DIZIONARIO SINTETICO DI PASTORALE
CASIANO FLORISTAN - JUAN JOSÈ TAMAYO
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(inizio)Tutte le società hanno bisogno di regolare la convivenza con una serie di norme. Si chiama delinquente colui che commette qualche delitto, cioè, qualche atto colpevole, contrario al diritto vigente e punito con una pena. Cosi dunque è delitto quello, e solo quello, che le leggi positive indicano come tale. Potrebbe darsi il caso che uno Stato consideri delitto l'esercizio di alcuni diritti umani (obiezione di coscienza, libertà di espressione, ecc.), ma può anche darsi che certi comportamenti notevolmente dannosi alla società non entrino in questa categoria (questo sarebbe il caso dei cosiddetti delitti dal colletto bianco). A partire da Klutt (secolo XVIII), si distingue tra delitti politici (atti contro la sicurezza dello Stato motivati da ragioni ideologiche) e delitti comuni.
Gli anni '30 furono quelli dell'apogeo delle teorie che cercavano nella ereditarietà genetica dei delinquenti comuni la spiegazione del loro comportamento (Lange giunse a scrivere un libro dal titolo drammatico: Il delitto come destino). Oggi, prevalgono le teorie che ritengono la delinquenza comune la risposta degli individui ad un ambiente (familiare eo sociale) cattivo. Il fatto che gli istituti penitenziari siano riempiti soprattutto di individui appartenenti alle classi più povere e che la maggior parte dei delitti siano appunto contro la proprietà porta a chiedersi se l'aggressione di molti di questi tali non sia la risposta ad una aggressione precedente della società contro di loro. Tuttavia, la reazione abituale di fronte al crescere dell'insicurezza cittadina si limita a chiedere più polizia e non una maggiore giustizia sociale.
Una scorsa attraverso il diritto comparato mette in chiaro che, se si esclude la multa, il sistema penale non conosce praticamente altri mezzi per far fronte alla delinquenza all'infuori della privazione della libertà. Tuttavia, sembra dimostrato che il carcere, nonostante il suo enorme costo economico, non solo è fallito come sistema di rieducazione, ma anzi accentua le tendenze antisociali. Il suo unico obiettivo è quello di ritirare per un certo tempo dalla circolazione sociale i condannati. Sarebbe necessario trovare altre formule alternative.
È un progresso della storia recente quello di non trattare i minorenni che infrangono le leggi nella stessa forma degli adulti. Fino al Diritto Romano, nessun codice aveva regolato le norme penali riguardanti i maggiorenni. Teodosio e Giustiniano diedero disposizioni particolareggiate verso i minori di sette anni. Però, a partire da questa età, i fanciulli erano condannati alle stesse pene degli adulti: carcere, torture e perfino la pena di morte. Fu il papa Clemente XI che fondò per la prima volta uno stabilimento specifico nel 1704 per i giovani delinquenti (l'ospizio di san Michele). A partire da allora, cominciò a diffondersi il trattamento differenziale ai fanciulli. In Spagna, l'età maggiorenne per il codice penale è fissata a 16 anni. Quelli che sono inferiori a questa età e trasgrediscono le leggi penali cadono sotto la competenza del Tribunale per la tutela dei minori che non ritiene come delitti le loro trasgressioni.
Bibl. - Bandini T. - Gatti U., Delinquenza giovanile, Giuffrè, Milano, 1987. Cohen A.K., Controllo sociale e comportamento deviante, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. De Leo G. - Cuomo M.P., La delinquenza minorile come rappresentazione sociale, Marsilio, Venezia, 1983. Heuyer G., La delinquenza giovanile, Francavilla, 1973. Masini V., " Devianza ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 280-282.
L. González-Carvajal
(inizio)La critica moderna non ha potuto non interrogarsi di fronte ai miti biblici. Che cosa si deve intendere propriamente per mito (in greco: mythos = riflessione)? Molti ritengono che mito sia sinonimo di racconto, o favola, per cui la fantasia sarebbe l'unica responsabile del racconto. Altri, invece, vedono nel mito una forma valida di trasmettere una realtà viva in un momento concreto della storia. Per quanto riguarda il mito biblico, si tende a definirlo come il rivestimento di verità divine con un tessuto umano affinché in questo modo esse possano essere comprese dalla gente di quell'epoca in cui si elaborarono queste formulazioni. È evidente che la Bibbia è cosparsa di miti. Si vedano soprattutto i racconti delle origini (Gen 1-11), dove si narrano fatti che si suppongono accaduti prima che cominciasse il periodo storico dell'umanità. Questi fatti contengono indubbiamente un messaggio. Così ammette la critica. Ma come comportarsi di fronte ad essi? L'esegesi tedesca del secolo scorso, a partire da D.F. Strauss, si dedicò a scoprire i miti nei testi biblici. Che cosa si deve farne? La risposta fu categorica: eliminarli! In tal caso, il messaggio rivelato era vincolante solo in quei racconti che oltrepassavano i limiti del mitico.
Questa soluzione portò a risultati disastrosi, in quanto il nucleo del messaggio rimaneva alle volte ridotto ad un minimo con grave danno alla fede cristiana. Per chiarire questo tema, R. Bultmann propose un nuovo concetto di demitizzazione (Entmythologisierung), in forza del quale non si doveva eliminare ma interpretare il messaggio mitico in base ad alcuni postulati mutuati dalla filosofia esistenzialista. I suoi risultati non furono comunque pienamente soddisfacenti, ma intanto Bultmann scosse l'esegesi biblica dal suo letargo, invitando ad adottare nuovi criteri di interpretazione. Molte sue affermazioni sono state accettate dall'esegesi cattolica. Il suo criterio demitizzante si ispira ad uno studio meticoloso dell'impronta socio-religiosa in cui furono scritti i libri sacri. Si tratta di cogliere quello che Dio ha voluto trasmettere all'uomo. Questo messaggio, nelle congiunture storiche del tempo, ha richiesto che venisse calato in un modulo di tipo mitico.
Bibl. - Bultmann R., Nuovo testamento e mitologia, Brescia, . Idem, Credere e comprendere, Brescia, 1977. Manyini I., " Demitizzazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 294-306.
A. Salas
(inizio)La democrazia, come suggerisce l'etimologia, consiste nel trasferire la sovranità dalla persona fisica del monarca alla persona morale del popolo. Alla famosa frase attribuita a Luigi XIV, " lo Stato, sono io ", il popolo, nella rivoluzione francese, ha risposto: " Lo Stato, sono io ". In alcuni piccoli cantoni svizzeri, dove lo scarso numero dei problemi da risolvere rendono la cosa possibile, il popolo sovrano si governa da sé riunendosi periodicamente in assemblea (democrazia diretta). Però, negli altri casi, i cittadini hanno optato per eleggere alcuni di loro perché governino a nome loro (democrazia rappresentativa). In una democrazia, tutti i cittadini che hanno raggiunto l'età maggiorenne, senza distinzione di razza, di religione, di condizione economica, di sesso, ecc; hanno il diritto di esprimere col voto il loro parere eo di eleggere chi lo esprimerà per loro negli organi di governo.
Pertanto, anche nelle democrazie esistano governanti e governati, ma la loro condizione è molto diversa da quella che è vigente nei regimi assolutisti. Nelle democrazie, i governanti non lo sono per natura, ma unicamente perché il popolo ha voluto affidare loro questa compito, e lo devono esercitare nel tempo e nelle condizioni determinati dal popolo. Di fatto, nella democrazia, il popolo non concede mai ai suoi governanti tutte le attribuzioni che assegnavano a se stessi i monarchi assoluti: il popolo sa che " il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente " (Lord Acton). Sono cinque i limiti principali che il popolo sovrano suole fissare al potere dei governanti:
a) La divisione di poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), in modo che gli uni possano controllare gli altri;
b) la sottomisione dei governanti al diritto;
c) la possibilità di revocare la concessione del potere, anche prima di concludere il periodo previsto inizialmente, qualora i governati si dimostrassero corrotti o semplicemente incapaci;
d) la pubblicità delle loro azioni per rendere possibile il controllo del popolo. Infatti, gli autentici democratici non delegano mai completamente l'esercizio del potere ai rappresentanti che hanno eletto;
e) in alcuni paesi, esiste, infine, la figura del Garante del popolo: la sua missione è quella di proteggere i cittadini da eventuali azioni amministrative arbitrarie.
Tra i vantaggi della democrazia, dobbiamo dire che si tratta dell'unico mezzo non violento per regolare gli antagonismi che esistono in qualsiasi società. Come ha scritto Bobbio, " è democratico colui che cerca di risolvere una controversia, non sopprimendo l'avversario, ma cercando di Convincerlo. Se poi non riesce a convincerlo, stabilisce un accordo basato su un compromesso. Quando questo è difficile, occorre il parere della maggioranza. È un criterio puramente quantitativo, se si vuole, ma è sempre meglio contare le teste anziché tagliarle ".
Naturalmente, né la Sacra Scrittura né i Santi Padri poterono pronunciarsi sulla democrazia che spuntò molti secoli dopo. Però, sia la Scritture che i Padri affermano l'uguaglianza degli esseri umani: questo equivale ad affermare indirettamente che nessuno può governare gli altri se essi non gli affidano questo compito. E, di fatto, questa fu, in forma già esplicita, la dottrina della Scolastica (ad eccezione del secolo XIX). Questa è oggi la dottrina ufficiale della Chiesa (Enciclica Pacem in terris, n. 52; GS 75).
Bibl. - F. Ba, " Democrazia ", in: Enciclopedia Italiana Treccani, XII, pp. 591-596. Maritain J., Cristianesimo e democrazia, Milano, 1950. Matteucci N., " Democrazia ", in: Enciclopedia Filosofica, I, Venezia-Roma, 1957, coll. 1460-1469. Messineo A., " Democrazia ", in: Enciclopedia Cattolica, IV, Città del Vaticano, 1950, coll. 1399-1406.
L. González-Carvajal
(inizio)La depressione è uno stato anormale dell'organismo che si manifesta con un forte abbattimento, accompagnato da determinati sintomi neurovegetativi, senso di colpa e disprezzo di sé. Nella maggioranza dei soggetti depressi, esiste " un senso di perdita ", quasi sempre concretizzato in qualcosa di materiale o in alcuni comportamenti che prima il soggetto era capace di compiere, come: dormire, lavorare, concentrarsi, ecc.
La persona depressa si vede, riguardo al futuro, in modo negativo. I suoi pensieri vagano in forma irrazionale intorno a temi che abbassano l'individuo. Le manifestazioni di questo processo (i sintomi della depressione), che si possono elencare in cinque settori, sono il risultato di questo disturbo conoscitivo.
? Manifestazioni emotive: abbattimento, perdita dell'allegria e della soddisfazione, perdita di affetto per gli altri e perdita di giovialità.
? Manifestazioni conoscitive: diminuzione dell'autovalutazione, attese negative, senso di colpa, percezione distorta di se stessi.
? Manifestazioni motivazionali: la tendenza a evitare e a fuggire, l'incapacità di prendere decisioni, perdita di motivazioni, desideri di suicidio, forte dipendenza.
? Manifestazioni vegetative: perdita di appetito, di sonno e di desiderio sessuale, stanchezza. In alcuni soggetti, c'è la tendenza a dormire eccessivamente.
? Manifestazioni motorie: cambiamenti a livello di attività, con agitazione o ritardi.
Kielholz, nel classificare la depressione, stabilisce tre gruppi, ognuno dei quali è formato da tipi distinti di depressioni con caratteristiche comuni. Ci sono le depressioni endogene, quelle somatogene e quelle psicogene.
Le depressioni endogene costituiscono la base depressiva di tutte le psicosi affettive. L'depressioni somatogene possono essere dovute a cambiamenti strutturali nel cervello, o come un sintomo che accompagna una infermità fisica. Le depressioni psicogene sono quelle in cui i fattori ambientali hanno il più grande peso: per esempio, l'esaurimento, la morte di una persona cara, ecc.
Bibl. - Bless H., Manuale di psichiatria pastorale, Ed. Marietti, Casale M., 1952. Canova F., Il medico in famiglia, Ed. Paoline, 1981, p. 194. Sattes H., " Depressione ", in: Dizionario di Psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 307-308. Trickett S. - Albisetti V., L'ansia e la depressione, Ed. Paoline, Milano, 1995.
M. N. Lamarca
(inizio)Il termine desacralizzazione significa, etimologicamente, la perdita da parte di qualcosa del suo carattere sacro.
Nella sociologia della cultura, il termine " desacralizzazione del mondo " (Entzauberung der Welt: Max Weber) si riferisce al crescente processo di razionalizzazione delle società moderne, che invade tutte le sfere dell'esistenza. Esso porta alla differenziazione delle varie aree sociali (economia, politica, estetica), in quanto ognuna di esse è dotata di una sua specifica razionalità. Il risultato finale verrebbe ad essere la perdita del carattere numinoso (o sacro) che veniva attribuito a certe realtà mondane nelle società tradizionali: il mondo viene demitizzato, come un semplice oggetto di manipolazione tecnica nelle mani dell'uomo.
Il processo si è compiuto nella civiltà occidentale e sta compiendosi in altre culture; sembra inerente allo sviluppo della tecnica e della scienza.
Le questioni che ulteriormente si pongono sono: questa desacralizzazione del mondo implica senz'altro una impossibilità dell'esperienza religiosa, in quanto scompare l'elemento del sacro in quelle che possiamo chiamare società tecnologiche? (1. Declino della religione). Oppure, in questo modo, l'esperienza religiosa è resa difficile in queste società, perché viene confinata nella sfera del privato, come una pura ricerca individuale di senso per la propria vita? (2. Privatizzazione del religioso). Oppure, provoca spostamenti e nuove modalità nel modo di vivere il sacro, dando origine a forme di esperienza religiosa, pubbliche ? la religione è un fenomeno sociale ?, ma distinte da quelle tradizionali? (Modalità secolare dell'esperienza del sacro).
Le teorie sociologiche sulla secolarizzazione, con schemi differenti, hanno offerto queste interpretazioni del fenomeno (1, 2 e 3). Ognuna di esse può fornire prove empiriche, siano pure parziali. Pertanto, sembra difficile elaborare una teoria sociologica generale delle conseguenze religiose del fenomeno della desacralizzazione del mondo. Con una prospettiva storica maggiore, sembra oggi che ci troviamo in condizione di fare una serie di affermazioni modellate su quello che concerne il cristianesimo occidentale (e più specificamente, europeo; è probabile che il continente americano si presenti con modalità in parte differenti):
a) Il calo delle pratiche religiose e devozionali ispirate ad una mentalità magica e utilitarista; anche se, naturalmente, rimangono sacche di resistenza, dalla mentalità sacra tradizionale, specialmente negli strati popolari.
b) La progressiva emarginazione dell'istituzione religiosa dai ruoli tradizionali di egemonia sociale e culturale: con la conseguente demitizzazione delle forme organizzative e culturali create da essa nella società pre-tecnologica, che vanno sottoposte a processi critici.
c) Il calo dei condizionamenti sociali tradizionali che sostenevano il senso di appartenenza all'istituzione religiosa: con la correlativa emancipazione dei comportamenti.
Un problema dibattuto si riferisce alla sorte della religiosità di molti individui e gruppi umani, dopo il declino della modalità mondano sacrale dell'esperienza religiosa. Si tratta, cioè, delle possibilità sociali di un'esperienza secolare del sacro. A questo riguardo, bisogna dire:
? Va esclusa qualsiasi forma di automatismo evolutivo. Ciò vuol dire che, all'esperienza religiosa mondano-sacrale, succedono, spontaneamente, o forme secolariste (prive di interessi religiosi, irreligione, ateismo), o forme di esperienza secolare del sacro (indicative di una religiosità più purificata e più trascendente).
? Fattori decisivi per orientare nell'uno o nell'altro senso il cambiamento religioso, possono essere: il grado di sacralizzazione delle realtà mondane (quanto è maggiore e tanto più si può prevedere una perdita globale dell'esperienza religiosa); la rapidità del cambiamento desacralizzante (quanto più è rapido e tanto più difficile è il passaggio verso forme secolari dell'esperienza del sacro, centrate sulla persona umana come immagine del divino, e nei simboli originari della tradizione cristiana); il livello di preparazione culturale e di modellazione genuinamente esperienziale-religiosa della gente interessata (quanto è maggiore e tanto più probabile è l'evoluzione verso nuove forme per esprimere questa religiosità); infine, l'atteggiamento globale dell'istituzione religiosa (quanto più è resistente ad ogni cambio e tanto più diminuirà la sua capacità di inculturare la fede).
Bibl. - Acquaviva S., L'eclissi del sacro nella società industriale, Ed. Comunità, Milano, 1971. Bellah R.N., Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale, Ed. Morcelliana, Brescia, 1975. Berger P., Il brusìo degli angeli, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Milanesi G., Sociologia della religione, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1973. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Ed. Boringhieri, Torino, 1969.
J. Martínez Cortés
(inizio)Devozione è una parola che deriva dal latino devovere (offrire, consacrare). Significa in primo luogo la disposizione e diligenza nel servire Dio con la lode, col culto e la preghiera. I1 suo significato coincide quasi con quello di pietà: in ultima analisi, è l'amore di carità con cui l'uomo aderisce a Dio e lo manifesta in un modo speciale nella offerta costante e sincera degli atti di culto. In questo senso teologico e profondo, la devozione è un atteggiamento spirituale necessario ad ogni cristiano, poiché il fine ultimo della vita cristiana è la glorificazione di Dio.
Altra cosa sono le devozioni (al plurale). Esse consistono nelle varie pratiche religiose di tipo particolare, orientate ad onorare un "oggetto" religiosamente determinato, a seconda delle preferenze del singolo devoto. Così, si può parlare della devozione alla Passione del Signore, al Sacro Cuore di Gesù, all'Eucaristia, a Maria, ad un Santo determinato, al Rosario, alla Croce, ecc. Molte di queste devozioni sono raccomandate e perfino incoraggiate dalla gerarchia ecclesiastica. Non sono, però, mai imposte in modo obbligatorio, come se fossero indispensabili per la vita cristiana.
Il movimento liturgico ha dovuto lottare contro l'importanza esagerata che alcuni cristiani davano a certe devozioni private, ritenendole più adatte a favorire la pietà delle stesse celebrazioni liturgiche. Il Concilio Vaticano II stabilì la vera gerarchia di valori, e, senza cessare di raccomandare i pii esercizi del popolo cristiano, mediante cui si esprimono le varie devozioni popolari, precisò: " Bisogna però che tali esercizi, tenendo conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano " (SC 13). Non c'è dubbio che la riforma liturgica, nel rendere la liturgia più vicina e più popolare, ha contribuito a ricollocare le devozioni private al loro giusto posto, sempre subordinato rispetto alla pietà liturgica.
Bibl. - Aa.Vv., Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia. Introduzione, testo latino-italiano, commento, Ed. Opera Regalità, Milano, . Dalmais I.H., Iniziazione alla Liturgia, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1964. Vagaggini C., Il senso teologico della Liturgia, Ed. Paoline, Roma, , pp. 135-143; 742-752.
J. Llopis
(inizio)Il termine diacono significa: colui che serve a mensa, il servitore. In san Paolo, equivale a servo di Dio o della comunità. In due occasioni, Cristo è chiamato diacono (Rm 15,8 e Gal 2,17). Infine, si chiama diacono colui che esercita un determinato ministero nella comunità (Fil 1,1; 1 Tm 3,8), cioè, chi svolge un servizio per i fratelli e gli uomini o comunque in solidarietà. Il diaconato fu fin dall'inizio della Chiesa un servizio speciale caratterizzato dall'aiuto per il culto, per l'assistenza ai poveri e per la guida della comunità. Ricordiamo che le due agàpi (quella di Dio e quella per i poveri) formavano una unità. In altre parole: il cristianesimo evangelico pose l'accento sulla diaconìa e sulla liturgia, usando sia il verbo diakonéo che il verbo leitourghéo, senza opporli. Infatti, l'elemento decisivo è il servizio ai fratelli partendo dall'altare, e la liturgia è una diaconìa.
