un particolare significato culturale l'elemento terra, la " madre terra ", " il seno materno ". La Chiesa va incontro alla difesa di questo diritto alla terra e incoraggia gli interessati a cercare i mezzi migliori perché questo diritto sia protetto e sia in assonanza con le esigenze del bene comune come con l'aspirazione degli indigeni a partecipare ai vantaggi della modernizzazione. Anche da questo si può vedere come le esigenze della giustizia siano inseparabili dai diritti alla cultura. Per difendere questi diritti degli autoctoni, la Chiesa incoraggia anche le loro aspirazioni allo sviluppo economico, politico, culturale e religioso: " Voi avete il diritto di condividere il dono di Dio che è la terra, però non dimenticate che questo diritto ha un limite " (Discorso agli indigeni, Iquitos, 5 febbraio 1985). " Voi, amati " campesinos ", siate, per la vostra fede in Dio e per la vostra dignità, per il vostro lavoro e sostenuti da forme adeguate di associazione per difendere i vostri diritti, gli artefici instancabili di uno sviluppo integrale che abbia il sigillo della vostra propria umanità e della vostra concezione cristiana della vita " (Omelia nella Messa per i " Campesinos ", Chiquiquinrá, Colombia, 2 luglio 1986).

    L'evangelizzazione e l'inculturazione, un mutuo arricchimento. La Chiesa porta a tutti i popoli gli inestimabili tesori della fede e, a sua volta, si arricchisce con il prezioso patrimonio di questi medesimi popoli. E così che il cristianesimo si incultura e si iscrive profondamente nelle comunità umane. " Desidero esprimere - diceva Giovanni Paolo II a Medellín - l'augurio che un benefico interscambio faccia giungere alla Chiesa Universale i doni delle varie, ricche ed originali culture latinoamericane, nelle quali il cristianesimo si è incarnato in maniera profonda " (Discorso agli universitari, Medellín, 5 luglio 1986).

    Queste dimostrazioni di apprezzamento della Chiesa per le culture autoctone, degne di grande rispetto per i loro valori intrinseci, da identificare, discernere e purificare per incorporarle nella cultura cattolica, fanno capire come è maturato lo sforzo di inculturazione sulla cui nozione e prassi ha riflettuto largamente e coscientemente la Chiesa nel continente latinoamericano fino a giungere alla opzione di Santo Domingo: " Vogliamo avvicinarci ai popoli indigeni e afroamericani, affinché il Vangelo, incarnato nelle loro culture, manifesti tutta la propria vitalità ed essi entrino in dialogo di comunione con le altre comunità cristiane per un reciproco arricchimento " (nn. 298-299).

    Bibl.: CELAM 1987, 1989a, 1989b, B. Charria Angulo 1987; G. Colmenares 1976; A. Lee López 1986; G. Reichel-Dolmatoff 1978.

  3. Dalla prima alla nuova evangelizzazione dell'America
  4. La Chiesa e il Nuovo Mondo. L'interesse particolare della Chiesa per i popoli e la cultura del Nuovo Continente non è atteggiamento soltanto di questo nostro tempo. L'avvenimento del 12 ottobre 1492 deve essere considerato tra i più importanti della storia del mondo, con incalcolabili ripercussioni nella storia politica, culturale ed economica dell'umanità. Non minore incidenza esso ha avuto sul piano religioso, che al presente assume una sempre più grande rilevanza, facilmente deducibile dai semplici dati statistici.

    Ai tempi di Pio XII, quando egli convocò la I Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano a Rio de Janeiro (1955), si calcolava che in questo continente risiedesse la quarta parte del mondo cattolico; più avanti, al tempo di Giovanni XXIII, si ricordava che nell'America Latina risiedeva una terza parte della Chiesa; Giovanni Paolo II nel convocare la III Conferenza Generale in vista di Puebla (1978) afferma che nell'America Latina c'è praticamente la metà del mondo cattolico, motivo sufficiente per affermare anche che qui " si sta giocando la sorte della Chiesa " e soprattutto per considerare l'America Latina il continente della speranza, per il rapido incremento della popolazione cattolica, la giovinezza della maggior parte dei suoi abitanti e il vigore delle istituzioni ecclesiali.

    Momenti chiave della sua crescita nell'ultimo secolo sono:

    - La celebrazione del IV Centenario della Scoperta dell'America (1892), con solenni atti concordi all'ambiente culturale del momento.

    - Il Primo Concilio Plenario dell'America Latina (1899), convocato da Leone XIII per occuparsi della disciplina della Chiesa nel continente e dei problemi che lo affliggevano quali: il sincretismo, le superstizioni, l'ignoranza religiosa, il socialismo e la massoneria.

    - Il radicarsi e il progressivo svilupparsi della Chiesa nell'America Latina mediante la creazione di nuove circoscrizioni ecclesiastiche e di prelature missionarie.

    - La creazione di seminari e istituti di formazione religiosa.

    - La promozione di incrementi del clero da parte di altri paesi e di mezzi economici per supplire alla scarsità di personale per l'evangelizzazione e di risorse.

    - La creazione di organismi di animazione della pastorale nel continente, in particolare il CELAM (Consiglio Episcopale Latinoamericano) nel 1955 per iniziativa di Pio XII, la CAL (Commissione Pontificia per l'America Latina), nel 1958 e ristrutturata nel 1986, la CLAR o Confederazione Latinoamericana dei Religiosi, creata all'interno del CELAM nel 1959, e attualmente sistemata dai canoni 708 e 709 come le altre entità di quel genere.

