Nuovi sviluppi nello studio della storia dell’Israele biblico
Mario LIVERANI
La fondazione del Pontificio Istituto Biblico, all’inizio di questo secolo che ormai sta per concludersi, rispose chiaramente all’intento di contribuire, al più alto livello scientifico, al progetto di ricostruire la storia dell’Israele biblico secondo le due grandi linee portanti dell’approfondimento critico del testo antico-testamentario e della sua messa in contesto rispetto alle grandi civiltà dell’antico Oriente. Anche se il Pontificio Istituto Biblico non ha mai prodotto una "sua" storia d’Israele, esso ha peraltro prodotto numerosi ed essenziali supporti analitici e programmatici. Nel delineare ora alcuni problemi connessi alle più recenti tendenze in materia, è necessario ripercorrere — sia pur sommariamente — questo secolo di storia degli studi, giacché, le recenti tendenze sarebbero incomprensibili se non collocate al termine di un più lungo percorso.
1. La storia d’Israele come strato redazionale
È difficile o piuttosto impossibile segnare una data d’inizio negli studi sulla storia d’Israele. Per altre civiltà dell’antico Oriente quest’operazione è legittima, persino facile: civiltà scomparse e recuperate alla moderna conoscenza a seguito di scoperte archeologiche permettono di segnare un netto discrimine tra fonti antiche e ricostruzione storica moderna1. Per Israele, non solo la fonte per eccellenza (l’Antico Testamento) è sempre rimasta in superficie nella trasmissione culturale, ma inoltre le fonti stesse sono in larga parte di carattere storiografico — ricostruzioni, riflessioni, interpretazioni del passato — e su di esse si è innescata da subito una serie di revisioni senza fine che giunge sino a noi. Si potrebbe dire che abbiamo a che fare con una storiografia auto-referenziale, senza una vera e propria "storia" di riferimento o di base.
Volendo comunque scegliere un punto di partenza, sceglierei la metà dell’800, quando le scoperte archeologiche ed epigrafiche nel Vicino Oriente
2 cambiano strutturalmente la base documentaria: le fonti "esterne" rendono possibili controlli incrociati e più ampie contestualizzazioni. Senza fonti esterne, sulla base del solo Antico Testamento, le uniche operazioni storiografiche possibili sono quelle di una razionalizzazione dei dati (eliminazione di contraddizioni interne), di una resa più esplicita dei rapporti di causa-effetto (cioè di "spiegazioni"), infine dell’aggiunta di motivazioni e prospettive attuali assenti dalle fonti ma ad esse applicabili. In testi che risultano da interventi stratificati, un trattamento storiografico di tal fatta si qualifica né, più né meno come un ulteriore strato del testo, che rimette ordine tra i materiali anteriori, apparentemente con estremo rispetto per la loro attendibilità, ma in effetti reimpiegandoli per dar valore alla propria ideologia. Molte storie d’Israele scritte sia prima sia anche dopo la svolta archeologico-epigrafica della seconda metà dell’800 si presentano come strati o interventi redazionali, ovviamente post-canonici e dunque destinati a sopravvivere solo per pochi anni o decenni senza essere inclusi nel corpus di riferimento. E questo è tanto più vero per gli interventi di carattere maggiormente critico, di "smontaggio" del testo, di svelamento delle contraddizioni, di sovvertimento delle cronologie, ed altro.
2. La storia d’Israele come ipertesto
In presenza invece di fonti esterne, è possibile riscrivere ex novo la storia d’Israele, compito che segna appunto la fase per così dire moderna degli studi. Ma tale svolta, collocandosi proprio al culmine dell’analisi filologica interna di tipo critico, si è subito caratterizzata per l’idea che l’archeologia confermasse quella verità del testo biblico che l’ipercritica dei filologi aveva inteso smantellare3. Ha così preso corpo un progetto implicito, che non esito a definire grandioso: il progetto di quello che oggi si definirebbe un ipertesto, un gigantesco ipertesto. "Cliccando" ogni versetto, ed anzi ogni parola, del testo biblico si aprono "finestre" sterminate, fatte di epigrafi semitiche e di tavolette cuneiformi, di scavi e di reperti, di paralleli istituzionali e religiosi, di etimologie e di topografie storiche, di personaggi e di eventi. Gran parte della ricerca (sul campo e in biblioteca) sull’antico Oriente, effettuata dalla metà dell’800 ai giorni nostri è stata progettata, finanziata, eseguita, propagandata nell’ambizione di aggiungere altre finestre all’ipertesto biblico, di dar corpo ed immagine ad una storia d’Israele che restasse però il più possibile fedele alle linee portanti del testo unico e divino.
Questa sudditanza del dato esterno ed archeologico al testo biblico, questa sua funzionalità probatoria, si è perpetuata anche dopo il venir meno della pregiudiziale teologica sull’autore (o ispiratore) divino. E però la rinuncia alla pregiudiziale teologica ha prodotto un effetto importante. Nella visione tradizionale bastava una conferma esterna (un dato archeologico, un’epigrafe, un testo assiro, o quant’altro) per validare l’intero racconto così come tradito, per l’ovvio effetto di trascinamento derivato dall’autore divino. Invece nella visione più recente e laica una conferma esterna lascia aperto tutto il lavorio critico sulla fonte letteraria (intendo dire biblica), sui suoi scopi, sulle sue caratteristiche compositive, sulla sua eventuale tendenziosità propagandistica o apologetica.
Riepilogando dunque: prima della riscoperta dell’antico Oriente la moderna ricostruzione della storia d’Israele si configura come uno strato redazionale post-canonico; dopo la riscoperta, si configura come un colossale ipertesto. Entrambi questi progetti o paradigmi colpiscono per il loro impegno che non esito a definire grandioso; ma colpiscono anche perché, con tutta evidenza non sono storia ma piuttosto critica letteraria, chiarimento e commento di un corpus testuale dato. Il peso schiacciante del testo di riferimento è stato tale da impedire a lungo che si potesse formulare un progetto alternativo di ricostruzione propriamente storica. S’intende che questa situazione non era esclusiva del caso Israele — anche la storia greca e romana è vissuta a lungo come parafrasi degli storici classici — ma in esso ha assunto forme più spinte per motivi teologici.
