Quarto
Concilio Lateranense
Dall'11 al 30 novembre 1215
Papa Innocenzo III (1198-1216)
Tre sessioni. Settanta capitoli: confessione di fede contro i Catari;
transustanziazione eucaristica; confessione e comunione annuale.
COSTITUZIONI
I
La fede cattolica
Crediamo fermamente e confessiamo
semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente,
immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre
persone, ma una sola essenza, sostanza o natura semplicissima. Il Padre (non
deriva) da alcuno, il Figlio dal solo Padre, lo Spirito Santo dall'uno e
dall'altro, ugualmente, sempre senza inizio e senza fine. Il Padre genera, il
Figlio nasce, lo Spirito Santo procede. Sono consostanziali e coeguali,
coonnipotenti e coeterni, principio unico di tutto, creatore di tutte le cose
visibili e invisibili, spirituali e materiali. Con la sua onnipotente potenza
fin dal principio del tempo creò dal nulla l'uno e l'altro ordine di creature:
quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l'uomo,
quasi partecipe dell'uno e dell'altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo
infatti, e gli altri demoni, da Dio sono stati creati buoni per natura, ma sono
diventati malvagi da sé stessi. E l'uomo ha peccato per suggestione del
demonio. Questa santa Trinità, una, secondo la comune essenza, distinta secondo
le proprietà delle persone, ha rivelato al genere umano, per mezzo di Mosè, dei
santi profeti e degli altri suoi servi la dottrina di salvezza, secondo una
sapientissima disposizione dei tempi. E finalmente il Figlio unigenito di Dio,
Gesù Cristo, incarnatosi per opera comune della Trinità, concepito da Maria
sempre vergine con la cooperazione dello Spirito Santo, divenuto vero uomo,
composto di anima razionale e di carne umana, una sola persona in due nature,
manifestò più chiaramente la via della vita. Immortale e impassibile secondo la
divinità, Egli si fece passibile e mortale secondo l'umanità; anzi, dopo aver
sofferto sul legno della croce ed esser morto per la salvezza del genere umano,
discese negli inferi, risorse dai morti e salì al cielo; ma discese con
l'anima, risorse con la carne, salì con l'uno e l'altro; e verrà alla fine dei
tempi per giudicare i vivi e i morti e per compensare ciascuno secondo le sue
opere, i cattivi come i buoni. Tutti risorgeranno coi propri corpi di cui ora
sono rivestiti, per ricevere un compenso secondo i meriti, buoni o cattivi che
siano stati: quelli con il diavolo riceveranno la pena eterna, questi col
Cristo la gloria eterna.
Una, inoltre, è la chiesa universale
dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva. In essa lo stesso
Gesù Cristo è sacerdote e vittima, il suo corpo e il suo sangue sono contenuti
realmente nel sacramento dell'altare, sotto le specie del pane e del vino,
transustanziati il pane nel corpo, il sangue nel vino per divino potere;
cosicché per adempiere il mistero dell'unità, noi riceviamo da lui ciò che egli
ha ricevuto da noi.
Questo sacramento non può compierlo
nessuno, se non il sacerdote, che sia stato regolarmente ordinato, secondo i
poteri della chiesa che lo stesso Gesù Cristo concesse agli apostoli e ai loro
successori.
Il sacramento del battesimo, poi,
che si compie nell'acqua, invocando la indivisa Trinità, Padre, Figlio e
Spirito Santo, da chiunque conferito secondo le norme e la forma usata dalla
chiesa, giova alla salvezza sia dei bambini che degli adulti. Se uno, dopo aver
ricevuto il battesimo, è nuovamente caduto nel peccato, può sempre riparare
attraverso una vera penitenza. Non solo le vergini e i continenti, ma anche i
coniugi, che cercano di piacere a Dio con la retta fede e la vita onesta,
meritano di giungere all'eterna beatitudine.
II
Gli errori dell'abate Gioacchino
Condanniamo, quindi, e riproviamo
l'opuscolo o trattato che l'abate Gioacchino ha pubblicato contro il maestro
Pietro Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e
stolto, per aver detto nelle sue Sentenze: "Poiché il Padre, il Figlio e
lo Spirito Santo sono una realtà suprema, che né genera, né è generata, né
procede". Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una
Trinità, ma una Quaternità: ossia tre persone più la comune essenza, come un
quarto elemento, affermando chiaramente che non vi è cosa alcuna che sia Padre,
Figlio e Spirito Santo, né essenza, né sostanza, né natura, quantunque conceda
che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza, una sola
sostanza, una sola natura. Ma egli ritiene che questa unità non è vera e
propria, bensì quasi collettiva e analogica come quando si dice che molti
uomini sono un popolo, e che molti fedeli sono una chiesa, come
nell'espressione: La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un'anima
sola; e Chi aderisce a Dio forma un solo spirito con lui.
Similmente: Chi pianta e chi irriga sono tutt'uno ; e tutti siano un
solo cuore in Cristo. Ancora nel libro dei Re: Il mio Popolo e il tuo
sono una cosa sola.
A provare questa sua opinione, egli
adduce soprattutto quella espressione che Cristo dice dei suoi seguaci nel
Vangelo: Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi
siamo uno, Perché essi siano perfettamente uniti . In realtà, dice, i
fedeli del Cristo non sono una cosa sola, cioè una realtà comune a tutti; essi
sono un'unità, perché formano una sola chiesa a causa dell'unità della fede e,
finalmente, un solo regno per l'unità indissolubile dell'amore, proprio come si
legge nella lettera canonica di S. Giovanni: Perché tre rendono
testimonianza in cielo, il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo. E questi tre
sono una cosa sola, e aggiunge subito: e tre sono quelli che rendono
testimonianza in terra: lo spirito, l'acqua, e il sangue e questi tre sono una
cosa sola, come si legge in alcuni codici.
Noi, con l'approvazione del sacro
concilio universale, crediamo e confessiamo, con Pietro Lombardo, che esiste
una somma sostanza, incomprensibile e ineffabile, la quale è veramente Padre,
Figlio e Spirito Santo, le tre persone insieme, e ciascuna di esse
singolarmente. In Dio, quindi, vi è solo una Trinità, non una quaternità,
poiché ognuna delle tre persone è quella sostanza, essenza o natura divina, la
quale è, essa sola, principio di tutte le cose, e fuori della quale non se ne
può trovare altra. Essa non genera, non è generata, non procede, ma è il Padre che
genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede; in tale modo vi
è distinzione nelle persone e unità nella natura.
Quindi, se altro è il Padre, altro
il Figlio, altro lo Spirito Santo, non sono tuttavia altra cosa, ma ciò che è
il Padre è il Figlio e lo Spirito Santo; la stessa identica cosa, così da
doversi credere, conforme alla retta fede cattolica, che essi sono
consostanziali. Il Padre, infatti, generando il Figlio eternamente, gli diede
la sua sostanza, secondo quanto lui stesso attesta: Ciò che il Padre mi ha
dato è la più grande di tutte le cose; e non si può certo dire che gli
abbia dato una parte della sua sostanza, e che una parte l'abbia ritenuta per
sé: perché la sostanza del Padre è indivisibile, in quanto del tutto semplice.
E neppure si può dire che il Padre, generando, abbia trasfuso nel Figlio la sua
sostanza, quasi che comunicandola al Figlio non l'abbia conservata per sé; in
questo caso avrebbe cessato di essere sostanza. E’ chiaro, quindi, che il
Figlio, nascendo, ha ricevuto la sostanza del Padre senza alcuna diminuzione, e
quindi il Padre e il Figlio hanno la medesima sostanza; in tal modo il Padre e
il Figlio sono la stessa cosa; e così lo Spirito Santo che procede dall'uno e
dall'altro.
Quando, allora, la Verità prega il
Padre per i suoi fedeli, dicendo: "Voglio, Padre, che essi siano una
cosa sola in noi, come noi siamo una cosa sola", il termine una cosa
sola quando si tratta dei fedeli si deve prendere nel senso di unione della
carità nella grazia; per le persone divine, invece, deve intendersi come unità
di identità nella natura, come altrove dice la Verità: Siate Perfetti com'è
perfetto il vostro Padre celeste. E’ come se dicesse, più
chiaramente: "Siate perfetti della perfezione della grazia, come
il vostro Padre celeste è perfetto della perfezione che gli è
naturale", cioè ciascuno a suo modo, perché tra il creatore e la creatura
per quanto la somiglianza sia grande, maggiore è la differenza.
Se qualcuno, quindi, intendesse su
questo argomento difendere o approvare l'opinione, cioè la dottrina del
suddetto Gioacchino, sia ritenuto da tutti eretico. Con ciò, però, non vogliamo
gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato
maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto
più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero
approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece
con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli
confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di
Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli.
Riproviamo e condanniamo anche la
stravagante opinione dell'empio Amalrico; la cui mente è stata così accecata
dal padre della menzogna, che la sua dottrina non tanto deve giudicarsi
eretica, quanto insensata.
III
Degli eretici
Scomunichiamo e anatematizziamo ogni
eresia che si erge contro la santa, ortodossa e cattolica fede, come l'abbiamo
esposta sopra. Condanniamo tutti gli eretici, sotto qualunque nome; essi hanno
facce diverse, male loro code sono strettamente unite l'una all'altra, perché
convergono tutti in un punto: sulla vanità. Gli eretici condannati siano
abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene
adeguate. I chierici siano prima degradati della loro dignità; i beni di questi
condannati, se si tratta di laici, siano confiscati; se fossero chierici, siano
attribuiti alla chiesa, dalla quale ricevono lo stipendio.
Quelli che fossero solo sospetti, a
meno che non abbiano dimostrato la propria innocenza con prove che valgono a
giustificarli, siano colpiti con la scomunica, e siano evitati da tutti fino a
che non abbiano degnamente soddisfatto. Se perseverano per un anno nella
scomunica, dopo quel tempo siano condannati come eretici. Siano poi ammonite e,
se necessario, costrette con censura le autorità civili, di qualsiasi grado,
perché, se desiderano essere stimati e creduti fedeli, prestino giuramento di
difendere pubblicamente la fede: che essi, cioè, cercheranno coscienziosamente,
nei limiti delle loro possibilità, di sterminare dalle loro terre tutti quegli
eretici che siano stati dichiarati tali dalla chiesa. D'ora innanzi, chi sia
assunto ad un ufficio spirituale o temporale, sia tenuto a confermare con
giuramento, il contenuto di questo capitolo.
Se poi un principe temporale,
richiesto e ammonito dalla. chiesa, trascurasse di liberare la sua terra da
questa eretica infezione, sia colpito dal metropolita e dagli altri vescovi
della stessa provincia con la scomunica; se poi entro un anno trascurasse di
fare il suo dovere, sia informato di ciò il sommo pontefice, perché sciolga i
suoi vassalli dall'obbligo di fedeltà e lasci che la sua terra sia occupata dai
cattolici, i quali, sterminati gli eretici, possano averne il possesso senza
alcuna opposizione e conservarla nella purezza della fede, salvo, naturalmente
il diritto del signore principale, purché questi, non ponga ostacoli in ciò, né
impedimenti.
Lo stesso procedimento si dovrà
osservare con quelli che non abbiano dei signori sopra di sé.
I cattolici che, presa la croce, si
armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi
privilegi, che sono concessi a quelli che vanno in aiuto della Terra Santa.
Decretiamo, inoltre, che quelli che prestano fede agli eretici, li ricevono, li
difendono, li aiutano, siano soggetti alla scomunica; e stabiliamo con ogni
fermezza che chi fosse stato colpito dalla scomunica, e avesse trascurato di
dare soddisfazione entro un anno, da allora in poi sia ipso facto
colpito da infamia, e non sia ammesso né ai pubblici uffici o consigli, né ad
eleggere altri a queste stesse cariche, né a far da testimone. Sia anche
"intestabile", cioè privato della facoltà di fare testamento e della
capacità di succedere nell'eredità. Nessuno, inoltre, sia obbligato a
rispondergli su qualsiasi argomento; egli, invece, sia obbligato a rispondere
agli altri. Se egli fosse un giudice, la sua sentenza non abbia alcun valore, e
nessuna causa gli venga sottoposta. Se fosse un avvocato, non gli venga
affidata la difesa; se fosse un notaio, i documenti da lui compilati, siano
senza valore, anzi siano condannati col loro condannato autore. Lo stesso
comandiamo che venga osservato in casi simili a questi.
Se poi si tratta di un chierico, sia
deposto dall’ufficio e dal beneficio: infatti chi ha una colpa maggiore, sia
punito con una pena più grave. Chi trascurasse di evitarli, dopo la
dichiarazione di scomunica da parte della chiesa, sia colpito dalla scomunica
fino a che non abbia dato la debita soddisfazione.
I chierici non amministrino a questi
uomini pestilenziali i sacramenti della chiesa; né osino dare ad essi sepoltura
cristiana; non accettino le loro elemosine o le loro offerte. Diversamente, siano
privati del loro ufficio, e non tornino mai più in suo possesso, senza un
indulto speciale della sede apostolica. La stessa disposizione va applicata a
qualsiasi religioso, senza tener conto dei loro privilegi in quella diocesi, in
cui avessero avuto l'ardire di provocare tali eccessi.
Ma poiché alcuni, sotto
l'apparenza della pietà, negano però (come dice l'Apostolo) la sua
essenza, e si attribuiscono la facoltà di predicare, mentre lo stesso
Apostolo dice: Come potranno predicare, se non sono mandati? tutti
quelli cui sia stato proibito, o che senza essere stati mandati dalla sede
apostolica o dal vescovo cattolico del luogo, presumessero di usurpare in
pubblico o in privato l'ufficio di predicare, siano scomunicati, e, qualora non
si ravvedessero al più presto, siano puniti con altra pena proporzionata.
Inoltre ciascun arcivescovo o
vescovo deve personalmente o per mezzo dell'arcidiacono o di persone capaci e
oneste, visitare due o almeno una volta all'anno, la sua diocesi se vi è
notizia della presenza di eretici, ed ivi costringa tre o anche più uomini di
buona fama, o addirittura, se sembrerà opportuno, tutti gli abitanti dei
dintorni, a giurare se vi sono degli eretici, o gente che tiene riunioni
segrete, o che si al- lontana nella vita e nei costumi dal comune modo di
comportarsi dei fedeli. Il vescovo convochi gli accusati alla sua presenza; e
se questi non si saranno giustificati dalla colpa loro imputata, o, se dopo
l'espiazione ricadranno nella loro primitiva perfidia, siano puniti secondo i
canoni. Chi rifiutasse il carattere sacro del giuramento e con riprovevole
ostinazione non volesse giurare, per questo stesso motivo sia considerato
eretico.