    - Le conferenze generali dell'episcopato latinoamericano: benché non siano né plenarie delle conferenze episcopali, né assemblee sinodali, né concilii regionali, hanno impresso un ritmo vitale all'azione della Chiesa nel Nuovo Continente. La prima di queste è quella di Rio de Janeiro (1955), convocata da Pio XII per studiare i problemi del tempo quali: la rapida crescita della popolazione, la scarsità delle vocazioni, l'impoverimento dei sobborghi, le sette, ecc. La seconda è quella di Medellín, in Colombia (1968), convocata e inaugurata da Paolo VI, che si è occupata della presenza della Chiesa nell'attuale trasformazione dell'America Latina affrontando le situazioni critiche dell'ingiustizia, della povertà e dell'emarginazione della grande maggioranza della popolazione latinoamericana, alla luce del Concilio e lanciando la scelta preferenziale per i poveri come risposta della Chiesa. La terza si è tenuta a Puebla de Los Angeles, nel Messico (1979), ed ha avuto per tema: L'evangelizzazione nel presente e nel futuro dell'America Latina in ordine alla " comunione e alla partecipazione ", slogan, questo, che insieme alla " scelta dei poveri " è diventato una proposta comune. Finalmente, la quarta conferenza, a Santo Domingo, nella Repubblica Domenicana, dal 12 al 16 ottobre del 1992, in coincidenza con la celebrazione dei 500 anni dalla scoperta dell'America e dell'evangelizzazione del Nuovo Mondo. E stata convocata e inaugurata, come quella di Puebla, da Giovanni Paolo II e le sue deliberazioni hanno avuto per centro il tema: Nuova evangelizzazione, Promozione umana, Cultura cristiana, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre (cf Eb 13,8). Intensa e largamente preparata dal CELAM, essa costituisce il lancio dello sviluppo dell'evangelizzazione della Chiesa nelle culture del Nuovo Continente, ovvero verso il millennio che si avvicina.

  5. Santo Domingo: l'inculturazione del Vangelo nel documento finale

I vescovi hanno voluto presentare un testo breve di orientazione pastorale, fedele alle linee del discorso inaugurale di Giovanni Paolo II, " in continuità con le precedenti conferenze di Rio de Janeiro, Medellín e Puebla " (n. 1) e con le intense riflessioni di tutta la Chiesa nel continente durante la larga preparazione dell'evento.

Il documento finale o Conclusione comprende tre parti: 1) Gesù Cristo, Vangelo del Padre, con una iniziale professione di fede in Gesù Cristo (nn. 4-15) e l'evocazione delle vicissitudini di questo popolo che " Dio ha scelto " da cinquecento anni (nn. 16-21); 2) Gesù Cristo, evangelizzatore nella sua Chiesa, con i tre capitoli tematici centrali: nuova evangelizzazione (nn. 22-156), promozione umana (nn. 157-227), e cultura cristiana (nn. 228-286); 3) Linee pastorali prioritarie: i propositi e le opzioni basilari (nn. 287-301); lo schema delle medesime (n. 302) e una preghiera finale (n. 303).

L'inculturazione. - L'inculturazione è parola ancora nuova attraverso cui si ha una visione teologica, pure nuova, che indica azioni concrete di risposta del Vangelo alle trasformazioni culturali e si presenta carica di molta maturità. E la dimostrazione chiara che la Chiesa Latinoamericana è venuta assimilando gli insegnamenti del Concilio Vaticano II, dell'Evangelii nuntiandi di Paolo VI e i recenti documenti sociali e missionari del Magistero riguardo alla concomitanza tra l'annuncio del Vangelo, la promozione dell'uomo e la cultura cristiana, per applicarli alle sfide di questo crocevia della storia, mentre nel campo della cultura sono in gioco tanti valori per la Chiesa e per il mondo. Il modo di trattare il tema della inculturazione indica chiaramente che le conclusioni di Santo Domingo sono il frutto di una matura riflessione ecclesiale.

Non risulta, quindi, strano che la parola " cultura " appaia più di 300 volte in un documento di 210 pagine e che non soltanto si parli di inculturazione quando il tema lo richiede, ma essa appaia insistente e spontanea largamente in tutte le pagine, come qualcosa che si ha in uso e si conosce.

Già nella prima parte si afferma che " in virtù dell'incarnazione Cristo si è unito, in un certo modo ad ogni uomo... Gesù Cristo si inserisce nel cuore dell'umanità e invita tutte le culture a lasciarsi condurre dal suo Spirito verso la pienezza, elevando in esse ciò che è buono e purificando ciò che è segnato dal peccato. Ogni evangelizzazione deve, per tanto, essere inculturazione del Vangelo " (n. 13).

L'inculturazione è lo sforzo di incarnare il Vangelo nelle culture del continente (n. 24); essa appartiene al ministero profetico della Chiesa, nel quale i teologi sono del pari chiamati a compiere un importante lavoro (n. 33). " L'inculturazione del Vangelo è un processo che suppone il riconoscimento dei valori evangelici mantenutisi più o meno puri nella cultura odierna "; si mira a chè la società scopra il carattere cristiano di tali valori, li apprezzi e li conservi. Inoltre, " ha per scopo l'incorporazione di valori evangelici che sono assenti dalla cultura, o perché oscuratisi, o perché hanno finito per scomparire " (n. 230).