Molto presto, il sacramento dell'Ordine fu diviso in tre ministeri ordinati: l'episcopato, il presbiterato e il diaconato. Il diaconato fu importante per il fatto che consisteva in un servizio personale ai fratelli partendo dall'Eucaristia. I primi diaconi supplivano i presbiteri nella celebrazione di alcuni sacramenti, ammaestravano il popolo e amministravano i beni della Chiesa. Cominciarono a decadere col secolo V, quando l'assistenza venne istituzionalizzata ed appparvero altre forme stabili, come gli ospedali. La funzione diaconato venne ridotta al culto e finì per ritualizzarsi. Nella Chiesa d'Occidente, il diacono praticamente scomparve nel Medioevo, quando i ministeri furono ridotti al presbiterato e all'episcopato. Il diaconato divenne allora un periodo di preparazione, un passo antecedente o un grado di accesso al sacerdozio. I diaconi appaiono superflui nell'epoca carolingia, quando acquistano valore ed importanza gli stipendi di Messe. Allora, non c'era un'altra forma congrua di sostentamento. Perciò, i chierici e i diaconi cercarono rapidamente di accedere al sacerdozio. Per ragioni cultuali, basate sul potere e sul denaro, scompare il diaconato o diventa, come tutti gli ordini minori, una finzione. Nemmeno il Concilio di Trento risolse il problema dei ministeri inferiori al sacerdozio.
Il diaconato fu restaurato dal Concilio nel 1964 (LG 29) e regolato poi da Paolo VI nel 1967 (Sacrus diaconatus ordinem) e nel 1972 (Ad pascendum). È stato accettato dalle varie conferenze episcopali in modi differenti. L'ordinazione diaconale di laici fu vista in un primo tempo come una pericolosa clericalizzazione. D'altra parte, un laico delegato può fare quasi tutto quella che può fare una diacono ordinato: predicare, aiutare nelle celebrazioni, compiere varie opere di carità. Epppure, l'esperienza dei diaconi in vari paesi è stata generalmente positiva.
Il documento Ad pascendum afferma che il diacono è l' "animatore del servizio, ossia, della diaconia della Chiesa, nelle comunità cristiane locali, segno o sacramento dello stesso Cristo Signore, il quale non venne per essere servito, ma per servire ". Il servizio diaconale si rivolge verso due poli fondamentali: la comunità cristiana e l'umanità. Sembra necessario oggi il servizio alla persona e alla società mediante le opere di misericordia attualizzate dall'impegno sociale e dalla evangelizzazione.
Bibl. - Aa.Vv., Il diaconato nella Chiesa e nel mondo d'oggi, Ed. Gregoriana, Padova, 1968. Altana A., " Diacono ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1989, pp. 393-401. Colson J., La funzione diaconale alle origini della Chiesa, Ed. Mame, Roma, 1962. Denis H. Schaller R., Il diaconato nel mondo d'oggi, Ed. Massimo, Milano, 1968. Marranzini A., Il ristabilimento del diaconato, in: " La Civiltà Cattolica ", 1965, II, 548-561.
C. Floristán
(inizio)Diaconìa significa il servizio o l'aiuto dato da alcune persone ad altre. Inizialmente, era sinonimo di servire a mensa, funzione del servo. Ricordiamo che, nel cristianesimo primitivo, la " frazione del pane " nelle case e l'aiuto ai poveri richiedevano un servizio speciale di solidarietà, radice e fondamento della diaconìa cristiana.
Oggi, usiamo la parola servizio in un modo particolare in due settori differenti: quello militare e quello domestico. In entrambi i casi, c'è una dipendenza di alcune persone nei riguardi di alcuni signori o di alcuni ideali patriottici, con una riduzione della libertà dei servi. Nella società di oggi, non piace a nessuno servire, perché ciò comporta sottomissione, umiliazione e sacrificio. Eppure, il NT usa il verbo greco diakonéo (servire) per esprimere l'atteggiamento radicale di Cristo e dei cristiani. Il servizio a Dio e ai fratelli è la prova migliore dell'amore. Gesù sta in mezzo a noi " come colui che serve " (Lc 22,27). Egli " non è venuto per farsi servire, ma per servire " (Mt 20,28). Si dà perfino il paradossso che chi governò è " come colui che serve " (Lc 22,26), non come colui che è servito.
La diaconìa equivale alla missione della Chiesa, che si svolge sempre nell'orizzonte del Regno di Dio, come sequela di Cristo secondo il vangelo, venuta di Dio e liberazione dell'uomo. La diaconìa, fin dalle più remote radici cristiane, ha alcuni soggetti privilegiati che chiedono aiuto: i poveri, gli emarginati e gli infermi, perché sono gli " eredi del Regno " (Mt 5,3) e " fratelli " del Figlio dell'uomo che giudicherà il mondo (Mt 25). " Sono soggetti nel Regno di Dio, non oggetti della nostra compassione. Prima di qualsiasi aiuto, c'è la comunità; prima di qualsiasi assistenza, c'è l'amicizia " (Moltmann). In ultima analisi, la diaconìa cristiana cerca di superare tutte le disfunzioni umane, anche le più disperate, e si sforza di eliminare tutte le barriere.
Bibl. - Alberich E., " Diaconìa - Carità ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 203-205. Pasini G., " Carità ", in: Aa.Vv., Dizionario di Pastorale della comunità cristiana, Ed. Cittadella, Assisi, 1980, pp. 109-120. Völkl R., Diaconìa e carità, Ed. dehoniane, Bologna, 1978.
C. Floristán
(inizio)Il digiuno è una pratica ascetica che consiste nell'astensione dai cibi o dalle bevande, totale o parziale, per un certo tempo. Dal punto di vista liturgico,. occorre distinguere due classi di digiuno: quello penitenziale e quello quasi sacramentale. Il primo ha come finalità principale quella di mortificare il corpo in espiazione dei peccati commessi. E' questo il digiuno che la Chiesa praticava anticamente durante la Quaresima, e oggi è stato ridotto al mercoledì delle Ceneri e al Venerdì Santo. Esso consiste in un solo pasto completo lungo il giorno. Secondo il Nuovo Codice di Diritto Canonico, sono tenuti alla legge del digiuno " tutti i maggiorenni fino al 60 anno iniziato " (CIC 1252). Il digiuno quasi sacramentale è quello che si pratica più come preparazione e passaggio alla celebrazione di un sacramento o di una festa liturgica importante, che come espressione di penitenza. Tra i digiuni quasi sacramentali piu antichi, c'è il digiuno preparatorio al battesimo e quello che il Concilio chiama " sacrum ieiunium paschale " (l'aggettivo " sacrum " non appare nella traduzione italiana):
" Sia però religiosamente conservato il digiuno pasquale, da celebrarsi ovunque il Venerdì della Passione e Morte del Signore, e da protrarsi, se possibile, anche al Sabato Santo, in modo da giungere con animo sollevato e aperto ai gaudi della domenica di Risurrezione " (SC 110).
Senza negare la dimensione penitenziale del digiuno del Venerdì Santo, il suo significato più profondo si trova nel suo carattere mistico di preparazione a ricevere l'Eucaristia pasquale. Questo è anche il senso del cosiddetto digiuno eucaristico, che per molti secoli fu richiesto ai fedeli a partire dalla mezzanotte che precedeva la comunione. Oggi, invece, si richiede soltanto questo:
" Chi intende ricevere la santissima Eucaristia si astenga per lo spazio di almeno un'ora prima della sacra comunione da qualunque cibo o bevanda; fatta eccezione soltanto per l'acqua e le medicine " (CIC, c. 919 § 1). Sono esclusi da quest'obbligo: " il sacerdote che nello stesso giorno celebra due o tre volte la santissima Eucaristia; gli anziani, coloro che sono affetti da qualche infermità e le persone addette alle loro cure " (CIC, c. 919 § 2 e 3).
Il digiuno eucaristico può essere considerato anche come un segno della trascendenza dell'Eucaristia rispetto ai cibi e alle bevande comuni.
Bibl. - Augruso A., " Digiuno ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 229-230.
J. Llopis
(inizio)L'espressione dinamica di gruppo, consacrata ufficialmente da K. Lewin, è usata in un triplice senso:
1) In primo luogo, è usata per descrivere una parte interdisciplinare delle scienze sociali che si dedica a indagare con metodi scientifici le leggi su cui si reggono i gruppi. Sebbene sia soprattutto un settore della psicologia sociale, vanno tenuti presenti anche i contributi della sociologia, dell'antropologia e delle scienze dell'educazione.
2) Si usa anche per designare i fenomeni quotidiani di dinamica e di interazione che succedono in ogni gruppo.
3) Infine, si usa questa espressione per designare un complesso di metodi e di tecniche che servono per aiutare la maturazione dei singoli mediante il gruppo, rendendoli consapevoli dei processi di comunicazione nel gruppo e migliorando la percezione di sé e degli altri. L'uso attuale del termine, almeno negli ambienti ecclesiastici spagnoli, riserva il concetto di dinamica di gruppo a questo terzo significato, accompagnato spesso da un alone di tecnica e perfino di manipolazione.
Gli obiettivi proposti nei laboratori delle dinamiche di gruppo possono, al seguito di K.D. Benne, L.P. Bradford e R. Lippit, essere formulati così:
a) Una maggiore capacità di percepire i sentimenti e le loro espressioni, tanto di sé quanto degli altri.
b) Una maggior capacità di valutare con realismo le conseguenze delle proprie azioni.
c) Una visione dei modi di comportamento in un gruppo, delle sue strutture e processi come, per esempio, strutture di fiducia o di potere.
d) Chiarezza e sviluppo dei valori e obiettivi per sonali ed una congruenza maggiore tra quello che si pensa e dice in teoria e quello che si sente e fa nella vita reale.
e) Una modificazione di comportamento, per esempio, nel senso di una maggiore apertura e accettazione dell'altro.
f) Un aiuto ai partecipanti per integrare i nuovi modi di comportamento nella vita quotidiana, dopo che avranno lasciato l'ambiente farò revole del corso.
g) " Imparare a imparare ". Ogni partecipante deve analizzare i propri sistemi di apprendimento, per potere imparare in qualsiasi esperienza che sta vivendo.
Un fattore comune a tutte le forme di dinamica di gruppo è il principio dell' "apprendimenti esperienziale " nel gruppo. Questo principio si fonda sul fatto che l'apprendimento non si basa solo sul livello conoscitivo, ma anche su quello emozionale.
Si tratta di sviluppare la capacità di riconoscere e di superare i meccanismi emozionali che inibiscono l'apprendimento, come possono essere un'aggressività distruttiva o una apatia paralizzante. Occorre attivare i fattori che favoriscono l'apprendimento, come la gioia e il piacere di sperimentare o il desiderio di comunicazione e di appoggio reciproco.
I meccanismi di difesa continuano a rispuntare, danno origine a conflitti e perturbazioni nella comunicazione e rendono difficile la collaborazione. Però, se si raggiunge il processo di incorporazione nella dinamica di un gruppo, ciò aiuta ad acquisire nuove esperienze, a conquistare una identità dell'Io più matura ed un maggiore rendimento.
L'importanza della dinamica di gruppo per la pastorale, l'educazione, il lavoro sociale o la vita comunitaria, sta nel fatto che mediante essa, si possono sopprimere o diminuire certi meccanismi di difesa e certi comportamenti che rendono difficile la collaborazione e la convivenza, come l'ansia di fronte alla perdita di affetto, i desideri e le attese infantili.
Bibl. - Giordani B., La psicologia in funzione pastorale: metodologia del colloquio, Ed. La Scuola-Antonianum, Brescia-Roma, 1981. Lewin K., Teoria dinamica della personalità, Firenze, 1965. Mucchielli R., La dinamica di gruppo, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1968. Murray E.J., Psicologia dinamica, Roma, 1971. Pelzer K.E., " DinamicaPsicologia ", in: Dizionario di Psicologia, Ed. Paoline, 1975, p. 323. Scilligo P., " Gruppo: dinamica di ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 491-493.
F.J. Calvo
(inizio)Nell'universo culturale in cui ci muoviamo, l'espressione e il concetto Dio occupa principalmente due spazi simbolici. Uno, di origine semita, ricava dalla radice al il concetto di potenza e stovranità: per questi mondi, Dio è l'ultimo riferimento del potere umano e cosmico. Così, nel mondo arabo, Dio è chiamato Allàh, e nel mondo ebraico, El o Elohim. L'altro Spazio è di origine indo-europea, da cui pare che il significato originale del latino Deus e del greco Theòs derivi da una radice sanscrita che significa luce, illuminazione. Secondo questa concezione, Dio è la luce, il sapere. Però, non possiamo negare che i due spazi culturali, lungo i secoli, abbiano interferito reciprocamente, di modo che, in genere, Dio è concepito come potere supremo e come sapienza profonda.
In entrambi gli spazi, c'è stato il fenomeno del politeismo o pluralità di dèi. Però, sopravvisse sempre la consapevolezza che questa pluralità era un travisamento avvenuto storicamente per la malvagità umana. Così, dunque, si esprimeva il greco Senofane parlando dei suoi concittadini Omero ed Esiodo, anteriori a lui di quattro secoli: " Omero ed Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quello che tra gli uomini è biasimevole e indecoroso: furto, adulterio e inganni reciproci ". un passo anàåõfurto, adulterio e inganni reciproci ". Di qui, trae come conseguenza che gli uomini hanno creato gli dèi a loro immagine: " Se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani e potessero fare opere come gli uomini, dipingerebbero i corpi degli dèi sulla loro somiglanza ". Con questo, vogliamo dire che gli dèi del politeismo non sono fantasie capricciose e puerili, ma sono poteri reali. I1 potere umano ha bisogno di proiettare se stesso in un mondo superiore che giustifichi e legittimi le proprie deviazioni. Solo la fede in un Dio creatore sfugge alle conseguenze dell'antropomorfismo.
Nel caso contrario, si può ricordare un racconto cinese. Il contadino Wang Lu era disperato da una fame terribile. Andò allora nel piccolo tempio degli dèi del suo territorio, e tagliò decisamente il volto al piccolo dio inalterabile, seduto assieme alla sua dèa. Li trascura, non presenta più offerte e non si cura delle loro immagini. " Questo, dice, succede agli dèi che fannno cose cattive agli uomini ". Però, quando ritorna il bello, offre un po' d'incenso ai suoi dèi. " Tutto sommato, dice, hanno potere sulla terra ".
Per questo, quando i Greci colti e consapevoli vogliono liberarsi dal potere che li opprime, la prima cosa da risolvere è il culto di alcuni " dèi dal volto umano ". Euripide scriveva: " Un dio non ha bisogno di niente, se è veramente un dio ". Da questa denuncia del politeismo, si giunge o alla fede in un Dio creatore e trascendente, o all'Ateismo religioso, come avviene nel buddismo e nel bramanesimo. Perché, infatti, si dovrebbero adorare gli dèi? Dovunque si trovino il potere e l'uomo, sulla frontiera dell'umanità, sorge questa domanda, sia nell'antica Babilonia sia nel libro di Giobbe o nei tragici greci. Il potere non ha ragione per sé: bisogna dimostrarlo.
Nell'ambiente ebraico (che è quello che più ci interessa), vediamo che il popolo d'Israele, in un primo tempo della sua storia religiosa, adorava il proprio dio ? JHWH o Elohim ?, ritenendolo superiore agli dèi degli altri popoli, anche quelli più potenti. Si tratterebbe di un enoteismo (" religione del dio numero uno "). Tuttavia, si può dire che fin dal principio, la fede d'Israele è praticamente monoteista (" religione del Dio unico "). Mosè non fu un riformatore religioso sullo stile del faraone egiziano Amenofi IV che introdusse una nuova religione sopprimendo e perseguitando quella precedente. Il monoteismo * è differente anche dal movimento che in Babilonia aveva assicurato la supremazia al dio Marduk riducendo tutti gli altri dèi alla personificazione delle sue varie funzioni. Il problema dell'esistenza o della non esistenza di altri dèi era fuori dall'orizzonte immediato di Mosè: egli ebbe la rivelazione di un Dio che per sua forza e vitalità e per l'esigenza di sottomissione totale dei suoi adoratori non poteva praticamente lasciare spazio ad altri dèi accanto a lui. In seguito, i profeti purificarono la concezione di Dio portando il monoteismo alle sue più alte vette: JHWH non è soltanto il Dio d'Israele, ma il Dio di tutti i popoli e il creatore di tutto ciò che esiste. Con ciò, era impossibile che i poteri umani plasmassero a loro capriccio le figure divinizzate per giustificare con esse le loro fantasie e velleità, Dio relativizza ogni potere, ogni autorità e ogni sapienza. Egli è la migliore garanzia contro ogni tentativo di oppressione da parte dei potenti.
Nel NT, non c'è un'idea originale di Dio: si accetta pienamente il concetto dell'AT, soprattutto nella versione dei profeti e dei sapienti (libri sapienziali e apocalittici). Tuttavia, bisogna riconoscere che si sottolinea fortemente l'universalità di Dio: Israele cessa di essere il popolo eletto: all'" Israele secondo la carne " (Israele storico), succede l'" Israele secondo lo spirito " (il nuovo popolo di Dio senza frontiere etniche).
Questa fede in Dio, senza rinunciare minimamente al suo rigoroso monoteismo, si orienta verso una misteriosa pluralità all'interno dell'unico Dio (cf Trinità): Dio-Padre, Dio-Figlio, Dio-Spirito. E tutti questi paradossi culminano nel rapporto che unisce il Dio eterno con l'uomo Gesù. Proprio qui, nella relazione tra la dottrina del Dio unico e la cristologia, appare l'originalità della religione biblica. Questa originalità fu di un calibro tale che gli Ebrei giunsero a credere che il monoteismo fosse minacciato dall'insegnamento di Gesù Cristo. Però, dal vangelo di Marco e dai primi scritti di san Paolo fino all'Apocalisse di Giovanni, rimane fermo e rigido il vecchio monoteismo d'Israele, nonostante che a Gesù vengano attribuite esplicitamente le prerogative che l'AT dava a JHWH.
Lungo i secoli cristiani, la fede in Dio è stata posta in dubbio, ritenendola incompatibile con la fede nell'uomo. Però, fu soprattutto a partire dal Rinascimento del secolo XV,e successivamente, con l'Illuminismo del secolo XVIII, che l'antica fede in un solo Dio creatore, uno e trino, fu messa in dubbio per la sua presunta incompatibilità col progresso della mente e del potere dell'uomo. Questa lotta ha avuto la sua espressione massima nell' "ateismo militante ", professato da Karl Marx e dai suoi seguaci. Secondo loro, in un mondo dove l'uomo è re, non c'è posto per un dio che gli faccia competenza, soprattutto, se questo dio è invocato dalla classe dirigente per legittimare con ciò la sua oppressione sul proletariato. Questa comparsa dell'ateismo militante ha scosso le coscienze dei credenti, soprattutto dei cristiani e li ha costretti a riproporsi tutto il problema su Dio.
Oggi, i credenti non sono costretti come una volta a rendere razionale la loro dottrina su Dio. Piuttosto, si sentono spinti ad offrire una prassi che, essendo la conseguenza rigorosa della loro fede, implichi la liberazione dell'uomo di fronte a tutti i poteri che lo opprimono: politici, economici, culturali e perfino religiosi. Questo comporta logicamente una costante autocritica delle Chiese per potere in questo modo essere allo stesso livello di tutte le forze umane che si occupano e si preoccupano per migliorare l'umanità.
Bibl. - Finkenzeller J., Il problema di Dio. Il primo capitolo della teologia cristiana, Ed. Paoline, Cinisello B., 1986. Gogarten F., L'uomo tra Dio e mondo, Ed. dehoniane, Bologna, 1971. Mancini I., " Dio ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 306-336. Ramsey I.T., Parlare di Dio, Ed. Longanesi, Milano, 1970. Schillebeecks E., Dio e l'uomo, Ed. Paoline, Roma, .