Vogliamo, dunque, e ordiniamo, e
comandiamo rigorosa- mente in virtù di santa obbedienza, che i vescovi vigilino
diligentemente nelle loro diocesi all'efficace esecuzione di queste norme, se
vogliono evitare le pene canoniche. Se qualche vescovo, infatti, si mostrerà
negligente o troppo lento nel liberare la sua diocesi dai fermenti ereticali
quando la loro presenza fosse certa, sia deposto dall'ufficio episcopale e sia
sostituito da un uomo adatto, il quale voglia e sappia confondere la malvagità
degli eretici.
IV
L'orgoglio dei greci contro i latini
Quantunque sia nostra intenzione
favorire e onorare i Greci che in questi nostri tempi sono ritornati
all'obbedienza della sede apostolica, rispettando i loro costumi e i loro riti
per quanto possiamo farlo nel Signore, non vogliamo tuttavia e non possiamo
essere remissivi di fronte a usi che importano un pericolo per le anime e
detraggono all'onore della chiesa. Da quando, la chiesa Greca con alcuni suoi
complici e fautori si è sottratta all'obbedienza della sede apostolica, i Greci
hanno cominciato a disprezzare talmente i Latini che, tra le altre cose che
compivano ampiamente per offenderli, quando i sacerdoti Latini celebravano sui
loro altari essi si rifiutavano di celebrare su di essi il santo sacrificio, se
prima non erano stati lavati, quasi fossero stati contaminati. Inoltre osavano
ribattezzare temerariamente quelli che erano già stati battezzati dai Latini,
cosa che alcuni, a quanto abbiamo sentito dire, fanno ancora oggi senza alcun
riguardo.
Volendo, quindi, toglier dalla
chiesa di Dio così grave scandalo, secondo il parere del sacro concilio
comandiamo loro severamente che cessino di agire in tal modo, confermandosi
come figli obbedienti della sacrosanta Romana chiesa, loro madre, perché vi
sia un solo ovile ed un solo pastore .
Se qualcuno osasse fare ancora
qualche cosa di simile, colpito dalla scomunica, sia deposto da ogni ufficio e
beneficio ecclesiastico.
V
Della dignità dei patriarchi
Rinnovando gli antichi privilegi
delle sedi patriarcali, decretiamo, con l'approvazione del santo e universale
concilio, che, dopo la chiesa Romana, la quale per volontà del Signore ha il
primato della potestà ordinaria su tutte le altre chiese, come madre e maestra
di tutti i fedeli cristiani, la chiesa di Costantinopoli abbia il primo posto,
l'Alessandrina il secondo, quella di Antiochia il terzo, quella di Gerusalemme
il quarto, ciascuna col proprio rango; così che, dopo che i loro prelati hanno
ricevuto dal Romano pontefice il pallio, simbolo della pienezza della loro
dignità pontificale, possano lecitamente dare a loro volta, quando sia stato prestato
loro il giuramento di fedeltà e di obbedienza, il pallio ai loro suffraganei,
ricevendo per sé la professione canonica, e per la chiesa Romana la promessa di
obbedienza.
Facciano anche portare dinanzi a sé,
dappertutto, la croce del Signore, meno che in Roma, e dovunque fosse presente
il Romano pontefice o un suo legato, che faccia uso delle insegne della dignità
apostolica. In tutte le province soggette alla loro giurisdizione, quando è
necessario, si faccia ricorso ad essi, salvi gli appelli interposti alla sede
apostolica, a cui bisogna che tutti si attengano umilmente.
VI
Dei concili provinciali
Come è stato stabilito dai santi
padri, ì metropoliti non omettano di celebrare ogni anno con i loro suffraganei
i concili provinciali; in essi si tratti diligentemente, nel timore di Dio,
della correzione dei peccati e della riforma dei costumi, specialmente nel
clero; sì rileggano le norme canoniche, e specialmente quanto è stato stabilito
in questo concilio generale, perché vengano osservate, infliggendo le pene
dovute ai trasgressori.
Per conseguire efficacemente tale
scopo, i metropoliti, stabiliscano in ogni diocesi delle persone previdenti e
oneste, le quali per tutto l'anno, senza alcuna giurisdizione, investighino con
zelo quello che sia degno di correzione e di riforma e riferiscano fedelmente
al metropolita, ai suffraganei e ad altri nel successivo concilio, perché su
questi ed altri punti, secondo quanto è richiesto dall'utilità e dall'onestà,
possano prendere adeguate deliberazioni. Quanto è stabilito, sia osservato, e
lo si pubblichi nei sinodi vescovili, da celebrarsi ogni anno nelle singole
diocesi.
Chi, poi, si mostrerà negligente nel
curare l'adempimento di questa norma salutare, sia sospeso dai suoi benefici e
dal suo ufficio, fino a che non gli sia tolta la sanzione dal suo superiore.
VII
Della correzione delle colpe
Con ferma disposizione stabiliamo
che i prelati attendano con prudente diligenza a correggere le mancanze dei
loro sudditi, specie dei chierici, e alla riforma dei costumi, altrimenti
dovranno rendere conto del loro sangue.
Perché possano compiere liberamente
questo loro dovere di correzione e di riforma, decretiamo che nessuna
consuetudine o appello impedisca l'esecuzione delle loro decisioni a meno che
non abbiano ecceduto nei modi. Le infrazioni dei canonici della chiesa
cattedrale, tuttavia, in cui è solito intervenire il capitolo, saranno corrette
da esso nelle chiese che finora hanno avuto tale consuetudine, dietro
ammonizione e ingiunzione del vescovo ed entro un tempo conveniente, che questi
stabilirà. Altrimenti il vescovo, da quel momento, tenendo Dio solo dinanzi
agli occhi, e superando ogni opposizione, non tardi a correggerli con la
censura ecclesiastica, come richiederà la cura delle anime. Non ometta neppure
di emendare anche altre eventuali trasgressioni, secondo che richiederà il bene
delle anime, osservando naturalmente il debito modo in ogni cosa.
Se poi i canonici, senza un motivo
vero e plausibile, ma per disprezzo del vescovo, sospendessero gli uffici
divini, egli, se lo crede, celebri nella chiesa cattedrale; e il metropolita,
dietro le sue rimostranze, considerandosi in ciò da noi delegato, dopo esser
venuto a conoscenza del vero stato delle cose, li punisca talmente con la
censura ecclesiastica, da indurli in seguito a non commettere più tali eccessi,
almeno per timore della pena.
I responsabili delle chiese evitino
di trasformare questo salutare decreto in un mezzo di guadagno o in altro peso,
ma lo eseguano con zelo e fedeltà, se vorranno sfuggire alle pene canoniche,
perché su questo punto la sede apostolica, con l'aiuto del Signore, sarà
particolarmente vigilante.
VIII
Delle inchieste
"Come e in qual modo il
superiore debba procedere nell'informarsi sulle colpe dei sudditi e nel punirle,
si deduce facilmente dagli esempi dell’antico e del nuovo Testamento, da cui
derivano le norme canoniche"; ciò, secondo quanto avevamo già stabilito e
che ora confermiamo con l'approvazione del sacro concilio.
Si legge infatti nel Vangelo, che
quel fattore che fu accusato presso il suo signore di aver dissipato i suoi
beni, si sentì dire da lui: Cosa sento dire di le? Rendimi conto della tua
gestione, infatti non potrai più tenere tale ufficio. E nella Genesi il
Signore dice: Discenderò e vedrò se davvero hanno operato conforme al grido che
è giunto fino a me.
Queste autorità dimostrano
chiaramente che non solo quando manca un suddito, ma anche quando sbaglia un
superiore, se le voci e le lamentele giungono alle orecchie del superiore non
da parte di malevoli o di maldicenti, ma da persone prudenti e oneste, e non
una sola volta ma spesso (come sottolineano le lamentele e le voci), tocca al
superiore portare il caso davanti agli anziani della chiesa per cercare con
maggior diligenza la verità. E se il caso lo richiede, la pena canonica punisca
l'errore del colpevole, di modo che il superiore non sia nello stesso tempo
accusatore e giudice, ma adempia il suo dovere, mosso dalle lamentele o dalle
voci che denunciano. Tali norme devono essere applicate ai sudditi, e tanto più
ai superiori posti come bersaglio alle saette. E poiché questi non
possono soddisfare tutti, dovendo a causa del loro ufficio non solo convincere,
ma anche rimproverare, qualche volta addirittura sospendere, e talora vincolare
con pene, frequentemente incorrono nell'odio di molti e sono oggetto di
insidie. Per questo i santi padri stabilirono prudentemente che non si sia
facile nell'ammettere accuse contro i prelati, perché non avvenga che, scosse
le colonne, cada l'edificio; si usi invece molta cautela, sbarrando la porta
alle accuse false e alle malignità.
Essi vollero proteggere i prelati da
accuse ingiuste, ma anche inculcare loro il timore di peccare d'arroganza. Essi
hanno trovato un rimedio adatto per l'uno e per l'altro male: ogni accusa di un
delitto che implica diminutio capitis, ossia la degradazione, non sia ammessa
in nessun modo senza che prima vi sia stata l'iscrizione. E tuttavia qualora
uno fosse stato diffamato in tal modo, per le sue colpe, che le voci prendono
consistenza e non si possano più dissimulare senza scandalo né tollerare senza
pericolo, allora senza dubbi né scrupoli si proceda alla ricerca e alla
punizione delle colpe, non certo mossi dall'odio, ma dall'amore. Se la colpa
fosse grave, ma non tale da implicare la degradazione, il colpevole sia però
allontanato da ogni ufficio, essendo conforme all'insegnamento del Vangelo, che
l'amministratore venga allontanato dall'amministrazione di cui non è in grado
di rendere conto.
Deve essere presente colui contro il
quale si fa l'inchiesta, a meno che non sia in contumacia; gli si espongano i
capi di accusa sui quali verte l'inchiesta, perché possa difendersi; gli si
devono far conoscere le accuse portate contro di lui, e anche i nomi dei
testimoni, perché sappia di che è accusato e da chi; siano permesso anche le
eccezioni e le repliche legittime, affinché col tacere i nomi non si favorisca
l'audacia di infamare e con l'esclusione delle eccezioni, quella di deporre il
falso.
Il prelato deve correggere
diligentemente le colpe dei sudditi, piuttosto che lasciare colpevolmente
impuniti i loro errori. Contro questi - per tacere di colpe notorie - si può
procedere in tre modi: accusa, denuncia, inchiesta, affinché però si usi sempre
una diligente cautela, e non avvenga che per un guadagno insignificante si
giunga ad una perdita grave, come l'accusa deve essere preceduta dalla
legittima iscrizione, così anche la denuncia dev'essere preceduta da un
caritatevole ammonimento, e l'inchiesta giudiziaria dalla presentazione dell'accusa;
anche la forma della sentenza rispetti le regole della procedura giudiziaria.
Quest'ordine, tuttavia, non deve
essere sempre osservato con i regolari i quali, quando un giusto motivo lo
richieda, possono più facilmente e con maggior libertà essere allontanati dal
loro ufficio dai propri superiori.
IX
Riti diversi nella stessa fede
Poiché in più parti, entro l'ambito
della stessa città e diocesi sono raccolti popoli di diverse lingue, che
nell'ambito dell'unica fede hanno riti e costumi diversi, comandiamo
severamente che i vescovi di queste città o diocesi nominino persone adatte,
che possano celebrare nei diversi riti e lingue gli uffici divini e
amministrare loro i sacramenti, istruendoli con la parola e con l'esempio.
Proibiamo, però, assolutamente che
una stessa città o diocesi abbia più vescovi, perché un corpo con più teste è
come mostro. Se, quindi, per le ragioni accennate, una urgente necessità lo
richieda, il vescovo del luogo con matura decisione nomini suo vicario, per
questo ambito, un prelato cattolico di quella nazione che gli sia soggetto e
obbediente in ogni cosa. Chi si comportasse diversamente sarà passibile di
scomunica, e, se non si pente sarà deposto da ogni ministero con l'aiuto, se
necessario, del braccio secolare per reprimere tanta insolenza.
X
La scelta di predicatori
Tra le altre cose che riguardano la
salvezza del popolo cristiano, si sa che il nutrimento della parola di Dio, è
tra i più necessari, poiché come il corpo si nutre di cibo materiale, così
l'anima di quello spirituale. Non di solo Pane, infatti, vive l’uomo, ma di
ogni parola che esce dalla bocca di Dio.
Avviene spesso che i vescovi per le
molteplici occupazioni, per la cattiva salute, per gli attacchi dei nemici, o
per altri motivi - per tacere dell'ignoranza, cosa assolutamente riprovevole in
essi, e da non tollerarsi più in nessun modo - non riescono da sé a predicare
al popolo la parola di Dio, specie quando le diocesi sono ampie ed estese.
Stabiliamo che i vescovi scelgano persone adatte ad attendere perciò
saltuariamente all'ufficio della santa predicazione, potenti nella parola e
nelle opere le quali, visitino, in loro vece, le popolazioni loro affidate, le
edifichino con la parola e con l'esempio. Se ne hanno bisogno, procurino loro
quanto è necessario perché le privazioni non li obblighino ad abbandonare
l'impresa.
Comandiamo, quindi, che, sia nelle
cattedrali che nelle altre chiese collegiate vengano scelte persone capaci, di
cui i vescovi possano servirsi come coadiutori e cooperatori, non solo per la
predicazione, ma anche per ascoltare le confessioni e imporre le penitenze, e
per gli altri problemi che riguardano la salvezza delle anime. Chiunque manchi
di assolvere a questo dovere, sarà punito severamente.
XI
Dei maestri di scuola
Alcuni per mancanza di mezzi non
hanno possibilità di imparare a leggere, né opportunità di miglioramento; nel
concilio Lateranense si provvide, con pia disposizione che in ogni chiesa
cattedrale si assegnasse un beneficio conveniente ad un maestro, che istruisse gratuitamente
i chierici della stessa chiesa e altri scolari poveri, venendo così incontro
alle necessità del maestro e aprendo la via alla scienza agli scolari.
Poiché in molte chiese ciò non si
osserva affatto, volendo ridare vigoria tale prescrizione, aggiungiamo che non
solo in ogni chiesa cattedrale, ma anche nelle altre in cui vi siano mezzi
sufficienti, venga scelto dal prelato un maestro adatto; esso sia scelto
insieme col capitolo, o con la maggioranza di esso e la parte più prudente;
questi istruirà i chierici di quelle chiese e delle altre, gratuitamente, nella
grammatica e nelle altre discipline come meglio potrà.
La chiesa metropolitana abbia
tuttavia un teologo che possa istruire i sacerdoti e gli altri nella sacra
scrittura, e li formi specialmente in quanto riguarda la cura delle anime. A
ciascun maestro sia assegnata dal capitolo la rendita di una sola prebenda, e
altrettanto dal metropolita per il teologo; con ciò, però, egli non entra a far
parte del capitolo, ma percepisce il beneficio solo finché dura l'insegnamento.