3. La "nuova storia"
Comunque negli anni ’60 si affermarono e divennero pratica comune principi storiografici più avanzati, che possiamo provare a sintetizzare brevemente in due punti.
Il primo punto è che occorre mettere al centro dell’attenzione non la fonte e neppure gli eventi (o men che meno i personaggi) ma il problema storico, e che per la sua elaborazione occorre mettere in opera tutte le fonti disponibili (letterarie ed epigrafiche, archeologiche ed ambientali) e tutte le problematiche (ideologiche, sociologiche, economiche). La storia dunque si trasforma da letteraria a multidisciplinare, da narrativa a processuale; si inquadra nei tempi della "lunga durata" e nel contesto ecologico; vuole essere globale (dalla storia del paesaggio a quella delle mentalità). È proprio il modo, di volta in volta diverso, in cui ogni ambiente storiografico e al limite ogni storico affronta un problema, a far risaltare la distanza tra storiografia e storia (ovvero fonti) di riferimento.
Il secondo punto è che l’analisi critica (lo "smontaggio") delle fonti, l’analisi semiologica del testo, da condursi secondo i principi della teoria della comunicazione (il testo inteso come un messaggio, con un emittente, uno scopo, un canale, dei destinatari) è qualcosa di più che non un esame preliminare dei dati, ma è operazione storiografica essa stessa: in quanto ricostruisce quei processi culturali che hanno prodotto il caricamento sulle fonti di tutte quelle implicazioni ideologiche che ne fanno elemento di interesse storico primario
4. Credo sia doveroso sottolineare che la considerazione del documento come messaggio e l’analisi storico-letteraria come decodifica debbano molto alla diffusione delle comunicazioni di massa (appunto negli anni ’60) e all’approccio critico ad esse connesso (la cosiddetta contro-informazione). Per quanto riguarda Israele, l’applicazione dei principi della cosiddetta "nuova storia5 è stata lenta (e magari in parte inavvertita) ma sicura6.Il primo dei due principi enunciati sopra ha prodotto in particolare l’approccio o paradigma cosiddetto "sociologico", soprattutto applicato alla fase delle origini
7. Al di là delle sue specifiche formulazioni (tutte più o meno criticabili e in effetti criticate), si è ormai da tempo imposta la distinzione tra due questioni del tutto diverse: da un lato abbiamo lo studio critico della presentazione storiografica post-esilica, che è fortemente ideologizzata e finalizzata alla legittimazione dei principi religiosi e nazionalistici allora dominanti, e che perciò mette al centro dell’attenzione il fatto migratorio e l’unità già originaria del popolo eletto. Dall’altro lato abbiamo la ricostruzione storica moderna che, una volta eliminati i tratti anacronistici, e basandosi su una più ampia contestualizzazione, dà rilievo alle varie componenti sociali e ai fatti di continuismo nel quadro dell’epocale transizione dall’età del tardo bronzo all’età del ferro8.Il secondo dei due principi sopra enunciati ha reso ormai abituale l’analisi dei singoli testi biblici piuttosto in funzione dell’epoca che li ha prodotti che non di quella cui si riferiscono, piuttosto in funzione degli intenti dell’autore e del committente che non in funzione del materiale narrativo impiegato, dunque come oggetto di analisi in quanto tali piuttosto che come miniere di informazioni sugli eventi. Se saldamente correlato al precedente principio (quello della contestualizzazione del problema storico), lo smontaggio critico delle fonti ne arricchisce le valenze storico-culturali. Se invece lo smontaggio (specie se di taglio strutturalista) resta fine a sé stesso, rischia di fuoriuscire dal lavoro storico per diventare un gioco (magari raffinato) di geometrie intellettuali.
4. Fonti esterne e nuova archeologia
Per una più decisa presa di distanza dalla "gabbia" narrativa antico-testamentaria sarebbe certo giovevole disporre di una più robusta ed articolata documentazione extra-biblica. Permane invece assai netta la sproporzione tra un corpus biblico assai ricco e pesante ed una documentazione esterna irrimediabilmente povera. Tutte le epigrafi palestinesi del primo millennio a.C. si possono comodamente raccogliere in un libretto di modesta dimensione; tutti i riferimenti ad Israele nelle fonti cuneiformi o egiziane riempiono non più che un paio di pagine; le stesse scoperte archeologiche in Palestina danno un’impressione di povertà (mi riferisco al loro potenziale storiografico) se confrontate a quelle delle regioni vicine.
Se si provasse a scrivere una storia d’Israele sulla base delle sole fonti archeologiche ed epigrafiche coeve, mettendo da parte il testo biblico, facendo finta di cancellarlo dalla nostra memoria
9, ebbene il risultato sarebbe di sconcertante modestia per quantità e per qualità dei dati disponibili e dei problemi formulabili. Si pensi alla ricorrente difficoltà di redigere una storia dell’intera regione palestinese che non sia in pratica una storia d’Israele con qualche cenno ai popoli minori e circostanti10. La difficoltà sta proprio nel fatto che per questi altri popoli non si dispone d’altro che di archeologia e poche epigrafi: le "Bibbie" di Damasco, di Tiro, di Gaza, di Moab, che pur certamente esistettero, sono perse per sempre.Il permanere dello sbilanciamento documentario ha perpetuato a tutt’oggi (almeno in certi ambienti) la vecchia sudditanza dei dati archeologici al testo biblico, con l’annosa domanda se i dati dell’un blocco confermino oppure contraddicano quelli dell’altro. E però c’è un’importante innovazione: al vecchio modo di usare storiograficamente l’archeologia, modo basato su monumenti e documenti, è subentrato un modo diverso, basato sulla cultura materiale e sull’uso del territorio. Ora, mentre il monumento induce ad un confronto di veridicità puntuale, l’analisi territoriale o di cultura materiale riguarda settori non direttamente confrontabili, e di più ampio respiro. Ne risultano alcune conseguenze, abbastanza rilevanti.