J.M. González Ruiz
(inizio)Le diocesi sono i territori che sono affidati al governo dei vescovi. Di fatto, è un termine usato nel Diritto Canonico per designare la giurisdizione di un vescovo. Attualmente, il Nuovo Codice definisce le diocesi come chiese particolari (CIC 368), rinnovando la vecchia terminologia della Chiesa antica che identificava il concetto di chiesa locale o particolare con quello di diocesi. Tuttavia, nel Nuovo Codice, si parla anche della diocesi come della " porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale di un Vescovo " (CIC 369). Con questo, si prendono le distanze da una ecclesiologia universale di comunione e si conserva una visione giuridico-amministrativa da una prospettiva di monarchia papale. Storicamente, le diocesi erano divisioni amministrative dell'impero romano, e la Chiesa si adattò ad esse. In Spagna, si tende a identificare la diocesi con la " provincia " civile, eccetto alcune rare eccezioni dovute il più delle volte alla tradizione e alla storia. La conseguenza è che ci sono diocesi molto grandi ed altre molto piccole. Questo, inevitabilmente, pone problemi pastorali.
Un complesso di diocesi forma una archidiocesi o provincia ecclesiastica il cui titolare è quello della chiesa principale che riceve il titolo di arcivescovo. Anticamente, gli arcivescovi avevano una grande importanza, soprattutto nel Medioevo: godevano di una grande autorità ecclesiale ed avevano molte competenze nel coordinamento e nella interrelazione delle diocesi vicine, che poi passarono al Papa. Oggi, sta risorgendo una ecclesiologia di comunione e di collegialità episcopale che può rafforzare la coscienza ecclesiale delle diocesi e archidiocesi. Questa riscoperta comporta un maggior protagonismo dei ministri e dei laici nei compiti ecclesiali coi consigli e sinodi diocesani.
Bibl. - Sartori L., Introduzione generale, in: V. Bo ed altri (ed.), Dizionario di pastorale della comunità cristiana, Ed. Cittadella, Assisi, 1980. Soravito L., " Diocesi ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 213-215.
J.A. Estrada
(inizio)Il Vaticano II ha stabilito " che siano redatti dei Direttorî generali circa la cura delle anime, ad uso sia dei Vescovi, sia dei parroci, nell'intento di fornire loro forme e metodi per esercitare più adeguatamente e più facilmente il loro ministero pastorale " (CD 44). Sottolineò anche l'importanza di due direttorî pastorali: quello rivolto a " gruppi speciali di fedeli ", e quello destinato alla " istruzione catechistica del popolo ".
I direttorî di pastorale sono documenti redatti da qualche Congregazione romana o commissione di pastorale (continentale, nazionale o diocesana) e autorizzati dai vescovi che regolano, coordinano e stimolano un'attività concreta pastorale in tutta la Chiesa, in una nazione, in una regione o in una diocesi. I primi direttorî di pastorale, prima del Concilio, furono di natura liturgica o sacramentale. A partire dal Vaticano II, sono stati composti vari direttorî, tra i quali spicca il Directorium Catechisticum Generale, emanato dalla Congregazione del Clero (11.4.1971). Le Conferenze episcopali dei vari paesi hanno pubblicato anche dei direttori nazionali, a volte sotto il titolo di " orientamenti " o " direttive ".
I direttori di pastorale si propongono il fine di orientare il progetto e la realizzazione di un apostolato concreto, per mezzo della unificazione di criteri pratici, l'animazione dei responsabili, il rinnovamento delle coscienze ed il coordinamento delle iniziative. I contenuti dipendono dall'ambiente pastorale a cui è destinato il direttorio. Di solito, viene descritto il senso teologico e pastorale dell'attività apostolica che si intende regolamentare, si analizzano gli elementi più fondamentali, vengono tracciate le norme di attuazione e si indicano gli aspetti organizzativi e metodologici. Ciò a cui si mira, in ultima analisi, coi direttorî di pastorale, è l'unità di direzione.
Sono particolarmente necessari quei direttorî che corrispondono alla celebrazione liturgica, alla catechesi, alla predicazione, all'educazione religiosa a scuola, all'apostolato dei laici, all'impegno politico dei cristiani, ecc. Devono essere revisionati di quando in quando, per esempio, ogni dieci anni. È fondamentale che nella loro elaborazione intervengano, direttamente o indirettamente, tutti coloro che operano nel campo della pastorale concreta che si sta per trattare. È impegnativo per tutti quanto viene deciso e fatto da tutti.
Bibl. - Franchini E., " Pastorale in Italia ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 741750. Groppo G., " Direttorio catechistico generale ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1987, pp. 221-222.
C. Floristán
(inizio)L'espressione diritti umani si riferisce ad una categoria etico- giuridica che cerca di esprimere i valori fondamentali della persona umana e i diritti-doveri che ne derivano. Questi costituiscono i " diritti-doveri umani fondamentali ", cioè, i diritti e i doveri che ogni uomo ha per il solo fatto di essere uomo e ai quali non può mai rinunciare, in quanto non sorgono da una concessione sociale o politica, ma dalla sua stessa natura. La società non può fare altro che riconoscerli, sancirli, promuoverli, difenderli e garantirli a tutti e a ciascuno dei suoi membri. L'interpretazione adeguata di questa categoria può aiutare a definire le esigenze pratiche dell'etica sociale e permettere di rendere concreti i diritti-doveri fondamentali di carattere ecologico, biologico, spirituale, familiare, sociale, politico, economico, religioso, culturale, ecc.
Le formulazioni dei diritti umani costituiscono le manifestazioni storiche della coscienza etica dell'umanità. Di qui, la loro importanza, i loro limiti e le reticenze che di fronte a questo tema hanno potuto manifestare coloro che non le ritenevano espressioni valide della loro concezione sulla persona e sulla società. Per comprenderle in modo adeguato, è necessario tener presente: la loro forma letteraria (dichiarazioni, proclami, patti, lettere, protocolli, esposizioni); i valori a cui si riferiscono come a contenuti propri; il processo seguito per convertirli in ideali, criteri di comportamento e norme positive sui diritti-doveri umani fondamentali; la funzione etica e sociale che hanno svolto e che sono chiamati a svolgere ai giorni nostri; la loro attualità vigente negli ordinamienti giuridici e nella pratica della convivenza sociale e politica.
In tutto questo processo, occorre distinguere tre tappe principali. Nella prima, si sottolineano soprattutto (anche se non in modo esclusivo) i diritti umani attinenti alla persona umana considerata individualmente (cittadino): vita, integrità fisica, beni materiali, garanzie giuridiche, libertà personali; nella seconda, si pone l'accento sui fattori di carattere sociale: famiglia, lavoro, salario, alloggio, educazione, riposo, tempo libero, libertà sociali; nella terza, si tratta già di garantire i diritti e i doveri attinenti al loro significato per la persona umana e per la società: la natura, l'ambiente, la razza, il sesso, l'età, la salute, lo sviluppo, la cultura, la pace, il benessere, l'autodeterminazione dei popoli, ecc.
Queste tappe sono dovute allo sviluppo sperimentato nella coscienza sulla dignità della persona umana e sulle cause che possono nuocere ad essa. È stato decisivo anche l'influsso delle rivoluzioni (borghesi, liberali, sociali, culturali e moderne in genere) che cercarono di superarle.
Tra le formulazioni storiche più significative dei diritti umani, si sogliono indicare le seguenti: la Dichiarazione dell'indipendenza degli Stati Uniti d'America (1776); la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino da parte dell'Assemblea nazionale francese (1789); la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata e proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni unite (1948); la Dichiarazione dei diritti del fanciullo (ONU 1959); il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ONU 1966 e 1976); il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ONU 1966 e 1976), il Protocollo facoltativo del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ONU 1966 e 1976), la Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla eliminazione delle discriminazioni della donna (1976); la Carta dei diritti e doveri economici degli Stati (1976); la Convenzione dell'ONU contro la tortura e altri modi o castighi crudeli, inumani o degradanti (1987).
L'atteggiamento della Chiesa Cattolica di fronte alle formulazioni storiche dei diritti umani ha evoluto in modo parallelo al carattere delle stesse formulazioni, fino a culminare nell'enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963, nn. 45-46) e nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes (n. 41) del Concilio Vaticano II con la proclamazione esplicita dei valori fondamentali che sono supposti oggi dai diritti umani.
Tra le istituzioni che si preoccupano di promuovere la pratica di questi diritti-doveri, bisogna ricordare: Amnesty International (1961), la Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite (1966), e la Commissione Pontificia " Justitia et Pax " (1967).
Bibl. - Compagnoni F., " Diritti dell'uomo ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 218-227. Concetti G. (ed.), I diritti umani. Dottrina e prassi, Ed. AVE, Roma, 1982. Malizia G., " Diritti umani ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Ella Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 301-303.
F. Ferrero
(inizio)Discernimento è una parola che è diventata fortemente attuale. Forse in un modo o in un altro, non fu mai assente dalla prassi cristiana: " è viva nei vangeli, è oggetto di riflessione nelle lettere... " (J. Guillet). Il cristiano ne ha sempre sentito la necessità. Ciò nonostante, con la terminologia e con certe caratteristiche nuove, è un tema postconciliare. Nel 1973, apparve una tesi di laurea che aprì il cammino (G. Therrien), senza poter dare una bibliografia specializzata completa.
Il discernimento cristiano ha per obiettivo quello di scoprire la volontà di Dio per viverla. È, in altre parole, captare la voce di Dio in mezzo ad un coro di voci. Dove molti pensano di incontrare le loro forme di vedere, il discernimento cerca di penetrare nella verità. E questo, non per il prurito di contemplare la verità, ma per vivere questa verità scoperta o captata. Per questo, il discernimento è più nella linea dell'ortoprassi che in quella dell'ortodossia (E. Dussel).
La tradizione, forse più di tutti sant'Ignazio, ha parlato di discernimento degli spiriti. È quasi certo che la terminologia fosse l'occasione perché il contenuto del discernimento fosse dimensione interiore della vita cristiana. Senza negare l'importanza di questo aspetto, il discernimento ha allargato il campo: " Il discernimento cristiano deve estendersi oggi alla vita pubblica e comunitaria dei credenti, alle loro dimensioni politiche, e non restringersi fondamentalmente alla dimensione della cosiddetta "vita spirituale", o "vita interiore" delle anime pie " (E.M. Ureña). Per questo, si può parlare, con tutta esattezza, di discernimento e politica (J.B. Libanio).
Ci furono dei tempi in cui c'era poco da discernere. Tutto era già stato contemplato dalla legge. Se questa poi non aveva tenuto presente questa o quest'altra circostanza, ci pensava il superiore a farne le veci. Non rimaneva che obbedire. Questo valeva soprattutto per la vita religiosa, ma ciò si poteva dire anche dei cristiani impegnati in movimenti, ecc.
Per questo, nei gruppi più tradizionali, il discernimento è visto, ancora oggi, come non necessario. Non solo, ma è visto addirittura come una mancanza di fiducia nella chiaroveggenza del legislatore e del superiore: questi tengono il posto di Dio e perciò vedono sempre ciò che conviene fare da parte di chi ha promesso obbedienza. In questo senso, Il Cammino, il manuale non solo dell'Opus Dei, ma anche del tradizionalismo mascherato, è stato considerato come " l'annullamento del discernimento " (J.M. Castillo). A questo libro, se ne potrebbero aggiungere tanti altri.
La comunità cristiana entra per diritto proprio nel discernimento cristiano. Quando san Paolo dice: " Vagliate ogni cosa " (1 Ts 5,21), si rivolge alla comunità. È certo che lo stesso Paolo parla di un dono chiamato " il dono di discernere gli spiriti " (1 Cor 12,10). Sembra, però, che si riferisca unicamente al discernimento dell'origine dei fenomeni carismatici. Comunque, non sembra unito al dono della presidenza. Il discernimento va piuttosto messo in relazione con quanto dice Mt 18,20: " Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro ".
Il Concilio Vaticano II ha fatto un piccolo passo avanti in questo senso. Oltre a LG 12, che valorizza il compito di coloro che " presiedono " nel discernimento, occorre leggere anche GS 4, 11 e soprattutto 44, dove si afferma che " è dovere di tutto il Popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi... interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare... ". Nonostante il clericalismo del testo, è comunque un passo avanti che non va sottovalutato, come va anche tenuto presente il progresso di GS rispetto a LG.
Un atto di discernimento cristiano non va confuso con un atto di altra natura. Uniti, non contro. Non siamo di fronte ad un atto asettico. Siamo davanti ad uno dei punti chiave del vangelo vissuto.
La cosa prima e fondamentale è quella di riunirsi nel nome del Signore. Prendere consapevolezza della presenza e dell'azione dello Spirito in un gruppo di credenti è una cosa indispensabile. Lo Spirito è " lo Spirito della verità " (Gv 14,17).
Non si possono, però, nemmeno dimenticare i meccanismi umani di ogni riunione che cerca la verità. Probabilmente, questi fattori sono quelli che sono stati meno tenuti presenti, soprattutto nei gruppi più pii. Il fatto che il boom del discernimento abbia coinciso con la boccata d'ossigeno portata dal Concilio nel cristianesimo impedì che questi meccanismi umani venissero trascurati. Però, ciò nonostante, è probabile che non abbiano avuto tutta l'importanza che si sarebbero meritata. Forse non si poteva chiedere di più in quel punto concreto della vita della Chiesa.
Tra questi meccanismi, c'è da ricordare la preparazione della riunione (anche qui: riunione non preparata = riunione fallita). C'è una grande differenza dall'annuncio che è un invito sincero all'annuncio che è presentato quasi come una sfida. Poi, viene la celebrazione della riunione con una presenza democratica libera, sincera e coerente, dove sia possibile superare soprattutto le affinità affettive e i pregiudizi che sogliono ostacolare la libertà interiore. Infine, occorre accettare e appoggiare il risultato, cercando i mezzi adeguati per " sfruttare " questo risultato.
Senza riferimenti concreti, è impossibile un discernimento cristiano. GS 4 parla della " luce del vangelo ". Il vangelo è innanzitutto la persona di Gesù. La sequela di Cristo si presenta dunque come il criterio per antonomasia quando si tratta di discernere le situazioni vitali tanto personali quanto comunitarie.
Questo criterio non sembra contestato da nessuno. Ciò che è difficile, e che è una possibile occasione di dissenso, è una maggiore determinazione di questa sequela di Cristo. Probabilmente valgono questi due criteri di precisazione circa il fondamento indiscutibile di Gesù: primo, le tendenze cristologiche di un periodo determinato della storia. Sebbene anche queste siano plurali, e conviene che lo siano, è difficile negare che esistono tendenze storiche, di predominio storico. Negare che anche qui la voce del popolo sia la voce di Dio, potrebbe significare gettare sassi nella piccionaia. Secondo, bisogna badare ai carismi particolari: comunque siano questi carismi, sono " una manifestazione particolare dello Spirito per il bene " (1 Cor 12,7). Anche qui, si devono tenere presenti le necessità comuni, quelle prioritarie che un'epoca storica ha percepito o scoperto. Supponiamo, per esempio, la fame, la violenza, la disoccupazione, la droga, l'ingiustizia delle strutture... Che cos'è che non aiuta a superare queste piaghe?
Bibl. - Barruffo A., " Discernimento ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 419-430. Gay R.M., Vocazione e discernimento degli spiriti, Ed. Paoline, Roma, 1963. Gozzelino G., Al cospetto dì Dio. Elementi di teologia della vita spirituale, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 222-241. Pigna A., La vocazione. Teologia e discernimento, Ed. Teresianum, Roma, 1976. Rondet M., Formazione al discernimento spirituale personale e comunitario, Ed. Ancora, Milano, 1975. Thomae H., Dinamica della decisione umana, PAS-Verlag, Zurigo, 1964.
A. Guerra
Il bimbo umano è il più complesso dei cuccioli animali ed esige per questo un lungo periodo di educazione. Questo ha comportato da sempre la stabilità della coppia umana, soprattutto nel passato, quando, a causa della mortalità infantile e le scarse speranze che dava la vita umana, la coppia trascorreva praticamente la sua esistenza matrimoniale mettendo al mondo figli. Oggi, le circostanze sono in parte cambiate: l'amore coniugano è entrato in gioco specialmente come nucleo essenziale del matrimonio. L'amore esige intrinsecamente di essere un progetto per sempre. Un amore che già in partenza pretendesse di essere solo per un certo periodo di tempo non sarebbe amore vero. Senza alcun dubbio, il divorzio danneggia i figli, i coniugi e la società in genere, soprattutto quando il numero di divorzi aumenta notevolmente. Si impone perciò una coscientizzazione del popolo sui problemi suscitati dal divorzio e una preparazione dei giovani affinché le nuove generazioni si sposino liberamente, responsabilmente e con maturità. Il numero di conflitti coniugali è cresciuto enormemente. Le cause sono complesse. La vita matrimoniale dura più a lungo, la donna si è emancipata ed ha acquisito un'autonomia culturale ed economica. La società è diventata più permissiva in questo campo. La secolarizzazione ha tolto forza all'influsso del fattore religioso che insisteva enfaticamente sulla stabilità del matrimonio.
Tutto questo mette in rilievo l'importanza della pedagogia prematrimoniale e degli aiuti da offrire alle coppie in crisi. La società civile ritiene un male minore la regolamentazione giuridica del divorzio per i casi che sembrano insolubili. Oggi, si tende generalemente a non colpevolizzare nessuno giuridicamente e a considerare soprattutto il tempo in cui di fatto i coniugi sono stati separati e non appare possibile una riconciliazione: viene allora concesso il divorzio.
La Chiesa cattolica respinge il divorzio, ma accetta le dichiarazioni di nullità. Queste cause sono cresciute molto in questi ultimi anni, tenendo conto della mancanza di maturità, di libertà e di amore. Nel campo della pastorale ! dei divorziati, si tende ad un equilibrio in forza del quale, senza suonale le campane a distesa nell'occasione di divorzi, si fa comunque prevalere la benignità evangelica.
Bibl. - Aa.Vv., Il matrimonio oggi tra crisi e rinnovamento, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1980. Dalla Torre G., " Divorzio civile ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 236-246. Tettamanzi D., La pastorale della Chiesa verso le situazioni matrimoniali non regolari, Ed. Regalità, Milano, 1979.
A. Hortelano
(inizio)La parola dogma deriva dal verbo greco dokèin, il cui significato è duplice: a) credere, essere del parere; b) decidere. Ciò diede origine a due sensi nell'antichità: sul piano filosofico, opinione dottrinale di una scuola filosofica o di un filosofo; sul piano politico: ordine, decreto, disposizione dettata dall'autorità legittima.
Nel NT, si usa, alle volte per riferirsi ad un editto imperiale (Lc 2,1; At 17,7); altre volte, come nel caso degli scritti paolini, per indicare la legge dell 'AT (Ef 2,15; Col 2,14). Gli Atti degli Apostoli usano dògmata e la forma èdoke da dokèin per riferirsi alle decisioni prese dagli Apostoli riuniti in concilio a Gerusalemme (At 15,22.25.28; 16,4).
I Padri apostolici applicano il termine all'insegnamento di Gesù e degli Apostoli e alla dottrina rivelata del vangelo. Il dogma viene a designare l'obbligatorietà delle parole di Gesù nella prassi dei cristiani.
Con la parola dogmata, la patristica posteriore si riferisce anche, e in varie occasioni, ad una dottrina falsa, ad una eresia. Dogma non significa, pertanto, la dottrina cattolica ufficiale, ma qualsiasi tipo di dottrina. Fra l'ambiguità e l'imprecisione in cui si muove l'uso del termine lungo tutto il Medioevo, va ricordato il significato particolare dato da san Vincenzo di Lérins e sarà quello che finirà per imporsi in seguito.
Secondo lui, il dogma è la dottrina della fede della Chiesa, arrivando ad equiparare rivelazione e deposito della fede. A partire dal Concilio di Trento e nella linea di Vincenzo di Lérins, con la parola dogma, si pone l'accento sulla certezza oggettiva della rivelazione con scapitò del contenuto e della situazione personale della fede.