Se poi la chiesa metropolitana si trova gravata da due insegnanti, allora essa
provveda al teologo nel modo che abbiamo detto, e al maestro di grammatica
faccia in modo che provveda sufficientemente un'altra chiesa della città o
della diocesi.
XII
Dei capitoli generali dei monaci
In ogni regno o provincia si tenga
ogni tre anni, salvo il diritto dei vescovi diocesani, un capitolo generale
degli abati e di quei priori senza abati propri, che sinora non si celebravano.
Ad esso prendano parte tutti, a meno che non abbiano un impedimento canonico.
Si raccolgano presso uno dei monasteri adatto a riceverli con questo limite,
però, che nessuno di essi porti più di sei cavalcature né più di otto persone.
Invitino, con carità, a inaugurare questo sistema due abati vicini dell'ordine
Cistercense, perché possano assisterli col loro consiglio e l'aiuto opportuno,
dato che essi hanno una lunga consuetudine e maggior esperienza nel celebrare
questi capitoli. Questi, senza che qualcuno possa opporsi, portino con sé due
dei loro, che possano essere utili; questi quattro presiedano al capitolo
generale in modo però che nessuno di essi abbia l'autorità di superiore e
possano, con matura decisione, essere cambiati all'occorrenza.
Questo capitolo sia celebrato per
alcuni giorni continui, fissi, secondo l'uso dei Cistercensi; in esso si tratti
diligentemente della riforma dell'ordine e dell'osservanza della regola; e
quello che sarà stato stabilito con l'approvazione di quei quattro, sia osservato
da tutti inviolabilmente, senza alcuna scusa, contraddizione o appello. Si
stabilisca tuttavia dove, alla prossima scadenza, sarà celebrato il prossimo
capitolo.
I partecipanti vivano in comune, e
sostengano in proporzione tutte le spese comuni; se non possono essere
alloggiati tutti insieme, siano sistemati almeno in diversi nelle stesse case.
Siano stabiliti anche, in questo
capitolo, dei religiosi prudenti che, secondo criteri stabiliti, visitino in
vece nostra le singole abbazie del regno o della provincia, non solo dei
monaci, ma anche delle monache per correggere e riformare ciò che ha bisogno di
correzione e di riforma. Se essi riterranno che il superiore di un luogo
dev'essere assolutamente deposto, lo denunceranno al vescovo, perché questi lo allontani.
Se questi non lo fa, gli stessi visitatori sottoporranno la questione alla sede
apostolica.
Intendiamo e comandiamo che questa
disposizione venga osservata anche dai Canonici regolari, secondo la loro
regola.
Se nell'esecuzione di queste nuove
norme sorgesse qualche difficoltà, che non potesse essere risolta dalle persone
designate, si riferisca, senza provocare scandalo, alla sede apostolica perché
esprima il suo giudizio, osservando, naturalmente, ogni altra norma che sia
stata decisa all'unanimità.
I vescovi diocesani, però, si
studino di riformare in tal modo i monasteri soggetti alla loro giurisdizione,
che quando i suddetti visitatori giungono presso di essi, vi trovino più cose
da lodare che da riformare. Si guardino bene, ad ogni modo, di non aggravare
questi monasteri con oneri indebiti, perché noi teniamo al rispetto dei diritti
dei superiori altrettanto quanto al rispetto della giustizia verso gli
inferiori.
Ancora, comandiamo severamente sia
ai vescovi diocesani, che ai presidenti dei capitoli, che vietino con la
censura ecclesiastica, e senza appello gli avvocati, i patroni, i vicesignori,
i reggenti e i consoli, i grandi, i cavalieri e chiunque altro, perché non si
azzardino a danneggiare i monasteri nelle persone e nei beni. E non manchino di
costringere alla riparazione quelli che l'avessero fatto, perché Dio
onnipotente sia servito nella pace e nella libertà.
XIII
Proibizione di nuovi ordini
religiosi
Perché l'eccessiva varietà degli
ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio,
proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini.
Chi quindi volesse abbracciare una
forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi
volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni
degli ordini religiosi già approvati.
Proibiamo anche che uno sia monaco
in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri.
XIV
Punizioni per i chierici
incontinenti
Perché i costumi e il comportamento
del clero siano riformati in meglio, tutti cerchino di vivere una vita pura e
casta, specialmente quelli che hanno ricevuto gli ordini sacri: si guardino,
quindi, da ogni vizio di impurità, specie da quello per cui l'ira di Dio
scese dal cielo sui figli dalla ribellione, affinché possano servire Dio
onnipotente con cuore puro e corpo casto.
E perché un facile perdono non sia
incentivo alla trasgressione, stabiliamo che chi sia preso in flagrante delitto
di incontinenza, sia punito secondo le sanzioni canoniche, in proporzione del
suo peccato: e vogliamo che queste norme canoniche vengano più efficacemente e
più strettamente osservate, in modo che quelli che il timore di Dio non
trattiene dal male, siano almeno frenati dalla pena temporale dal cadere nel
peccato.
Se, quindi, qualcuno, sospeso per
questo motivo, presumesse di celebrare i divini misteri, non solo sia spogliato
dei benefici ecclesiastici, ma sia anche deposto per questa duplice colpa, e
per sempre. I prelati che sostenessero tali peccatori nella loro iniquità,
specialmente se per denaro o per qualche altro utile temporale, siano soggetti
alla stessa pena. Quelli che, secondo l'uso della loro regione, non hanno
rinunziato all'unione coniugale, se cadessero in peccato, siano puniti più gravemente,
dato che hanno la possibilità di godere del legittimo matrimonio.
XV
Contro l'ubriachezza dei chierici
Tutti i chierici si guardino bene
dall'ingordigia e dall'ubriachezza; se essi non abusano del vino, il vino non
abuserà di loro e nessuno sia incitato a bere perché l'ubriachezza oscura
l'intelletto e suscita le passioni carnali.
Stabiliamo, quindi, che si sradichi
l'abuso, per cui in alcune regioni i bevitori si incitano a vicenda a bere ed è
più degno di lode chi riesce a farne ubriacare di più e a bere più bicchieri.
Se, perciò, qualcuno si rende
colpevole su questo punto, e, ammonito dal superiore, non si corregge come si
deve, sia sospeso dal beneficio e dall'ufficio. La caccia degli animali e degli
uccelli è proibita a tutti quelli che appartengono al clero. E non osino,
quindi, avere cani o uccelli da caccia.
XVI
Le vesti dei chierici
I chierici non esercitino mestieri
propri dei secolari e non si diano agli affari, specie se poco onesti. Non
assistano a giochi di mimi, di giocolieri e di commedianti. Evitino
assolutamente le osterie, a meno che non si tratti di un caso di necessità,
quando si trovano in viaggio. Non giochino d'azzardo o ai dadi, e non assistano
a simili giochi. Portino una corona (di capelli) e una tonsura conveniente, e
si applichino diligentemente agli uffici divini e agli studi onesti. Indossino
soprabiti chiusi, che non siano troppo corti o troppo lunghi. Non usino stoffe
rosse o verdi, guanti e scarpe troppo eleganti o a punta, freni, selle, fasce e
sproni dorati o con altri ornamenti superflui. Non portino cappe con maniche
nella chiesa e neppure fuori - almeno quelli che sono sacerdoti o dignitari - a
meno che un giustificato motivo non consigli di mutare il vestito. Non portino
in nessun modo fibbie né legacci con ornamenti d'oro e d'argento e neppure
l'anello, eccetto quelli cui spetta a motivo della loro dignità.
I vescovi, in pubblico e in chiesa
usino tutti abiti di lino, a meno che siano monaci, che devono portare l'abito
monastico. Non usino in pubblico, mantelli aperti, ma ben chiusi dietro il
collo e sul petto.
XVII
Dei festini dei prelati e della loro
negligenza per gli uffici divini
Deploriamo che non solo alcuni
chierici minori, ma anche certi prelati passano una metà della notte in
baldorie superflue e in chiacchiere illecite, per non dire altro; questi
dormono il resto della notte, si svegliano appena al canto degli uccelli, a
giorno tardo e restano assonnati il resto del mattino.
Vi sono altri che celebrano la messa
appena quattro volte l'anno; e, ciò che è peggio, non vogliono neppure
assistervi; e se per caso qualche volta sono presenti quando è celebrata,
fuggendo il silenzio del coro, vanno fuori a parlare con i laici; e così
seguono discorsi inopportuni e non prestano invece alcuna attenzione alle cose
divine.
Proibiamo, quindi, assolutamente
queste ed altre cose simili sotto pena della sospensione, e comandiamo
severamente in virtù di santa obbedienza, che essi recitino il divino ufficio
sia diurno che notturno, come Dio concederà loro, con zelo pari alla devozione.
XVIII
Sentenze di morte e duelli proibiti
ai chierici
Nessun chierico sottoscriva o
pronunci una sentenza di morte, né esegua una pena capitale né vi assista. Chi
contro questa prescrizione, intendesse recar danno alle chiese o alle persone
ecclesiastiche, sia colpito con la censura ecclesiastica. Nessun chierico
scriva o detti lettere implicanti una pena di morte; e quindi nelle corti dei
principi questo incarico venga affidato non a chierici, ma a laici.
Similmente nessun chierico venga
messo a capo di predoni o di balestrieri, o, in genere, di uomini che spargono
sangue; i suddiaconi, i diaconi, i sacerdoti non esercitino neppure l'arte
della chirurgia che comporta ustioni e incisioni; nessuno, finalmente,
accompagni con benedizioni le pene inflitte con acqua bollente o gelata, o col
ferro ardente, salve, naturalmente le proibizioni che riguardano le monomachie,
cioè i duelli, già promulgate.
XIX
Divieto di ingombrare le chiese con
oggetti profani
Non vogliamo tollerare che alcuni
chierici si servano delle chiese per depositare le suppellettili loro e di
altri di modo che esse assomigliano più a case di laici che a delle basiliche
di Dio. Essi dimenticano che il Signore non permetteva che un vaso venisse
portato per il tempio.
Altri non hanno per le loro chiese
alcuna cura, permettono che i vasi sacri, i paramenti liturgici, le nappe
dell'altare, e perfino i corporali, siano così sporchi che ad alcuni fanno
ribrezzo.
Poiché, dunque, lo zelo della casa
di Dio ci divora proibiamo con ogni fermezza di depositare queste suppellettili
nelle chiese, salvo che, in caso di incursioni nemiche, di incendi improvvisi,
o di altre urgenti necessità, non si debba cercar rifugio in esse a condizione
che passato il pericolo gli oggetti siano riportati al loro posto. Comandiamo
anche che i luoghi di culto, i vasi sacri, i corporali, le vesti cui abbiamo
accennato, siano conservati puliti. E’ infatti assurdo che si tolleri negli
oggetti sacri tale sporcizia, che sarebbe vergognosa anche nelle cose profane.
XX
Il Crisma e l'Eucarestia devono
essere custoditi sotto chiave
Ordiniamo che in tutte le chiese il
crisma e l'Eucarestia debbano esser conservati scrupolosamente sotto chiave,
perché nessuna mano temeraria possa impadronirsi di essi profanandoli con usi
innominabili. Se il custode li abbandona, sia sospeso dall'ufficio per tre
mesi; e se per la sua negligenza accadesse qualche cosa di abominevole, sia
assoggettato ad una pena più grave.
XXI
Della confessione, dei segreto confessionale,
del dovere di comunicarsi almeno a Pasqua
Qualsiasi fedele dell'uno o
dell'altro sesso, giunto all'età di ragione, confessi fedelmente, da solo,
tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l'anno, ed esegua la
penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva anche con
riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell'Eucarestia, a meno che per
consiglio del proprio parroco non creda opportuno per un motivo ragionevole di
doversene astenere per un certo tempo. Altrimenti finché vive gli sia proibito
l'ingresso in chiesa, e - alla sua morte - la sepoltura cristiana. Questa
salutare disposizione sia pubblicata frequentemente nelle chiese, perché
nessuno nasconda la propria cecità con la scusa dell'ignoranza.
Se poi qualcuno per un giusto motivo
volesse confessare i suoi peccati ad un altro sacerdote, prima chieda e ottenga
la licenza dal proprio parroco, poiché diversamente l'altro non avrebbe il
potere di assolverlo o di legarlo.
Il sacerdote, poi, sia discreto e
prudente; come un esperto medico versi vino e olio sulle piaghe del ferito,
informandosi diligentemente sulle circostanze del peccatore e del peccato, da
cui prudentemente possa capire quale consiglio dare e quale rimedio apprestare,
diversi essendo i mezzi per sanare l'ammalato.
Si guardi, poi, assolutamente dal
rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l'identità del peccatore; se
avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela
senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui
manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga
deposto dall'ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in
un monastero, a fare penitenza per sempre.
XXII
Gli infermi provvedano prima
all'anima poi al corpo
L'infermità del corpo dipende talora
dal peccato, come disse il Signore all'ammalato che aveva sanato: Va e non
voler più peccare, perché non debba accaderti di peggio, col presente
decreto pertanto stabiliamo e comandiamo severamente ai medici dei corpi che
quando sono chiamati presso gli infermi, prima di tutto li ammoniscano e li
inducano a chiamare i medici delle anime, cosicché dopo che è stato provvisto
alla salute spirituale degli infermi, si proceda al rimedio della medicina
corporale con maggior efficacia: cessando infatti la causa, cessa anche
l'effetto.
Questo decreto è motivato dal fatto
che alcuni, quando soffrono, e i medici cercano di persuaderli a provvedere
alla salute della loro anima, cadono in una estrema disperazione, da cui segue
più facilmente il pericolo di morte.
I medici che trasgredissero, dopo la
sua pubblicazione da parte dei prelati locali, questa nostra costituzione,
siano esclusi dall'ingresso in chiesa fino a quando non abbiano soddisfatto nel
debito modo per questa trasgressione.
Del resto, poiché l'anima è molto
più preziosa del corpo, proibiamo ai medici sotto minaccia di anatema di
consigliare all'ammalato per la salute del corpo qualche cosa che si risolva in
danno per l'anima.
XXIII
Una chiesa cattedrale o regolare non
resti vacante oltre tre mesi
Perché il lupo rapace non si
impadronisca del gregge del Signore per mancanza del pastore, o non avvenga che
una chiesa, priva del suo capo, vada incontro a qualche grave danno nei suoi beni,
volendo ovviare ai pericoli delle anime e provvedere alla sicurezza delle
chiese, stabiliamo che una chiesa cattedrale o regolare non debba restar
vacante oltre i tre mesi; dopo tale termine se, pur cessando il giusto
impedimento, non è stata fatta l'elezione, quelli che avrebbero dovuto farla
siano privati del potere di eleggere, e questo sia devoluto al superiore
immediato.