Il ruolo tardo-ottocentesco dell’archeologia quale conferma del testo biblico contro l’ipercritica testuale si dovrebbe a questo punto capovolgere: ormai il vero dissidio è tra una ricostruzione testuale di stampo tradizionale ed una ricostruzione archeologica di stampo innovativo, ove semmai l’archeologia si allea alla critica testuale e non certo all’immutabile "testo". In altre parole, diventa possibile immaginare che lo scaglionamento diacronico dei vari materiali testuali si accordi con le linee portanti della storia territoriale e culturale a base archeologica, isolando il racconto tradizionale nella sua specifica natura di prodotto ideologico datato.
Questo è stato — o meglio avrebbe dovuto essere — lo schema ovvio per scrivere una storia d’Israele negli anni ’70 ed ’80. Non conosco peraltro ricostruzioni complessive della storia d’Israele, scritte in quegli anni, che presentino in maniera coraggiosa e decisa queste caratteristiche progettuali: che partano cioè dallo scenario archeologico e dalla cronologia critica delle fonti, per utilizzare poi i materiali testuali nel ricostruire l’epoca di redazione e non quella dei personaggi implicati. La rivoluzione copernicana che si intravedeva possibile, ma non è stata adottata come paradigma normalizzato.
5. La storia d’Israele come protostoria
Nell’affinamento metodologico del lavoro archeologico sul campo, hanno molto giovato gli apporti e le problematiche della preistoria13. La vecchia distinzione tra storia e preistoria è venuta a cadere, sia perché i quadri ricostruttivi delle culture preistoriche tendono a risultati propriamente storici, sia viceversa perché i quadri ricostruttivi delle culture storiche includono settori a base non testuale. Ora, gran parte del lavoro archeologico che si è venuto svolgendo negli ultimi decenni in Palestina, specie sulla fase cruciale del passaggio dall’età del bronzo all’età del ferro (fase cruciale perché contiene in sé la questione sull’origine d’Israele), è un lavoro condotto secondo una metodologia sostanzialmente protostorica: non più intesa come una volta a cercare conferme o smentite ad un corpus testuale di riferimento, ma intesa a ricostruire la situazione per linee interne.
Ho detto però "metodologia protostorica" e non "metodologia preistorica" non a caso, ma pensando al fatto che, una volta ricostruito il quadro insediamentale e della cultura materiale, e una volta tratteggiato il quadro delle strutture sociali e dei modi di produzione come la moderna esegesi archeologica consente di fare, diventa allora legittimo porsi il problema di un raffronto con le informazioni (posteriori o esterne che siano) che vengono dai testi
14. Gli studiosi di protostoria europea, una volta ricostruita — poniamo caso — la civiltà di La Tène su base strettamente archeologica, si pongono poi legittimamente il problema se tale cultura abbia o non abbia qualcosa a che vedere coi Celti di cui parlano le fonti greche e latine15. Analogamente, una volta ricostruito per il periodo del ferro I palestinese un orizzonte di villaggi diffusi dalla Galilea al Negev, è legittimo chiedersi: ma non si tratterà dell’Israele pre-monarchico?16 E viceversa, constatando la mancanza di documentazione archeologica su un vasto e potente organismo politico nel X secolo, è legittimo chiedersi: ma allora dov’è il regno di Davide e di Salomone?17 Non sarà forse tutta una finzione tarda? O dobbiamo ancora pazientare e cercare meglio?In questa procedura sembra possibile evitare entrambi gli opposti estremismi: da un lato quello di una tranquillizzante conferma che porta ad accettare in toto il racconto biblico, dall’altro quello del sospetto di una colossale falsificazione che non sia neppure basata su informazioni o fonti autentiche per noi perse ma legittimamente postulabili. Io devo da un lato confessare la mia assoluta adesione all’impegno primario dello storico, che è quello di dubitare delle sue fonti; ma dall’altro devo riconoscere che i controlli possibili su fonti esterne hanno di norma confermato l’attendibilità dei racconti biblici di carattere storico
18 (altra cosa sono ovviamente le leggende etiologiche e i miti di fondazione). L’ipotesi di una colossale falsificazione, di una "invenzione" d’Israele (per alludere qui ai titoli di un paio di libri recenti)19 mi pare in buona sostanza da respingere. Una redazione tarda e tendenziosa non esclude fonti antiche ed affidabili.
6. Necessità di storicizzare il concetto di "Israele"
Resta però l’ostacolo, ben avvertito sin dall’impostazione wellhauseniana ma non ancora del tutto rimosso, di una concettualizzazione immutabile e perciò anti-storica dell’entità "Israele" — entità che è invece cresciuta su sé stessa nel corso dei secoli, e che una volta compiuta per intero la sua parabola ha poi riletto e riscritto a sua immagine e somiglianza il suo passato. L’Israele delle origini non è certo identico all’Israele monarchico o esilico o post-esilico. Quel che va ricollocato nel corso dei secoli non è dunque un’entità già ben caratterizzata, ma un processo in divenire. I vari elementi costitutivi del concetto di "Israele" si sono costituiti uno per volta, non tutti insieme: c’è uno sfondo linguistico ed etnico, c’è un assestamento territoriale, c’è un sistema socio-economico, c’è un’unificazione politica (o magari più d’una), c’è un’ortodossia religiosa (il dio unico e il tempio unico), c’è una validazione storiografica, c’è una validazione legislativa20. E tutti questi aspetti, tutti questi percorsi, non sono stati univoci, rettilinei; hanno conosciuto regressi e riprese, oscillazioni e separazioni, anzi alcuni sono intervenuti quando altri erano già spenti per sempre.