Nei tre secoli successivi, si andrà fissando con maggior precisione tutto ciò che si riferisce alla competenza del Magistero nella definizione dei dogmi, il suo carattere vincolante e il doveroso rispetto. Così, avviene un processo restrittivo del dogma, il cui punto culminante è la Costituzione Dei Filius, del Concilio Vaticano I, dove si afferma: " Sono poi da credersi con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio scritta o trasmessa per tradizione, e che la Chiesa, sia con solenne giudizio, sia con magistero ordinario e universale, propone da credersi come divinamente rivelate " (DS 3011).
Teologi come Rahner, Lehmann, Kasper e altri ritengono che la comprensione del dogma, come appare nel Vaticano I, non raccoglie " nemmeno " (Kasper) la ricchezza e complessità che aveva questo termine nel Medioevo; pone eccessivamente l'accento sull'elemento formale dell'autorità, trascurando altri elementi ugualmente importanti e costitutivi del dogma.
Il fatto stesso dell'esistenza di dogmi nel cristianesimo è stato oggetto di forti critiche da diverse parti. Così, per esempio; la riforma protestante, che fa della Scrittura la fonte e la norma di ogni dottrina e autorità; la ragione illuminista, che dà il suo assenso intellettuale e vitale solo a ciò che la ragione ha esaminato, valutato e riconosciuto come accettabile; l'esegesi positivista, che si propone di liberare il NT dai suoi presupposti dogmatici e di identificare il Gesù della storia, spogliandolo del suo involucro dogmatico; la teologia liberale, che ritiene il dogma " un'opera della mente greca sulla base del vangelo " (Harnack); la teologia modernista, secondo cui i dogmi sono il prodotto di una lunga evoluzione; la filosofia del linguaggio, per cui i dogmi, o sono privi di senso, o sono sprovvisti di un carattere conoscitivo.
I dogmi costituiscono un ostacolo, molte volte difficile da salvare, per giungere fino al vangelo. C'è una tendenza, che si può notare anche tra i credenti, a vedere un abisso profondo tra la buona e lieta notizia della libertà dei figli di Dio e il dogma cristiano. L'esistenza dei dogmi e la loro recezione incondizionata da parte di tutti i credenti ricordano spesso fenomeni poco piacevoli come l'inquisizione, i roghi, l'indice de, libri proibiti, l'opposizione e la resistenza della Chiesa ai progressi della scienza quando questi entravano in conflitto con la visione cristiana del mondo, gli attentati ecclesiastici contro la libertà di coscienza, di pensiero, di indagine e di espressione.
Due sono i problemi che la teologia si pone nei riguardi dei dogmi: la loro evoluzione e la loro ermeneutica. Riguardo all'evoluzione dei dogmi, ecco alcune domande che esigono una risposta: si può parlare di una vera evoluzione dottrinale nel cristianesimo, in modo simile a come si parla di evoluzione nei campi della scienza e del pensiero? C'è coincidenza e continuità tra la rivelazione originaria e i dogmi posteriori? Aggiungono qualcosa di nuovo i dogmi al contenuto costitutivo della fede fissato nell'età apostolica?
La distanza temporale e socio-culturale tra l'epoca in cui si formularono i dogmi e le epoche posteriori impone in maniera categorica la necessità di giungere ad una interpretazione che consenta di scoprire il significato dei dogmi in ogni situazione storica e distinguere adeguatamente il nucleo immutabile ed infallibile dallo schema mutabile in cui fu espresso. Conviene tener presente, a questo riguardo, che gli interventi del Magistero ecclesiastico sono spesso " regolamentazioni del linguaggio ", come ha fatto notare Rahner. Occorre quindi badare più all'intenzione che alle formulazioni letterarie.
Una teologia e una catechesi che vogliano essere fedeli alla tradizione viva della Chiesa ed essere attente ai segni dei tempi, sono alle prese con questa sfida: " Mostrare i dogmi non solo come formalmente obbligatori, ma anche come pieni di senso in sé, illuminanti per l'uomo e realizzabili per la fede nel mondo d'oggi " (Kasper). È una sfida tutt'altro che facile, e, d'altra parte, irrinunciabile.
Bibl. - Congar Y., La fede e la teologia, Roma, l967. Forte B., La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1987. Kasper W., Il dogma sotto la Parola di Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 1968. Mansini Guy F., " Dogma ", in: Dizionario di Teologia Fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, l990, pp. 343-353. Rahner K. - Lehmann K., Kerigma e dogma, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, 2, Ed. Queriniana, Brescia, 1968, pp. 166-269. Ratzinger J., Storia e dogma, Milano, 1971.
J.J. Tamayo
(inizio)Il dolore, inteso come malessere personale, si riflette sul volto e sulla vita. Rughe di dolore e curve di tragedie parlano più delle parole e degli spasimi per quanti vivono fuori da queste situazioni dolorose. Può recare dolore anche chi, magari con retta intenzione, pensa di sollevare il dolore altrui manifestando il suo. D'altra parte, la mancanza di dolore non è un segno di vita, ma di non-solidarietà. Se, infatti, uno non soffre, ciò si deve non solo al fatto che non patisce, ma anche al fatto che non compatisce.
Ci sono sempre dei " consolatori importuni " (G. Gutiérrez), disposti a spiegare il dolore altrui, non il loro, ricorrendo a cause tradizionali che cercano la radice del dolore fuori della storia, in un misterioso destino che indica la croce come voluta da Dio per la purificazione della storia. Questa visuale, che era quella dei compagni ed amici di Giobbe (antichi e moderni) fu allora smentita da JHWJ e oggi, dalle persone normali.
Questi consolatori importuni dimenticano che la radice del dolore umano non può essere cercata fuori della vita e della storia. C'è qui una risposta che, se non è completa, (questa è molto difficile), ha, almeno molto a vedere con la realtà. Il dolore non è una questione di fatalismo, ma di forze storiche. Per questo, è necessario combatterlo, nella misura del possibile. Chi lo combatte afferma con ciò stesso la possibilità di superarlo. Se non fa così, si limita a sopportarlo.
È stato detto che " il male non esiste per essere compreso, ma per essere combattuto " (L. Boff). Questa espressione indica in modo molto sensibile la predilezione per l'ortoprassi sull'ortodossia.
Guardando il mondo più normale della realtà, questa affermazione si impone senza difficoltà, almeno pensiamo. Colui che soffre vuole la comprensione della sua sofferenza solo come mezzo per superarla.
La lotta nelle sue varie incarnazioni è il superamento della rassegnazione, di una falsa mistica della croce, di un fatalismo alle volte masochista e della indifferenza ammantata dell'immutabilità greca (una delle piaghe più nefaste della spiritualità.
La croce di Gesù è un buon simbolo incarnato del dolore umano. C'è chi ha detto che la sofferenza si è fatta mistero in Giobbe e redenzione in Gesù (H. Küng). A noi adesso interessa soltanto stabilire un rapporto intimo tra dolore e croce.
La croce di Gesù, come simbolo e spiegazione del dolore umano, è cambiata, come è cambiata la teologia della croce e la teologia del dolore di Dio. La prima scoperta è stata questa: che Dio si rivela anche sulla croce (e non solo nella gloria) e che il dolore è una dimensione di Dio.
Queste varie teologie manifestano dove stanno fondamentalmente le cause che portano alla croce, alla sofferenza, all'atteggiamento compassionevole di Dio di fronte a colui che soffre nella condanna di queste cause della croce. Il dono supremo della risurrezione è la parola definitiva del superamento della croce, e, forse soprattutto, della condanna delle cause che originano ed infliggono la croce.
Sarebbe un errore grave, od una grande ingenuità, pensare che la lotta e la teologia riusciranno a superare il dolore o almeno a renderlo amabile. No. Il dolore continuerà ad esistere, ed il cristiano, appunto perché tale, continuerà a soffrire.
Primo, perché lo stesso concetto di lotta comporta sofferenza. Costatare la resistenza alla verità e alla giustizia, porre barriere ed impugnare armi è doloroso per una mente nobile. Soprattutto se questo non è un semplice concetto, ma un'incarnazione nella persecuzione e nella morte dei combattenti. Combattere il dolore non è così semplice come potrebbe pensare qualcuno.
Secondo, perché la prassi è caparbia. Chi parte dalla statistica (quantificazione incorruttibile della prassi) per vedere se la lotta continua ad essere necessaria, non può ignorare che i numeri di coloro che soffrono crescono come un torrente. Non sempre si combatte guadagnando terreno. Bisogna confessare che spesso aumenta la famiglia e cresce il dolore.
Terzo, la storia è non solo plurale, ma è plurale dogmaticamente. Ci sono convinzioni dogmatiche, oggettivamente dense di vita, che causano sofferenze enormi. Questa è forse la più grande sofferenza: sapere e sperimentare che non si tratta di combattere il dolore, questo è logico, ma c'è da soffrirlo, perché la croce continua ad essere presente, quasi inalterabile ed inamovibile, mentre la vediamo crescere ed assumere forme criminali. Noi non possiamo dire molto di più sul dolore. Speriamo che un giorno il Signore della vita e della risurrezione ci farà vedere tutto questo mondo e ci spiegherà i suoi meccanismi. Di più: mentre cerchiamo già qui l'ortoprassi, speriamo di poter vivere questa promessa fatta realtà: " E non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate " (Ap 21,4).
Bibl. - Bernard C.A., Sofferenza, malattia, morte e vita cristiana, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. Galot J., Perché la sofferenza?, Ed. Ancora, Milano, 1986. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica " Il valore salvifico del dolore ", 11.2.1984 Martina C.M., Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Ed. Piemme, Casale M., 1990. Serentha' M., Sofferenza umana. Itinerario di fede alla luce della Trinità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1993.
A. Guerra
(inizio)Nonostante che l'unità fondamentale del tempo, il giorno, sia di origine solare, l'ordinamento primitivo del tempo procede dalla luna. Gli antichi osservarono che dal novilunio o luna piena fino al suo oscuramento o scomparsa, trascorrevano 28 o 29 giorni con quattro fasi. Ogni fase, di sette giorni o una settimana, è di origine antichissima, indoiraniana o sumero-babilonese. Probabilmente a Ur di Caldea, patria di Abramo, c'era una religione lunare. La settimana ebraica di sette giorni e il sabato come giorno di riposo e di culto, sono antichi. Per fondare su base teologica il sabato, che esisteva già, si afferma nel Genesi che Dio creò il mondo in sei giorni e che al settimo, si riposò. Il riposo sabatico fu stipulato affinché i lavoratori (e gli schiavi, se c'erano) avessero un giorno libero, di riposo e di liberazione. Il culto significava dedicare quel giorno a JHWH. D'altra parte, nell'antichità greca e romana, si conoscevano i nomi di sette pianeti o satelliti della terra, ritenuta il centro dell'universo. Questi sette nomi erano nomi di dèi e vennero applicati ai giorni della settimana a cominciare dal secolo III a.C. Saturno, giorno di riposo, fu chiamato sàbat dai rabbini ebrei.
La settimana cristiana è sorta dalla settimana ebraica e da quella pagana. Comincia con la domenica, chiamata dal Concilio Vaticano II " la festa primordiale " dei cristiani (SC 106). Si fonda sulla " tradizione apostolica, che ha origine dallo stesso giorno della Risurrezione del Signore " (SC 106). I vangeli chiamano la domenica " il primo giorno della settimana, secondo il calcolo ebraico. La parola domenica deriva dal latino " dies dominica " (giorno del Signore. Dominus = Signore). Nelle lingue slave e anglosassoni, si chiama: " giorno del sole " (Sunday, in inglese; Sonntag, in tedeschi. È, dunque, il giorno della risurrezione di Cristo.
Fin dal principio, fu anche il giorno di raduno della comunità cristiana per celebrare il Signore mediante la Cena fraterna, l'eucaristia, la riconciliazione e la condivisione dei beni. Un gruppo sociale prende consapevolezza di sé e perdura se si riunisce periodicamente. Così fecero i cristiani la domenica. L'Eucaristia è dunque l'obiettivo centrale della domenica, anche se non è l'unico. Oltre ad essere giorno di assemblea o comunitario, la domenica è giorno di riposo. Ricordiamo che il sabato ebraico era giorno di riposo. Gesù guarisce di sabato, ma dice che quel giorno è giorno di riposo, non di lavoro; è giorno di liberazione e di guarigione, non di schiavitù. Nel proclamare di sabato, nella sinagoga di Nazaret, un programma di liberazione, Gesù compie un gesto di dimensione profetica.
Oggi, la domenica è giorno di riposo, giorno della famiglia, di festeggiamenti, di trattenimenti e di svaghi. Il suo carattere religioso, con la secolarizzazione della società, scompare a poco a poco. Per certi cristiani, la domenica è il giorno dell'adempimento di un rito religioso (andare a messa), con la difficoltà di praticarlo nel luogo solito per gli spostamenti di fine settimana. Non dimentichiamo che ciò che importa di più non è tanto la domenica, quanto la comunità che si riunisce quel giorno. Ora, il tempo della domenica si è esteso di fatto al fine settimana.
Non è facile far ricuperare ai cristiani d'oggi il senso della domenica. È possibile soltanto con una vita di comunità, riscoprendo la gioia di celebrare coi fratelli l'Eucaristia e la festa.
Bibl. - Aa.Vv., Domenica, il signore dei giorni, CAL, Roma, 1980. Brandolini L., " Domenica ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 378-395. CEI, Eucaristia, comunione e comunità. Documento pastorale, Roma, 22.5.1983. Idem, Il giorno del Signore. Nota pastorale, Roma, 11.5.1984. Magrassi M., Vivere la Liturgia, Ed. La Scala, Noci, 1978, pp. 435-462. Sodi M., " Domenica ", in: Dizionario di Pastorale giovanile, Ed. Elle di Ci, Leumann (Torino), 1989, pp. 238-241.
C. Floristán
(inizio)Si chiama dottore chi ha la capacità di insegnare questa gli è riconosciuta ufficialmente (dal latino: docere).
Nell'antichità ebraica, c'era il " dottore della legge " che aveva un triplice compito: stabilire e conservare il diritto; insegnare e formare scuole di giuristi; interpretare e applicare la legge nell'ambito giudiziario.
Nel NT, appare il titolo di dottore (didàskalos) nelle tre liste in cui san Paolo elenca le funzioni ecclesiastiche. In seguito, nel periodo patristico, " dottore " ha il significato di maestro e si trova negli elenchi dove si distinguono i gradi gerarchici, senza designare un ordine propriamente detto. Presto, si ammise che, nella Chiesa, i vescovi erano i dottori per eccellenza. Questa concezione passò nel Decreto di Graziano (1140). Nello stesso secolo XII, anche i maestri in teologia e in diritto canonico furono chiamati dottori. I più rappresentativi furono distinti con qualifiche che la storia ha conservato e che tendono ad esprimere sia il carattere del loro metodo, sia la qualità essenziale del loro talento o della stima singolare che godettero. Così, san Bernardo era il doctor mellifluus, san Bonaventura, il seraphicus, sant'Alberto Magno, l'universalis, san Tommaso d'Aquino l'angelicus e il communis, Raimondo Lullo, l'illuminatus...
Il titolo di dottore della Chiesa è dato ufficialmente agli scrittori ecclesiastici che si sono distinti per la santità di vita, per la purezza nell'ortodossia e per la qualità della loro scienza. I dottori si distinguono dai Padri della Chiesa , anche se i due titoli coincidono in molti dei personaggi che vissero nei primi secoli. I dottori costituiscono con i Padri due varianti, simili, ma differenti, di testimoni della dottrina. I loro scritti sono documenti della tradizione. Però, va osservato che all'espressione della credenza comune si mescola una parte di pensiero personale: non ogni parola di un dottore della Chiesa è parola della Chiesa. Spetta allo storico dei dogmi e della teologia discernere ciò che è un'opinione personale o una infiltrazione di correnti ideologiche non tradizionali.
Bibl. - Drago M. - Boroli A. (dir.), Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 252-253.
E. Vilanova
(inizio)Droga è qualsiasi sostanza psicoattiva che viene consumata furori da una corretta ordinazione medica. Il fine principale è quello di modificare il comportamento e l'apprezzamento dell'ambiente circostante. Esistono vari tipi di droga: gli allucinogeni, come l'LSD (Lisergic Synthetic Dietilamide) e i derivati del cannabis (hashish, marijuana, grifa); stimolanti, come la cocaina e le anfetamine; ipnotici, come l'alcool, i barbiturici gli oppiacei (oppio, morfina, eroina), ecc. Le droghe producono effetti secondari fortemente nocivi. Inoltre, le overdosi sono sempre pericolose, e in alcuni casi (ipnotici), possono causare la morte.
Quasi tutte le droghe arrivano a creare una dipendenza psichica, cioè, la sensazione di non poterne fare a meno. Le più pericolose, come i derivati dell'oppio, sono quelle che producono anche una dipendenza fisica (impossibilità di abbandonarle per gli sconvolgimenti organici che vengono a prodursi quando il corpo si è assuefato ad esse) e una tolleranza (la necessità di aumentare progressivamente la dose per ottenere gli stessi effetti). Generalmente, la vendita di droghe è vietata, ma esistono alcune eccezioni (alcool, tabacco, caffè). Questo differente trattamento tra alcune droghe ed altre non è sempre in funzione della loro maggiore o minore pericolosità: influiscono le abitudini di ogni società e gli interessi economici.
In Spagna, il consumo di droghe fuori legge prese l'avvio verso la fine degli anni '70 e da allora, non ha cessato di crescere. Secondo dati del 1986 del Piano Nazionale sulle Droghe, il numero di cocainomani oscilla tra 60.000 e 80.000; quello di eroinomani, tra 80.000 e 125.000; i consumatori dei vari derivati del cannabis sono tra 1.200.000 e 1.500.000. La spesa giornaliera dei consumatori supera i 1.400 milioni di pesetas.
Esiste una certa correlazione tra la delinquenza e la tossicomania. Anche quando molte droghe riducono o addirittura sopprimono i controlli dell'individuo, non è dimostrato che i delitti derivino direttamente da ciò. Però, esiste una relazione di tipo funzionale tra il consumo di quelle droghe che generano dipendenza fisica e delitti compiuti col fine di ottenere la somma necessaria ed evitare la sindrome di astinenza.
Nella lotta contro la tossicomania, i provvedimenti di carattere penale non possono essere gli unici e nemmeno i più efficaci. È importante un'azione preventiva che, mediante un'attività pedagogico-informativa, riduca il consumo di droga. È anche necessario disporre di mezzi di trattamento che non si limitino alla disintossicazione (cosa relativamente facile), ma che affrontino il problema della ricostruzione della personalità del drogato e la sua integrazione sociale. Quest'ultimo aspetto è molto più difficile, perché esige cambiamenti non solo nel drogato, ma anche nella stessa società. Infatti, l'ostilità che la società di oggi suscita in molti giovani e la sua mancanza di orizzonti è una delle cause che li porta alla droga come una forma di evasione dalla realtà. Il comportamento della società attuale, anche se forse non se ne rende conto, comporta una contestazione di carattere sociale e politico.
Bibl. - Balloni A., Crimini e droga, Cluebb, Bologna, 1983. Barbero Avanzini B., Droga, giovani e società, Ed. Il Mulino, Bologna, 1981. Brunetta G., Giovani e droga, Milano, 1979. Butturini E. - Andreoli V., Giovani, droga e rapporto educativo, Verona, 1979. De Caro G., Tossicomanie nella società moderna, Torino, 1980. Rossi L., " Droga ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 246-254. Varenne G., L'abuso delle droghe, Ed. Paoline, .
L. González-Carvajal
L'ecclesiologia è quella parte della teologia sistematica che riflette sulla Chiesa. Tradizionalmente, era un trattato che era diviso tra la teologia fondamentale o apologetica, destinato a dimostrare l'origine divina della Chiesa e le " note " costitutive della sua autenticità, e la teologia dogmatica che comprendeva le proposizioni fondamentali sulla Chiesa, ne presentava l'essenza e la metteva in relazione con gli altri trattati dogmatici (cristologia, pneumatologia, rivelazione, ecc.). Oggi, si tende ad un unico trattato di ecclesiologia che raccolga tutti questi aspetti e presenti una visione sistematica globale.
