Il principio di sussidiarietà
"L'esperienza attesta che
dove manca l'iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è
pure ristagno dei settori economici...".
La sussidiarietà valorizza,
nella produzione di beni e servizi, "la genialità creatrice dei
singoli".
(Enciclica Mater et magistra)
Alle origini della sussidiarietà: in "prima
linea" la persona
Il termine sussidiarietà deriva dal latino subsidium e
nella terminologia militare romana stava ad indicare le truppe di riserva che rimanevano
dietro al fronte, pronte a intervenire in aiuto alle coorti che combattevano
nella prima acies. In relazione alla sua applicazione sociale, i primi cenni di
una riflessione su un principio analogo sono già presenti nel pensiero
aristotelico e vengono poi ripresi e rielaborati da San Tommaso come elemento
di una netta concezione del bene comune, come risultato di una pluralità di
apporti in un contesto comunitario, solidaristico e non conflittuale,
all'interno del quale alla personalità umana è offerta la possibilità di
svilupparsi. In prima luce nella costruzione del bene comune era quindi posto
il soggetto umano, considerato però bisognoso di un subsidium: le formazioni
sociali, i gruppi e in subordine il pubblico potere, che risulta così al contempo
utile e limitato. Sempre sulla scorta detta tradizione comunitaristica
medioevale, il principio di sussidiarietà verrà ripreso nella concezione
althusiana del contratto sociale come strumento per trasferire ai governanti
non un potere illimitato, ma solo la quantità di potere strettamente necessaria
al soddisfacimento dei bisogni dei consociati. Questa tradizione di pensiero
non ha, tuttavia, costituito la corrente principale della filosofia politica
europea. Essa è rimasta una corrente sotterranea, soccombente rispetto alla
vittoria incondizionata della corrente principale, accentratrice e assolutista,
fondata sulla esaltazione della sovranità statuale.
Sussidiarietà e dottrina sociale
È solo nella dottrina sociale della Chiesa che la
tematica della sussidiarietà trova la sua esplicita formulazione e la sua
fortuna. Il principio di sussidiarietà è stato per la prima volta proposto
dall'enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, con una formulazione ancor
oggi considerata come classica e che merita quindi di essere testualmente
citata. Dopo aver constatato come "per la mutazione delle circostanze,
molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni",
l'enciclica afferma con forza che, anche in questa nuova situazione, deve
"restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale"
secondo il quale "siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi
possono compiere con le forze e l'industria propria per affidarlo alla
comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello
che dalle minori e inferiori comunità si può fare". Ne deriverebbe,
infatti, "un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società" poiché "oggetto naturale di qualsiasi intervento della
società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva (subsidium afferre) le
assemblee del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle". Di
conseguenza, a giudizio del Pontefice, "è necessario che l'autorità
suprema dello Stato rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo
degli affari e delle cure di minor momento" per poter "eseguire con
più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano (…) di
direzione, cioè di vigilanza, di incitamento, di repressione a seconda dei casi
e delle necessità". Gli uomini di governo sono quindi esortati a
persuadersi che "quanto più perfettamente sarà mantenuto l'ordine
gerarchico tra le diverse associazioni, conforme al principio della funzione
suppletiva (servato hoc 'subsidiari' officii principio) della attività sociale,
tanto più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale e perciò anche più
felice e più prospera la condizione dello Stato stesso". È stato così
formulato un principio generale sull'ordinamento della vita sociale: "ciò
che gli uomini possono fare da sé con le proprie forze non può essere loro
tolto e rimesso alla società" e ciò che vale per il singolo rispetto alla
società, vale parimenti per le società minori e di ordine inferiore nei
confronti delle maggiori e più alte. Principio di ordine interno, quindi,
nell'ambito di qualsiasi società nei confronti dei suoi componenti, ma anche
principio di ordine esterno, nei confronti delle varie società tra di loro.
Come la società non deve sostituirsi ai singoli in ciò che questi possono fare
da sé, così le società maggiori non devono assumere compiti che possono essere
svolti dalle società minori.
Sussidiarietà e ordine economico. Questo insegnamento
di Papa Pio XI è stato in seguito confermato dai suoi successori e, in
particolare, deve essere ricordata l'enciclica Mater et Magistra, dove si
precisa che "il mondo economico è creazione dell'iniziativa personale dei
singoli cittadini, operanti individualmente o variamente associati per il
perseguimento di interessi comuni. Però in esso, per le ragioni già addotte dai
nostri predecessori devono altresì essere presenti i poteri pubblici allo scopo
di promuovere, nei debiti modi, lo sviluppo produttivo in funzione del
progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini. La loro azione, che ha
carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di supplenza e di
integrazione deve ispirarsi al principio di sussidiarietà". Le successive
riproposizioni del principio avvengono senza significativi apporti alla sua
formulazione teorica.
Sussidiarietà e dignità umana. Con Giovanni Paolo II il
principio di sussidiarietà è diventato un motivo ricorrente sia nel suo
magistero scritto ed orale, sia nei documenti della Santa Sede, con
enunciazioni che, pur mantenendosi nel solco delle precedenti pronunce, non
sono prive di novità. In particolare, il principio viene posto in piena luce
dall'istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Libertatis
conscientia, dove esso viene definito, insieme al principio di solidarietà,
come "intimamente legato" alla stessa "dignità dell'uomo" e
criterio fondamentale "per valutare le situazioni, le strutture e i
sistemi sociali". Ne segue che "né lo Stato, né alcuna società devono
mai sostituirsi all'iniziativa e alla responsabilità delle persone e delle
comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né distruggere
lo spazio necessario alla loro libertà".