Base teologica dell'inculturazione. Il fondamento teologico dell'inculturazione s'incontra nell'Incarnazione del Figlio di Dio che assume le condizioni culturali dei popoli. L'azione di Dio, attraverso il suo Spirito, opera continuamente all'interno di tutte le culture. Nella pienezza dei tempi, Dio ha inviato il suo Figlio Gesù Cristo, che ha assunto le condizioni sociali e culturali di ogni uomo e " si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato " (Eb 4,15; cf GS n. 22).

L'analogia tra l'incarnazione e la presenza cristiana nel contesto culturale e storico dei popoli ci porta al fondamento teologico dell'inculturazione. Tale inculturazione " è un processo condotto a partire dal Vangelo fin dentro ciascun popolo e ciascuna comunità, con la mediazione del linguaggio e di simboli comprensibili e opportuni a giudizio della Chiesa " (n. 243). La meta dell'inculturazione sarà sempre " la salvezza e la liberazione integrale di un determinato popolo o gruppo umano " (ibid.).

Campi chiave dell'inculturazione

a) Prima di tutto il Vangelo: " E necessario inculturare il Vangelo alla luce dei tre grandi misteri della salvezza: il Natale, che mostra il cammino dell'Incarnazione e porta colui che evangelizza a condividere la propria vita con colui che viene evangelizzato; la Pasqua, che porta, attraverso la sofferenza, alla purificazione dei peccati, perché siano rimessi; e la Pentecoste, che, per la forza dello Spirito, rende possibile che tutti comprendano nella propria lingua le meraviglie di Dio " (n. 230).

b) La liturgia: " Promuovere una inculturazione della liturgia accogliendo con stima i loro simboli, riti ed espressioni religiose compatibili con il chiaro senso della fede, conservando il valore universale dei simboli e in armonia con la disciplina generale della Chiesa " (n. 248).

c) La Chiesa stessa: " Promuovere tra i popoli indigeni i loro valori culturali autoctoni tramite un'inculturazione della Chiesa che sfoci in una più ampia realizzazione del Regno " (n. 248). Tutto ciò vuol significare che la fede deve farsi cultura per salvare, convertire, trasformare l'intera società.

Agenti dell'inculturazione. La Chiesa particolare, in conformità alla sua missione, che è di radunare il Popolo di Dio di un luogo o di una regione, " conosce da vicino la vita, la cultura, i problemi delle sue componenti ". La Chiesa particolare " è chiamata a generare lì, con tutte le proprie forze, sotto l'azione dello Spirito, la nuova evangelizzazione, la promozione umana, l'inculturazione della fede " (n. 55).

Da parte sua, in parrocchia, " comunità di comunità e movimenti, accoglie le angosce e le speranze degli uomini... essa ha la missione di evangelizzare, di celebrare la liturgia, di dare impulso alla promozione umana, di accelerare l'inculturazione della fede nelle famiglie, nelle comunità ecclesiali di base, nei gruppi e nei movimenti di apostolato e, attraverso tutti questi, nella società... Essa è così una rete di comunità " (n. 58).

I ministri dell'inculturazione del Vangelo, clero e laici, non s'improvvisano. Per questo, i vescovi dell'America Latina si prongono di " rivedere l'orientamento della formazione impartita in ciascuno dei nostri seminari affinché corrisponda alle esigenze della nuova evangelizzazione con le relative conseguenze per la promozione umana e l'inculturazione del Vangelo " (n. 84); nello stesso modo, di utilizzare l'esperienza significativa dei religiosi (n. 275), degli istituti secolari (n. 87) e dei laici, la cui partecipazione è ancora tuttavia insufficiente secondo i vescovi, malgrado costituiscano la maggioranza nella Chiesa (n. 94); nei loro confronti si propongono di incentivare un'accurata formazione (nn. 90 e segg).

Il metodo. Il " come fare " l'inculturazione è tracciato nelle linee pastorali. La Chiesa nell'America Latina ha anni di esperienza dell'" apprendere facendo ". In un campo d'azione la cui realtà è conosciuta nei suoi aspetti positivi e nelle sue carenze, sia in riferimento alle culture autoctone, afroamericane e indigene come alla cultura dell'avvenire, con l'illuminazione della dottrina frutto di molta riflessione, alla luce della Parola, del Magistero stesso della Chiesa, tenendo presenti le istanze e i punti di appoggio, si stabiliscono le politiche e le strategie di evangelizzazione e di inculturazione che sono gli effettivi passi dell'azione pastorale. Il piano d'azione o la messa in atto del programma sarà il seguente: lavorare " per un'evangelizzazione inculturata che penetri negli ambienti delle nostre città, s'incarni nelle culture indigene e afroamericane attraverso un'efficace azione educativa e una moderna comunicazione " (n. 302).

Conclusione

L'inculturazione della fede cattolica nell'America Latina si prospetta in avanti essendo un progetto aperto al futuro per l'accelerazione delle trasformazioni sociali e culturali. Ma fin da ora la Chiesa ha preso viva coscienza di tutto ciò che è in gioco nelle sfide che si annunciano. La speranza dei cattolici di questo vasto continente è ora condivisa da tutta la Chiesa, che si manifesta, ogni volta, più solidale con i suoi fratelli e i fratelli dell'America Latina, come si è chiaramente dimostrato a Santo Domingo.

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F

 

Famiglia. (inizio)

Lo studio della famiglia occupa un posto a parte nell'insieme delle scienze umane, perché in essa si concentra tutta la complessità dei rapporti tra le persone, le generazioni, la società e la cultura. Il tema della famiglia è indissociabile dalle principali analisi culturali che costituiscono l'argomento della presente opera. Alla fine di questo articolo gli opportuni riferimenti in merito. La nostra attenzione è qui posta sulla genesi culturale della famiglia, con sottolineatura al particolare apporto del cristianesimo al consolidamento dell'istituto familiare come anche alle sfide che la cultura moderna gli pone.