A partire dal Vaticano II, si è prodotto un grande rinnovamento del trattato di ecclesiologia, sia a livello metodologico, sia nei contenuti. Dal punto di vista metodologico, il fatto più innovatore è stato lo sviluppo di una concezione storico-salvifica, propria dello stesso Concilio: parte dalla Scrittura, analizza l'evoluzione avvenuta nella storia e nella tradizione, e conclude con una riflessione sistematica sui problemi d'oggi. Questa sottolineatura evolutiva obbedisce alla rivalorizzazione delle fonti teologiche (Scrittura e Tradizione), all'introduzione del metodo storico-critico, alla rivalorizzazione delle scienze storiche e sociali, alla riscoperta dello sviluppo dogmatico e alla necessità di riformulare i dogmi e riformare (aggiornamento) le istituzioni. Questa accentuazione sposta la riflessione teologica dalla categoria dell'essere a quella del divenire e suppone l'abbandono del metodo scolastico (elaborato in forma di tesi con avversari e prove ricavate dalla Scrittura e dalla tradizione, ma fuori dal loro contesto storico): non è la Scrittura che deve confermare il dogma, ma è il dogma che deve essere compreso come spiegazione e interpretazione della Scrittura in un dato momento storico.
Dal punto di vista dei contenuti, ci sono stati anche qui cambiamenti significativi. Il rinnovamento più importante è consistito nel partire da una concezione della Chiesa come mistero di fede che si esplicita in definizioni ecclesiologiche con radici della Bibbia e della tradizione, privilegiando il concetto di Popolo di Dio (capitolo II della LG) come quello che esprime meglio la continuità e la discontinuità storicosalvifica della Chiesa. Viene così abbandonata l'ecclesiologia societaria, giuridica, istituzionale e razionalista propria dell'epoca pre-conciliare e si pone fine alla gerarcologia che tende a identificare la Chiesa con la gerarchia. Questa nuova impostazione è più missionaria (la Chiesa è in funzione dell'estensione del Regno di Dio) e più rispettosa dell'autonomia delle realtà temporali (la Chiesa è nel mondo e occupa un posto nella storia profana, nel cui interno si realizza la storia salvifica). Con questo, si pone fine all'ecclesiocentrismo di epoche precedenti, che tendeva a identificare la Chiesa con il Regno. Si pone fine anche al carattere negativo e pessimista del rapporto con il mondo (condanna del mondo e dell'evoluzione storica: anti-liberalismo, anti-illuminismo, anti- modernismo, ecc.). Anche l'escatologia ha influito sull'ecclesiologia: si passa da una prospettiva ultramondana e di oltretomba, che facilmente degenera in uno spiritualismo disincarnato, ad una concezione messianico-profetica del compito della Chiesa nel mondo e nella storia.
Oggi, assistiamo ad un interesse crescente per la pneumatologia, superando un cristomonismo senza pneuma. Si sviluppa il dialogo ecumenico che pone fine alla teologia delle controversie. C'è una rivalutazione del laicato e della collegialità episcopale nel contesto di una ecclesiologia di comunione. Queste linee tracciano il futuro del trattato.
Bibl. - Aa.Vv. Mysterium Salutis, 7, " L'evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo ", Ed. Queriniana, Brescia, 1972. Aa.Vv., La Chiesa del Vaticano II (a cura di G. Barauna), Ed. Vallecchi, Firenze, 1965. Aa.Vv., L'ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, Ed. La Scuola, Brescia, 1973. Antón A., Ecclesiologia post-conciliare: speranza, risultati e prospettive, in: R. Latourelle (cur.), Vaticano II, bilancio e prospettive, Ed. Cittadella, Assisi, pp. 361-388. Forte B., La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995.
J.A. Estrada
(inizio)L'ecologia è un termine che è stato creato nel 1868 da E. Hacckel per designare la scienza che studia i rapporti esistenti tra gli organismi vivi ed il loro ambiente. La civiltà industriale che comprende sia i paesi capitalisti che quelli socialisti, sta distruggendo gli ecosistemi della terra come conseguenza delle risorse che sottrae loro e degli elementi inquinanti che vi introduce. Si calcola, per esempio, che al ritmo attuale del consumo, le riserve di gas naturale potrebbero esaurirsi fra 35 anni, quelle di petrolio, fra 70 e quelle di carbone, fra 500. D'altra parte, anche qualora non aumentasse il consumo di minerali, fra meno di cento anni saranno esaurite le riserve di 10 fra i 16 minerali più importanti. Riguardo all'inquinamento, bisogna sapere che la nostra ecosfera non produce neanche una molecola per cui non esista un enzima capace di scomporla, ma non è lo stesso per la maggioranza dei cinquecento mila prodotti sintetici fabbricati dall'uomo, i cui residui sono molto difficili da eliminare (sono state trovate tracce del pericoloso DDT anche nelle uova di pinguino dell'Antartide).
La famosa relazione su I limiti della crescita, presentata al Club di Roma nel 1972, giungeva a concludere che la vita potrebbe estinguersi nel secolo prossimo se non saranno presi mezzi radicali. Indubbiamente, si possono discutere i particolari di questa relazione, ma non la tesi di fondo: un aumento indefinito non può mantenersi in un pianeta finito. Questo è il quid della dottrina ecologica. Ora, se non è possibile sostenere una crescita indefinita, molto meno sarà possibile sostenere una crescita, oltre che indefinita, esponenziale.
Alcuni autori hanno ritenuto colpevole il cristianesimo per la crisi ecologica, per avere presentato come volontà di Dio il dominio sulla natura da parte dell'uomo e lo hanno contrapposto al rispetto che le religioni orientali, dalla tendenza più contemplativa, nutrono verso il creato. Si tratta qui di un malinteso: l'uomo, a cui Gen 1,28 affida il dominio sull'intero creato, non ha diritto a comportarsi come un despota. Il contesto mostra chiaramente che solo Dio è Signore e che Egli ha fornito la creazione di alcune leggi che l'uomo deve rispettare alla pari delle altre creature.
Il fatto è che di fronte alla gravità della situazione non è possibile né chiudere gli occhi né continuare a confidare nelle cosiddette " soluzioni tecniche ", cioè, quelle che attendono la salvezza da nuove scoperte scientifiche e non esigono di modificare i valori dell'umanità. Questa reazione può facilmente diventare una " fuga verso l'avanti " (di fatto, di fronte all'esaurimento dei combustibili fossili, siamo passati all'energia nucleare di fissione; per non avere il problema dei residui radioattivi, si parla già di passare all'energia nucleare fusione...). Una umanità dotata di un potere enorme e di scarsa sapienza potrebbe avviarsi verso alternative veramente estreme. A nostro parere, l'unica soluzione sensata consisterebbe in un cambio in profondità del sistema imperante dei valori. Sarebbe necessario aprire un grande dibattito interdisciplinare tra economisti, scienziati, psicologi, sociologi, filosofi e teologi su quali debbano essere i valori imperanti in una società capace di sopravvivere.
Bibl. - Aa.Vv., L'uomo e l'ambiente. Un'inchiesta internazionale, Ed. Tamburini, Milano, 1971. Giovanni Paolo II, Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, Esortazione apostolica, 8.12.1989. Gusdorf G., Introduzione alle scienze umane, Ed. Il Mulino, Bologna, 1972. Lenoble R., Storia dell'idea di natura, Ed. Guida, Napoli, 1975. Morin E., Il paradigma perduto: la natura umana, Ed. Bompiani, Milano, 1974. Musmarra A., Princìpi di ecologia, Ed. Calderini, Bologna, 1971. Spinsanti S., " Ecologia ", in: Nuovo Dizionario di spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 440-460.
L. González-Carvajal
(inizio)Per ecumenismo, si intendono gli sforzi delle Chiese cristiane per ristabilire l'unità perduta, sia a livello dottrinale che nella prassi ecclesiale. Come movimento, l'ecumenismo è sorto nel secolo XX partendo dalle Chiese e confessioni protestanti che nel 1938 formarono il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nel 1948, si tenne la prima assemblea del Consiglio con la presenza di 150 Chiese e confessioni cristiane; mancavano le Chiese ortodosse e la Chiesa cattolica. I cattolici avevano nel movimento ecumenico una partecipazione molto limitata per una comprensione negativa dell'ecumenismo: c'era il pericolo di un riconoscimento esplicito o implicito del carattere ecclesiale delle altre confessioni. Si manteneva la tesi che la Chiesa cattolica era l'unica Chiesa vera e che fuori di essa, non c'era la Chiesa di Cristo, ma tutt'al più dei frammenti ecclesiali. Pertanto, si esigeva il ritorno degli eretici alla unica Chiesa (quella cattolica), e si diffidava dei teologi cattolici più aperti all'ecumenismo, per lo più francesi e tedeschi.
Una nuova epoca cominciò con Giovanni XXIII e con la creazione di un segretariato per l'Unità dei Cristiani (1960), come anche col decreto del Concilio Vaticano II sull'ecumenismo e col riconoscere come autentiche le Chiese orientali (UR 14-15), mentre le confessioni protestanti venivano chiamate " comunità ecclesiali " (UR 19). Inoltre, il Concilio modificò l'equiparazione tra Chiesa di Cristo e Chiesa Cattolica: preferì affermare che " l'unica Chiesa di Cristo... sussiste nella Chiesa cattolica " (LG 8). Con questa espressione, si lasciava un largo margine ai vari gradi di ecclesialità delle confessioni cristiane e pertanto ad una pluralità di vincoli di comunione tra di loro. Il riconoscimento di sacramenti e di ministeri autentici fuori della Chiesa cattolica permetteva una nuova impostazione dell'ecumenismo.
Da una prospettiva teologica, va messo in risalto la fine di una teologia di controversie (che accentuava gli aspetti differenti) e lo sviluppo progressivo di una teologia di convergenze: è più importante quello che ci unisce di quello che ci divide; si tratta di fratelli nella fede, anche se sono separati. Come fatti significativi, va sottolineata la possibilità dell'inter-comunione con le Chiese orientali, la presenza cattolica nel Consiglio ecumenico delle Chiese (sia pure con una integrazione non piena), l'aumento crescente di matrimoni misti interconfessionali e i frequenti dialoghi e incontri di commissioni delle varie Chiese e di teologi. Si è diffusa anche la Settimana di preghiere per l'unità delle Chiese. La dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa ha reso possibile un clima più ampio di dialogo e di apertura e ha delegittimato teologicamente quegli Stati confessionali che impediscono la pluralità religiosa.
Rimangono tuttavia delle differenze che ostacolano l'unione. Con le Chiese orientali, l'ostacolo maggiore sta nella diversa concezione circa il primato del Papa e del suo compito nella Chiesa universale. Coi protestanti, ci sono altre divergenze: il problema dei ministeri e della successione apostolica; una diversa interpretazione dei sacramenti, sia per quanto concerne il loro valore salvifico, sia nel determinarne il numero; la mancanza di consenso sul rapporto tra la Scrittura e la Tradizione; ecc. Oggi, c'è anche chi deplora un certo ristagno ecumenico in certi settori della Chiesa. Comunque, il movimento ecumenico continua. Al livello di teologi e di commissioni interconfessionali, si stanno raggiungendo risultati importanti che rendono possibili nuovi orizzonti per l'unità. Bisogna ora che questi accordi teologici ottengano un ricevimento ecclesiale e vengano tradotti nella vita delle Chiese.
Bibl. - Congar Y.M., Dizionario ecumenico, Ed. Cittadella, Assisi, 1974. Neuner P., Breve manuale dell'ecumene, Brescia, 1986. Pattaro G., Corso di teologia dell'ecumenismo, Brescia, 1985. Sartori L., Teologia ecumenica. Saggi, Padova, 1987. Vercruysse Jos E., " Ecumenismo ", in: Dizionario di Teologia fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1990, pp. 361-372.
J.A Estrada
Emarginazione è il contrario di integrazione. Però, fra le due situazioni, esiste un continuum più che un limite netto. Di fatto, l'emarginazione non è mai totale, perché ogni emarginato è, almeno giuridicamente, un membro della società. Potremmo definire l'emarginazione come una " scarsa partecipazione ai beni e alle risorse disponibili, come anche alle decisioni che vengono prese nella società ". Collettivi con alto rischio di emarginazione sono gli handicappati mentali, gli invalidi, gli anziani, i drogati, gli alcoolizzati, gli zingari, gli infermi mentali, gli infermi cronici, ecc. Tratti comuni ad essi sono l'incapacità di controllare gli elementi chiave della vita (come il diritto al lavoro) e l'isolamento (le loro rare organizzazioni sogliono essere del tipo di ghetto). L'emarginazione può essere la conseguenza del comportamento traviato di certi individui o collettivi, ma spesso sono i gruppi sociali che definiscono la normalità secondo cui sono esclusi tutti quelli che per le loro caratteristiche eo per il loro comportamento non si adattano alle norme e ai valori dominanti. Conseguentemente, i Servizi Sociali raggiungono uno scarso risultato se si propongono di modificare gli atteggiamenti degli emarginati senza affrontare i meccanismi marginalizzanti della società. Giovanni Paolo II ha scritto: " Sarebbe radicalmente indegno dell'uomo, e negazione della comune umanità, ammettere alla vita della società, e dunque al lavoro, solo i membri pienamente funzionali perché, così facendo, si ricadrebbe in una grave forma di discriminazione, quella dei forti e dei sani contro i deboli e i malati " (Enciclica Laborem exercens, n. 22).
Bibl. - Calvaruso C. - Abbruzzese S., Indagine sui valori in Italia, Ed. SEI, Torino, 1985. Cohen A.K., Controllo sociale e comportamento deviante, Ed. Il Mulino, Bologna, 1969. Ginatempo N., Marginalità e classi sociali, Ed. Angeli, Milano, 1983. Masini V., " Emarginazione ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 371- 372. Paci M., Capitalismo e classi sociali, Ed. Il Mulino, Bologna, 1978.
L. González-Carvajal
(inizio)Epifania, o teofania, significava, nel mondo greco-romano del IV secolo, l'apparizione o manifestazione della divinità ai suoi devoti, o il compimento benefico di un portento. L'anniversario dell'apparizione era come il giorno della nascita della divinità. Ciò si applicava anche agli imperatori. Epifania o parusìa era la venuta del re o dell'imperatore. San Paolo applica questo termine alla prima venuta di Cristo (2 Tm 1,10) e all'ultima (2 Ts 2,8).
L'epifania cristiana appare come festa in Oriente (probabilmente in Egitto) nello stesso tempo in cui spunta il Natale a Roma. Ha un rapporto con una festa pagana che si celebrava il 6 Gennaio ad Alessandria per commemorare la crescita della luce. Nel secolo V, Oriente ed Occidente si scambiarono le loro rispettive celebrazioni e le loro liturgie si arricchirono di due feste, anziché una: Natale e Epifania. L'Epifania è in relazione con tre manifestazioni di Gesù: l'adorazione dei Magi, il battesimo di Gesù, le nozze di Cana.
La riforma conciliare della liturgia è stata fedele alla tradizione romana ed occidentale dell'Epifania come manifestazione del Signore. L'Epifania celebra lo stesso mistero del Natale con due temi: la rivelazione della gloria del Figlio unigenito e la chiamata universale di tutti i popoli alla salvezza. Come pietà popolare, l'Epifania è unita al racconto dei Magi che seguono la stella e giungono con i loro doni ad adorare il Messia. La fantasia popolare si concentra sul nome e sulla figura dei re; in compenso, la liturgia pone l'accento sul significato dei tre doni portati dai Magi. In Spagna, l'Epifania è il giorno tradizionale dei regali ai bambini, anche se recentemente, i regali sono stasti spostati al 25 Dicembre, con l'influsso anglo-sassone dell'albero di Natale.
Bibl. - La stessa che per il Natale.
C. Floristán
(inizio)L'ermeneutica (in greco: ermeneùein = interpretare) consiste nel fondare e nel fissare teoricamente i princìpi che si ritengono validi per interpretare i testi biblici. L'applicazione concreta di questi principi spetta all'esegesi. Ora, siccome la Bibbia è ad un tempo parola divina e parola umana, si impone una duplice categoria di princìpi teorici:
1) Princìpi generali. Essi cercano di affrontare nella misura del possibile gli autori umani (agiografi) e le loro tendenze personali. Così, dunque, ogni interprete deve approfondire il carattere socio-religioso-culturale in cui ha scritto ogni autore sacro, analizzando a sua volta il genere letterario di cui si è servito per tramandare con lo scritto quanto Dio gli rivelava a livello del vissuto. Occorre anche conoscere l'epoca ed il luogo di composizione, come anche l'occasione e la finalità dello scritto, l'idiosincrasia dell'autore ed il suo ambiente. Per compiere un lavoro così impegnativo, l'interprete deve ricorrere alle scienze ausiliarie: la filologia, la storia comparata delle religioni, la geografia, l'archeologia, la paleografia, l'etnologia e tutte quelle discipline che lo aiutano a conoscere meglio il passato. Soprattutto, non deve dimenticare che quasi tutti i libri della Bibbia sono stati composti da mentalità semitiche, totalmente differenti dalle nostre.
2) Princìpi teologici. Siccome gli scritti biblici non sono semplici opere umane, bisogna tenere presente nell'interpretarli:
a) la tradizione viva di tutta la comunità ecclesiale;
b) il carattere unitario di tutta la rivelazione biblica;
c) la cosiddetta " analogia della fede ", cioè, l'armonia interna di tutto il processo rivelatore. Questa esigenza è richiesta ai cattolici dal Magistero ecclesiastico (cf DV 12) come condizione fondamentale per cogliere il messaggio che Dio rivolge all'umanità.
Alle volte, riesce inevitabile una certa tensione quando si tratta di armonizzare i princìpi generali con quelli teologici. Questi esigono un assenso della mente ai criteri della fede, mentre i princìpi generali ammettono il primato della ragione. Tuttavia, sarà genuinamente cattolica soltanto quell'ermeneutica che riuscirà a conciliare questi princìpi, trasformandoli nel centro nevralgico di ogni indagine e studio. Non è concepibile un ermeneuta biblico se, oltre ad essere uno scienziato competente, non è anche un credente impegnato.
Bibl. - Gadamer H.G., Verità e metodo, Milano, 1972. Grech P., " Ermeneutica ", in: Nuovo Dizionario di teologia biblica, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 464-489. Lubac H. De, Esegesi medievale, Ed. Paoline, 2 voll., 1972. Mannucci V., Bibbia come Parola di Dio, Ed. Queriniana, Brescia, 1981. Ricoeur P., Ermeneutica filosofica e ermeneutica biblica, Brescia, 1977.
A. Salas
(inizio)La parola escatologia era tradotta nel passato con " dottrina delle realtà ultime ", o " trattato dei Novissimi ". I novissimi, o realtà ultime, apparivano, in realtà, comeilun ammucchiamento di cose, che si trovano in qualche parte, oltre la cortina della morte, e che si poi si potevano studiare alla stessa maniera delle cose della terra " (Congar). Il trattato dei novissimi diventava cosi una specie di geografia delle campagne celesti o di fisica degli ultimi tempi, o di cronaca anticipata o anticipatrice della sorte finale dell'uomo e del mondo.
Si distinguevano due classi di novissimi: quelli che concernevano ogni persona singolarmente considerata (morte, giudizio particolare, purgatorio, paradiso e inferno) e quelli che concernevano l'umanità nel suo complesso e il mondo (la parusìa o ritorno di Cristo, la risurrezione dei morti, il giudizio finale e la fine del mondo). Ciò dava origine a due parti ben differenziate e indipendenti tra di loro: l'escatologia individuale e l'escatologia universale.
I novissimi erano situati preferibilmente nel campo dell'omiletica come ricorso facile per minacciare i fedeli con le pene dell'inferno e per favorire una vita cristiana ispirata dal timore della condanna eterna. Questo faceva si che invece di incoraggiare l'impegno e la critica dell'ordine stabilito, veniva facilitata la fuga dal mondo. Il fissarsi esclusivamente sulla patria celeste portava a disinteressarsi di quella terrena.
Come si è già detto, il trattato sugli ultimi tempi incideva poco sugli altri trattati teologici: era piuttosto un'appendice della dogmatica, e questo, non perché fosse al termine degli studi di teologia, ma per la sua irrilevanza teologica.