Quegli cui è passato il potere,
avendo Dio dinanzi agli occhi, provveda canonicamente entro tre mesi, col
consiglio del capitolo e di altre persone prudenti, alla chiesa rimasta vedova,
con persona adatta della stessa chiesa, o, se non se ne trovasse, di un'altra,
sotto pena di sanzione canonica.
XXIV
L'elezione per scrutinio o per
compromesso
A causa delle diverse forme di elezione,
che si cerca sempre di escogitare, sorgono molti impedimenti e grandi pericoli
per le chiese vacanti. Stabiliamo che in caso di elezione, alla presenza di
tutti quelli che devono, vogliono e possono intervenire, siano scelte nel
collegio tre persone che godono la comune fiducia, le quali in segreto
raccolgano diligentemente ad uno ad uno il voto di tutti; poi messa ogni cosa
in scritto, la pubblichino davanti a tutti. Respinta ogni possibilità di
appello, fatto lo spoglio sia proclamato eletto quello che ha ottenuto
l'unanimità o il voto della maggioranza, o della parte più qualificata del
capitolo. Si potrebbe anche affidare il compito dell'elezione ad un certo
numero di persone idonee, che a nome di tutti provvedano alla chiesa vacante il
pastore. Ogni altra procedura non sia valida a meno che non sia fatta
all'unanimità da tutti, come per ispirazione divina, senza alcuna irregolarità.
Chi tentasse fare una elezione
contro le forme prescritte, sia privato, per questa volta, del diritto di
elezione.
Proibiamo infine assolutamente che
nell'elezione uno possa dare procure, a meno che sia assente, trattenuto da
giusto impedimento e non possa venire. Su ciò, se necessario, dia garanzia con
giuramento, allora, se vorrà, affidi ad uno dello stesso collegio di fare le
sue veci.
Riproviamo anche le elezioni
clandestine e stabiliamo che non appena fatta l'elezione, sia pubblicata
solennemente.
XXV
L'elezione fatta dal potere secolare
è invalida
Chiunque acconsentisse alla propria
elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica,
perda l'elezione e diventi ineleggibile; egli non potrà essere eletto a qualche
dignità senza la dispensa.
Chi poi osasse fare una elezione di
tal genere - che noi dichiariamo invalida ipso jure - sia senz'altro sospeso
dagli uffici e dai benefici per un triennio, privo, per quel tempo, del potere
di eleggere.
XXVI
Pene contro chi conferma una
elezione irregolare
Nulla nuoce maggiormente alla chiesa
di Dio, quanto che indegni prelati siano assunti al governo delle anime.
Volendo rimediare a questo male,
stabiliamo con un decreto irrevocabile che, quando uno è eletto al governo
delle anime, quegli a cui compete la sua conferma esamini con diligenza il
procedimento dell'elezione e la persona dell'eletto e se tutto si è svolto
secondo le norme, conceda la conferma. Se invece si fosse proceduto con poca
prudenza, non soltanto dovrà essere rifiutato chi è stato indegnamente
promosso, ma dovrà essere punito anche chi l'ha promosso irregolarmente. Stabiliamo
anche che questi, quando consti la sua negligenza, specie se ha approvato un
uomo di scienza insufficiente, di vita disonesta, o di età insufficiente non
solo sia privato del potere di confermare l'elezione del successore, ma, perché
non possa in nessun caso sfuggire alla pena, sia anche sospeso dal percepire i
frutti del proprio beneficio, fino a che, se sarà creduto opportuno, non meriti
il perdono. Che se poi venisse convinto di aver mancato intenzionalmente, sia
sottoposto ad una pena maggiore.
Anche i vescovi, se vogliono
sfuggire alla pena canonica, cerchino di promuovere agli ordini sacri e alle
dignità ecclesiastiche soggetti che diano affidamento di adempiere degnamente
l'ufficio loro affidato.
Quelli che sono immediatamente
soggetti al Romano Pontefice, per ricevere la conferma del loro ufficio, se
possono si presentino personalmente alla sua presenza, altrimenti inviino
persone adatte, capaci di rispondere all'inchiesta sul procedimento
dell'elezione e sugli eletti stessi. Finalmente dopo attenta considerazione del
complesso della cosa, con, segua la pienezza del suo ufficio, avendo
soddisfatto le leggi canoniche. Quelli però le cui sedi sono molto distanti,
cioè fuori d'Italia, se sono stati eletti senza opposizione, abbiano
provvisoriamente l'amministrazione spirituale e temporale in considerazione
della necessità e dell'utilità delle chiese, a patto però che non alienino
assolutamente nulla dei beni ecclesiastici. Saranno consacrati o benedetti come
si è usato finora.
XXVII
L'istruzione degli ordinandi
Il governo delle anime è l'arte
delle arti. Comandiamo, perciò, severamente che i vescovi istruiscano
diligentemente quelli che devono essere promossi al sacerdozio, e li formino, o
loro direttamente o per mezzo di persone capaci alla celebrazione dei divini
uffici e all'amministrazione dei sacramenti. Se in avvenire osassero ordinare
degli ignoranti e degli inetti cosa facile da constatare - decretiamo che sia
quelli che li ordinano, che gli ordinati stessi debbano sottostare ad una pena grave.
E’ meglio, infatti, specie nell'ordinazione dei sacerdoti, avere pochi e buoni
ministri, che molti e cattivi, poiché se un cieco fa da guida ad un
altro cieco, cadono tutti e due in una fossa.
XXVIII
Chi ha chiesto di andarsene ne sia
costretto
Qualcuno, dopo aver chiesto
insistentemente l'autorizzazione di resignare, una volta ottenutala non intende
più andarsene. Ma poiché nella domanda di ritirarsi essi avevano riguardo
all'utilità delle chiese o alla propria salute, noi volendo sottrarli agli argomenti
di quelli che non cercano che i propri interessi o anche da qualsiasi forma di
leggerezza, decretiamo che costoro siano costretti a ritirarsi.
XXIX
Nessuno Può avere due, benefici con
cura d'anime
Con molta prudenza nel concilio
Lateranense fu proibito che nessuno ricevesse, contro le prescrizioni dei sacri
canoni, diverse dignità ecclesiastiche e più chiese parrocchiali sotto pena per
il beneficiario di perdere il beneficio stesso e per chi l'avesse conferito di
essere privato del diritto di collazione. Ma poiché l'audacia e l'avidità di
taluno ha privato di effetti tale decreto, noi volendo rimediare in modo più
chiaro e più deciso, stabiliamo, col presente decreto, che chiunque riceve un
beneficio che abbia annessa la cura delle anime, se prima ne aveva uno simile
lo perda isso jure e se tentasse di tenerli entrambi, sia privato anche del
secondo.
Inoltre, chi ha diritto di conferire
il primo beneficio, dopo che il beneficiato ha ricevuto il secondo, può
tranquillamente assegnarlo a chi crederà degno e se tarderà più di tre mesi ad
assegnarlo, non solo secondo la prescrizione del concilio Lateranense,
l'asse,-nazione del beneficio passa ad altri, ma egli sarà costretto a
devolvere a beneficio della chiesa, cui appartiene quel beneficio, una parte
dei suoi proventi pari a quanto ha ricavato da esso durante la vacanza.
Stabiliamo che la stessa
prescrizione debba osservarsi anche per i personali, aggiungendo che nella
stessa chiesa nessuno possa avere più dignità o personali, anche se non importino
cura d'anime. Tuttavia, se si tratta di persone nobili o versate nelle lettere,
degne di essere onorate con maggiori benefici, quando le circostanze lo
richiedono, la sede apostolica potrà dispensare.
XXX
Circa l'idoneità per essere addetti
alle chiese
assai grave e addirittura assurdo
che i prelati delle chiese, potendo promuovere ai benefici ecclesiastici
soggetti idonei, non abbiano ritegno ad assumere degli indegni, che non si
raccomandano né per onestà di costumi, né per istruzione. In ciò essi seguono
la voce della carne, non la ragione. Ora, nessuno, che sia sano di mente,
ignora quanti danni ne derivino.
Volendo, quindi, rimediare a questo
stato di cose, stabiliamo che, deposti gli indegni, siano nominate al loro
posto persone adatte, che vogliano e possano prestare a Dio e alle chiese un
grato servizio, e che si faccia ogni anno, su questo argomento, un esame
diligente al concilio provinciale; chi, dopo un primo ed un secondo ammonimento
fosse trovato colpevole, venga sospeso dallo stesso concilio dal conferire i
benefici, e nel medesimo concilio sia eletta una persona prudente ed onesta,
che nel conferimento dei benefici possa supplire chi è stato sospeso. Lo stesso
si osservi per quanto riguarda i capitoli che avessero mancato su questo punto.
Se poi fosse il metropolita a mancare, la sua trasgressione sia lasciata al
giudizio del superiore, su denunzia del concilio.
Perché questo salutare provvedimento
possa conseguire efficacemente il suo effetto, questa sentenza di sospensione
non sia sciolta assolutamente da nessuno, fuorché dall'autorità del Romano
pontefice o dal patriarca perché, anche in ciò, le quattro sedi patriarcali
siano particolarmente onorate.
XXXI
I figli dei canonici non devono
essere eletti dove prestano servizio i loro padri
Per far cessare la pessima
corruzione invalsa nella maggior parte delle chiese, proibiamo con ogni
fermezza che figli di canonici, specie se illegittimi, siano eletti canonici
nelle chiese secolari, nelle quali servono i loro padri. E se si osasse fare il
contrario, ciò sia nullo; chi, poi, presumesse di nominar canonici questi tali,
sia sospeso dai suoi benefici.
XXXII
I patroni lascino al clero una quota
conveniente
Bisogna estirpare un costume abusivo
che ha preso piede in alcune regioni: chi ha diritto di patronato sulle chiese
parrocchiali ed altre persone, rivendicando a sé, completamente, i proventi
delle stesse chiese, lasciano ai sacerdoti addetti ad esse una quota cosi
misera, che essi non possono mantenersi con sufficiente dignità. Infatti, come
abbiamo potuto sapere con certezza i sacerdoti addetti alle parrocchie non
hanno assegnata, per il loro sostentamento, se non la quarta parte del quarto,
cioè, un sedicesimo delle decime. Avviene, di conseguenza, che in queste
regioni non si trovi quasi un parroco che abbia una pur minima conoscenza delle
lettere.
E poiché non si deve legar la bocca
al bue che tritura (il fieno), e chi serve all'altare deve vivere dell'altare,
stabiliamo che, nonostante qualsiasi consuetudine in contrario del vescovo, del
patrono o di qualsiasi altro, venga assegnata ai sacerdoti una quota ad essi
sufficiente.
Chi ha una chiesa parrocchiale non
deve soddisfare al suo servizio per mezzo di un vicario, ma personalmente,
secondo che la cura della stessa chiesa richiede, a meno che la chiesa
parrocchiale sia annessa ad una prebenda o ad una dignità. In questo caso
permettiamo che colui che ha tale prebenda o dignità, essendo necessario che
egli presti il suo servizio presso la chiesa maggiore, abbia nella stessa chiesa
parrocchiale un vicario adatto e permanente, canonicamente eletto, il quale,
come si è detto, abbia una quota conveniente dei proventi stessi della chiesa.
Diversamente, il parroco deve considerarsi privato di essa, che può quindi
essere liberamente assegnata ad altri, che voglia e possa adempiere quanto
stabilito.
Proibiamo, poi, assolutamente che
qualcuno, con frode delle rendite ecclesiastiche, possa dare ad altri una
pensione sui redditi di una chiesa che debba provvedere ad un proprio
sacerdote.
XXXIII
Non si ricevano le prestazioni
stabilite senza effettuare le visite
Le prestazioni dovute ai vescovi,
agli arcidiaconi e a; chiunque altro, anche ai legati e ai nunzi della sede
apostolica, in occasione della visita (pastorale), non devono essere esigite
senza un motivo evidente e necessario se non quando essi compiono personalmente
la visita. Le cavalcature e il seguito siano regolati nella misura prescritta
dal concilio Lateranense. Quando i legati o i nunzi della sede apostolica
dovessero fermarsi necessariamente in un luogo, perché questo non sia troppo
aggravato per causa loro, essi ricevano contributi moderati da altre chiese e
persone che non siano state ancora sottoposte a queste prestazioni, e la loro
entità non superi la durata del soggiorno. E quando una, da sé, non fosse
sufficiente, si uniscano in due o anche in più.
Inoltre, i visitatori non cerchino
il proprio utile, ma la gloria di Cristo predicando, esortando, correggendo e
riformando, in vista di frutti imperituri.
Chi, poi, avesse agito contro questa
prescrizione, restituisca ciò che ha ricevuto, e altrettanto dia alla chiesa
che ha così aggravato.
XXXIV
Non bisogna gravare i sudditi col
pretesto di qualche prestazione
Poiché la maggior parte dei prelati
per dare ad un legato o ad altri quanto stabilito per una missione o un
servizio, esigono dai loro sudditi più di quanto essi in realtà pagano, e
volgendo a loro profitto i loro danni considerano i propri soggetti come una
preda più che come un aiuto, proibiamo che in seguito si continui a fare cosi.
Chi osasse agire in tal modo restituisca quanto ha estorto, e sia costretto a
dare altrettanto ai poveri.
XXXV
Si deve esporre la causa per cui uno
si appella
Perché sia reso ai giudici l'onore
dovuto e ai contendenti le pene e le spese stabiliamo che quando uno cita un
avversario dinanzi ad un legittimo giudice, non può appellare, prima della
sentenza, ad un giudice superiore senza un motivo ragionevole, ma cerchi di
ottenere giustizia dinanzi al primo giudice senza che possa invocare di aver
inviato un messaggio al giudice superiore, o anche di aver ottenuto da lui
delle lettere, prima che queste siano state rimesse al giudice delegato.
Se poi egli crederà, per motivi
ragionevoli, di appellarsi, esposte dinanzi allo stesso giudice le prove che
motivano il suo appello (motivo sufficiente è quello che, se fosse approvato,
dovrebbe esser ritenuto legittimo), il superiore sia messo a conoscenza
dell'appello. Se riconoscerà che l'appello è infondato, rimetta la causa al
giudice inferiore, e condanni l'appellante a pagare le spese all'altra parte,
altrimenti proceda lui stesso, salva la riserva alla sede apostolica delle
cause maggiori.