La ricollocazione dei materiali deve tenerne conto, ma non è impresa da poco, e finora non mi pare sia stata eseguita in maniera soddisfacente. Il revisionismo ha sempre prodotto e continua a produrre più manifesti e prolegomena che non storie compiute. Dove trovare una storia d’Israele che abbia il coraggio di collocare nell’XI secolo la descrizione di una società gentilizia e di villaggio, ricostruita su base archeologica e magari non dissimile da quella descritta nel libro dei Giudici, ma di collocare nel IV secolo l’ideologia della comunità religiosa, il monoteismo yahwistico, la nostalgia monarchica, le tensioni interetniche, che pure emergono dallo stesso libro? Dove trovare una storia d’Israele che abbia il coraggio di immaginare il tempio di Salomone (o comunque il tempio di Gerusalemme in età monarchica) come un modesto annesso del palazzo reale, come un santuario tra i tanti, utilizzandone invece la dettagliata descrizione biblica di 1 Re 6-7 per quello che è, e cioè un "manifesto" progettuale per la costruzione del secondo tempio?
Gli stessi archeologi — sia i vecchi "archeologi biblici" sia i nuovi "archeologi siro-palestinesi" — hanno sempre cercato di collegare le risultanze dei loro scavi all’evento biblico, mai alla sua redazione. Attenti alle stratigrafie materiali, non lo sono altrettanto alle stratificazioni testuali.
7. Il rischio di fuoruscita dalla storia
Purtroppo, la lentezza nell’adottare le conseguenze più radicali (e positivamente costruttive) del nuovo modo di fare storia, del nuovo ruolo e delle nuove potenzialità dell’archeologia, ha portato ad una sorta di sfasamento operativo rispetto alle più recenti tendenze nel campo dell’analisi testuale e letteraria. Se non sbaglio, la cosiddetta "nuova storia" e la cosiddetta "nuova archeologia" potrebbero interagire al meglio con una critica letteraria di matrice in ultima analisi wellhauseniana (nei principi di base, non nelle specifiche proposte che oggi sembrano alquanto conservatrici), intendo dire con una ricollocazione dei materiali testuali scaglionati nel tempo e gravitanti sull’epoca di redazione più che su quella di riferimento.
Invece le più recenti tendenze di critica testuale e letteraria mi sembrano caratterizzate da tendenze decostruttiviste, non indirizzate ad una nuova storia ma semmai a nuove teologie. Aleggia anche negli studi biblici la formula della "fine della storia"
21. Sembra che la corretta collocazione dei materiali documentari nel loro specifico contesto cronologico ed ambientale non sia più considerata la base o il fine ultimo dell’analisi testuale22. Il genere letterario della "Storia d’Israele" viene ormai definito "obsoleto"23. A parafrasare i titoli di alcuni libri recenti ed assai stimolanti, c’è chi si chiede se sia possibile scrivere una storia d’Israele24, c’è chi si pone alla ricerca dell’Israele antico come qualcosa di problematico25, c’è chi ne parla apertamente come di una falsificazione storica26, o una costruzione letteraria27, o comunque come un edificio che debba essere smontato28 (e non necessariamente rimontato). Il vecchio problema di valutare l’attendibilità di una ricostruzione storica in rapporto ad un referente reale, di fatti realmente accaduti, di realtà effettivamente esistite, è venuto meno essendo venuto a cadere il referente reale. Credo che questo atteggiamento "post-moderno" (come si suol definire) abbia molto a che fare con l’enorme proliferazione dei flussi di informazione indiretta e incontrollabile cui siano sottoposti. Il sopravvento dell’informazione sul fatto porta a dubitare dell’esistenza stessa del fatto: È il mondo "virtuale" nel quale siamo ormai immersi.Certamente i principali sostenitori del nuovo corso (Th.L. Thompson, N.P. Lemche, Ph. Davies) ritengono di fare storia, di gettare le basi per una nuova — allargata nei problemi e nelle fonti, consapevolmente critica, finalmente corretta — storia d’Israele. La mia preoccupazione è che tale tentativo, che effettuato negli anni ’70 e con piena adesione al "mestiere" filologico della critica testuale sarebbe stato certamente costruttivo, rischia ora (nel clima degli anni ’90) di farsi coinvolgere nelle tendenze decostruttiviste e antistoriche dominanti.
Non mi addentrerò, per assoluta incompetenza, nei meandri peraltro affascinanti delle nuove teologie; mi limiterò a notare che un atteggiamento decostruttivista non aiuta la ricostruzione storica come la si intendeva fino ad anni recenti. Una volta smontato il libro dei Giudici (per restare nell’esempio già utilizzato sopra) in senso strutturale lévistraussiano
29, o in senso femminista30, o in qualunque altro senso che ne illustri i valori morali o le tensioni sociali o i meccanismi mentali, si intende che questi valori e questi meccanismi si pongano fuori della storia, che la loro datazione precisa sia impossibile o irrilevante: XI secolo o VI o III non fa grande differenza. È in pratica: posto che i racconti del libro dei Giudici non vengono più utilizzati per scrivere il capitolo (ormai inesistente) della lega tribale pre-monarchica, non si sa poi per quale altro capitolo utilizzarli e si finisce per non utilizzarli affatto (a fini di ricostruzione storica).Non a caso le proposte storiografiche più stimolanti, nel variegato mondo del revisionismo, riguardano la critica del paradigma passato, e la sottolineatura dei suoi condizionamenti: penso all’inserimento dell’Israele biblico nell’Orientalismo quale discorso occidentale per produrre un proprio "doppio" su cui riversare inconfessabili brame
31. Penso agli studi sul colonialismo come appropriazione del passato altrui al fine di legittimare il proprio32. Penso all’impatto del sionismo nel disegnare un modello antico di validazione per i progetti politici in corso33. Penso all’individuazione del contesto europeo (e specialmente tedesco) di fine ’800 quale matrice della centralità dei concetti di "stato" e di "nazione"34. Penso alle rivendicazioni femministe di una storia che non sia solo al maschile, alle rivendicazioni terzo-mondiste di una storia che non sia sempre vista da Occidente, che fanno seguito a quelle marxiste di una storia che non sia solo quella delle classi dominanti. Tutto questo lavorio critico e auto-critico è di per sé lodevole e anzi ottimo; ma finché resta a livello di manifesto rivendicativo, esso deve ancora affrontare la parte più difficile del lavoro, che è quella di scrivere davvero una storia che non incorra né in questi peccati ormai svelati né in altri dei quali le generazioni future ci faranno senza dubbio carico.