L'illuminismo, le filosofie del sospetto e l'ermeneutica, da una parte, e i metodi storico-critici applicati alla Bibbia, dall'altra, hanno finito per scalzare l'impostazione dell'escatologia come è stata descritta, hanno nullificato le questioni sui novissimi o cose ultime a cui i manuali di teologia erano soliti rispondere in forma di descrizioni esaurienti sull'al di là, ed hanno imposto all'escatologia una svolta copernicana.
L'escatologia, da appendice, è passata ad orizzonte della teologia, da periferia a centro del cristianesimo. La riscoperta della centralità dell'escatologia, dopo secoli di emarginazione e di oblìo, è merito di due teologi protestanti: Johannes Weiss, nella sua opera La predicazione di Gesù sul Regno di Dio (1892) e Albert Schweitzer, nel suo libro Storia dell'inchiesta sulla vita di Gesù (1906). Entrambi misero in rilievo l'importanza della dimensione escatologica sia nella vita e nel messaggio di Gesù che nel cristianesimo primitivo. Con questa riscoperta, fu assestato un colpo molto abile, forse definitivo, alla teologia liberale del secolo XIX. Gesù, nella versione di Weiss, non appare come il maestro di morale del sermone della montagna, ma come il visionario che trasmette un messaggio apocalittico. Il nucleo della sua predicazione è l'annuncio della venuta imminente del Regno di Dio. Schweitzer segue a ruota Weiss e presenta Gesù come l'unto che annuncia la vicinanza del Regno.
Nel secondo decennio del secolo XX, gli apporti rivoluzionari di Weiss e di Schweitzer nel campo dell'esegesi vennero incorporati nella riflessione teologica. La centralità dell'escatologia nel cristianesimo fu espressa in forma programmatica da Karl Barth nella seconda edizione del suo commento alla Lettera ai Romani (1922): " Il cristianesimo che non è totalmente e nella sua integrità escatologia non ha assolutamente nulla a vedere con Cristo ". Quarant'anni dopo, questo fu ripetuto da Moltmann, nel suo libro Teologia della speranza (1964), sotto un'ottica nuova: " Nella sua integrità, e non solo in un'appendice, il cristianesimo è escatologia; è speranza, sguardo e orientamento verso l'avanti, ed è anche, per ciò stesso, apertura e trasformazione del presente. Il fattore escatologico non è qualcosa di situato al lato del cristianesimo, ma è, semplicemente, il centro della fede cristiana ".
L'escatologia affonda le sue radici nell'antropologia, come ha dimostrato molto bene Karl Rahner. L'uomo è un essere storico, e corrisponde alla sua autocomprensione tanto uno sguardo ad un passato temporale quanto uno sguardo anticipatore verso un futuro ugualmente temporale: " Anàmnesis e prògnosis appartengono agli esistenziali ineludibili dell'uomo " (Rahner). Perciò l'affermazione escatologica non è un'affermazione ulteriore, aggiunta all'affermazione sul presente e sul passato dell'uomo: essa costituisce un elemento intrinseco della comprensione umana. Anche Schillebeecks richiama l'attenzione sul carattere storico e temporale dell'uomo che continua il suo cammino verso il futuro. Secondo lui, l'indagine sul futuro è un " esistenziale " della coscienza umana, e l'escatologia è scritta nell'esistenza dell'uomo.
L'escatologia cristiana, più che interrogarsi sugli ultimi tempi, si interroga sull'" ultima " di tutte le realtà. Più che indagare sulle cose ultime, chiede dell'Eskatos, Gesù di Nazaret. Più che parlare del futuro in genere, fonda i suoi enunciati del futuro sulla persona e sulla storia di Gesù. Più che anticipare l'al di là con descrizioni prolisse, si concentra sulla risurrezione di Gesù e sul significato che questa ha per l'uomo, per la storia e per il cosmo. Il suo discorso non appartiene al genere narrativo o informativo, ma è performativo, cioè, chiama i credenti a prendere sul serio la realtà storica e a trasformarla sulla linea dei valori del Regno. Dunque, come afferma chiaramente il Concilio Vaticano II, " La Chiesa... insegna che la speranza escatologica non diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno della attuazione di essi " (GS 21). Così, si apre un nuovo cammino di dialogo con le escatologie secolarizzate e di collaborazione per la costruzione di un mondo più abitabile, giusto e solidale. È in questo contesto di dialogo intellettuale e di collaborazione nella pratica che l'escatologia ha da chiarire la relazione ? causa? ? tra il Regno di Dio e il regno umano della libertà, tra il futuro assoluto e i progetti storici di liberazione.
La teologia, infine, deve continuare l'ineludibile compito ermeneutico, già abbozzato da Rahner, sulle affermazioni escatologiche, alla luce degli studi biblici, dell'antropologia e della filosofia ermeneutica attuale.
Bibl. - Forte B., Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento, Ed. Paoline, Cinisello B., 1990. Gozzelino G., Nell'attesa della beata speranza. Saggio di escatologia cristiana, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1993. Greshake G., Breve trattato sui novissimi, Ed. Queriniana, Brescia, 1978. Moltmann J., Teologia della speranza, Ed. Queriniana, Brescia, 1970; Panteghini G., L'orizzonte speranza. Lineamenti di escatologia cristiana, Ed. Messaggero, Padova, 1991. Pozo C., Teologia dell'al di là, Ed. Paoline, Roma, 1983. Ruiz de la Peña, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Ed. Borla, Roma, 1981.
J. J. Tamayo
(inizio)Le esequie sono un complesso di riti e di preghiere che la Chiesa pratica per la morte di un fedele cristiano, dal momento in cui esala l'ultimo respiro fino al momento in cui la salma è collocata in un sepolcro o cremata. Le esequie cristiane hanno notevoli somiglianze con i riti religiosi pagani e con le celebrazioni puramente umane che, presso tutti i popoli e in tutti i livelli culturali, accompagnano la morte. Dal punto di vista fenomenologico, i riti esequiali della Chiesa sono spesso il risultato della cristianizzazione di riti religiosi preesistenti o di usanze sociali comunemente accettate.
Così, la Chiesa primitiva accettò pratiche funebri del suo tempo, purificandole da residui idolatrici o superstiziosi, e dando loro un significato cristiano: la toilette funebre, le àgapi di funerali, che probabilmente diedero origine alla celebrazione dell'eucaristia in suffragio del defunto, ecc. Un'usanza specificamente cristiana è il canto dei salmi, che sottolinea il carattere festoso della celebrazione esequiale cristiana, e la veglia di preghiera accanto al defunto, dal momento della morte fino al funerale. Però, l'aspetto tipicamente cristiano delle esequie viene dato dalla capacità di esprimere la fede e la speranza nella risurrezione. Perciò, anche se la celebrazione cristiana della morte è situata, in parte, nella stessa prospettiva che troviamo nella religiosità naturale, essa tuttavia la supera ampiamente in due direzioni: l'oggetto principale della celebrazione cristiana è il mistero pasquale di Gesù Cristo, partecipato nella e con la morte concreta di un credente; ciò che conferisce senso cristiano alla morte, facendola motivo di celebrazione, non è tanto il rito, ma la fede e la carità con cui il fedele ha " vissuto " la sua morte, e la speranza di tutta la comunità nella risurrezione.
Il rituale romano del 1614 stabiliva i riti funebri in tre " stazioni ": a casa del defunto, in chiesa, nel cimitero. Queste tre tappe erano legate da due processioni intermedie. La riforma del 1969 ha segnalato, inoltre, altri due tipi di celebrazione: o soltanto nella casa del defunto, o solo nel cimitero. Rivalorizzò anche il rito dell'ultimo saluto, insistendo sul suo significato di speranza ed eliminando gli aspetti troppo negativi di purificazione del peccato.
Oggi, c'è la tendenza a svincolare la celebrazione cristiana della morte dall'atto civile della sepoltura o della cremazione, per dare ai riti cristiani il loro carattere di espressione genuina della fede. I sostenitori di queste tendenza vorrebbero che si andasse verso esequie cristiane organizzate in questo modo: in primo luogo, dare una grande importanza alla celebrazione domestica o familiare, eseguita in casa o in una cappella dei servizi funebri, già prevista nel rituale attuale. Questa celebrazione potrebbe consistere semplicemente in letture, canti e orazioni, ma potrebbe anche essere accompagnata dall'eucaristia. Tutti gli atti necessari per il trasferimento delle spoglie mortali, per la sepoltura o per la cremazione, potrebbero essere considerati come puramente civili, compiuti da persone professionalmente abilitate. Questo potrebbe essere il momento per gli omaggi postumi o per gli atti necrologici, di carattere puramente civile, che eventualmente si volessero dedicare al defunto.
La comunità cristiana, o in una riunione speciale, o in una riunione ordinaria, celebrerebbe l'eucaristia con l'intento di pregare per il defunto. Ciò si potrebbe fare lo stesso giorno della sepoltura o in un altro giorno opportuno, d'accordo con le convenienze dei familiari o della comunità. Staccando così l'atto sociale della sepoltura dalla celebrazione esequiale cristiana, sarebbe più facile superare le ambiguità inerenti a molte situazioni che si presentano attualmente, in cui persone non credenti o agnostiche si vedono costrette a partecipare ad atti liturgici cattolici, non perché abbiano fede nella risurrezione, ma vi partecipano per le componenti puramente umane di solidarietà nel lutto.
Bibl. - Aa.Vv., L'ultima pasqua del cristiano dalla morte alla vita. Problemi pastorali delle esequie cristiane, Ed. Opera Regalità, Milano, 1977. Brovelli F., " Esequie ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 463-476. Falsini R., La nuova liturgia dei defunti, in: Aa.Vv., Liturgia cristiana messaggio di speranza, Ed. Messaggero, Padova, 1973. Gozzelino G., Il nuovo rito delle esequie e la teologia contemporanea della morte, in: " Rivista Liturgica ", 58(1971). " Rivista Liturgica ": il n. 266 (1979) è interamente dedicato a I Rituali delle esequie in lingua nazionale.
J. Llopis
(inizio)L'espressione Esercizi Spirituali (ES) ha assunto una densità particolare nella storia della spiritualità cristiana, per cui merita di essere considerata a parte dagli altri esercizi più o meno spirituali o pii che sono presenti in questa stessa storia.
Riflettere e pregare, insieme a certi atti penitenziali, in un ambiente di silenzio, viene considerato come esercizi spirituali. Sono stati presenti lungo la storia dell'umanità, e specialmente nella vita cristiana, soprattutto nelle varie forme di vita religiosa. Tutto ciò può essere visto come la preistoria degli esercizi spirituali. Infatti, quando oggi parliamo o usiamo questa espressione, ci riferiamo tipicamente agli esercizi ignaziani, codificati da sant'Ignazio di Loyola nel suo libro Esercizi Spirituali. Per motivi molto vari, facili da indicare, questi Esercizi continuano ad essere validi nella Chiesa, e non solo nella vita religiosa. Il Concilio Vaticano II li cita quando parla dei laici (AA 32).
Gli Esercizi Spirituali sono prima di tutto un metodo, un metodo per considerare i " misteri divini e della Chiesa ", con l'intento di sentire con essa (regole per sentire con la Chiesa) e porsi al servizio della stessa Chiesa senza decidere né lasciarsi comandare da affetti disordinati.
Sulla base, non assolutamente necessaria, di quattro settimane, sant'Ignazio ordina la riflessione e la preghiera come punto di incontro col Salvatore e col suo piano di salvezza nel mondo.
Il contenuto degli Esercizi Spirituali non è qualcosa di originale. Basti ricordare che le settimane II-IV presentano la vita di Gesù senza aspetti o intuizioni oggettivi spettacolari. È certo che, soprattutto a Manresa, Ignazio costata come gli si aprano gli " occhi dell'intendimento ", ma non si può parlare di un progresso cristologico speciale. Egli non mira a questo, e questo, pertanto, non può essere il suo contenuto.
Ciò che realmente interessa nel metodo è la dinamica delle varie settimane, ossia, il progresso dell'esercitante, che esige una assimilazione progressiva. Non si tratta di correre, ma di camminare secondo quanto viene proposto da considerare negli Esercizi Spirituali.
Sono tre le forze che lottano, che sono presenti e che si uniscono negli Esercizi Spirituali: lo Spirito Santo, l'esercitante, il direttore.
Visti dall'esterno, gli ES possono sembrare un caso limite di volontarismo. Alle volte, si ha l'impressione che siano giorni di una durezza particolare in cui dominano precisamente gli esercizi corporali, anche se l'intenzione è quella di arrivare all'interiore della persona. Sembra che, effettivamente, gli ES possano correre questo rischio. Però, nella loro finalità, non sono questo. L'esercitante ha un posto imprescindibile, indubbiamente, ma egli sa che l'agente principale è lo Spirito Santo. È Lui che insegna, accompagna e guida l'esercitante per vie alle volte sconcertanti per l'esercitante: questa è la prova chiara che non è il volontarismo dell'esercitante che muove i fili in una disperata affermazione del proprio io. In una assenza apparente, o non presenza esplicita nella maggior parte dei casi, è lo Spirito Santo che porta avanti l'esperienza cristiana dell'esercitante.
Infine, il direttore. Qui, c'è il vero pericolo che egli voglia essere il protagonista e, in ultima analisi, il centro personale e ideologico della conversione dell'esercitante. In realtà, la sua presenza deve essere molto discreta, e alle volte deve scomparire. Il suo compito essenziale è quello di dettare i " punti " (" scorrendo per i punti soltanto con breve e sommaria dichiarazione ": sant'Ignazio). Deve inoltre aiutare a discernere gli spiriti, specialmente attivi in quei giorni e in questo ambiente tutto particolare.
L'adattamento personale è essenziale al metodo ignaziano: è una cosa a cui forse all'inizio non si penserebbe. Sant'Ignazio lo dice chiaramente: " Gli Esercizi Spirituali si devono applicare alla disposizione delle persone che vogliono farli " (18a annotazione).
Questa norma aurea è presente nel costante rinnovamento degli ES. A ciò, si unisce il clima di rinnovamento che presiede i singoli elementi, metodi, contenuti, ecc., della vita cristiana. Tutto ciò ha portato a una riconsiderazione degli ES. In particolare, si presta un'attenzione speciale a Gli Esercizi nella vita ordinaria (G. Cusson), all'odierna accentuazione biblica che devono avere (D.M. Stamley), alla loro pratica nel vasto mondo della liberazione (J. Magaña), ecc. Sembra abbia avuto meno incidenza e permanenza l'introduzione di certi meccanismi moderni, come la dinamica di gruppo, ecc., nella pratica degli ES.
Bibl. - Bernard CH. A., Appunti per aiutare a dare il Mese di Esercizi, Centrum Ignatianum Spiritualitatis (CIS), Roma, 1972. Laplace J., Una esperienza di vita nello spirito, Ancora-Centro Studi USMI, Milano-Roma, 1974. Ledrus M., Temi per Esercizi Spirituali, CIS, Roma, 1973. Peters W., Gli Esercizi Spirituali di sant'Ignazio, Ed. Gregoriana, Padova, 1971. Schiavone P - Goffi T., " Esercizi Spirituali ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 521-536.
A. Guerra
(inizio)Nella sua formulazione classica, l'esorcismo è una intimazione fatta allo spirito del male a nome di Dio, perché abbandoni una persona o una cosa. Nella liturgia cristiana, si usano esorcismi nei riti preparatori al battesimo, nei casi di possessione diabolica e in una serie di cerimonie di purificazione che precedono la consacrazione di cose o luoghi.
Le formule di esorcismi battesimali, usate fino alla riforma stabilita dal Concilio Vaticano II, contenevano autentici scongiuri rivolti al demonio, come questo, per esempio: " Ti scongiuro, spirito immondo, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, perché esca e ti allontani da questo servo di Dio. Te lo comanda, demonio maledetto, quello stesso che camminò sulle acque e che stese la mano a Pietro quando questi stava per sprofondare. Riconosci, dunque, la tua condanna, spirito maledetto e onora il Dio vivo e vero ". Le formule attuali sono invece rivolte direttamente a Dio in cui gli si chiede che liberi i battezzandi dal dominio di Satana: " Dio onnipotente ed eterno, tu hai mandato nel mondo il tuo Figlio per distruggere il potere di Satana, spirito del male, e trasferire l'uomo dalle tenebre nel tuo regno di luce infinita; umilmente ti preghiamo: libera questi bambini dal peccato originale, e consacrali templi della tua gloria, dimora dello Spirito Santo " RB 119).
Nella Chiesa antica, c'era un ministero speciale per la pratica degli esorcismi sugli indemoniati. Questo divenne il terzo degli Ordini minori. Attualmente, questo ministero è stato soppresso, ma il Codice di Diritto Canonico stabilisce che l'ufficio di esorcista può essere affidato " solo al sacerdote che sia ornato di pietà, di scienza, di prudenza e d'integrità di vita " (CIC c. 1172 § 2). Inoltre, è posto questo divieto: " Nessuno può proferire legittimamente esorcismi sugli ossessi, se non ne ha ottenuto dall'Ordinario del luogo peculiare ed espressa licenza " (CIC c. 1172 § 1). Le formule di esorcismi sugli ossessi riportate nel rituale romano antico stanno subendo un processo di revisione.
Bibl. - Gozzelino G., Vocazione e destino dell'uomo in Cristo. Saggio di antropologia teologica fondamentale (protologia), Ed. Elle Di Ci, Leamann (Torino), 1985, pp. 293-419. Vagaggini C., Il senso teologico della liturgia, Ed. Paoline, Roma, , pp. 346-424.
J. Llopis
(inizio)Se c'è una parola religiosa e umana che conquista il presente, questa parola è esperienza. " Noi partiamo dall'esperienza ", si sente dire dovunque, e da angoli opposti. Conviene soffermarsi un po' su questa categoria rinnovata e interessante.
Sei o sette nozioni filosofiche si contendono il significato profondo di questo difficilissimo concetto che divide due scuole filosofiche (l'empirismo e l'idealismo). Qui, noi diamo due descrizioni vicine e facili, che raccolgono, ciò nonostante, il nucleo di questa categoria. " La vita umana con gli insegnamenti che comporta il suo esercizio ". " Conoscere dall'interno, non in base a udito, letture, pensieri o analisi speculative ". Come si può vedere, l'esperienza, come la intendiamo qui, è non solo legata alla vita, ma è vita in esercizio.
Esaminando la descrizione " conoscere dall'interno ", pare che alcuni ritengano che questo dall'interno si identifichi con una esperienza localizzata nell'interno, come se non si potesse conoscere dall'interno la pausa, la stanchezza, la fame, ecc. Ce ne sono molti che, anche se non sono caduti in questo tranello che è loro teso, e da un intimismo escludente, presumono di partire dall'esperienza come se cercassero metodologicamente di svigorire i suoi contrari.
Infatti, per strettezza di vedute, il cristiano pensa che l'esperienza ha alcune mediazioni intimiste: la liturgia, la preghiera silenziosa, il silenzio in sé... Egli crede che tanto la presenza quanto l'assenza di esperienza nasce e vive qui. L'attenzione psicologica attuale, non diluita, è ritenuta un elemento essenziale, e la relazione interpersonale dovrebbe esigere la solitudine e la concentrazione che solo il silenzio conferma e potenzia.
Questo atteggiamento, che suppone " un forte riduzionismo interiorista " (J.E. Gaitàn) è " una nuova versione del tentativo di "incontrare Dio negli intervalli" " (J.A.T. Robinson), lontano dall'esperienza cristiana per quanti sopportano il peso del giorno e del caldo. Suppone una concezione monastica dell'esperienza spirituale e non fa altro che monopolizzare ciò che è solo una parte della vita.