XXXVI
Il giudice può revocare una sentenza
interlocutoria e comminatoria
Poiché col cessare della causa cessa
anche l'effetto, stabiliamo che qualora un giudice, sia ordinario che delegato,
avesse emesso una sentenza comminatoria o interlocutoria, la cui esecuzione
pregiudicherebbe uno dei contendenti, e con saggia decisione avesse rinunziato
ad eseguirla, proceda pure liberamente all'istruttoria della causa, nonostante
ogni appello interposto contro tale sentenza comminatoria o interlocutoria -
purché non sorga qualche motivo di legittima suspicione - perché il
procedimento della causa non venga ritardato con frivoli pretesti.
XXXVII
Non si devono richiedere lettere Per
più di due giornate di cammino e senza uno speciale mandato
Alcuni, abusando del favore della
sede apostolica, cercano di ottenere le lettere che rinviino a giudici lontani,
di modo che il convenuto, stanco delle noie e delle spese, o rinunzi alla lite,
o sia costretto a trovare un accordo con chi gli ha intentato la causa.
Ma poiché la giustizia non deve
aprire la via all'ingiustizia, che l'osservanza del diritto proibisce,
stabiliamo che nessuno per oltre due giornate di cammino possa esser tratto in
giudizio fuori della sua diocesi con lettere apostoliche, a meno che non siano
state ottenute di comune accordo dalle parti, e con espresso riferimento a
questa costituzione.
Vi sono altri che, con mercimonio di
nuovo genere, affinché possano risuscitare liti ormai sopite, o causare nuove
questioni, inventano delle cause per le quali chiedono lettere alla sede
apostolica senza il mandato dei loro signori. Queste lettere, poi, le vendono
al convenuto che teme le noie e le spese che possono derivargliene; o
all'attore, perché possa infastidire l'avversario con pressioni indebite.
Poiché le liti sono piuttosto da limitarsi che da ingrandirsi, con questo
generale decreto stabiliamo che se qualcuno, in seguito, osasse chiedere
lettere apostoliche su qualche questione senza uno speciale mandato, queste
lettere non abbiano alcun valore, ed egli sia punito come falsario, a meno che
non si tratti di quelle persone, dalle quali non si deve esigere, a norma del
diritto, alcun mandato.
XXXVIII
Gli atti vanno scritti perché
possano servire come prova
Poiché contro l'asserzione falsa di
un giudice malvagio un litigante innocente non può, qualche volta, provare di
aver veramente negato una cosa - poiché la negazione per sé non può esser
considerata, per la natura stessa delle cose, una prova diretta - affinché la
falsità non porti pregiudizio alla verità, o l'iniquità prevalga sull'equità,
disponiamo che tanto nel giudizio ordinario, quanto in quello straordinario, il
giudice si serva sempre, se lo può, di una persona pubblica, o di due persone
adatte le quali scrivano fedelmente tutti gli atti del giudizio, e cioè: le
citazioni, le dilazioni, le rinunzie e le accettazioni, le domande e le risposte,
gli interrogatori, le confessioni, le deposizioni dei testimoni, le
presentazioni di documenti, le interlocuzioni, gli appelli, le rinunzie, le
conclusioni e tutto ciò che occorre dover scrivere nel dovuto ordine. Si
indichino, inoltre, i luoghi, i tempi, le persone; e dopo aver scritto cosi
ogni cosa, sia comunicata alle parti, ma gli originali rimangano presso gli
scrittori, cosicché, se dovesse sorgere intorno al procedimento del giudice
qualche contestazione, con questi atti possa esser dimostrata la verità. Si
usi, poi, questa precauzione, di affidare, cioè, (la causa) a giudici talmente
onesti e discreti, che la giustizia degli in- nocenti non sia lesa da (giudici)
imprudenti e parziali.
I giudici che trascurassero di
osservare questa disposizione, se per la loro negligenza dovesse sorgere
qualche difficoltà, siano puniti dal giudice superiore con pena adeguata, e la
loro procedura non sia ammessa, se non in quanto risulti da legittimi
documenti.
XXXIX
Bisogna restituire anche quei beni
che il possessore non ha personalmente sottratto
Avviene spesso che qualcuno venga
spogliato ingiusta- mente e che questo bene passi dallo spogliatore ad un
altro, così che la restituzione non può avvenire mediante un'azione contro il
possessore, e perduto il possesso, per la difficoltà di provarlo, si perde
anche il diritto di proprietà.
Quindi, nonostante il rigore della
legge civile, stabiliamo che se qualcuno viene scientemente in possesso di tale
cosa, succede nella colpa a chi ha spogliato - non c'è molta differenza,
infatti, specie per il pericolo dell'anima, fra il possedere ingiustamente e
l'impossessarsi di ciò che è di altri - contro un tale possessore si venga in
soccorso di colui che è stato spogliato con la restituzione.
XL
Del possesso legittimo
Avviene, qualche volta, che, per la
contumacia della parte avversa si conceda all'attore il possesso di un bene
perché lo conservi. Questo attore, però, per la resistenza del detentore, o per
inganno, non riesce ad avere entro un anno quanto deve custodire; o, dopo
averlo avuto, lo perde. In tal modo, secondo molti, trascorso un anno, questi
non diventa legittimo possessore e il reo trae vantaggio dalla sua scaltra
malizia. Perché, dunque, non avvenga che chi è contumace non si trovi in
migliore condizione di chi è ossequiente alla legge, stabiliamo conforme
all'equità canonica che, nel caso predetto, l'attore venga ad esser possessore
legittimo anche dopo un anno.
Inoltre, proibiamo, in genere, che
nelle questioni spirituali si rimetta la decisione ad un laico: non è bene,
infatti, che un laico debba risolvere tali problemi.
XLI
In ogni prescrizione la buona fede
deve essere ininterrotta
Poiché ciò che non è secondo la
fede è peccato con giudizio sinodale definiamo che nessuna prescrizione,
sia canonica che civile, abbia valore senza la buona fede dovendosi
generalmente derogare a qualsiasi costituzione e consuetudine che non possa
essere osservata senza peccato mortale. E’ necessario quindi, che chi invoca la
prescrizione in nessun momento abbia la consapevolezza di possedere una cosa
d'altri.
XLII
Della giustizia secolare
Come noi vogliamo che i laici non
usurpino i diritti dei chierici, così dobbiamo impedire che questi si
approprino dei diritti dei laici.
Proibiamo, quindi, assolutamente a
tutti i chierici di estendere, col pretesto della libertà ecclesiastica, la
loro giurisdizione a scapito della giustizia secolare. Ciascuno si accontenti
delle norme scritte e delle consuetudini finora approvate, in modo che sia reso
a Cesare ciò che è di Cesare, e sia reso a Dio, con giusta attribuzione,
quello che è di Dio.
XLIII
Nessun chierico presti fedeltà ad un
laico, senza sufficiente motivo
I laici cercano di usurpare troppo
frequentemente il diritto divino, quando costringono gli ecclesiastici a
prestare loro giuramento di fedeltà, anche se questi non hanno ricevuto da
parte loro alcun bene temporale.
Ma poiché secondo l'apostolo un
servo sta in piedi o cade secondo il Signore, proibiamo, con l'autorità
del sacro concilio, che tali chierici siano costretti a prestare giuramento a
persone secolari.
XLIV
·
Le costituzioni dei Principi non devono Portar pregiudizio alle chiese.
Ai laici, anche se pii, non è stato
dato alcun potere di disporre dei beni ecclesiastici: essi sono tenuti a
obbedire e non a comandare. Deploriamo, quindi, in alcuni di essi l'intiepidimento
della carità al punto che non hanno alcun ritegno ad impugnare con le loro
costituzioni, o piuttosto con le loro invenzioni, la libertà ecclesiastica che
anche i principi secolari, per non dire dei santi padri, hanno voluto garantita
con molti privilegi. Ciò fanno, illecitamente, non solo con l'alienazione dei
feudi e di altri beni ecclesiastici e usurpazione delle giurisdizioni, ma anche
le fondazioni mortuarie ed altri diritti connessi con lo spirituale.
Volendo, perciò, salvaguardare in
queste cose gli interessi delle chiese e provvedere contro l'imposizione di
così gravi pesi, con la approvazione del santo concilio, noi decretiamo che
tali costituzioni e approvazioni di feudi o di altri beni ecclesiastici, prese,
senza il consenso legittimo delle persone ecclesiastiche, dal laico potere, non
hanno alcun valore - non possono infatti chiamarsi costituzione, ma
destituzione o distruzione e addirittura usurpazione delle giurisdizioni - e
che si ha il dovere di reprimere quelli che osassero perpetrare queste cose con
la censura ecclesiastica.
XLV
Quel Patrono che uccide o mutila il
chierico di una chiesa perde il diritto di Patronato
In alcune province i patroni delle
chiese, i loro vicari e gli avvocati sono diventati così insolenti che, non solo,
quando si tratta di provvedere alle chiese vacanti idonei pastori, frappongono
difficoltà ed inganni, ma presumono anche di disporre a loro arbitrio dei
possessi e degli altri beni ecclesiastici, e (cosa orribile a dirsi) non temono
di giungere a uccidere dei prelati.
Ma poiché ciò che è destinato alla
difesa non deve essere ritorto a danno ed oppressione, proibiamo espressamente
che i patroni, vicari o avvocati, possano trasformarsi in usurpatori, più di
quanto non permetta il diritto. Se poi credessero di poter fare il contrario,
siano severissimamente puniti col rigore delle pene canoniche.
Stabiliamo, tuttavia, con
l'approvazione del santo concilio, che, se i patroni, gli avvocati, i
feudatari, i vicari o altri beneficiati osassero, con empia audacia, uccidere o
mutilare, sia essi direttamente, sia per mezzo di altri, il rettore di una
chiesa o altro chierico di essa, perdano senz'altro: i patroni, il loro diritto
di patronato; gli avvocati, la loro avvocatura; i feudatari, il loro feudo; i
vicari, il loro vicariato; i beneficiati, il loro beneficio. E perché il
ricordo della pena non sia tramandato meno a lungo del delitto commesso, niente
dei succitati passi agli eredi, ma i loro discendenti non potranno essere
ammessi fra i chierici fino alla quarta generazione, né potranno conseguire
qualsiasi onore di prelazione nelle case religiose, a meno che non abbiano
ottenuto benevolmente la dispensa.
XLVI
Non si devono imporre tasse al clero
Contro i consoli e i governatori
delle città, ed altri, che cercano di gravare le chiese e le persone
ecclesiastiche con imposte o collette ed altre tasse, il concilio Lateranense,
volendo salvaguardare l'immunità ecclesiastica, ha proibito questo gravame
sotto pena di anatema e ha comandato che i trasgressori e i loro fautori
fossero sottoposti ad esso, fino a che avessero compiuto la dovuta riparazione.
Se qualche volta il vescovo ed il clero ammettono, in caso di grande necessità
o utilità e senza alcuna costrizione, di contribuire alle comuni necessità
quando le possibilità dei laici non fossero sufficienti, questi accettino il
loro contributo con umiltà, devozione, e riconoscenza. Ma poiché alcuni sono
imprudenti si dovrà prima consultare il Romano pontefice, il cui compito è di
provvedere alle comuni necessità.
Ma poiché neppure così la malvagità
di alcuni contro la chiesa di Dio si è calmata, aggiungiamo che le disposizioni
e le sentenze promulgate da questi scomunicati o per loro mandato si devono
ritenere vane e inutili, e senza alcun valore per sempre.
Del resto, poiché la frode e
l'inganno non devono tornare a vantaggio di alcuno, nessuno sia tratto in
inganno da questo inutile errore, che, cioè, egli debba sottostare alla
scomunica (solo) durante il tempo del suo governo, quasi che dopo di esso non
possa essere obbligato alla dovuta soddisfazione. Decretiamo, infatti, che sia
chi ha ricusato la soddisfazione, il suo successore, se non avrà riparato entro
un mese, siano irretiti nella censura ecclesiastica, finché questi abbia
convenientemente riparato; chi, infatti, succede nell'onore, succede anche
negli oneri.
XLVII
La forma della scomunica
Con l'approvazione del santo
concilio, proibiamo che uno possa promulgare una sentenza di scomunica contro
qualcuno, senza aver fatto precedere la dovuta ammonizione alla presenza di
persone qualificate, le quali, se necessario, possano provare che l'ammonizione
è stata fatta. Se invece egli intendesse agire diversamente, sappia che, se
anche la sentenza di scomunica fosse giusta, gli sarà proibito l'ingresso nella
chiesa per un mese, senza pregiudizio di un'altra pena, eventualmente giudicata
opportuna. Si guardi bene anche, con molta diligenza, dall'infliggere a
chiunque la scomunica senza un motivo chiaro e plausibile. Se per caso ciò
fosse avvenuto, e, richiesto umilmente, non si curasse di revocare la sentenza
senza imporre pene, quegli che ne è stato colpito sporga querela per l'ingiusta
scomunica presso il superiore. E se questi può farlo senza che il ritardo porti
alcun pericolo, lo rimandi da chi l'ha scomunicato con un suo mandato perché
venga assolto entro un tempo conveniente; se no, egli, o direttamente, o per
mezzo di altri, come meglio gli sarà sembrato, l'assolva, naturalmente con la
debita garanzia.
Quando poi risultasse chiaramente a
carico dello scomunicante che la scomunica è stata ingiusta, egli venga
condannato a pagar i danni a chi è stato scomunicato; e anzi potrà esser punito
anche diversamente ad arbitrio del superiore, se la qualità della colpa lo
richiedesse: non è, infatti, lieve colpa infliggere una pena così grave ad un
innocente (a meno che l'errore non dipenda da un ragionevole motivo) specie se
persona di buon nome.
Se, però, chi ha presentato ricorso
non porta alcun argomento degno di considerazione, anche lui per questa
ingiusta noia che ha causato col suo ricorso sia condannato a rifondere i danni
e ad altre pene ad arbitrio del giudice d'appello, a meno che anch'egli non sia
scusato da un comprensibile errore. Quanto all'errore oggetto della giusta
scomunica egli sarà tenuto a soddisfare con la cauzione ricevuta, oppure sia
riportato alla prima sentenza fino alla dovuta soddisfazione: cosa da
osservarsi assolutamente.
Se poi il giudice, riconoscendo il
proprio errore, è pronto a revocare tale sentenza, e quegli, per cui è stata emanata,
si appelli nel timore che essa venga revocata senza soddisfazione, non si tenga
conto dell'appello, a meno che l'errore sia di tale natura, per cui giustamente
si debba dubitare. In questo caso, avuta sufficiente garanzia dì presentarsi
all'istanza d'appello o ad un suo delegato, il giudice si conformerà alle norme
del diritto, assolverà chi è stato scomunicato, evitando cosi la pena,
guardandosi bene dall'addurre, con perversa intenzione, un errore fittizio a
danno dell'altro, se vuole sfuggire la pena delle norme canoniche.