Quale origine? Fin dai suoi inizi, la ricerca dell'antropologia si è orientata sull'origine della famiglia. Ipotesi rischiose, formulate nell'Ottocento, sono oggi scientificamente rigettate come, per esempio, quella di L. Morgan, ripresa da Marx ed Engels, che sostenevano che all'origine regnasse la promiscuità sessuale. La tradizione aveva, al contrario, sempre ipotizzato che l'unità familiare fosse esistita fin dai primi stadi dell'umanità. Lo testimonia Aristotele che vedeva nell'Oikos, cioè nella famiglia formata dal marito, dalla moglie, dai figli e dalla servitù, partecipi del medesimo nutrimento e dello stesso culto, la forma elementare dell'organizzazione sociale. Gli antropologi moderni continuano a discutere sull'ipotesi dell'anteriorità della famiglia nei confronti della società. F. Benveniste sostiene che, da principio, si sia formata una grande comunità parentale: " un antenato intorno a cui si raggruppano tutti i discendenti maschi e le loro intime famiglie ". La società, secondo lui, sarebbe esistita prima della famiglia ristretta: " Ciò che è esistito all'inizio, è la società, questa totalità, e non la famiglia, poi il clan, poi la città. La società, all'origine, è frazionata in unità che si inglobano. Le famiglie sono necessariamente unite all'interno di un'unità più grande ": Le Vocabulaire des Institutions Indoeuropéennes, Paris, 1969.

Queste affermazioni sono delle ipotesi, più o meno giustificate e generalizzabili e non sono sufficienti a concludere il dibattito sull'origine della famiglia, che rimane non chiaramente risolto sul piano antropologico. Tali discussioni hanno, tuttavia, il vantaggio di attirare l'attenzione sulla duplice differenziazione che ha contemporaneamente segnato l'evoluzione delle culture e la molteplicità dei modelli di famiglia. Il fatto è attestato dalla grande varietà dei sistemi familiari che sono sorti nelle diverse culture.

L'antropologo G. P. Murdock, che ha portato la sua ricerca su più di duecento società, ha scoperto ottantadue tipi di società con un sistema di famiglia estesa; cinquantaquattro con un regime di poligamia; quarantasette con un modello di famiglia nucleare: Social Structure, New York, 1949.

I migliori rappresentanti dell'attuale antropologia ammettono che la famiglia sia una costante universale di cui quattro sono le funzioni essenziali: di natura sessuale, economica, riproduttiva, educativa. A queste funzioni elementari si aggiungono un ruolo di protezione del figlio, dell'anziano, del malato e un ruolo culturale di comune trasmissione dei valori e dei modelli di comportamento.

La famiglia nucleare. Il modello di famiglia su cui intendiamo porre particolarmente la nostra attenzione è quello della famiglia nucleare, chiamata anche famiglia coniugale. E la famiglia formata dallo sposo, dalla sposa, dai loro figli a cui si possono aggiungere una o più persone: nonni, zii e zie, domestici. E il tipo di famiglia più elementare e si trova su piano universale, anche se, nelle società del passato, le famiglie nucleari potevano raccogliersi in comunità familiari più larghe. Nelle società moderne è la famiglia nucleare che rappresenta il tipo familiare più esteso ed è anche il modello verso cui tendono le nuove generazioni nei paesi in via di sviluppo. Vedremo in seguito come l'ideale della famiglia sia stato rinforzato dalla cultura ebreo-cristiana, particolarmente a partire da sant'Agostino.

Ciò che inizialmente è necessario sottolineare, nella nostra ottica, è il lento processo attraverso cui la famiglia è stata modellata da fattori significativamente culturali. Il dato elementare, sul piano strettamente biologico, è anzitutto il vincolo tra la madre e i propri figli. Il vincolo col padre è più debole e fragile e tutte le società cercano di rinforzarlo con regole e sostegni istituzionalizzati. Il diritto romano, per esempio, chiede che si presuma come padre del bambino il marito legittimo: Is est pater quem nuptiae demostrant. La paternità era, del resto, confermata dal gesto del marito che accoglie sulle sue ginocchia il bambino appena nato in segno di accettazione. E come un patto visibile tra il padre e il proprio figlio. Notiamo soprattutto un'altra regola di comportamento riguardo alle donne in età di procreazione. Tutte le culture si preoccupano di definire una regolamentazione socialmente accettabile della capacità generatrice delle donne per garantire la continuità della famiglia e della società e per assicurare la pace tra i gruppi sociali.