8. Il "dovere" di fare storia
In altre parole, anche ammesso che la storia (tutta la storia, non solo quella d’Israele) sia storiografia, che al racconto ricostruttivo non corrisponda poi una "cosa vera", un fatto accaduto, che il rapporto tra testimonianza e realtà sia un falso problema, che insomma la realtà storica sia inafferrabile e comunque ormai perduta, e che si abbiano solo costrutti ideologici — ebbene, tutto ciò posto resta pur sempre anche per la nostra generazione il dovere di dar forma storiografica ai nostri costrutti ideologici, di scrivere la nostra storia d’Israele35, secondo le nostre metodologie e secondo le nostre consapevolezze critiche che sono comunque assai più avanzate di quelle delle generazioni precedenti.
Talvolta la protesta decostruttivista, almeno quella più "gridata" e polemica, mi sembra una fuga in avanti: una denuncia degli errori del passato (più facile quando si tratta di un passato non più recente), ma senza l’assunzione di responsabilità che consiste nel tentare davvero, in positivo, in concreto, una storia secondo un nuovo paradigma. Più fattivamente lavora semmai in questa direzione chi senza tanti proclami cerca di emendare ed aggiornare la propria metodologia di lavoro storiografico, puntando ad una più soddisfacente soluzione del problema centrale, che a mio avviso resta ancora quello di saldare una ricostruzione protostorica con una ricollocazione dei testi e delle ideologie che li hanno generati nel corso dei secoli.
Se dunque il progetto di scrivere una storia d’Israele è stato a lungo impedito dal peso della teologia tradizionale, ora esso è infastidito dal fiorire delle pretese decostruttiviste, e in particolare dalla pretesa che l’ideologia storiografica del nostro tempo sia appunto quella di negare la storia. Si deve constatare che il testo ha sempre schiacciato la storia: dapprima vietando di metterne in dubbio persino le virgole, ed oggi vietando di credere all’esistenza stessa di un referente reale.
Tra i due estremi opposti, forse c’è stato un momento in cui era possibile scrivere una storia d’Israele che non fosse una parafrasi della parola divina né un esercizio di smontaggio puro. Quel momento magico sembra scaduto: prima non si è potuto scrivere una storia d’Israele per carenze documentarie e pregiudiziali teologiche; poi quando è stato possibile non lo si è fatto; ormai è troppo tardi e il progetto non interessa più in quanto attardato e fuori moda.
Ma forse siamo ancora in tempo per scrivere una storia d’Israele critica ed equilibrata, normale e magari noiosa, analoga a quella di tanti altri popoli e paesi e periodi. Si potrebbe obiettare che di storie normali e noiose ne abbiamo già tante, una in più non cambierebbe le cose. Un Israele normalizzato sul modello degli Aramei o dei Fenici o dei Neo-Hittiti, non avrebbe alcun interesse e alcun valore. Mi si consenta di non aderire a questa obiezione. In primo luogo non si può impunemente sottrarre una regione alla ricostruzione storica generale, non si può trattare del Vicino Oriente lasciando un buco nero, o comunque un caso anomalo, una diversità irriducibile, per di più in una zona-chiave (di mediazione e di raccordo) come la Palestina — o forse dovremmo dire il "Levante meridionale" per essere "politicamente corretti".
E poi, e soprattutto, si tratterebbe comunque di una storia affascinante, una storia in cui alla continua ristrutturazione del territorio e dell’insediamento umano, dei modi di produzione e delle strutture sociali e delle aggregazioni politiche si sovrappone la continua riutilizzazione ideologica del passato sotto la spinta delle situazioni presenti. Per uno studioso laico quale io sono, la storia d’Israele non sarà magari unica e speciale per decisione divina, per missione salvifica, per ruolo cosmico; ma è pur sempre alquanto speciale a motivo delle correnti di pensiero umano che in essa si sono dispiegate e che hanno influenzato tanta parte del mondo nei secoli successivi.
Appendice: Quando far cominciare la storia d’Israele
Se un’interpretazione fideistica dell’Antico Testamento doveva considerare parimenti "storici" tutti i periodi (sin dalla creazione dell’uomo), un approccio storico deve porre un discrimine (o almeno una zona di transizione) tra le narrazioni chiaramente mitiche e quelle chiaramente storiche, e segnare insomma una data d’inizio della storia d’Israele. Il periodo dei Patriarchi è stato difeso come storico almeno sino al libro di Thompson36, ma ormai non è più difeso da nessuno. Anche l’episodio dell’esodo è comunemente accettato come "fondante" ma storicamente inattendibile. La storicità del periodo dei Giudici, è ancora basilare nella ricostruzione del Noth (con la sua anfizionia tribale)37, è ormai sostituita da una collocazione fuori del tempo ("prima" della storia documentata) di leggende e tradizioni mitiche38.