XLVIII
Del modo di ricusare il giudice
Essendosi provveduto con una
speciale proibizione che nessuno osi promulgare una sentenza di scomunica
contro qualcuno senza la prescritta ammonizione, volendo anche provvedere che
chi è ammonito, con la scusa di una ricusazione o di un appello non possa
evitare l'esame di chi lo ammonisce, stabiliamo che se egli adducesse la
suspicione del giudice sospetto, dovrà specificare dinanzi a lui la causa del
suo giusto sospetto. Poi con l'avversario, o, se non abbia un avversario, col
giudice stesso elegga di comune accordo gli arbitri, o, qualora non sia
possibile accordarsi, ne eleggano, senza intenzioni di ingannare, uno lui e uno
l'altro, perché possano esaminare il motivo del sospetto. Nel caso che non
riescano ad accordarsi sulla sentenza, chiamino un terzo, di modo che quello
che decideranno due di essi abbia forza di sentenza.
Sappiano anche, costoro, che sono
tenuti ad eseguire ciò scrupolosamente in forza del precetto loro imposto da
noi in virtù di santa obbedienza con la minaccia del divino giudizio.
Qualora la causa di sospetto non
fosse trovata legittima dinanzi ad essi nei termini di tempo stabiliti, il
giudice usi pure della sua giurisdizione. Ma una volta che essa sia stata legittimamente
provata, colui il cui giudizio è stato ricusato, con il consenso di chi l'ha
ricusato affidi tutta la faccenda a persona idonea, o la trasmetta al
superiore, perché egli proceda alla sua risoluzione, nel modo prescritto.
Tuttavia, se, pur interponendo
appello colui che è stato ammonito, la sua colpa si rendesse legittimamente
manifesta o per l'evidenza della cosa in sé, o per la confessione del reo, o in
altro modo, in questo caso, poiché il diritto di appello è stato istituito a
difesa dell'innocenza e non dell'iniquità, non si deve dar corso all'appello. E
se anche la colpa fosse solo dubbia, perché chi si appella non possa col
diversivo di un appello inconsistente impedire il processo del giudice, egli
esponga dinanzi a lui la causa del suo appello, purché degna di approvazione,
tale, cioè, che se fosse approvata dovrebbe esser considerata legittima. E
allora, se vi è un avversario entro un termine che lo stesso giudice dovrà
determinare, tenendo conto, naturalmente, della distanza dei luoghi, della
qualità del tempo e della natura della cosa, prosegua la causa di appello; se
poi l'interessato non si curasse di proseguirla, il giudice, nonostante
l'appello, proceda.
Non presentandosi alcun avversario,
poiché il giudice procede ex officio, una volta approvata dinanzi al superiore
la causa di appello, il superiore faccia il suo dovere come gli viene indicato
dalla sua giurisdizione. Ma se colui che si è appellato non riuscirà a provare
(il motivo del suo appello), sia rinviato a colui, da cui è chiaro che ha
appellato in cattiva fede.
Non vogliamo, ad ogni modo, che le
due precedenti costituzioni siano estese ai religiosi, che hanno le loro norme
speciali.
XLIX
La pena per chi infligge
ingiustamente una scomunica
Sotto minaccia del giudizio divino,
comandiamo assolutamente che nessuno, per cupidigia, osi legare qualcuno col
vincolo della scomunica, o assolvere chi è legato, specie in quelle regioni
nelle quali per consuetudine chi viene assolto dalla scomunica è unito con una
pena pecuniaria. Stabiliamo, quindi, che quando sia certo che la sentenza di
scomunica sia stata ingiusta, colui che l'ha inflitta sia costretto, sotto
minaccia di censura ecclesiastica, a restituire il denaro cosi estorto, e, a
meno che non sia stato ingannato da un comprensibile errore, paghi una ugual
somma a chi è stato danneggiato, e, se non fosse in grado di pagare, sia punito
con altra pena.
L
La restrizione degli impedimenti del
matrimonio
Non si deve ritenere negativo che, a
seconda del mutare dei tempi, le prescrizioni umane possano mutare,
specialmente se ciò sia determinato da grave necessità o da evidente utilità.
Anche Dio, infatti, nel Nuovo testamento ha mutato qualche cosa di quanto aveva
stabilito nell'Antico. Poiché, dunque, la proibizione di contrarre il
matrimonio nel secondo e terzo grado di affinità, e di attribuire la prole nata
dalle seconde nozze alla parentela del primo marito, importa talvolta delle
difficoltà e anche pericolo per le anime, affinché cessando la proibizione
cessi l'effetto, con l'approvazione del santo concilio revochiamo le
costituzioni promulgate a questo riguardo e stabiliamo, con la presente la
libertà di contrarre in avvenire tali matrimoni.
Anche la proibizione del matrimonio
in seguito non ecceda il quarto grado di consanguineità e di affinità: oltre
questi gradi, infatti, è difficile, generalmente, che si possa osservare questa
proibizione senza grave incomodo. Il numero di quattro, infatti, si addice bene
alla proibizione dell'unione del corpo, di cui l'apostolo dice che l'uomo
non ha la potestà del proprio corpo, ma la donna e neppure la donna ha la
Potestà del sito corpo, ma l'uomo, perché quattro sono gli umori nel corpo,
che è formato dai quattro elementi.
Essendo, dunque, ormai, la
proibizione dell'unione matrimoniale ristretta al quarto grado, intendiamo che
essa abbia valore per sempre, nonostante le costituzioni emanate su questo
argomento già da lungo tempo sia da altri che da noi stessi. Cosicché se
qualcuno osasse unirsi in matrimonio contro questa proibizione, non sia scusato
dai molti anni trascorsi, poiché la lunghezza del tempo non diminuisce il
peccato, ma lo aggrava, e poiché i delitti sono tanto più gravi, quanto più a
lungo tengono incatenata l'anima infelice.
LI
Pene per chi contrae matrimonio clandestino
Revocato l'impedimento al matrimonio
nei tre ultimi gradi, vogliamo però che esso venga scrupolosamente osservato
negli altri. Seguendo, perciò, i nostri predecessori proibiamo assolutamente i
matrimoni clandestini e proibiamo anche che qualsiasi sacerdote vi assista.
Estendiamo, perciò, in generale la
consuetudine vigente in alcuni luoghi e stabiliamo che, quando si deve
contrarre matrimonio, i sacerdoti li pubblichino nelle chiese e si stabilisca
un termine entro il quale chi volesse e potesse dimostrarlo opponga legittimo
impedimento. I sacerdoti, poi, cerchino di investigare anch'essi se vi sia
qualche impedimento. E se si presenta qualche sospetto degno di considerazione
contro questa unione, il contratto sia senz'altro sospeso, finché appaia
chiaramente il da farsi.
Se questi matrimoni clandestini o
impediti nel grado proibito, anche senza saperlo, fossero stati contratti, i
figli nati da tale unione siano considerati senz'altro legittimi, e non gioverà
l'ignoranza dei genitori, poiché essi, contraendo il matrimonio in tal modo,
sembrano non ignorare la legge quanto piuttosto affettarne l'ignoranza.
Ugualmente illegittima sia considerata la prole, quando i genitori, pur sapendo
esservi un impedimento legale, contro ogni proibizione contraessero il
matrimonio al cospetto della chiesa. E il parroco che avesse trascurato di
impedire tali unioni, o anche qualsiasi religioso che avesse osato assistere ad
esse, sia sospeso dal suo ufficio per tre anni e sia punito anche più
gravemente, se la natura della colpa lo richiedesse.
Anche a chi contraesse matrimonio
segreto, entro i limiti di un grado permesso, sia imposta una penitenza
proporzionata.
Se poi qualcuno adducesse con
malignità qualche impedimento per impedire una legittima unione, costui non
sfuggirà la punizione della chiesa.
LII
La testimonianza per sentito dire
non è accettabile nelle cause matrimoniali
Anche se altre volte, per necessità,
fu stabilito, al di fuori della forma consueta, che nel computare i gradi di
consanguineità e di affinità potesse valere la testimonianza per sentito dire,
tuttavia per la brevità della vita umana è impossibile che testimoni de visu
possano testimoniare per il computo fino al settirno grado. Molti esempi e
l'esperienza hanno insegnato che da ciò sono derivati molti pericoli per i
matrimoni legittimi, pertanto stabiliamo che, su questo argomento, non siano
più ammesse testimonianze per sentito ,dire, dal momento che ormai la
proibizione non supera il quarto grado, a meno che si tratti di persone serie,
alle quali giustamente si debba prestar fede, e che abbiano appreso quanto
testificano prima che iniziasse la lite, dai loro ascendenti; non da uno, si
badi bene, poiché uno non sarebbe sufficiente neppure se vivesse, ma almeno da
due; e non da persone sospette, ma da gente degna di fede e superiore ad ogni
sospetto: sarebbe, infatti, assurdo ammettere persone di cui sarebbero
riprovate le azioni. Anche se uno avesse appreso da molti quello che attesta, o
quelli di reputazione incerta l'avessero sentito dire da persone di buona fama,
non per questo devono esser considerati come più testi, e idonei, poiché anche
secondo il consueto modo di procedere dei giudizi, non è sufficiente
l'attestazione di un teste solo, anche se rivestito di una funzione di responsabilità
e gli atti legittimi sono interdetti agli infami.
Questi testimoni, dopo aver
confermato con giuramento che essi non sono stati spinti a deporre da motivi di
odio, di timore, di amore, o di utilità, indichino espressamente le persone col
loro proprio nome, o in modo da lasciarlo capire, cioè con una circonlocuzione
sufficientemente chiara; distinguano con chiaro computo i singoli gradi
dell'una e dell'altra linea di parentela; e concludano, nel loro giuramento,
che essi hanno appreso ciò che depongono dai loro antenati, e che credono che
in realtà le cose stiano così.
Ma neppure testimoni così sono
sufficienti se non giurano di aver conosciuto persone appartenenti almeno ad
uno dei gradi predetti, le quali si ritenevano consanguinei. E’ preferibile,
infatti, lasciar qualcuno unito in matrimonio contro le prescrizioni degli
uomini, che separare chi è legittimamente unito, contro le prescrizioni del
Signore.
LIII
Di chi dà a coltivare ad altri le
proprie terre per frodare le decime
In alcune regioni convivono
popolazioni che, secondo i loro riti, non usano pagare le decime, pur essendo
cristiane. A questa gente alcuni padroni affidano i loro fondi, perché li
coltivino; e così, defraudando le chiese delle decime, aumentano i loro
proventi.
Volendo preservare i diritti delle
chiese, stabiliamo che i padroni che affittano i loro campi a tali persone
paghino integralmente le decime alle chiese e, se fosse necessario, vi siano
costretti con le censure ecclesiastiche poiché le decime sono dovute per legge
divina o per una consuetudine locale consolidata.
LIV
Le decime devono esser pagate prima
dei tributi
Non essendo in potere dell'uomo che
il seme risponda alle attese di chi semina - secondo la parola dell'Apostolo,
infatti, né chi pianta è qualcosa, né chi irriga, ma Dio che fa crescere potendo
solo lui dal seme marcito produrre molti frutti - con avarizia alcuni cercano
di defraudare le decime, detraendo dalle messi e dalle primizie i censi e i
tributi, che così sfuggono alle decime.
Poiché il Signore, come segno del
suo dominio universale, e come a titolo speciale, si è riservato le decime,
noi, volendo ovviare al danni derivanti alle chiese e ai pericoli per le anime,
stabiliamo che, in forza del dominio generale, l'esazione dei tributi e dei censi
sia preceduta dal pagamento delle decime, o che, almeno, quelli a cui fossero
stati pagati i censi e i tributi senza che su questi siano state detratte le
decime, poiché i beni passano con gli oneri inerenti, siano costretti a pagare
le decime a favore delle chiese, cui spettano di diritto, sotto pena di censura
ecclesiastica.
LV
Nonostante i privilegi, devono esser
pagate le decime delle terre che si acquistano
Recentemente, gli abati dell'ordine
Cistercense, riuniti in capitolo generale, in seguito a nostro ammonimento
hanno stabilito opportunamente che per l'avvenire i fratelli del loro ordine
non acquistino beni soggetti a decime per le Chiese, se non per la fondazione
di nuovi monasteri. Se poi tali beni fossero loro offerti dalla pia devozione
dei fedeli, o acquistati per la fondazione di nuovi monasteri li affidino, per
farli lavorare, ad altri, da cui siano pagate le decime, perché non avvenga che
a causa dei loro privilegi le chiese siano ulteriormente aggravate.
Decretiamo, quindi, che per le terre
concesse ad altri o da acquistare in futuro, anche se le lavoreranno con le
proprie mani o a proprie spese, paghino le decime alle chiese, alle quali per
tali fondi si pagavano prima, a meno che non si componga la cosa con le chiese
in altro modo.
Noi certi della bontà di questa
disposizione vogliamo che sia estesa agli altri religiosi che godono di simili
privilegi, e comandino che i prelati delle chiese siano più zelanti nel far
loro rendere giustizia per i danni che ricevono e nel far rispettare i loro
privilegi.
LVI
Un parroco non deve perdere le
decime a seguito di intese private
La maggior parte dei regolari, come
abbiamo appreso, e dei chierici secolari, qualche volta, quando affittano le
case o concedono i feudi, aggiungono con pregiudizio delle chiese parrocchiali
la clausola che i conduttori e i feudatari paghino ad essi le decime e scelgano
di esser sepolti presso di loro.
Poiché ciò procede dall'avarizia,
riproviamo assolutamente tale genere di patti e stabiliamo che quello che fosse
stato percepito in occasione di questo accordo, sia restituito alla chiesa
parrocchiale.
LVII
Come interpretare i privilegi
Perché i privilegi che la chiesa
Romana ha concesso ad alcuni religiosi rimangano intatti, crediamo opportuno
alcune precisazioni su punti che non compresi bene danno luogo ad abusi, e
quindi potrebbero imporre la loro revoca; chi, in- fatti, abusa di un potere
concessogli merita di esserne privato.
Così, per esempio, la sede
apostolica ha concesso ad alcuni religiosi un indulto per cui i membri della
loro fraternità possano ottenere la sepoltura ecclesiastica anche se la loro
parrocchia fosse stata interdetta, sempre che non siano scomunicati o
nominatamente interdetti; ed inoltre che possano seppellire nelle proprie
chiese, quei loro fratelli che i prelati delle chiese non permettessero che
siano sepolti nelle loro chiese sempreché non siano scomunicati o interdetti
personalmente. Per confratelli si devono intendere coloro che rimanendo nel
mondo si sono consacrati al loro ordine e hanno deposto l'abito secolare, o chi
da vivo con donazione ha ceduto ad essi i propri beni, riservandosi solo
l'usufrutto vita natural durante. Questi soltanto potranno esser sepolti presso
le chiese non interdette dei regolari o di altri, nelle quali avessero scelto
di essere sepolti; sono esclusi invece quelli che entrano nella fraternità,
versando due o tre denari all'anno col rischio di avvilire la disciplina
ecclesiastica. Costoro tuttavia, possono ottenere la remissione dalla sede
apostolica.