Dall'amore intimo all'amicizia sociale. La regola universale e di difficile spiegazione che domina tutta la storia della civiltà è l'interdizione di matrimonio tra consanguinei diretti. Nessuna necessità biologica imponeva di escludere l'unione tra consanguinei diretti: tra padre e figlia, madre e figlio, fratello e sorella. Tutte le spiegazioni proposte, psicanalitiche, economiche, biologiche rimangono inconcludenti. E interessante notare che la ricerca antropologica più recente si rivolge ad una spiegazione che raggiunge una profonda intuizione di sant'Agostino. Nella Città di Dio egli afferma che le alleanze si estendono al di là dei consanguinei prossimi in vista di una amore che si dilata. Se così non fosse, osserva sant'Agostino, l'amore rimarrebbe limitato entro la cerchia dei parenti prossimi e una sola persona concentrerebbe su di sé molti titoli di parentela; lo stesso uomo potrebbe essere contemporaneamente: padre, suocero, nonno, ecc. E per una ragione d'amore, di concordia, di utilità e per un maggiore bene sociale che le unioni non si concentrano all'interno di una stessa famiglia. Per Agostino, il matrimonio serve a propagare la specie umana, ma ha anche la funzione di sviluppare armonicamente la collettività sociale, cioè di diffondere largamente tra gli uomini i sentimenti d'unione e di amicizia sociale. Citiamo dalla Città di Dio: " Se i nipoti dei primi uomini, potendo sposare le proprie cugine, avessero sposato invece le loro sorelle, si sarebbero raccolte in un solo uomo, non due, ma tre parentele, mentre, in vista di un più esteso vincolo di carità, esse si sarebbero dovute ripartire tra persone diverse. Un solo uomo, infatti, sarebbe stato per i suoi figli, se i fratelli e le sorelle si fossero sposati tra loro, padre, suocero e zio e sua moglie, per gli stessi figli, madre, zia e suocera; i figli stessi tra loro non sarebbero stati soltanto fratelli e sposi, ma anche cugini in primo grado, essendo figli dei fratelli (...). Per alleanze multiple, invece, il vincolo sociale, non si raccoglie in una cerchia ristretta, ma si estende più largamente, a più individui ": " Opere di S. Agostino ", NBA, V1-3.

L'attuale antropologia conferma, in un certo senso, la ricca intuizione di sant'Agostino, perché situa la famiglia e il sistema di parentela in un quadro culturale caratterizzato dal dono, dallo scambio e dalla comunicazione. In questa prospettiva, l'interdetto dell'incesto acquista un significato positivo e fa della famiglia un'istituzione di scambio in cui si pratica il dono più prezioso, quello delle persone. Claude Lévi-Strauss così ne scrive: " La proibizione dell'incesto è meno una regola che interdice di sposare madre, sorella o figlia, che una regola che obbliga a donare madre, sorella o figlia. E la regola del dono per eccellenza ": Le regard éloigné 1953. Questa tesi etnologica recente del " dono più grande " si è venuta elaborando in margine alla tradizione cristiana, ma, di fatto, prolunga l'argomentazione di sant'Agostino fondata sull'ideale del più grande amore (" ratio rectissima caritatis "), che si trova già in Origene e che s'incontra anche in altri Padri della Chiesa. L'attuale riflessione antropologica indica questa convergenza.

Certo, il pensiero cristiano non limita la comunicazione del più grande amore al dono delle donne. Le famiglie si costituiscono e si rinforzano attraverso il dono reciproco dei loro figli e delle loro figlie arricchendo, in questo modo, l'intera società, e, precisamente, facendo sposare i figli a congiunti scelti fuori della famiglia d'origine. E l'aspetto positivo e culturalmente creatore che occorre riconoscere alla proibizione delle unioni tra consanguinei diretti. Principi morali superiori, come anche un'esigenza profonda della cultura in quanto tale, hanno finito per imporre agli uomini civili un sistema familiare e relazioni interfamiliari che sono propriamente costitutive dalla società umana.

E relativamente facile constatare oggi il frutto di questa esperienza millenaria della civiltà, ma le scienze umane esplorano con fatica il lento costituirsi di un'istituzione tanto complessa quale è la famiglia, in cui s'intrecciano, più o meno coscientemente, i valori elementari della vita, i rapporti tra i sessi, la riproduzione e la sopravvivenza delle generazioni, il senso della parentela e la necessaria appartenenza alla grande società. Per parte nostra, dobbiamo riconoscere che la necessaria prudenza degli esperti più qualificati dell'antropologia familiare ci invita a non prestare troppo facilmente fede a certi osservatori impazienti che, da un secolo, predicano l'estinzione della famiglia come istituto umano. Le crisi, certamente, non sono state risparmiate a questo istituto, e quelle di oggi non sono le meno gravi, ma periodicamente la famiglia ha saputo ritrovare nuovi sostegni e nuova vitalità. L'apporto del cristianesimo, su questo piano, si è rivelato decisivo.

L'apporto del cristianesimo. L'evoluzione culturale dell'istituto familiare è stato, infatti, durevolmente segnato dal cristianesimo, che ha divulgato i tre valori fondamentali del matrimonio, indicati già da sant'Agostino come il triplice bene: il " tripartitum bonum: proles, fides, sacramentum " cioè: " il figlio, la fedeltà, il sacramento ". " Haec omnia bona sunt propter quae nuptiae bonae sunt: proles, fides, sacramentum ": De bono coniugali, cap. 24.

Secondo l'ideale cristiano, il matrimonio si fonda sulla comunione dell'intera vita tra gli sposi che s'impegnano liberamente e in assoluta uguaglianza. Il loro amore è, di per sé, ordinato alla generazione del figlio (proles), alla sua custodia e alla sua educazione, e il matrimonio comporta istituzionalmente l'obbligo della fedeltà coniugale (fides), dell'amore esclusivo tra gli sposi; inoltre, il matrimonio stabilisce un patto sacro (sacramentum) tra i coniugi, che implica l'unità e l'indissolubilità del loro impegno, sigillato dal sacramento, nel matrimonio cristiano, che simbolizza l'unione del Cristo e della Chiesa. Questi tre valori hanno foggiato il comportamento matrimoniale ovunque il cristianesimo si è diffuso, dando una configurazione tipica ad una civiltà fondata sulla famiglia come prima cellula della società e come gruppo elementare dell'acculturazione e dell'educazione. I tre principi che fondano la procreazione, la fedeltà coniugale e l'indissolubilità sono stati accolti nei codici civili per influsso del diritto canonico ecclesiastico ed hanno costituito norma giuridica fino all'epoca moderna.