Da vari anni c'è una forte tendenza per demolire queste strutture ristrette. Nuovi " luoghi " di esperienza, che non intendono negare quelli tradizionali, sono stati affermati come adatti per suscitare e vivere una forte esperienza cristiana. Questi luoghi, considerati da molti come privilegiati, sono:
a) La materia. Chiamiamo materia tutto ciò che ha rapporto con la carne e con la terra. Per molto tempo, questa esperienza ha potuto essere considerata, nel migliore dei casi, come neutra. Però, non c'è motivo per ritenere incapaci di un incontro profondo con Dio il corpo, la bellezza, il sesso, il piacere, la gioia, il dolore... Al di sopra di dicotomie insistenti, questi fattori non sono incapaci di fare un'esperienza cristiana.
b) L'impegno nel mondo. Con questo impegno, ci riferiamo alla trasformazione delle strutture del mondo con le mediazioni sociopolitiche. Lavorare nel campo dell'economia, della politica, dei diritti umani e culturali, ecc. non può implicare la condanna a rimanere fuori dall'esperienza cristiana, o costringere a cercare questa esperienza ai margini di ciò che è, per vocazione contrastata, l'ambito della propria vita. Oggi, questo sarebbe assolutamente incomprensibile.
c) L'emarginazione. Con questa parola, intendiamo riferirci al mondo della disoccupazione, della fame, della miseria, della droga, della violenza, dell'emigrazione, ecc. Se qui non si verifica una forte esperienza cristiana, la parte più sana e più grande del cristianesimo è condannata a non godere dell'approvazione di Dio per quello che è.
Ci sono di quelli che si chiedono come questi nuovi campi possono essere considerati campi privilegiati di esperienza cristiana. Io credo che sia superfluo perdere tempo per spiegare questa possibilità, perché o è evidente (per alcuni) e pertanto non è necessario, o è impossibile (secondo altri) e pertanto inutile.
Ci deve essere una verifica dell'esperienza cristiana. Verifica significa qui la conferma della verità o della falsità di ciò che si chiama esperienza cristiana, o dell'esperienza cristiana vissuta in alcuni di questi campi esperienziali, sia tradizionali che nuovi.
È necessario sottoporsi ad una verifica, perché siamo tutti soggetti all'inganno o all'errore più sottile. Rifiutarsi a questa verifica sarebbe la prova migliore che non si è superato un timore che spesso può essere negato, ma non perché si nega esso cessa di essere reale.
Vogliamo ricordare ora solo un criterio di verifica, senza negare per questo che ne esistano altri complementari, dell'esperienza cristiana: la fraternità. Difficilmente si può considerare esperienza cristiana quella che non è percezione di fraternità ? della sua presenza, della sua assenza, delle sue difficoltà, possibilità, tergiversazioni... ? e realizzazione di fraternità nella dedizione generosa a vivere questa esperienza progressivamente dentro le strutture concrete del mondo in cui si vive. Sempre le opere di dopo (Teresa d'Avila) sono il crogiuolo dell'esperienza vissuta. Anche quando nel nostro interno o nel nostro esterno crediamo che stiamo facendo il nostro cammino o l'esperienza di cristiani.
Bibl. - Gevaert J., Esperienza umana e annuncio cristiano, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1975. Godin A., Psicologia delle esperienze religiose, Ed. Queriniana, Brescia, 1983. Moioli G., " Esperienza cristiana ", in: Nuovo Dizionario di Spiritualità, Ed. Paoline, Cinisello B., 1989, pp. 536-542. Mouroux J., L'esperienza cristiana, Ed. Morcelliana, Brescia, 1956. O'Collins G., Teologia fondamentale, Ed. Queriniana, Brescia, 1982. Roqueplo Ph., Esperienza del mondo: Esperienza di Dio? Per una teologia dell'impegno politico, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1972. Truhlar K.V., Cristo nostra esperienza, Brescia, 1968.
A. Guerra
(inizio)Ci sono molti studi sull'infanzia e sull'adolescenza, e, da qualche tempo, anche sull'anzianità. Però, manchiamo di uno studio sull'età che intercorre tra la gioventù e la vecchiaia. Siccome in queste, ci sono determinati processi di maturazione, si è disposti ad accettare che siano tempi di crisi. Nell'adulto, i conflitti e le crisi avvengono sotto la superficie, a distanza dalla coscienza.
Etimologicamente, adulto è l'uomo che ha cessato di crescere. Essere adulto vuol dire trovarsi in uno stato del proprio essere in cui l'organismo ha raggiunto il suo pieno sviluppo. È caratterizzato da una crescita ormai ultimata e da una specie di maturità e stabilità.
Si è ritenuti adulti a partire dai trent'anni fino al termine dei cinquanta. Questa tappa della vita è stata paragonata alla scalata di una montagna: a trent'anni, si è in piena ascensione; a quaranta, si raggiungono le vette; a cinquanta, comincia la discesa. Questa immagine va intesa in senso relativo, in quanto si riferisce più alla situazione sociale e interiore dell'uomo nell'età adulta che non allo stato corporale le cui vette sono state raggiunte molto tempo prima.
Comprendiamo socialmente nella gioventù anche l'età adulta precoce che va fino ai trent'anni. L'età adulta media (30-42 anni) costituisce il nucleo della vita; è l'età dell'adulto maturo. Questa età giunge ad una stabilità di tutto ciò che era in fermento. Ha raggiunto molto di anello che aspettava e sognava in gioventù. Ci si rende conto che il passato cresce, mentre il futuro diminuisce. L'adulto ha acquistato una nuova capacità: quella di ricordare. C'è un nuovo atteggiamento rispetto al tempo: lo si apprezza di più e lo si sfrutta intensamente.
L'età adulta tardiva (42-58 anni) è un'epoca di lenta decadenza biologica. Tra i 45 e i 50 anni, c'è una predisposizione alle crisi di inflessione della vita, in parte somatiche e in parte psicogene. Quando ci si accorge di invecchiare, non è raro il caso che si adottino atteggiamenti sbagliati. Per l'interesse pastorale che queste crisi possono avere, diamo ad esse molta attenzione.
La crisi biologica. Il fattore principale è la cessazione di produzione di ormoni sessuali che esercitavano un influsso decisivo nel regolare i processi corporali. In alcuni, è una cosa più rapida, in altri è più lenta; in alcuni, produce molte molestie, in altri poche. La situazione dell'individuo nella vita e le sue aspettative esercitano un ruolo importante. Una volta, si parlava solo dal climaterio della donna, ma oggi si parla anche di un climaterio maschile, anche se non presenta segni chiari come fa invece la menopausa nella donna.
Le conseguenze dei cambiamenti organici possono essere accresciute da atteggiamenti psicosociali. Il climaterio produce in primo luogo un'ansia di perdita. La donna nota che una parte essenziale della sua vita come donna sembra scomparire. Con la perdita di fascino corporale, teme di perdere attrattiva e di non conservare il marito. La limitazione sociale del ruolo della donna a oggetto sessuale e madre rende più acuta la crisi del climaterio. L'uomo conserva la possibilità della professione e del prestigio sociale, mentre la società gli consente di prendere allora una compagna più giovane. L'uomo teme di perdere la sua potenza. La capacità generativa si conserva fino ad età avanzata, ma il desiderio sessuale e la sua potenza diminuiscono gradatamente.
La crisi professionale. Nell'età media, si suole raggiungere la posizione definitiva in campo professionale. Questa fase è speciale per la padrona di casa. I figli sono ormai cresciuti e lasciano la casa. Come madre, ha partecipato intensamente all'educazione dei figli. Con la loro partenza, si crea non solo un vuoto esterno, ma anche un vuoto interno importante. In molti casi, non è in grado di entrare in una professione. Nella nostra società, ci sono pochi aiuti per risolvere il problema in modo soddisfacente.
Quando uno ha raggiunto la mèta, può calcolare quello che manca ancora alla pensione. La vita non offre ormai nulla di nuovo. La rassegnazione e la stanchezza si stanno impadronendo dell'individuo coi sintomi di fatica, infermità e depressioni. Non c'è più una mèta per cui valga la pena di lottare e di vivere. Non per nulla cresce in questa età il consumo di alcool, di tabacco e di farmaci. Anche il sesso è usato come mezzo per alleviare in qualche modo questo tedio della vita.
Non è raro che in questi anni si effettui un cambiamento di luogo, di posto, perfino di professione, alla ricerca di una soddisfazione migliore e più grande. È l'ultima occasione: più tardi, sarà troppo vecchio. Si preferiscono soprattutto professioni che hanno a che fare con l'uomo; ci si accorge che' tutto sommato, un'attività umana e piena di senso è più piacevole di una posizione per fare soldi.
La crisi della mezza età pone di nuovo la questione dell'identità: Chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? Perché vivo? Con chi mi sento unito? Qual è il senso della mia vita? È importante sapere che la crisi della mezza età ha un significato positivo come confronto con la nostra finitezza e la nostra sorte mortale.
E.H. Erikson pone come obiettivo di questa tappa della vita l'integrità dell'Io. È l'accettazione della propria vita come qualcosa che deve essere e che non permette nessuna sostituzione. La mancanza o la perdita di questa integrazione dell'Io si manifesta col timore della morte, col non accettare l'unico ciclo di vita come l'essenziale della vita. La disperazione esprime il sentimento che il tempo che rimane è breve per cercare un'altra vita. Si potrebbe dire che l'integrità è un amore di se stessi che a questo punto non è narcisista.
Bibl. - Bovone L., Storie di vita composita, Ed. Angeli, Milano, 1984. Bucciarelli C., " Adulto ", in: Dizionario di Scienze dell'educazione, Elle Di Ci, LAS, SEI, Torino-Roma, 1997, pp. 32-33. Erikson E.H., L'adulto, Armando, Roma, 1981. Idem, I cicli della vita, Armando, Roma, 1984. Miller P.H., Teorie dello sviluppo psicologico, Bologna, 1987.
F.J. Calvo
(inizio)Fin dall'antichità, la vita è stata divisa per analogia con le tre parti del giorno, come nell'enigma della sfinge di Tebe, o con le quattro stagioni dell'anno. Sotto l'influsso di Ippocrate, gli antichi Romani dividevano la vita in cinque periodi di quattordici anni: pueritia (l'infanzia), adolescentia (l'età giovanile), juventus (la prima età adulta), virilitas (l'età adulta matura) e senectus (la vecchiaia). Altre volte, si usano cicli di sette anni. Così, secondo W. Hellpach, a 28 anni, avviene una crisi decisiva; a 35, si raggiunge il massimo vitale; a 42, termina la formazione del carattere; a 49, spunta nelle persone di genio un vortice di rendimento; a 56, comincia il climaterio maschile; a 63, si attraversa un anno in cui la vita è in pericolo; a 70, comincia l'invecchiamento. Infine, ricordiamo la divisione in decadi che si trova nella letteratura popolare: a dieci anni, un bambino; a 20, un giovane; a 30, un uomo impulsivo; a 40, un uomo posato; a 50, un uomo riflessivo; a 60, comincia l'invecchiamento; a 70, si ha un anziano; a 80, si è bianchi come la neve; a 90, viene la morte; a 100, si va in cielo, con Dio (J. Grimm).
Questi schemi di fase e periodi, gradi e livelli, per rendere visibile il processo della vita, sono modelli che aiutano ad orientare e a ordinare la vita umana. Tutti questi schemi hanno qualcosa di artificioso, perché non è possibile incasellare la vita in uno schema senza violentarla. D'altra parte, questi periodi variano secondo le condizioni dei singoli, secondo il sesso, secondo il ritmo di vita e il luogo, cioè, secondo le condizioni ambientali e sociali.
La formazione dei vari periodi della vita dell'uomo avviene in modo che sempre una fase nasce da un'altra con una successione organica. Sebbene non si metta in discussione l'importanza di una serie di processi di maturazione, oggi si presta maggiore attenzione ai processi psicosociali. In questa direzione, ricordiamo espressamente gli otto gradi di sviluppo di E.H. Erikson, che trasferisce lo schema psicosessuale di Freud ad una sequenza di gradi psicosociali; lo estende a tutto il ciclo vitale e tiene presente l'ambivalenza dei processi vitali.
E.H. Erikson distingue otto età della vita con le seguenti possibilità e pericoli:
1) orale-sensoriale (il primo anno di vita): fiducia basilare - sfiducia;
2) muscolare-anale (da uno a tre anni): autonomia vergogna e dubbio;
3) locomotoria-genitale (da tre a cinque anni): iniziativa - colpevolezza;
4) latenza (seconda infanzia): rendimento - senso di inferiorità;
5) pubertà e adolescenza: identità - confusione di ruoli;
6) gioventù adulta: intimità - isolamento;
7) età adulta: generatività - ristagno; e
8) maturità: integrazione dell'Io - disperazione.
Esiste una relazione tra vita e crisi della vita. Tra due età della vita, appare sempre una crisi in cui si abbandona il vecchio e appare il nuovo. Indichiamo le crisi normative: la nascita (il trauma della nascita), la prima separazione e autonomia (socializzazione, acquisizione del linguaggio, ecc.), la crisi puberale di identità, il rapporto con l'altro sesso (comunicazione, conflitti, ecc.), la costituzione di una famiglia (comunicazione, conflitti di generazioni, ecc.), la crisi della mezza età (climaterio, problematica del rendimento, ecc.), invecchiamento, morte.
Molto più dei cambiamenti da un periodo ad un altro, l'individuo è influenzato e trasformato da altri eventi che variano da una persona ad un'altra. Per la metamorfosi della vita individuale, sono piu decisive le crisi accidentali per infermità, per la morte di persone care, per la perdita o per il cambiamento di lavoro, per l'emigrazione o per avvenimenti di carattere generale come una guerra o uno sconvolgimento sociale.
Bibl. - Bühler C., " Vitaanalisi del corso d. ", in: Dizionario di psicologia, Ed. Paoline, 1975, pp. 1272-1273; Cattonaro E., " Età evolutiva ", in: Enciclopedia Filosofica, II, Venezia - Roma, 1957, coll. 156-162. Colombo A., " Età evolutiva ", in: Dizionario di Catechetica, Ed. Elle Di Ci, Leuumann (Torino), 1987, pp. 254-257. Erikson H.E., I cicli della vita. Continuità e mutamento, Ed. Armando, Roma, 1984. Guardini R., Le età della vita, Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1987.
F.J. Calvo
La parola eterodossia deriva dal greco èteros (altro, diverso) e dòxa (opinione). L'eterodossia si oppone all'ortodossia in quanto si scosta da quello che costituisce la sostanza irrinunciabile del messaggio religioso e dal suo compimento in una Chiesa. La parola è equivalente all'altra parola greca àiresis (da cui, in italiano: eresia). Questo sostantivo deriva dal verbo airèomai, che significa: scegliere. Un'eresia è dunque una opzione, una decisione, un proposito.
Inizialmente, il termine " eresia " non aveva un significato deteriore. Nello stesso NT, si segue il modo di esprimersi dell'ebreo Giuseppe Flavio, che scrisse in greco, e si parla della " setta (in greco: àiresis) dei Sadducèi " (At 5,17), della " setta (in greco: àiresis) dei Farisei " (At 15,5; 26,5), e perfino della " setta (sempre: àiresis) dei Nazorei " (At 24,5). In nessuno di questi testi, la parola àiresis ha un senso peggiorativo: si tratta di gruppi determinati che appartengono tutti alla stessa comunità religiosa di Israele. Non dimentichiamo che la cosiddetta " àiresis dei Nazorei " era la comunità dei discepoli di Cristo ed era considerata inizialmente come uno dei tanti movimenti che si muovevano all'interno dell'ebraismo.
In seguito, però, quando il gruppo dei Nazorei riuscì ad affermarsi e a tagliare il cordone ombellicale che lo teneva unito all'ebraismo tradizionale, sorse una nuova terminologia. A partire da allora, il cristianesimo cominciò a guardare con diffidenza e aversione la àiresis. Quando, poi, si cominciò ad usare la parola in senso tecnico, legandola più o meno consapevolmente alle scuole filosofiche greche e all'ebraismo, lo si fece per indicare con questo termine le sette e le fazioni religiose esterne al cristianesimo e alla Chiesa.
Così, dunque, il concetto cristiano di eresia non derivò dall'affermazione di una nuova ortodossia, ma dall'esistenza e dalla natura della Chiesa cristiana. Chiesa e eresia sono due realtà che si escludono a vicenda. Ciò appare evidente in Gal 5,20, dove le airèseis (sette) ? intese come in tutto il NT non ancora in senso tecnico ? sono elencate tra " i comportamenti di chi è carnale " (Gal 5,19), e poste sullo stesso piano di " inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, sette ". Le airèseis sono ancora più affermate in 1 Cor 11,18-19. In questo testo, Paolo, riferendosi all'assemblea cultuale in cui la comunità si presenta come Chiesa, parla di " divisioni " (greco: skìsmata) di cui ha già parlato in 1 Cor 1,10 ss. Si tratta, cioè, dei conflitti tra i fedeli, causati da individualismi. Paolo crede, in parte, alle notizie che gli sono state riferite circa i dissensi nella Chiesa, e giunge perfino ad affermare: " È necessario infatti che avvengano divisioni (airèseis) tra voi perché in mezzo a voi si manifestino i veri credenti " (1 Cor 11,19).
Come si vede, l'eresia, o eterodossia, è nettamente molto più grave dello scisma (strappo), perché attacca il fondamento della Chiesa stessa, cioè, la dottrina (cf 2 Pt 2,1) e in modo così radicale da dare origine inevitabilmente ad una comunità diversa e separata dalla Chiesa. La Chiesa, in quanto società pubblica e giuridicamente costituita da tutti i credenti, non può ammettere l'eresia o eterodossia, cioè, una scuola di carattere privato e necessariamente parziale senza decadere con ciò essa stessa al livello dell'eresia, perdendo così la sua essenziale prerogativa unitaria e cattolica. Allo stesso modo, per citare un caso di ovvia analogia, lo stato o il popolo che ammette l'esistenza incontrollata di una fazione si dissolve inevitabilmente.
Tuttavia, questo rigore logico del rapporto tra ortodossia e eterodossia, tra Chiesa e eresia, va ritenuto valido soltanto nell'ambito puramente religioso e spirituale. Quando una società civile prende l'ortodossia religiosa con fini di autoaffermazione, si invertono i compiti. Così, in Francia, dopo le guerre di religione, divenne popolare l'idea, soprattutto fra gli scettici, che la migliore garanzia di una vita tollerabile e pacifica fosse di imporre a tutti una stessa religione. È altamente significativo il fatto che il vantaggio di questa religione obbligatoria non sarebbe stato il suo carattere veritiero, ma proprio la sua obbligatorietà. Siccome le varie confessioni sono solite affrontarsi per problemi che in nessun caso si possono risolvere per via di argomenti razionali o per indagini scientifiche, sembrava preferibile imporre a tutti una religione di Stato, anziché permettere che si uccidessero fra di loro per problemi incomprensibili e insolubili. Ci fu qui una delle giustificazioni razionali dell'assolutismo.
Così, si comprende perché imperi e governi forti siano stati interessati a mantenere l'ortodossia dei loro sudditi, arrivando perfino a promuovere concili, presieduti da essi, perché lì venisse definita una verità uniforme. Come conseguenze da ciò, l'eresia o eterodossia religiosa diventava automaticamente un reato politico. E così, molti eterodossi della storia, se si considera a fondo la loro vera biografia, sono stati autentici cristiani ortodossi e perfino dotati di un profondo grado di santità.
Bibl. - Cartecchini S., Dall'opinione al dogma, Ed. Civiltà Cattolica, Roma, 1953, pp. 13424. Gorres A., Patologia del cattolicesimo, Ed. Morcelliana, Brescia, 1969. Karrer O', " Eresia ", in: Dizionario di Teologia, I, Ed. Queriniana, Brescia, , pp. 546-555. Rahner K., Che cos'è l'eresia?, Brescia, 1963. Rahner K. Lehmann K., Kèrigma e dogma, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, II, Ed. Queriniana, Brescia, 1968, pp. 194-202. Trütsch J., Opposizioni alla fede e deformazioni della fede, in: Aa.Vv., Mysterium Salutis, II, pp. 498-504.
J.M. González Ruiz
(inizio)L'etica cristiana è chiamata a dare una risposta agli interrogativi etici partendo dalla fede e dalla vita nuova in Cristo. L'essere cristiano implica anche una prassi ed uno stile di vita. La sua identità non si esaurisce nel credere e nel pregare. La fede e la vita nuova in Cristo si manifestano nel comportamento di ogni giorno. Allora, come vivere in ogni momento storico per essere coerenti con la propria identità cristiana? È possibile qualcosa di specificamente cristiano nelle risposte, teoriche e pratiche, del credente agli interrogativi etici dell'uomo e della società?