Un altro privilegio concede a dei
religiosi che se qualcuno dei loro frati, mandati per fondare delle fraternità
o per raccogliere delle collette, giunge in una città, castello o villaggio,
colpito da interdetto ai divini uffici, in occasione di questa loro gioiosa
venuta, una volta all'anno vengano aperte le chiese e, esclusi gli scomunicati,
si celebrino in esse le sacre funzioni. Vogliamo che si intenda tale privilegio
in modo che in quella città, o castello o villaggio una sola chiesa venga
aperta ai frati dello stesso ordine, come è stato detto, una volta all'anno. Se
anche, infatti, è detto al plurale di aprire le chiese per la loro lieta
venuta, non tuttavia è da riferirsi alle chiese dello stesso luogo
singolarmente prese, ma, con giusta interpretazione, alle chiese dei predetti
luoghi prese nel loro insieme; poiché, se in tal modo essi visitassero le
singole chiese dello stesso luogo, avverrebbe che la disposizione
dell'interdetto perderebbe il suo peso.
Chi intendesse agire contro le
prescritte disposizioni sia sottoposto ad una pena grave.
LVIII
Sullo stesso argomento a favore dei
vescovi
Volendo estendere anche ai vescovi a
favore dell'ufficio pontificale, ciò che è stato accordato ad alcuni religiosi,
concediamo che, quando è stata posta sotto interdetto una terra, possano,
qualche volta, esclusi gli scomunicati e gli interdetti, a porte chiuse e a
voce bassa, senza suono delle campane, celebrare i divini uffici, a meno che
ciò sia stato loro espressamente proibito.
Tuttavia concediamo ciò solo a
quelli che non abbiano dato motivo alcuno all'interdetto né abbiano usato
inganno o frode, trasformando il vantaggio in iniquità.
LIX
Nessun religioso deve prestare
garanzie senza il permesso dell'abate e della comunità
Ciò che la sede apostolica ha
proibito ad alcuni religiosi, vogliamo e comandiamo che sia esteso a tutti:
che, cioè, nessun religioso, senza previa licenza dell'abate e della
maggioranza del proprio capitolo si renda mallevadore di qualcuno o prenda in
prestito denaro da altri, per una somma superiore a quella stabilita con comune
provvedimento. Diversamente, la comunità non sia tenuta a rispondere in qualche
modo per questi, a meno che non risulti chiaramente che ciò sia ridondato a
beneficio della casa stessa.
Chi oserà agire contro questa norma,
sia sottoposto a una più grave punizione.
LX
Gli abati non devono usurpare
l'ufficio dei vescovi
Dalle lagnanze dei vescovi, giunteci
da ogni parte del mondo, abbiamo constatato le gravi e grandi inframmettenze di
alcuni abati, i quali non contenti dei propri poteri, invadono le prerogative
proprie della dignità vescovile, istruiscono cause matrimoniali, ingiungono
pubbliche penitenze, concedono persino lettere di indulgenze, commettono
infrazioni analoghe. Da ciò deriva uno svilimento dell'autorità vescovile
presso molti.
Volendo, dunque, su questo argomento
provvedere alla dignità dei vescovi e alla salvezza degli abati, col presente
decreto proibiamo severamente che qualche abate si immischi in queste cose, se
vuole evitare pericoli; salvo speciali concessioni o legittimi motivi.
LXI
I religiosi non ricevano decime
dalle mani dei laici
E’ noto che il concilio Lateranense
ha proibito a qualsiasi religioso di ricevere chiese o decime dai laici senza
l'approvazione dei vescovi, e di ammettere in qualche modo agli uffici divini
gli scomunicati o gli interdetti nominatamente.
Noi, per rinforzare tali
proibizioni, puniremo i trasgressori con sanzioni adeguate e stabiliamo che
nelle chiese che non appartengono ad essi di pieno diritto, secondo le norme
dello stesso concilio presentino ai vescovi i sacerdoti che essi intendono
assumere, perché rispondano ad essi della cura del popolo, e ai religiosi degli
affari temporali. Non osino poi allontanare quelli che hanno assunto senza aver
consultato i vescovi né presentino preti di dubbia condotta o suscettibili di
giudizio sfavorevole da parte dei prelati.
LXII
Le reliquie dei santi devono essere
esposte in un reliquiario, le nuove non possono essere venerate senza
autorizzazione della chiesa Romana
Poiché dal fatto che alcuni
espongono le reliquie dei santi per venderle, si è spesso presa occasione per
detrarre la religione cristiana, perché ciò non avvenga in futuro, col presente
decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in
mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno
si azzardi a venerarle, prima che siano state approvate dall'autorità del
Romano pontefice. Per l'avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro
chiese per venerare le reliquie sia ingannato con discorsi fantastici o falsi
documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro.
Quanto ai questuanti di elemosine,
di cui alcuni mentono agli altri diffondendo errori nella loro predicazione,
proibiamo che essi siano ammessi se non presentano lettere autentiche de a sede
apostolica o del vescovo diocesano. E in questo caso non si permetta loro di
proporre altro che quello che è contenuto in quelle stesse lettere. Abbiamo
creduto di dover aggiungere qui la formula che comunemente la sede apostolica
usa, perché i vescovi diocesani possano adeguarvi le loro lettere.
"Poiché, secondo l'apostolo,
tutti dovremo comparire dinanzi al tribunale di Cristo, per ricevere a seconda
di quanto abbiamo operato finché eravamo nel corpo, sia nel bene, sia nel male,
è necessario che noi preveniamo con opere di misericordia il giorno dell'ultima
mietitura, e, pensando ai beni eterni, seminiamo in terra quello che il Signore
ci renderà con frutto abbondante, e che raccoglieremo nei cieli, avendo nel
cuore la ferma speranza e la fiducia che chi semina poco, raccoglierà anche
poco, e che chi semina nella benedizione, raccoglierà anche nella benedizione,
per la vita eterna. Poiché, dunque, i mezzi a disposizione per mantenere i
frati e i bisognosi che sono ricoverati nel tale ospedale non sono sufficienti,
ammoniamo ed esortiamo nel Signore questa vostra comunità, e vi comandiamo in
remissione dei vostri peccati, che con i beni che Dio vi ha largito vogliate
fare pie elemosine ed erogare gli aiuti della vostra carità, affinché per
questa vostra sovvenzione si possa provvedere alla loro povertà, e voi, per
queste ed altre opere di bene che con l'ispirazione di Dio avete fatto,
possiate giungere alla gioia eterna".
Quelli che chiedono le elemosine
siano modesti e riservati; non prendano alloggio nelle osterie o in altri
luoghi poco adatti; non facciano spese inutili e costose; e si guardino
assolutamente dal portare invano l'abito religioso. Si aggiunga che concedendo
le indulgenze senza alcun discernimento troppo abbondanti, come alcuni prelati
fanno senza ritegno si getta il disprezzo sul potere delle chiavi, e viene a
perdere ogni efficacia la soddisfazione penitenziale.
Decretiamo, perciò, che, quando si
dedica una basilica, non si conceda un'indulgenza di più di un anno, sia che la
dedicazione sia fatta da uno che da più vescovi; e che, inoltre,
nell'anniversario della dedicazione la remissione concessa con l'ingiunzione
della penitenza non superi i quaranta giorni. Vogliamo anche che questo numero
di giorni sia considerato come giusta misura delle lettere di indulgenze che
talvolta vengono concesse, poiché il Romano pontefice, che ha la pienezza della
potestà, usa attenersi a questi limiti.
LXIII
La Simonia
Sappiamo con certezza che quasi
dappertutto moltissime persone - quasi venditori di colombe nel tempio -
esigono e estorcono turpemente e malamente denaro per le consacrazioni di
vescovi, per le benedizioni di abati e l'ordinazione di chierici. E vi sono
tariffe per quanto deve andare a questi, quanto a quello, e quanto bisogna
pagare ad altri; a maggior dannazione, vi è chi cerca di difendere questa
vergognosa e malvagia condotta adducendo una consuetudine stabilita da molto
tempo.
Volendo abolire un così grave abuso,
riproviarno assolutamente questa consuetudine, seppure non si debba chiamar
piuttosto corruzione, e stabiliamo fermamente che per conferire o ricevere
ordini sacri nessuno si azzardi ad esigere e a estorcere alcunché sotto
qualsiasi pretesto. Diversamente, sia chi ha ricevuto sia chi ha pagato questo
prezzo dannato sia condannato come Giezi e come Simone
LXIV
Della simonia riguardo ai monaci e
alle monache
Poiché il peccato di simonia ha
talmente contaminato la maggior parte delle monache che ne ammettono solo
qualcuna senza pagamento, e cercano di nascondere questo vizio col pretesto
della loro povertà, proibiamo assolutamente che ciò si ripeta in avvenire e
stabiliamo che chiunque in seguito commettesse tale malvagità, sia chi riceve
che chi è ricevuta, suddita o costituita in autorità, venga espulsa dal suo
monastero senza speranza di tornarvi mai più, e sia mandata in luogo dove la
regola sia più severa, perché faccia penitenza per sempre.
Quanto a quelle, poi, che sono state
ricevute in tale modo prima di questa disposizione sinodale, stabiliamo che,
allontanate dai monasteri, dove ingiustamente sono entrate, siano collocate in
altre case dello stesso ordine. Che se per il gran numero non potessero essere
convenientemente sistemate altrove, per evitare che vadano vagando qua e là per
il mondo con pericolo di dannazione, siano riprese nello stesso monastero
eccezionalmente, cambiando le priore e le altre autorità inferiori.
Questa disposizione sia osservata
anche dai monaci e dagli altri che vivono secondo una regola. E perché non
possano addurre a loro scusa la loro semplicità ed ignoranza, comandiamo che i
vescovi diocesani la facciano pubblicare ogni anno nelle loro diocesi.
LXV
Sullo stesso argomento, circa le
estorsioni illecite
Abbiamo saputo che alcuni vescovi
quando muoiono i rettori di chiese, sottopongono queste chiese a interdetto, e
non permettono che alcuno venga costituito rettore, se prima non hanno riscosso
una certa somma di denaro. Inoltre, quando un soldato o un chierico entra in
una casa religiosa, o sceglie di essere sepolto presso i religiosi, anche se
non ha lasciato nulla ai religiosi, frappongono difficoltà e astuzie, fino a
che non ottengono qualche regalo.
E poiché non solo dobbiamo astenerci
dal male, ma anche da ogni apparenza di male, secondo quando dice l'apostolo,
proibiamo assolutamente queste esazioni; e se qualcuno trasgredisse,
restituisca il doppio di quanto ha percepito, che verrà scrupolosamente
devoluto ad utilità di quei luoghi, a danno dei quali è stato ottenuto.
LXVI
Circa la cupidigia del clero
A questa sede apostolica è stato
frequentemente riferito che alcuni chierici esigono ed estorcono denaro per le
esequie dei morti, per le benedizioni degli sposi, e per simili prestazioni; se
non viene soddisfatta la loro pretesa, oppongono con inganno degli impedimenti
fittizi.
Al contrario, vi sono laici che,
mossi dal fermento ereticale, e col pretesto della pietà ecclesiale, tentano
infrangere lodevoli consuetudini verso la santa chiesa introdotte dalla pietà
dei fedeli.
Quindi, mentre proibiamo le indegne
esazioni a questo riguardo, comandiamo che vengano mantenute le pie
consuetudini e stabiliamo che i sacramenti della chiesa siano conferiti senza
alcuna imposizione; ma, nello stesso tempo, che il vescovo del luogo,
conosciuta la verità, proceda contro chi tenta maliziosamente di cambiare
lodevoli consuetudini.
LXVII
Circa l'usura dei Giudei
Più la religione cristiana frena
l'esercizio dell'usura, tanto più gravemente prende piede in ciò la malvagità dei
Giudei, così che in breve le ricchezze dei cristiani saranno esaurite. Volendo,
pertanto aiutare i cristiani a sfuggire ai Giudei, stabiliamo con questo
decreto sinodale che se in seguito i Giudei, sotto qualsiasi pretesto,
estorcessero ai cristiani interessi gravi e smodati, sia proibito ogni loro
commercio con i cristiani, fino a che non abbiano convenientemente riparato.
Così pure i cristiani, se fosse
necessario, siano obbligati, senza possibilità di appello, con minaccia di
censura ecclesiastica, ad astenersi dal commercio con essi.
Ingiungiamo poi ai principi di
risparmiare a questo riguardo i cristiani, cercando piuttosto di impedire ai
Giudei di commettere ingiustizie tanto gravi.
Sotto minaccia della stessa pena,
stabiliamo che i Giudei siano costretti a fare il loro dovere verso le chiese
per quanto riguarda le decime e le offerte dovute, che erano solite ricevere
dai cristiani per le case ed altri possessi, prima che a qualsiasi titolo
passassero ai Giudei, in modo che le chiese non ne abbiano alcun danno.
LXVIII
I Giudei devono distinguersi dai
cristiani per il modo di vestire
In alcune province i Giudei o
Saraceni si distinguono dai cristiani per il diverso modo di vestire; ma in
alcune altre ha preso piede una tale confusione per cui nulla li distingue.
Perciò succede talvolta che per errore dei cristiani si uniscano a donne giudee
o saracene, o questi a donne cristiane.
Perché unioni tanto riprovevoli non
possano invocare la scusa dell'errore, a causa del vestito stabiliamo che questa
gente dell'uno e dell'altro sesso in tutte le province cristiane e per sempre
debbano distinguersi in pubblico per il loro modo di vestire dal resto della
popolazione, come fu disposto d'altronde anche da Mosè.
Nei giorni delle lamentazioni e
nella domenica di Passione essi non osino comparire in pubblico, dato che
alcuni di loro in questi giorni non si vergognano di girare più ornati del
solito e si prendono gioco dei cristiani, che a ricordo della passione
santissima del Signore mostrano i segni del loro lutto. Questo, poi, proibiamo
severissimamente che essi osino danzare di gioia per oltraggio al Redentore.
E poiché non dobbiamo tacere di
fronte all'insulto verso chi ha cancellato i nostri peccati, comandiamo che
questi presuntuosi siano repressi dai principi secolari con una giusta
punizione, perché non credano di poter bestemmiare colui che è stato crocifisso
per noi.
LXIX
I Giudei non devono rivestire
pubblici uffici
Poiché è cosa assurda che chi
bestemmia Cristo debba esercitare un potere sui cristiani, quello che su questo
argomento il concilio Toletano ha provvidamente stabilito, noi, per rintuzzare
l'audacia dei trasgressori, lo rinnovano ora e proibiamo, quindi, che i Giudei
rivestano pubblici uffici, poiché proprio per questo riescono assai molesti ai
cristiani.