Il Concilio Vaticano II, molto sensibile alle aspirazioni della cultura moderna, particolarmente in ciò che concerne il libero impegno delle persone e il loro sviluppo, ha voluto porre ancora più chiaramente in rilievo il valore proprio della comunità di vita e del progresso degli sposi che si donano e si ricevono reciprocamente. Essi sono impegnati, in una comunione di destino e di amore, ad approfondire il bene proprio della coppia e di ognuno dei coniugi. Il valore della reciproca comunione dà al matrimonio la sua dignità propria come pure la fecondità dell'unione che ne è il coronamento.

Il Concilio così parla dell'alleanza dei coniugi: " L'intima comunità di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal fatto coniugale vale a dire l'irrevocabile consenso personale ". La comunità di vita è ordinata alla fecondità dell'amore come anche al bene dei genitori: " Per sua indole naturale, l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale, generoso e cosciente, sono ordinati alla procreazione e all'educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento. I figli, come membra vive della famiglia, contribuiscono pure in qualche modo alla edificazione dei genitori ": Gaudium et spes, n. 48. Il nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 ha sintetizzato questa dottrina, dicendo che il matrimonio è l'alleanza per la quale " un uomo e una donna costituiscono tra loro una comunità per tutta la vita, ordinata, per il suo naturale carattere, al bene dei coniugi come alla generazione e all'educazione dei figli ": Canone 1055.

La Chiesa cattolica ribadisce la validità permanente di queste esigenze che ha riformulato nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio nel 1981 e riproposte nella Carta dei Diritti della Famiglia del 1984. Ma è innegabile che l'istituto familiare sta vivendo una situazione di crisi, iniziata con l'avvento della società industriale.

Crisi moderna della famiglia. La crisi ha le sue motivazioni prima di tutto nell'impatto con la società moderna, ma anche nell'influenza di teorie sociologiche nettamente anti-famigliari. E un fatto che nel mondo industrializzato ed urbanizzato la famiglia ha perduto la sua base patrimoniale tradizionale non essendo più legata alla proprietà fondiaria. L'evoluzione ha portato con sé il declino dell'imago paterna e instaurato un nuovo statuto dei sessi e della generazione. La famiglia si riduce alla coppia e ai figli, e la comunità di vita tende a prevalere rispetto all'istituzione, come hanno osservato E. W Burgess e H. G. Locke in From Institution to Companionship: New York 1945-1960. I vincoli coniugali sono diventati fragili. Il divorzio è diventato un comportamento culturale che riguarda un terzo o anche la metà delle coppie in molte società industrializzate. La diffusione della contraccezione e soprattutto la legalizzazione dell'aborto hanno profondamente sconvolto i rapporti tra i sessi colpendo l'ethos tradizionale che salvaguardava il vincolo, in sé essenziale, tra matrimonio e procreazione, secondo la dottrina cristiana.

Sul piano delle teorie sociologiche, la famiglia moderna è, da molti autori, presentata come un rifugio protettore nei confronti della società dominata dalla produzione, dalla competizione e dalla dura razionalità economica. La famiglia è il luogo in cui ci si ritira nell'intimità e nell'affettività per difendere la propria vita privata. Da una concezione di questo genere alla considerazione della famiglia come ghetto egoista il passo è breve. La famiglia borghese è stata allora accusata d'essere il modello privilegiato della società dei consumi. Andando più avanti, la Scuola di Francoforte considera la famiglia come la struttura che tende a garantire, grazie all'autorità paterna, il sistema dominante della società borghese, pur mantenendo l'illusione della libertà privata nell'intimità della propria casa. Queste teorie, sostenute da M. Horkeimer, T. Adorno e H. Marcuse, hanno avuto una vasta diffusione negli anni intorno al 1968. Il carattere unilaterale di queste teorie è oggi oggetto di critica e di denuncia.

Capacità innovatrice della famiglia. Una visione più equilibrata del ruolo della famiglia nella cultura moderna tende oggi ad esprimersi. Numerosi sono gli studi che cercano di approfondire la capacità innovatrice della cellula familiare nella società contemporanea.

La famiglia, infatti, preserva e rinforza un tipo di solidarietà fondata sull'amore interpersonale, sull'intimità tra gli sposi, sulle cure materne e i rapporti parentali. La società di produzione riscopre questa esigenza insostituibile delle solidarietà familiari, esigenza primaria di ogni cultura.

Al di là degli eccessi di una società permissiva, le aspirazioni all'amore che emergono nell'uno o nell'altro dei coniugi e il desiderio di creare una comunità parentale emergono come un bisogno permanente. Numerosi studi vedono in questi atteggiamenti il presentimento di un ordine culturale più umano. L'uomo e la donna, infatti, liberamente formano una coppia risoluta a fare la propria storia a due, vivendo una relazione interpersonale ed uno scambio reciproco continuamente aperto all'altro nell'uguaglianza e nell'identità proprie a ciascuno.