Il dibattito si è ormai accentrato sulla storicità della monarchia unita (e non potrà scendere ulteriormente nel tempo, data la indubbia storicità della fase dei regni divisi). A parte gradazioni pur di rilievo che si possono proporre tra un Saul prevalentemente mitico
39, un David fortemente fondante40, e un Salomone largamente storico41, la questione viene meglio impostata globalmente sull’esistenza o meno (la plausibilità o meno) di un Israele politicamente unificato nel X secolo a.C.42.Da un lato è assai allettante una diagnosi di non storicità: un regno unito (mai esistito) come "mito di fondazione" per le aspirazioni all’unità politica di età postesilica (o magari già per le aspirazioni espansionistiche di Giosia nel quadro del collasso assiro); una cronologia per cifre "tonde" (40 e 40 anni per David e Salomone) di evidente valore generazionale; una modesta città-stato di Gerusalemme (magari con la sua "casa di David")
43 sotto orbita filistea e nel nord un chiefdom ancora largamente tribale fino alla fondazione di Samaria e della dinastia omride. Si avrebbe un’emergenza politica di Israele (e Giuda) di tipo "morbido", o progressivo, correlabile agli analoghi processi formativi degli stati aramaici della Siria, e del tutto diversa dal processo inverso (dall’unità e potenza alla divisione e subalternità) delineato dalla storiografia biblica. Qualcosa di assai simile avvenne — se una mia proposta in proposito è accettabile44 — per il regno antico-hittita che anche si intravede come un faticoso processo che va dalla frammentazione all’unità ma che il posteriore "editto di Telipinu" descrive al contrario come un processo dall’unità alla disgregazione, al fine di far valere il modello antico come base per la rifondazione proposta (o sognata) da Telipinu stesso. Il ruolo del fittizio re Labarna, modello di originaria coesione, troverebbe il corrispettivo nel ruolo di David45.D’altro lato, se la monarchia unita fosse tutta una artificiosa e funzionale costruzione posteriore, resterebbe sempre il problema di valutare storicamente i materiali che in tale costruzione sono confluiti. Le falsificazioni più accorte vengono sempre basate su materiali veri o verosimili, e molte notizie e passi delle storie di David e Salomone sembrano troppo dettagliate e ben ambientate per essere semplicemente attribuibili ad un falsario del III secolo. Se pure dunque si tratta di costruzione tardiva, il problema storiografico non si ferma qui: resta l’impegno a discernere la provenienza e la validità dei materiali impiegati, la loro datazione, il loro ambito di riferimento originario.
Ovviamente il problema è di enorme rilevanza: si può ancora concepire un Israele senza Patriarchi e senza Esodo, senza Giudici e senza lega tribale; ma se si elimina anche lo stato unitario davidico-salomonico, allora il concetto stesso di Israele scende nel tempo tanto da vanificarsi
46. Pur dando valore al progetto (peraltro rapidamente fallito) di Giosia, con l’espansione territoriale, la centralizzazione del culto e la "riscoperta" della legge, il tempio "salomonico" avrebbe svolto il suo ruolo di riferimento centrale per una trentina d’anni appena, prima di esser distrutto.Trattandosi di problema di tanto rilievo occorre riconoscere che l’assenza di riferimenti esterni ad un Israele unito nei testi del X secolo non è di per sé argomento valido: occorrerebbe chiedersi infatti qual è il contesto in cui avrebbe dovuto esser menzionato un Israele unito e invece non lo è
47. Più seria è la questione del panorama archeologico. Un orizzonte "salomonico" di opere pubbliche è stato a lungo sostenuto su evidente suggestione del testo biblico e con evidenti forzature della stratigrafia e della cronologia. Una volta che la "lettura" stessa del testo cambia, anche l’orizzonte archeologico viene facilmente rimodellato in conseguenza. Attualmente la ricostruzione di un fiorente e unitario regno d’Israele nel X secolo non sembra avere adeguato riscontro urbanistico e monumentale48.
SUMMARY
The History of Israel has always been conditioned by the weight of the Old Testament in that the latter, with its complex editorial character and its quite special theological value, is practically the only source. After a long phase during which stories about Israel took shape as a redactional post-canonical stratum, and after research into archaeological and philological parallels in the surrounding Near East with a view to drawing up an enormous hypertext, modern research seemed to have rightly settled for a kind of "proto-historical" use of archaeological documentation connected with distribution of textual data according to periods of redaction or reworking. Moreover, recent tendencies of a "post-modern" type, implicitly or explicitly denying the existence of a real referent for the historiographic account, are likely to exhaust once again the historical reconstruction of the biblical text at the level of criticism (ideological, literary, theological or other).