Se qualcuno perciò affida ad essi un
tale ufficio sia punito come merita - premessa naturalmente l'ammonizione - dal
concilio provinciale che comandiamo debba celebrarsi ogni anno. L'officiale
ebreo sia separato dai cristiani nei commerci e nelle altre relazioni sociali;
e ciò, fino a che tutto quello che egli ha percepito dai cristiani, in
occasione di tale ufficio, non sia devoluto a beneficio dei poveri cristiani, a
giudizio del vescovo diocesano. Rinunzi, inoltre, con sua vergogna, alla carica
che ha assunto così insolentemente. Estendiamo questa stessa disposizione anche
ai pagani.
LXX
I Giudei convertiti non devono
tornare ai riti antichi
Abbiamo saputo che alcuni, ricevuta
spontaneamente l'acqua del santo battesimo, non depongono del tutto l'uomo
vecchio, per rivestire perfettamente l'uomo nuovo, ma, conservando vestigia del
giudaismo offuscano, con tale confusione, la bellezza della religione
cristiana.
Ma poiché sta scritto: maledetto
l'uomo che s'inoltra nel cammino per due vie, e non deve indossarsi una
veste fatta di lino e di lana, stabiliamo che i superiori delle chiese li
allontanino in ogni modo dall'osservanza delle loro vecchie pratiche, affinché
quelli che la scelta della loro libera volontà ha portato alla religione
cristiana, siano poi indotti ad osservarla. E’ infatti minor male non conoscere
la via del Signore, che abbandonarla dopo averla conosciuta.
LXXI
Spedizione per la riconquista della
Terra Santa (14 dic. 1215)
Desiderando ardentemente liberare la
Terra Santa dalle mani degli empi, col consiglio di uomini prudenti, che
conoscono perfettamente le circostanze di tempo e di luogo, e con
l'approvazione del santo concilio, stabiliamo che i crociati si preparino in
modo che quelli che intendono fare il viaggio per mare, il primo giugno
dell'anno prossimo si radunino nel regno di Sicilia: alcuni, a seconda della
necessità e della opportunità, a Brindisi, altri a Messina, e dintorni. Qui
abbiamo pensato di venire personalmente, allora, anche noi, se Dio vorrà,
perché col nostro consiglio e col nostro aiuto l'esercito cristiano venga
salutarmente ordinato e possa partire con la benedizione divina ed apostolica.
Per quella data, cerchino di
prepararsi anche quelli che hanno stabilito di partire per terra; ma intanto ce
ne vogliano informare, perché possiamo conceder loro un legato a latere,
che li consigli e li aiuti.
I sacerdoti e gli altri chierici che
faranno parte dell'esercito cristiano, sia inferiori che prelati, attendano con
diligenza alla preghiera e alla predicazione, insegnando con la parola e con
l'esempio, affinché i crociati abbiano sempre dinanzi agli occhi il timore e
l'amore di Dio e non dicano e facciano cosa alcuna che offenda la divina
maestà. Se qualche volta cadessero nel peccato, risorgano subito con la vera
penitenza; siano umili nel cuore e nel corpo; sia nel modo di vivere che nel
vestirsi conservino la giusta moderazione; evitino assolutamente i dissensi e
le invidie; allontanino da sé ogni rancore e ogni livore di modo che, muniti delle
armi spirituali e materiali, più sicuramente possano lottare contro i nemici
della fede, senza far affidamento sulla propria forza ma sperando nell'aiuto di
Dio.
A questi stessi chierici concediamo
che per un triennio possano percepire completamente il frutto dei loro
benefici, come se risiedessero nelle loro chiese, e, se fosse necessario, che
per tutto quel tempo possano ipotecarli con un pegno.
Perché non succeda che questo santo
proposito venga impedito o ritardato, ordiniamo severamente a tutti i superiori
delle chiese che, ciascuno nella propria giurisdizione, ammoniscano con
diligenza e inducano quelli che hanno deposto il segno della Croce a
riprenderlo e, sia loro che gli altri che possano in seguito fregiarsi di
questo se-no, ad adempiere il loro voto al Signore. Se sarà necessario, li
costringano con sentenze di scomunica contro le persone e di interdetto contro
le loro terre, senza tergiversare in nessun modo; siano eccettuati soltanto
quelli che hanno un impedimento tale, per cui, secondo le concessioni della
sede apostolica, il loro voto possa essere giustamente commutato o differito.
E perché in questa causa che
riguarda Gesù Cristo non sia trascurato nulla di ciò che si può fare,
desideriamo e comandiamo che i patriarchi, gli arcivescovi, i vescovi, gli
abati e gli altri che sono in cura d'anime, con grande zelo propongano a quelli
che sono loro affidati la parola della Croce, scongiurando re, duchi, principi,
marchesi, conti e baroni, e gli altri nobili, e le comunità cittadine, dei villaggi
e dei paesi per amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo un solo,
vero, eterno Dio, che quelli che non si recano personalmente in aiuto della
Terra Santa, forniscano un conveniente numero di soldati e le spese per tre
anni secondo le loro possibilità, in remissione dei loro peccati, come è stato
già detto espressamente nelle lettere encicliche, e come, per maggior cautela,
verrà detto più oltre.
Di questa remissione vogliamo che
siano partecipi non solo quelli che offrono le proprie navi, ma anche quelli
che ne fabbricheranno a questo scopo.
Quanto a quelli che si rifiutano -
se vi sarà qualcuno, per caso, cosi ingrato verso il Signore Dio nostro -
protestiamo vivamente in virtù del nostro ufficio apostolico, perché sappiano
che essi dovranno risponderne nell'ultimo giorno nel- l'esame dinanzi al
tremendo giudice; prima però vogliamo che considerino con quale coscienza o con
quale sicurezza potranno comparire dinanzi all'unigenito Figlio di Dio Gesù
Cristo, a cui Dio ha dato in mano ogni cosa, se avranno rifiutato di
servirlo in questa causa, sua nel vero senso della parola, lui che è stato
crocifisso per i peccatori, per la cui benevolenza essi vivono, per il cui
beneficio si sostengono, e dal cui sangue, soprattutto, sono stati redenti.
E perché non sembri che poniamo
sulle spalle degli altri pesi gravi e insopportabili, che noi, però, non
vogliamo toccare neppure con un dito, proprio come quelli che dicono, ma non
fanno, noi da quanto abbiamo potuto sottrarre alle nostre necessità e alle modeste
spese, destiniamo a questo scopo e doniamo trentamila lire, oltre al naviglio
che raduniamo da Roma e dintorni per i crociati, pronti, tuttavia, ad assegnare
a questo stesso scopo tremila marche d'argento, rimaste presso di noi dalle
elemosine di alcuni fedeli, dopo aver distribuito scrupolosamente le altre per
i bisogni e l'utilità della Terra Santa, per mezzo dell'abate patriarca di
Gerusalemme, di felice memoria, e dei maestri del Tempio e dell'Ospedale.
Volendo poi che anche gli altri
prelati e tutti i chierici siano partecipi e associati alla nostra sorte nel
merito e nel premio, stabiliamo con l'approvazione unanime del concilio, che
assolutamente tutti i chierici, inferiori e superiori, versino per un triennio
la ventesima parte delle rendite ecclesiastiche in aiuto della Terra Santa,
attraverso le persone che saranno deputate della sede apostolica, eccetto solo
pochi religiosi, da ritenersi giustamente esenti da questa tassa, e quelli che
o hanno assunto o assumeranno il santo segno della Croce e che prenderanno
parte personalmente all'impresa.
Quanto a noi e ai nostri fratelli
cardinali della santa chiesa Romana adempiremo alla decima. E sappiano tutti di
essere obbligati ad osservare fedelmente questa disposizione sotto pena di
scomunica: cosicché quelli che commettessero una frode a questo riguardo
incorrerebbero nella sentenza di scomunica.
Inoltre, poiché è giusto che quelli
che saggiamente attendono all'onore dovuto al re celeste, debbano godere di
speciali prerogative, dato che la partenza è fissata tra poco più di un anno, i
crociati siano immuni da imposte, tasse e da altri aggravi, una volta assunta
la Croce, mentre assumiamo sotto la protezione del beato Pietro e nostra le
loro persone e i loro beni.
Stabiliamo perciò, che siano presi
sotto la difesa degli arcivescovi dei vescovi e di tutti i prelati della
chiesa, senza che si manchi per questo di assegnare ad essi dei propri
protettori addetti particolarmente a questo scopo, di modo che, fino a quando
non si sappia con certezza del loro ritorno o della loro morte, i loro beni
rimangano intatti e tranquilli. Chi poi intendesse agire in contrario, sia
punito con la censura ecclesiastica.
Se qualcuno di quelli che partono si
fosse obbligato a pagare degli interessi, comandiamo che i loro creditori siano
costretti sotto la stessa minaccia di scomunica a scioglierli dal giuramento
prestato e ad astenersi dal riscuotere gli interessi. Che se qualcuno dei
ereditari li costringesse a pagarli, comandiamo che vengano costretti alla loro
restituzione con una simile pena. Quanto ai Giudei in particolare, ordiniamo
che vengano obbligati dal potere secolare a condonare gli interessi, e che,
fino a quando non li abbiano condonati, sia negata ad essi da tutti i fedeli
cristiani in qualsiasi modo ogni comunanza di vita sotto pena di scomunica.
Quanto a quelli che non potessero, al presente, pagare i debiti ai Giudei, i
principi secolari con opportuna dilazione provvedano in modo tale, che
intrapreso il viaggio in Terra Santa non debbano risentire del peso degli
interessi fino a che non si sappia con certezza del loro ritorno o della loro
morte; e i Giudei siano costretti ad aggiungere al capitale i proventi dei
pegni che intanto avessero percepito, detratte, naturalmente, le spese
necessarie. Questa agevolazione, infatti, non sembra comportare molta perdita,
per il fatto che rimanda il pagamento in modo da non annullare il debito.
Sappiano, inoltre, quei superiori di
chiese che si mostrassero negligenti nel procurare la giustizia dei crociati e
delle loro famiglie, che saranno gravemente puniti.
D'altra parte, poiché i corsari e i
pirati ostacolano gli aiuti alla Terra Santa, catturando e spogliando quanti
vanno o vengono da essa, noi colpiamo con speciale scomunica i loro complici e
fautori, proibendo sotto minaccia di anatema, che nessuno scientemente faccia
con essi un contratto di compra- vendita, e imponendo ai reggitori delle città
e dei territori dove essi vivono, che vogliano richiamarli da questa iniquità e
reprimerli. Diversamente, poiché non perseguire i malvagi equivale a favorirli,
e non può fuggire il sospetto di occulta connivenza, chi non si cura di
rimediare ad una manifesta azione delittuosa, vogliamo e comandiamo che i capi
delle chiese usino contro le loro persone e le loro terre il peso della
severità ecclesiastica.
Scomunichiamo, inoltre, e
anatematizziamo quei falsi ed empi cristiani che contro Cristo stesso e il suo
popolo forniscono ai Saraceni armi, ferro, e legname per le galere. E
disponiamo anche che chi vende loro galere e navi, chi pilota le navi pirate
dei Saraceni, o lavora alle macchine, o in qualsiasi altra cosa presta
consiglio o aiuto che torni a danno della Terra Santa, sia punito con la
privazione dei beni e diventi schiavo di chi lo cattura. E comandiamo che nei
giorni di domenica e nei giorni festivi venga ripubblicata questa disposizione,
in tutte le città marittime e che chi si comporta Così non sia riammesso nella
chiesa, se prima non ha erogato a favore della Terra Santa tutto quello che ha
percepito da una attività così dannata, e altrettanto dai propri beni, perché,
con giusto giudizio, siano puniti proprio in ciò, in cui hanno mancato. Che se
per caso essi non fossero in grado di pagare, la loro colpa sia punita in tal
modo che la loro pena impedisca agli altri di osare audacemente simili azioni.
Proibiamo, inoltre, e vietiamo
espressamente a tutti i cristiani, sotto pena di scomunica, di mandare o
condurre navi, per quattro anni, nelle terre dei Saraceni d'oriente; così
mentre vi sarà una maggior quantità di navi a disposizione di quelli che
volessero passare il mare in aiuto della Terra Santa, sarà sottratto ai
Saraceni l'aiuto che proveniva loro da ciò.
Quantunque i tornei siano stati
proibiti in generale in diversi concili con pene determinate, poiché, tuttavia,
in questa circostanza l'impresa della Crociata verrebbe ad avere in essi un
impedimento non trascurabile, proibiamo assolutamente, sotto pena di scomunica,
che essi possano aver luogo durante tre anni.
E poiché al felice compimento
dell'impresa è somma- mente necessario che i principi cristiani mantengano
scambievolmente la pace, col consiglio del santo concilio universale stabiliamo
che almeno per quattro anni si conservi una pace generale in tutto il mondo
cristiano; i capi delle chiese inducano quanti sono in discordia ad una piena
pace o ad una tregua da osservarsi ad ogni costo. Quelli poi che non volessero
sottostare a queste prescrizioni siano energicamente costretti con la scomunica
alle persone e l'interdetto alle loro terre, a meno che la gravità delle offese
sia tale che gli offensori non debbano godere della pace. Se costoro non
temessero la censura ecclesiastica, dovranno temere che l'autorità della chiesa
metta in moto contro di essi, come perturbatori di questa crociata il braccio
secolare.
Noi, quindi, confidando nella
misericordia di Dio Onnipotente e nell'autorità dei beati apostoli Pietro e
Paolo, in forza di quella potestà di legare e di sciogliere che Dio, benché
indegni, ci ha concesso, concediamo pienamente a tutti quelli che personalmente
e a proprie spese affronteranno il disagio dell'impresa il perdono dei loro
peccati, dei quali siano sinceramente pentiti col cuore e confessati con la
bocca, e promettiamo o nella retribuzione dei giusti la pienezza della vita
eterna; concediamo il perdono plenario dei loro peccati a quelli che invece,
non parteciperanno personalmente, ma manderanno a loro spese solo persone
adatte, a seconda delle loro possibilità e del loro stato, ed a quelli che,
anche se a spese di altri, andranno personalmente.
Vogliamo e concediamo che di questa
remissione in proporzione dell'aiuto prestato e dell'intensità della loro
devozione siano partecipi anche tutti quelli che sovvenzioneranno la Terra
Santa con i loro beni, o abbiano contribuito con utili consigli e con aiuti. A
tutti quelli finalmente, che piamente prenderanno parte a questa comune impresa
il concilio universale accorda i suoi suffragi, perché giovi alla loro
salvezza.