Malgrado la crisi che colpisce l'istituto familiare, si possono dunque riconoscere le tendenze positive che si manifestano nell'attuale realtà. Il documento Familiaris consortio, prima citato, così si esprime: " Da una parte, infatti, vi è una coscienza più viva della libertà personale e una maggiore attenzione alla qualità delle relazioni interpersonali nel matrimonio, alla promozione della dignità della donna, alla procreazione responsabile, all'educazione dei figli; vi è inoltre la coscienza della necessità che si sviluppino le relazioni tra le famiglie per un reciproco aiuto spirituale e materiale, la riscoperta della missione ecclesiale propria della famiglia e della sua responsabilità per la costruzione di una società più giusta ": n. 6.

Le nazioni moderne ritornano ad essere più sensibili al ruolo indispensabile della famiglia nei compiti complessi dell'educazione e dello sviluppo culturale. Questa è la sfida che devono affrontare i governi nel compito di armonizzare la loro politica educativa, culturale e familiare. L'equilibrio e il vigore culturale di una società dipendono sempre dalla salute morale delle famiglie, come sosteneva la sapienza tradizionale e come dimostrano, a loro modo, le ricerche moderne.

La famiglia, oltre ad essere la cellula che accresce fisicamente la società, è anche il focolare in cui si radica e si sviluppa tutta la cultura viva. E nel suo seno che il bambino scopre la propria identità culturale ed impara la lingua materna, principale veicolo della cultura e che familiarizza con le regole elementari della socialità e della fraternità. Queste funzioni non hanno perduto nulla della loro importanza nella società pluralista e multiculturale di oggi.

Si assiste, proprio oggi, ad una riscoperta dell'istituto familiare come soggetto di politica e come soggetto culturale, perché l'esperienza della società moderna ha messo in evidenza che l'assenza delle famiglie rende praticamente impossibile il buon funzionamento del sistema scolastico e della salute pubblica, come l'acculturazione della nuove generazioni ai valori comuni che danno identità ad una comunità umana. La crescita delle persone e lo sviluppo culturale della società trovano nell'istituto familiare un elemento determinante ed un sostegno indispensabile. Tutta la storia della civiltà ne è testimonianza.

Vedi: Acculturazione, Educazione, Lingua, Cultura. In questi articoli è stato particolarmente studiato il ruolo della famiglia nel processo educativo e culturale.

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Gruppo di riferimento. (inizio)

E per l'intermediario dei " gruppi di riferimento " che, in modo privilegiato, si è vincolati ad una determinata cultura. La nostra identità si struttura nella relazione che il nostro Io ha con i gruppi a cui aderiamo o che costituiscono per noi fonte d'ispirazione. Si tratta, d'altra parte, di un fenomeno che la psicologia popolare sottolinea con espressioni di questo genere: " Tale il padre, tale il figlio " o ancora: " Dimmi con chi vai e di dirò chi sei ".

William James ha molto riflettuto, a suo tempo, sull'ambivalenza dei nostri sentimenti in relazione alle nostre diverse forme di fedeltà sociale. Egli citava, in questo senso, le parole di un magistrato nella condanna di un criminale: " Come uomo ho pietà di te, ma come responsabile del mio ufficio devo essere spietato nei tuoi confronti ".

Questi esempi stanno ad indicare fino a quale punto i nostri atteggiamenti si riferiscano ad un contesto psico-sociale e questo contesto non sia una realtà statica o stereotipata. Esistono, come vedremo, molteplici modi di riferimento tra i nostri atteggiamenti e i gruppi che ci circondano. Albert Einstein, con umorismo, in occasione di una conferenza pronunciata alla Sorbona così si esprimeva: " Se la mia teoria della relatività sarà confermata, la Germania mi reclamerà come tedesco e la Francia dichiarerà che sono cittadino del mondo. Se la mia teoria risulterà falsa, la Francia dirà che io sono un tedesco e la Germania dirà che io sono un ebreo ".

Questi esempi ci sembra siano sufficienti a far emergere i dati che ci interessano: i nostri atteggiamenti si situano in un quadro di riferimento sociale e il nostro comportamento si riferisce ai gruppi coi quali siamo psicologicamente collegati. Illumina la questione il cammino percorso dai sociologi nell'analisi metodica di questi dati. Tre tappe delle loro ricerche possono essere brevemente ricordate.

Evoluzione del concetto. La prima tappa ha condotto i sociologi a liberarsi dal positivismo di origine durkheimiana secondo cui la pressione sociale impone all'individuo valori che potremmo definire assoluti, sacri e unilaterali. Queste teorie sono state sostituite da concezioni più duttili e più realistiche riguardo alla dinamica psico-sociale. Senza trascurare le influenze socioculturali sull'individuo, si è giunti a riaffermare con più chiara precisione la funzione originale e l'apporto specifico della persona nel contesto della vita collettiva.

Rigettate le tesi del determinismo sociale, la seconda tappa è consistita nell'analizzare più da vicino i rapporti reciproci tra la persona e i gruppi a cui essa appartiene. Un esempio: un uomo è padre di famiglia, lavora in una équipe di tecnici, è membro attivo di un partito politico, appartiene ad un determinato gruppo religioso, ecc. Come l'osservatore si rappresenta la rete delle influenze sociali che si esercitano sulla psiche e la condotta di questo individuo?