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Note:
1
Si veda la recentissima presentazione di M. VAN DE MIEROOP, Cuneiform Texts and the Writing of History (London – New York 1999).2
Da ultimo M.T. LARSEN, The Conquest of Assyria (London – New York 1994).3
Le opere di A.H. SAYCE, come The "Higher Criticism" and the Verdict of the Monuments (London 1893), e altre successive, sono tra le più indicative del clima dell’epoca. Cf. B. ZINK – MACHAFFE, "Monumental Facts and High Critical Fancies", Church History 50 (1981) 316-328.4
Rinvio (per l’antico Oriente) al mio "Memorandum on the Approach to Historiographic Texts", Or 42 (1973) 178-194.5
Per una presentazione della "nouvelle histoire" cf. (fra l’altro) J. LE GOFF – P. NORA, Faire de l’histoire (Paris 1974) I-III. La scuola francese delle "Annales" è stata il principale laboratorio di rinnovamento storiografico.6
Ometterò, nella trattazione che segue, citazioni di opere degli anni ’60-’70, ormai acquisite alla valutazione storiografica, per limitarmi ad una campionatura (spero sufficiente, ma comunque esemplificativa) di opere dell’ultimo ventennio. Per un’ampia storia critica della questione si veda Th.L. THOMPSON, Early History of the Israelite People (Leiden 1994) 1-170. Il più vivace foro di dibattito sul metodo è stato negli ultimi vent’anni il Journal for the Study of the Old Testament.7
Da N.K. GOTTWALD, The Tribes of Yahweh. A Sociology of the Religion of Liberated Israel 1250-1050 B.C.E. (New York 1979) (di ispirazione marxista "terzo-mondista", da movimento di liberazione), fino a F.S. FRICK, The Formation of the State in Ancient Israel (Sheffield 1985) (di stampo neo-evoluzionista), a R.B. COOTE – K.W. WHITELAM, The Emergence of Early Israel in Historical Perspective (Sheffield 1987), e a N.P. LEMCHE, Early Israel. Anthropological and Historical Studies on the Israelite Society Before the Monarchy (Leiden 1985). Si noti che l’approccio sociologico, dovendosi basare su una ricca documentazione testuale, tende a dar valore al racconto biblico.8
Sull’eredità del tardo bronzo (essenziale già nella visione di G.E. Mendenhall), cf. D.N. FREEDMAN – D.F. GRAF (eds.), Palestine in Transition. The Emergence of Ancient Israel (Sheffield 1983).9
J.M. MILLER, "Is it Possible to Write a History of Israel without Relying on the Hebrew Bible?", The Fabric of History (ed. D.V. EDELMAN) (Sheffield 1991) 93-102; cf. anche E.A. KNAUF, "From History to Interpretation", The Fabric of History (ed. D.V. EDELMAN) (Sheffield 1991) 46-47 nota 2.10
Da A.T. OLMSTEAD, History of Palestine and Syria (New York 1931), fino a H. WEIPPERT, Palästina in vorhellenistischer Zeit (München 1988) e a G.W. AHLSTRÖM, The History of Ancient Palestine (Sheffield – Minneapolis 1993). Segnalo anche A. GIARDINA – M. LIVERANI – B. SCARCIA AMORETTI, La Palestine. Histoire d’une terre (Paris 1990). Il recente (e ottimo) volumetto programmatico di K.W. WHITELAM, The Invention of Ancient Israel. The Silencing of Palestinian History (London – New York 1996) introduce l’equivoca ambiguità tra l’accezione geografico-descrittiva e quella politica e attualistica (quale contraccolpo al Sionismo) dei termini "Palestina" e "Palestinesi".11
Mi piace rilevare come la "Territorialgeschichte" di A. ALT, Die Landnahme der Israeliten in Palästina (Leipzig 1925), pur con la metodologia e le scarse conoscenze dell’epoca, abbia aperto una prospettiva fruttuosa.12
Su questa linea si pone il progetto di Th.L. THOMPSON, Early History of the Israelite People (Leiden 1994) e già in The Origin Tradition of Ancient Israel (Sheffield 1987). Per l’ultima versione cf. ora Th.L. THOMPSON, TheBible in History. How Writers Create a Past (London 1999).13
Per una prima informazione sulla "New Archaeology" si può consultare B.C. TRIGGER, A History of Archaeological Thought (Cambridge 1989); si noti che nel dibattito sull’archeologia palestinese il termine "New Archaeology" è spesso usato in senso lato (come archeologia metodologicamente ammodernata) più che in quello specifico (binfordiano).14
È stato peraltro rilevato, ad esempio da N.P. LEMCHE, The Israelites in History and Tradition (Louisville, KY 1998) 30-34, e da altri, che la conoscenza preventiva del testo di riferimento influenza inevitabilmente (e magari inconsciamente) la stessa ricerca e formulazione del dato archelogico.15
Sulla ovvia problematicità di un simile raffronto cf. C. RENFREW, Archeologia e linguaggio (Roma – Bari 1989) 240-254.16
I. FINKELSTEIN, The Archaeology of the Israelite Settlement (Jerusalem 1988). Si veda anche D.C. HOPKINS, The Highlands of Canaan (Sheffield 1985).17
W.G. DEVER, Recent Archaeological Discoveries and Biblical Research (Washington 1990) 87-117 è decisamente ottimista. Per una valutazione delle posizioni di Dever come sostanzialmente conservatrici cf. Th.L. THOMPSON, "W.G. Dever and the Not So New Biblical Archaeology", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 26-43. Cf. più avanti (Appendice).18
La corrispondenza tra le cronologie biblica e assira è tale da far scartare l’ipotesi di una "invenzione" che non sia basata su fonti autentiche ed attendibili.19
Mi riferisco a EDELMAN, Fabric of History, e a WHITELAM, Invention of Ancient Israel.20
È questo l’approccio da me tentato nel già citato Palestine. Histoire d’une terre.21
Sulle tendenze post-moderne in storiografia si veda l’ottima rassegna di H.M. BARSTAD, "History and the Hebrew Bible", Can a ‘History of Israel’ Be Written? (ed. L.L. GRABBE) (Sheffield 1997) 37-64, che mi esime da ulteriori indicazioni bibliografiche.22
In linea generale sembra (per paradossale che sia) che l’attenzione prestata allo scaglionamento diacronico di fonti e redazioni era massima quando si adottava una cronologia piuttosto alta della composizione antico-testamentaria; e che invece tale attenzione sia del tutto caduta ora che si considera l’Antico Testamento "un libro ellenistico". È chiaro invece che più bassa è la redazione, più lunga la distanza di tempo rispetto agli eventi narrati (o inventati che siano), maggiore è il bisogno di esplorare il percorso di collegamento, dunque tradizioni o fonti documentarie o precedenti redazioni o altro.23