La domanda che riguarda la propria identità è costante nella storia delle persone, dei gruppi e delle istituzioni. Si rende particolarmente acuta e urgente nei momenti, personali e storici, di passaggio o di transizione. Ciò avviene quando l'immagine che si aveva di sé e le forme di comportamento in cui si esprimeva, cambiano, mentre non si sono ancora stabilite nel contesto socioculturale altre forme nuove capaci di sostituire quelle precedenti. Infatti, " l'umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all'intero universo. Provocati dall'intelligenza e dall'attività creativa dell'uomo, su di esso si ripercuotono, sui suoi giudizi e desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e agire sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa " (GS 4). Le ripercussioni di questi cambiamenti sulla morale si manifestano nella diversità e nel pluralismo di quanto si riferisce ad essa, come anche in una serie di domande radicali sulla funzione del cristianesimo nel momento attuale. Sembra che perfino i concetti di peccato, redenzione e salvezza debbano essere riformulati per l'uomo del nostro tempo. E se ci si interroga su quello che il cristianesimo ha di buona novella, gli interrogativi sono ancora maggiori sulla funzione degli imperativi religiosi nel mondo della scienza e della libertà, sulla missione dei cristiani nell'ordine sociale, per non parlare del Magistero della Chiesa nel rispondere ai problemi morali contemporanei.
L'etica cristiana è chiamata a rispondere agli interrogativi che abbiamo appena formulato. Per questo, appunto, le si chiede che, prima di tutto, abbia essa stessa un'idea chiara della sua missione, cioè di ciò che è chiamata a recare nel complesso delle scienze che si occupano di morale. Di qui, l'importanza che hanno oggi in questa disciplina i temi attinenti alla sua identità. Esiste un'etica specificamente cristiana? Ha contenuti propri di tipo normativo, strutturale o esistenziale? Si basa su motivazioni specifiche? Cerca obiettivi particolari? È capace di presentare valori, ideali e norme di comportamento propri? Esiste una prassi e un impegno sociale specificamente cristiani? Quali sono i rapporti dell'etica cristiana con le altre scienze, conoscenze e discipline morali?
Affinché l'etica cristiana possa rispondere a queste domande e rendere servizio al credente che cerca una soluzione ai problemi morali dei nostri giorni, occorre che essa tenga presenti una serie di esigenze. In primo luogo, quella di riconoscere e di assumere " l'autonomia normativa della realtà umana ", da cui possa spuntare " una morale umana autonoma previa a ciò che è specificamente cristiano " (M. Vidal). Poi, deve assumere la " mediazione sociopolitica " della razionalità scientifica (C. Boff), cioè, di tutte le scienze che ci permettono un approccio critico alla realtà in cui il credente è chiamato a vivere. Deve anche servirsi della " mediazione ermeneutica " (C. Boff), dell'etica generale e delle discipline teologiche per interpretare questa realtà colta già scientificamente. Inoltre, le esigenze attuali dell'interdisciplinarietà ci dicono che non può essere estranea a quanto questa attività suppone per qualsiasi disciplina che intenda dare una risposta valida ai problemi dei nostri giorni. Infine, deve integrare tutti questi elementi nella " istanza etica cristiana " definita dalla fede e dall'impegno. " Non ci può essere morale cristiana se si prescinde dalla fede (fattore motivazionale o di visione del cosmo) o dall'impegno (fattore di contenuto o di normatività concreta). La visione di fede del cosmo e l'impegno concreto sono elementi imprescindibili dell'èthos di un credente, e, pertanto, della morale cristiana " (M. Vidal).
Con questi presupposti, l'etica cristiana è chiamata a procurare alla riflessione etica e al comportamento cristiano tre apporti fondamentali:
1) La visione del cosmo che proviene dalla fede e che influirà sulla mediazione ermeneutica. A questo riguardo, vogliamo ricordare queste tesi di Hans Küng: " Non è cristiano l'uomo che si limita semplicemente a vivere umanamente, o socialmente, o perfino religiosamente. Cristiano è, prima di tutto, e soltanto, colui che cerca di vivere la sua umanità, socialità e religiosità partendo da Cristo. Il distintivo del cristiano è Cristo Gesù in persona. Essere cristiano significa vivere, operare, soffrire e morire come uomo vero seguendo Cristo nel mondo di oggi ". Il " riferimento a Gesù di Nazaret è il fattore specifico dell'etica cristiana "... " Ciò è stato espresso e vissuto in molte maniere ": imitazione, sequela, Corpo mistico, Regno di Dio, carità, mistero liturgico, ecc. (M. Vidal).
2) Il senso e il significato etico della realtà partendo dalla speranza e dalla carità cristiane. " La Chiesa è la comunità di coloro che hanno abbracciato la causa di Cristo Gesù e vi rendono testimonianza come speranza per tutti gli uomini "... " Cristo in persona è, per l'individuo come per la società, nel positivo come nel negativo, un invito (tu puoi!), una chiamata (tu devi!), una sfida (tu sei capace!). Egli facilita concretamente una nuovo orientamento e un atteggiamento fondamentale, nuove motivazioni, disposizioni e azioni, un nuovo senso e una nuova mèta " (H. Küng).
3) L'impegno cristiano partendo dai presupposti precedenti. Questo si tradurrà, una volta che sarà assunta la normatività umana, in una incarnazione o presenza partecipante nella realtà. Di qui partirà tutto un processo pratico di discernimento critico, di opzioni responsabili di fronte alle varie situazioni e ai problemi, di impegni autentici e di testimonianze profetiche, come sequela e continuazione della missione profetica-evangelizzatrice di Gesù. Il cristiano, con la testimonianza di vita, della parola e del servizio, è chiamato a rendere reale la presenza del Regno. Come Gesù, il cristiano continua a proclamare e a fare sì che nessuno rimanga escluso da questo evento, specialmente gli esclusi di sempre, i poveri e i peccatori. Per mezzo della sua parola, della sua testimonianza e del suo agire, in comunione con tutta la Chiesa, il cristiano cerca di offrire al mondo uno stile di vita basato sui valori del Regno. Il conflitto profetico che questo processo porta con sé, gli dà una forza di annuncio e di denuncia. Il martirio può apparire alle volte come l'esigenza suprema del comportamento cristiano per creare nel mondo e nella società una visuale alternativa della realtà e mettere in evidenza i valori che devono animare la speranza cristiana. Viverli col radicalismo evangelico che ha caratterizzato i " santi " è la forma più autentica di impegno e di testimonianza nella vita di ogni giorno.
Bibl. - Aa.Vv., Fede cristiana e agire morale, Ed. Cittadella, Assisi, 1980. Aa.Vv., Problemi e prospettive di teologia morale, Ed. Queriniana, Brescia, 1976. Bastianel S., Autonomia morale del credente, Ed. Morcelliana, Brescia, 1980. Compagnoni F., La specificità della morale cristiana, Ed. Dehoniane, Bologna, 1972. Fuchs J., Esiste una morale cristiana?, Brescia, 1970. Molinaro A., " Teologia della morale ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., 1988, pp. 2067-2081. Vidal M., L'atteggiamento morale I: Morale fondamentale, Ed. Cittadella, Assisi, 1976.
F. Ferrero
(inizio)L'eucaristia è la ri-presentazione rituale della cena d'addio che, secondo il NT (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14-20; 1 Cor 11,23-26), Gesù celebrò coi suoi discepoli prima di essere consegnato alla morte. Tutte le Chiese cristiane ritengono l'eucaristia il più importante dei sacramenti, che non solo conclude il complesso liturgico dell'iniziazione cristiana, ma che accompagna costantemente la vita del cristiano, soprattutto mediante la celebrazione della domenica, fino al momento della morte, nella comunione eucaristica ricevuta come viatico.
La parola eucaristia deriva dal greco e significa " rendimento di grazie ". Inizialmente, si riferiva alla preghiera di benedizione. Si applicò ben presto alla celebrazione nel suo complesso, e, infine, indicò anche gli elementi materiali del pane e del vino, sui quali è pronunciata la preghiera eucaristica. L'origine storica e teologica della celebrazione eucaristica va cercata in una cena rituale, celebrata da Gesù e dai suoi discepoli. Anche se non è del tutto certo che si sia trattato della cena pasquale ebraica (così come è presentata dai vangeli sinottici), perlomeno fu molto simile alle àgapi religiose che erano soliti celebrare i vari gruppi pii dell'ebraismo.
Sullo stampo di questa cena rituale, Gesù inserì l'istituzione della eucaristia cristiana in un modo organico, non come un rito a parte, celebrato prima o dopo la cena, ma dando un senso nuovo agli alimenti del pane e del vino, già presenti nelle cene rituali. Due momenti hanno molta importanza: la benedizione e la frazione del pane all'inizio della cena, e la benedizione e distribuzione del calice, alla fine, a modo di brindisi. Senza spezzare questo ritmo, come dice san Paolo ai cristiani di Corinto, " il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese un pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: "Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; ogni volta che ne bevete, fate questo in memoria di me" (1 Cor 11,23-25).
La prima comunità cristiana di Gerusalemme interpretò il comando di Gesù equilibrando la continuità e la novità rispetto allo stampo di struttura ebraica. Nella linea della continuità, queste cene fraterne e religiose si facevano per condividere il pane, come facevano gli Ebrei. La novità, invece, consisteva nel fatto che questa frazione del pane era accompagnata dalla memoria della santa cena di Gesù e, sugli alimenti del pane e del vino, si recitava la benedizione secondo l'insegnamento di Gesù e con le stesse sue parole.
Il nucleo della celebrazione eucaristica è sempre stato costituito dalla preghiera di benedizione e dalla consacrazione (chiamata anàfora nella tradizione orientale, e canone nella liturgia romana). Essa è strutturata sul modello della benedizione ebraica (berakà). La preghiera eucaristica cristiana presenta varie formulazioni secondo i luoghi e le epoche, ma a partire dal secolo IV, ci sono alcuni elementi basilari che si trovano in tutte: dopo un dialogo introduttorio del celebrante coi fedeli, inizia un inno di glorificazione al Padre, che termina col canto del Sanctus e prosegue col ricordo o anàmnesis di tutta la storia di salvezza la quale culmina nell'opera redentrice di Cristo, ricordata nel racconto dell'eucaristia e nella commemorazione di tutto il mistero pasquale. Si fa una invocazione, o epìklesis, (esplicita o implicita) dello Spirito Santo perché consacri i doni del pane e del vino e santifichi coloro che partecipano a questi doni per mezzo della comunione. La preghiera termina con una dossologia trinitaria, confermata dall'Amen solenne di tutta l'assemblea.
Il modo con cui oggi la liturgia romana celebra l'eucaristia (chiamata anche Messa) è descritta nell'Istruzione Generale del Messale Romano e Ordo Missae, promulgata da Paolo VI nel 1969, secondo i decreti del Concilio Vaticano II. Il suo svolgimento liturgico consta di quattro parti: il rito d'ingresso, formato da canti e orazioni; la liturgia della Parola, costituita essenzialmente dalle letture estratte dalla Bibbia e dai canti fra le letture, con l'aggiunta dell'omelia, la professione di fede e la preghiera universale, detta anche preghiera dei fedeli; la liturgia eucaristica, che consiste nella presentazione del pane e del vino (anticamente, chiamata: offertorio), la preghiera eucaristica o anàfora, la frazione del pane e la comunione sacramentale; infine, un breve rito di congedo.
Tutte le confessioni cristiane ammettono che la ripetizione rituale della santa cena non è una semplice commemorazione psicologica, ma suscita una presenza speciale di Cristo risorto, il cui realismo è sottolineato dai cattolici e dagli ortodossi, mentre le Chiese nate dalla Riforma la vedono più sotto una prospettiva simbolica. La teologia cattolica spiega questa presenza col termine transostanziazione, che fu usato anche dal Concilio di Trento. I teologi preferiscono oggi ricorrere a spiegazioni che evitino una concezione troppo fisicista e che diano ragione del carattere sacramentale (cioè, di segno e di simbolo) che ha la presenza di Cristo nell'eucaristia.
La Chiesa Cattolica e quella Ortodossa credono anche che la celebrazione eucaristica è un vero sacrificio: quello stesso di Cristo sulla croce, ri-attualizzato in forza della parola del Signore e della fede della Chiesa, mediante la presenza, sotto le specie consacrate, del corpo crocifisso e del sangue sparso da Cristo. Il Concilio Vaticano II, nel descrivere il mistero eucaristico, parlò della componente sacrificale della Messa, senza separarla dagli altri aspetti: "Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui fu tradito, istituì il Sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, onde perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il Sacrificio della Croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua Morte e della sua Risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura" (SC 47).
Bibl. - Aa.Vv., Il nuovo rito della Messa, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1969. Bouyer L., Eucaristia. Teologia e spiritualità della preghiera eucaristica, Ed. Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1983. Falsini R., L' Eucaristia domenicale, tra teologia e pastorale, Ed. Paoline, Cinisello B., 1995. Jungmann J.A., Missarum sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della messa romana, Ed. Marietti, Torino, 1963. Visentin P., " Eucaristia ", in: Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma, 1984, pp. 482-508.
J. Llopis
(inizio)Il termine eutanasia è usato spesso per contenuti così differenti che ciò porta una certa confusione. Per questo, c'è bisogno di una chiarificazione. I rimedi per alleviare il dolore, anche se possono abbreviare un tantino la vita, come anche il rifiuto di mezzi straordinari, non proporzionati, con cui si potrebbe prolungare la vita, non dovrebbero essere considerati come eutanasia. Sembra più indicato riservare questo termine per una azione o una omissione che, con l'intento di evitare dolori o sofferenze, produce per sua natura la morte, o cerca intenzionalmente questo effetto. L'eutanasia è volontariainvolontaria a seconda che esista o meno una petizione cosciente e libera dell'interessato.
La Chiesa condanna l'eutanasia non volontaria come una violazione della dignità personale. Respinge anche quella volontaria perché ritiene che l'essere umano non ha il diritto morale di disporre radicalmente della propria vita: Dio è il Signore unico ed assoluto della vita. Alcuni moralisti cattolici indicano un'altra idea della sovranità di Dio, partendo da questa, il confine tra il lecito e l'illecito starebbe in questo caso nel carattere ragionevole o arbitrario della decisione. A base di questo problema, ha un compito importante la concezione di Dio e dell'uomo, come anche un sentimento profondo, arcaico, piuttosto ritroso alla razionalità, nel momento di disporre della vita umana.
La Chiesa ritiene inaccettabile la depenalizzazione dell'eutanasia. Le esigenze del bene comune si oppongono ad una legge depenalizzatrice che, inoltre, potrebbe servire a farci scivolare in pendìi disumani.
D'altra parte, molte richieste di eutanasia non esprimono forse in realtà la domanda di un altro tipo di assistenza più solidale, più vicina, che aiuti a vivere questa situazione in modo più degno dell'essere umano? Queste considerazioni non devono far dimenticare i presupposti di coloro che in base ad una certa cultura, ritengono l'eutanasia un elemento coerente, né i presupposti di coloro che, invece, la respingono come qualcosa di illogico con la loro concezione dell'essere umano.
Bibl. - Congregazione per la dottrina della fede, Iura et Bona, EnchVat 7, 346-373. Demmer K., " Eutanasia ", in: Nuovo Dizionario di Teologia Morale, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 394-406. Spinsanti S. (ed.), Umanizzare la malattia e la morte, Ed. Paoline, 1980. Tettamanzi D., Eutanasia. L'illusione della buona morte, Ed. Piemme, Casale M., 1985. Verspieren P., Eutanasia? Dall'accanimento terapeutico all'accompagnamento dei morenti, Ed. Paoline, 1985..
J. Elizari
(inizio)Il verbo evangelizzare significa nell'AT " proclamare buone notizie ", o " annunciare fatti salvifici ": per esempio, la vittoria in una battaglia, la morte di un nemico molto temibile, o la salvezza che sarà operata da Dio. Secondo il NT, evangelizzare vuol dire annunciare e portare avanti l'annuncio di Gesù sul Regno di Dio; vuol dire proclamare il kèrigma o annuncio del vangelo, cioè, la vita, morte e risurrezione di Gesù. Evangelizzare equivale a scoprire e rendere noto il progetto salvifico di Dio manifestato in Cristo. Perciò, evangelizzare è la missione centrale della Chiesa e di tutti i credenti.
Il termine evangelizzazione fu usato dai protestanti nel secolo XIX e accettato ecumenicamente verso il 1900 come sinonimo di presentazione del vangelo: all'uomo per convertirlo in figlio di Dio, e alla società per trasformarla in Regno di Dio. Nella Chiesa Cattolica, si usò il concetto di evangelizzazione prima del Concilio, in pieno fervore missionario. Il termine deriva da vangelo e fu adottato per il suo uso ecumenico (i protestanti si chiamano evangelici) e per le connotazioni negative che comporta invece il termine missioni.
Nei documenti del Concilio Vaticano II, si trova 31 volte il sostantivo evangelizzazione e 18 volte il verbo evangelizzare, specialmente nel decreto Ad Gentes. Evidentemente, è usato più spesso il termine missione. " Fine specifico di questa attività missionaria è la evangelizzazione e la fondazione della Chiesa in quei popoli e gruppi, in cui ancora non esiste" (AG 6). Ora, l'azione evangelizzatrice, nei testi conciliari, può essere intesa in due modi: come missione nel mondo, fondamentalmente, di liberazione e come missione alle persone, fondamentalmente, di conversione. La prima di queste due attività era chiamata prima del Concilio, e immediatamente dopo, pre-evangelizzazione. Questo termine è oggi in disuso: oggi, si chiama evangelizzazione tutta l'azione della Chiesa. Questa può essere una " preparazione evangelica " in base ai " germi del Verbo " (AG 11); può essere una " proposta diretta della fede ", in rapporto immediato con la " conversione " (AG 13).
Le lacune del decreto Ad Gentes sull'attività missionaria della Chiesa e quelle della Costituzione Gaudium et Spes sulla missione della Chiesa nel mondo d'oggi apparvero evidenti dopo il Concilio. In realtà, il servizio della Chiesa al mondo è un costitutivo della missione. Era necessario, dunque, unire la missione della Chiesa e il compito delle missioni al problema della stessa Chiesa nel mondo.
Il IV Sinodo dei Vescovi nel 1974 sull'evangelizzazione del mondo contemporaneo cercò di mettere la missione della Chiesa in rapporto col suo servizio temporale. Nell'Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo, VI, dopo dieci anni dal Vaticano II e come sintesi del Sinodo celebrato l'anno prima, vengono descritti gli elementi fondamentali della evangelizzazione che è " primo annuncio " ai non credenti e azione pastorale con gli scristianizzati o anche coi fedeli che hanno bisogno di essere rafforzati nella fede.
L'evangelizzazione fu trattata anche nella Terza Conferenza del CELAM a Puebla (1979). Si affermò la priorità della " evangelizzazione liberatrice ", l'opzione per i poveri, la missione dei mondi culturali lontani, la difesa dei diritti umani. L'evangelizzazione fu intesa in senso ampio, come già aveva fatto l'Esortazione di Paolo VI.
Per la Spagna, va ricordato il Convegno su Evangelizzazione e l'uomo d'oggi (1985). " L'evangelizzazione, afferma una delle sue conclusioni, annuncia e realizza la buona notizia di Gesù Cristo ".
Bibl. - Aa.Vv., Evangelizzazione nel mondo d'oggi, in: " Concilium ", 4(1978). Aa.Vv., La missione negli anni 2000, Bologna, 1983. Dianich S., Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Milano, 1985. Lanza S., " Evangelizzazione ", in: Enciclopedia del Cristianesimo, Istituto De Agostini, Novara, 1997, pp. 290-291. Paolo VI, Esortazione Apostolica " Evangelii nuntiandi ", 8.12.1975. Valentini D., " Evangelizzazione ", in: Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, Cinisello B., , pp. 470-490.
C. Floristán