Un modo semplice di concepire questa rete di interazioni psicosociali consiste nel paragonare i gruppi di appartenenza di un individuo ad un piccolo universo sociale, ad una società in miniatura dotata di proprie norme, di una propria gerarchia, di modi propri di comunicazione, di propri codici di condotta, di proprie sanzioni. Un sindacato, un gruppo professionale, un gruppo di amici, un gruppo di attivisti sono altrettanti esempi di questi piccoli universi sociali. Se uno di questi gruppi mi accetta come membro, per questo fatto stesso m'impone i propri valori; io devo, in un certo senso, conformarmi alle sue norme implicite o formali per non essere esposto alle censure (verbali o tacite) degli altri membri; sono previste sanzioni per i casi seri di deviazione o d'indisciplina. La condanna definitiva sarà l'esclusione e la rottura della mia affiliazione. Se accetto le prescrizioni del mio gruppo di appartenenza, ne sono ricompensato, la mia partecipazione alla comunità di vita si fa più stretta, il mio comportamento riceve l'approvazione dell'opinione collettiva, il mio prestigio cresce e la promozione nella gerarchia del gruppo verrà forse a confermare la mia perfetta identificazione col gruppo stesso. I rapporti che esistono tra il membro e il proprio gruppo possono essere rappresentati come una specie di sistema sociale, o di microcosmo sociale, che incide sulle psiche, sugli atteggiamenti e sulla condotta dell'individuo.

Gruppo di riferimento e gruppo di appartenenza. Queste spiegazioni degli studiosi di psicologia sociale sono suggestive, ma richiedono un completamento perché insistono solo sui gruppi a cui realmente si appartiene e lasciano in ombra tutti gli altri gruppi a cui ci si può riferire nella propria condotta pur non essendone membri effettivi, per esempio una classe sociale a cui si aspira, o un gruppo prestigioso su cui si modella la propria condotta senza esserne, di fatto, membro.

Questo ci conduce a descrivere una terza tappa dell'analisi scientifica degli atteggiamenti collettivi. Questa tappa è stata raggiunta con i primi lavori di H. Hyman sui gruppi di riferimento. Il concetto di gruppo di riferimento è più ampio di quello di gruppo di appartenenza. Per gruppo di riferimento s'intende ogni gruppo a cui l'individuo si collega psicologicamente, sia che già ne faccia parte come membro, sia che desideri di esservi incluso sul piano della proiezione. Il gruppo di riferimento polarizza la psicologia e l'interesse pratico dell'individuo: può essere si tratti di un gruppo di appartenenza reale, come la propria famiglia, il proprio gruppo professionale o religioso, ma può anche trattarsi di un gruppo a cui ci si riferisce senza farne parte, per esempio un determinato gruppo sociale a cui positivamente si aspira, o un dato partito a cui ci si oppone.

La teoria dei gruppi di riferimento è relativamente recente. Hyman ne creò il concetto nel 1942. La nozione è stata ripresa e precisata da numerose ricerche in sociologia e in psicologia sociale. Ciò che costituisce l'originalità e la specificità della teoria non consiste nell'esplicitazione del vincolo che collega i nostri atteggiamenti ai nostri gruppi di appartenenza reale, ciò che già era stato acquisito, ma nell'aver sottolineato che i nostri comportamenti, i nostri atteggiamenti e i nostri giudizi sono influenzati anche da gruppi a cui non apparteniamo effettivamente come membri. Questa scoperta sembra essere di interesse capitale per comprendere certi fenomeni ambivalenti quali l'acculturazione progressiva, le aspirazioni sociali, la mobilità da una classe all'altra, le conversioni ideologiche o religiose, e per analizzare, su di un piano più generale, i conflitti di fedeltà che minacciano gli individui che vivono in una società fortemente differenziata, in cui l'integrazione sociale porta a scelte talvolta contraddittorie.

La teoria dei gruppi di riferimento dimostra, dunque, che i nostri atteggiamenti sono influenzati dai valori e dalle norme dei gruppi a cui psicologicamente ci colleghiamo, sia sul piano dell'appartenenza reale, che su quello della pura e semplice identificazione, o della proiezione negativa.

Questo quadro analitico sembra molto utile per interpretare i comportamenti psicosociali che si osservano nelle nostre società complesse. Data la divisione del lavoro e la differenziazione estrema delle funzioni e dei gruppi in queste culture, ognuno è posto di fronte ad affiliazioni concorrenti se non antagonistiche.

Tra i gruppi di riferimento, si possono distinguere vari tipi. Descriviamone alcuni. Il gruppo di riferimento può suscitare un atteggiamento di lealtà, come può ispirare il desiderio della rottura, della fuga, dell'antagonismo. Il gruppo di semplice riferimento potrà, in caso di conflitto, offrire la possibilità di un'evasione, potrà polarizzare un desiderio di promozione sociale, incarnare la speranza del cambiamento o della mobilità. Ci sono gruppi di riferimento a cui l'individuo si conforma e ci sono quelli contro i quali egli si ribella. Ci sono gruppi di riferimento a cui ci si identifica realmente, sia per trovare norme (o giustificazioni) della propria condotta, sia per definire o affermare se stesso, sia semplicemente per proiettare le proprie aspirazioni o precisare la propria radicale differenza.

Si vede subito che questo schema analitico ha le sue applicazioni nel campo dell'educazione, della vita morale e religiosa, nei quali i processi di identificazione individuale e sociale hanno un ruolo capitale. Lo studio dei gruppi di riferimento apporta un chiarimento indispensabile per la comprensione degli atteggiamenti e delle appartenenze.

Vedi: Coscienza collettiva, Atteggiamento, Appartenenza.

Bibl.: H. Carrier et E. Pin 1967, cap. XVII. L. Gallino 1983. J. Maisonneuve 1966. M. et C. Sherif 1964. E. Singer et H.H. Hyman 1968. P. Tap 1980-1981.