Ph. R. DAVIES, In Search of ‘Ancient Israel’ (Sheffield 1992) 13.24
GRABBE, Can a ‘History of Israel’ Be Written?; e già N.P. LEMCHE, "Is It Still Possible to Write a History of Ancient Israel?", SJOT 8 (1994) 163-188.25
DAVIES, In Search of ‘Ancient Israel’. Per l’autore "Ancient Israel" (sempre virgolettato) è uno "scholarly (/theological) construct", diverso dal "biblical (/literary) Israel" e dallo "historical Israel" (che è il regno settentrionale).26
EDELMAN, Fabric of History. Si veda anche il titolo dei prolegomena di LEMCHE, Israelites: "Inventing the Past". Anche Lemche ricostruisce l’Israele biblico e l’Israele storico come due entità separate.27
THOMPSON, Bible in History, ha il sottotitolo "How Writers Create a Past". Si tratta dell’opera più recente sull’argomento (anche se largamente riprende le opere precedenti dello stesso autore) e che maggiormente minimizza il referente storico "reale".28
Talvolta si avverte una qualche confusione tra lo smontaggio della costruzione ideologica antica e della costruzione storiografica moderna; due problemi collegati ma distinti; cf. ad esempio LEMCHE, Israelites, 163-165.29
La lettura strutturale dell’Antico Testamento è stata avviata da E. LEACH, Genesis as a Myth and Other Essays (London 1969); cf. ora C. GROTTANELLI, Sette storie bibliche (Brescia 1998).30
Cf. opere come M. BAL (ed.), Anti-Covenant. Counter-Reading Women’s Lives in the Hebrew Bible (Sheffield 1989); I. TRIBLE, Texts of Terror. Literary-Feminist Reading of Biblical Narrative (Philadelphia 1984); A. BRENNER (ed.) A Feminist Companion to Judges (Sheffield 1993); G.A. YEE, Judges and Method. New Approaches in Biblical Studies (Fortress 1995).31
Sulla scia di E. SAID, Orientalism (New York 1979); Culture and Imperialism (New York 1993). Il riferimento è esplicito (e appropriato) in WHITELAM, Invention, 3-10 e passim.32
Per l’archeologia palestinese cf. N.A. SILBERMAN, Digging for God and Country (New York 1982); Between Past and Present (New York 1989). Cf. anche WHITELAM, Invention, 79-101 e passim.33
Il caso emblematico di Masada è stato sottolineato in particolare da WHITELAM, Invention, 16-17.34
J. SASSON, "On Choosing Models for Recreating Israelite Pre-Monarchic History", JSOT 21 (1981) 3-24; WHITELAM, Invention, 17-23. Analoga critica verrà in futuro fatta all’attuale enfasi sulla "etnicità" (ad esempio in LEMCHE, Israelites, 8-20), sulla scia di opere come E. GELLNER, Nations and Nationalism (Oxford 1983); A.D. SMITH, The Ethnic Origins of Nations (Oxford 1986).35
Cf. la posizione costruttiva di GRABBE, Can a History, 19-36 (il quale peraltro mi sembra sottovalutare gli aspetti "ideologici" della questione). È interessante notare che le tendenze decostruttiviste si applicano soprattutto alla storia moderna, a periodi cioè per i quali le interpretazioni sono discutibili ma i "fatti" sono accertati e dati per scontati.36
Th.L. THOMPSON, The Historicity of the Patriarchal Narratives (Berlin 1974); cf. anche J. VAN SETERS, Abraham in History and Tradition (New Haven 1975).37
Cf. da ultimo LEMCHE, Israelites, 97-107.38
Cf. GROTTANELLI, Sette storie.39
D. EDELMAN, "Saul ben Kish in History and Tradition", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 142-159 è piuttosto positiva (un re di Gibeon, di data ignota, che si espande su Efraim e Beniamino). È un peccato che la Edelman non conosca la posizione (nettamente "mitica") di Grottanelli (Sette storie, 207-261 e studi precedenti dello stesso autore).40
N. NA’AMAN, "Sources and Composition in the History of David", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 170-186, sostiene che un regno davidico unitario non è impossibile ma resta incerto. Per posizioni negative cf. nota 45, e di recente N.P. LEMCHE, "From Patronage Society to Patronage Society", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 106-120; WHITELAM, Invention, 160-173.41
Per una posizione positiva cf. B. HALPERN, "The Construction of the Davidic State: An Exercise in Historiography", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 44-75 (2 Re 8 basato su iscrizioni reali coeve). Del tutto negativo KNAUF, "From History", 39.42
Si veda il già più volte citato volume edito da FRITZ e DAVIES; in precedenza ad esempio THOMPSON, Early History, 331-334, 409-412; DAVIES, In Search of ‘Ancient Israel’, 63-67; Th.L. THOMPSON, "Text, Context and Referent in Israelite Historiography", The Fabric of History (ed. D.V. EDELMAN) (Sheffield 1991) 87-91; G.W. AHLSTRÖM, "The Role of Archaeological and Literary Remains in Reconstructing Israel’s History", The Fabric of History, (ed. D.V. EDELMAN) (Sheffield 1991) 135-139; THOMPSON, Bible in History, 200-210.43
Sulle epigrafi di Tel Dan cf. da ultimo LEMCHE, Israelites, 38-43.44
"Storiografia politica hittita, II: Telipinu, ovvero: della solidarietà", OrAnt 16 (1977) 105-131.45
L’approccio critico-riduttivo al regno unito è stato avviato da G. GARBINI, "L’impero di David", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa III/13 (1983) 1-20 (= Storia e ideologia, 42-57) e da D. JAMIESON-DRAKE, Scribes and Schools in Monarchic Judah (Sheffield 1991).46
Cf. LEMCHE, Israelites, 155 "the only remaining possibility if we at all intend to speak about an Israelite nationality that has its roots in real history and not in an invented one".47
Cf. le considerazioni di Ch. SCHÄFER-LICHTENBERGER, "Sociological and Biblical Views of the Early State", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 80-81.48
Più ottimisti DEVER, Recent Discoveries, 87-117; V. FRITZ, "Monarchy and Re-urbanisation: A New Look at Solomon’s Kingdom", The Origins of the Ancient Israelite States (ed. V. FRITZ – Ph.R. DAVIES) (Sheffield 1996) 187-195.