Sussidiarietà e Libertà. Il principio di sussidiarietà
viene anche recepito nel Catechismo della Chiesa Cattolica che ne tratta nel
capitolo dedicato alla comunità umana dove, dopo aver avvertito che "un
intervento troppo spinto dello Stato può minare la libertà e l'iniziativa
personali", si enuncia il principio di sussidiarietà nella stessa
formulazione adottata dalla Centesimus annus, sottolineando che esso,
opponendosi "a tutte le forme di collettivismo", "precisa i
limiti dell'intervento dello Stato, mira ad armonizzare i rapporti tra gli
individui e le società, tende a instaurare un autentico ordine
internazionale". Vi si afferma, in sintesi, che, secondo tale principio,
"né lo Stato né alcuna società più grande devono sostituirsi
all'iniziativa e alla responsabilità delle persone e dei corpi intermedi".
Sussidiarietà e crisi dello Stato sociale. La rinnovata
e decisa insistenza della Santa Sede sull'importanza del principio di
sussidiarietà nella vita sociale non è rimasta senza eco negli insegnamenti
della Cei (Conferenza episcopale italiana) che, di fatto, se ne è ampiamente
occupata nei suoi più recenti documenti con numerosi e specifici riferimenti alla
situazione del Paese. Conviene ricordare a questo riguardo la nota pastorale
della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Stato sociale ed educazione alla
socialità dell'11 maggio 1995, dove non si esita a denunciare che "la
crisi dello Stato sociale trova una delle sue cause culturali e strutturali
proprio nell'abbandono o nell'oblio del principio di sussidiarietà",
mentre "il rinnovato slancio da dare a uno Stato sociale può e deve
trovare il necessario impulso nella libera e piena applicazione di tale
principio".
LA SUSSIDIARIETÀ COME PRINCIPIO COSTITUZIONALE
Ogni individuo dovrebbe dire la frase di Luigi XIV:
"Lo Stato sono io"
(R. Jhering)
I due volti della sussidiarietà. Sul piano più
strettamente giuridico, il principio di sussidiarietà contiene una duplice
valenza: esso indica sia un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato,
formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di
distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali (sussidiarietà
verticale). In quest'ultima accezione si lega a una prospettiva federalistica
in un'ottica per cui la rottura di un potere centralizzato è vista come
essenziale all'affermazione di una democrazia che individua nella
"prossimità" dei governanti ai governati un bene primario. Anche in
questo significato esso è indice di una tendenza antistatalista e
anticentralista. Affermare, infatti, che i livelli di governo superiori
necessitano di una giustificazione, nel senso che il loro intervento è ammesso
solo quando determina un incremento della qualità dei risultati, significa
scalfire uno dei cardini dello statalismo, cioè che la decisione del
legislatore non necessita di giustificazioni, essendo questo interprete, a
priori, della "volontà generale". Sussidiarietà verticale, invece,
significa valutazione dello stato dei fatti, perseguimento di efficienza,
valorizzazione di iniziative decentrate, federalismo fiscale, moltiplicazione
dei centri decisionali. Tutto ciò potrebbe - non c'è dubbio - moltiplicare gli
arbitri, ma può costituire - se rettamente inteso e se adeguatamente verificato
nei suoi momenti attuativi - un'occasione importante di ripensamento delle
formule classiche di gestione della cosa pubblica.
Detto questo, tuttavia, è sulla prima valenza, che
peraltro ne costituisce il significato originario, che vale la pena di
insistere, in quanto essa appare da un lato quella meno conosciuta e dall'altro
quella nei cui confronti si riscontrano le maggiori resistenze ideologiche. Nel
suo significato di sussidiarietà orizzontale questo principio, affermando che
lo Stato interviene solo quando l'autonomia della società risulti inefficace,
si contrappone all'idea di una "cittadinanza di mera partecipazione"
e promuove invece "una cittadinanza di azione" in cui è valorizzata
la "genialità creativa dei singoli" e delle formazioni sociali. In
questa sua valenza antistatalistica e antiassistenzialista non è tuttavia
esauribile nell'ipotesi neoliberale dello Stato minimo. Ciò in quanto mentre
riconosce alla persona il diritto di iniziativa, nel contempo ne afferma la
responsabilità sociale. In questo modo il principio di sussidiarietà dimostra
di valorizzare la persona come protagonista della vita sociale, capace di
rispondere, nella libera associazione con altri, a esigenze e bisogni della
società. Contestando il presupposto dello statalismo e non esaurendosi nella
formula liberalista, non rappresenta nemmeno una formula di compromesso tra le
due teorie, ma esprime una concezione originale. Detto principio, inoltre,
respingendo il presupposto metafisico della "mano invisibile" che in
modo ineffabile guiderebbe, secondo la filosofia liberale, la sublimazione
dell'interesse egoistico nel bene comune, implica realisticamente la necessità
- come esprime la derivazione etimologica subsidium - dell'intervento
promozionale od ordinatore e coordinatore dello Stato a favore dell'incremento
e dell'incentivazione di una cultura della responsabilità.
La Costituzione del 1948 e il favor per la
sussidiarietà. Nonostante nella Costituzione del 1948 il principio di
sussidiarietà non risulti espressamente menzionato, a differenza di altri
principi come quello di solidarietà o di eguaglianza, è tuttavia possibile
ritenere, per un duplice ordine di motivi, che esso sia stato implicitamente
tenuto presente dai Costituenti. Il primo dato che conferma questa ipotesi è
rappresentato dalla coincidenza della concezione della persona che emerge dal
quadro costituzionale con il presupposto antropologico sul quale il principio
di sussidiarietà si fonda. Nella Costituzione, infatti, la persona è vista
nella concretezza del suo legame sociale e nella sua possibilità di apporto
libero e creativo all'edificazione del bene comune: il valore della dignità
umana è costantemente affermato e l'imputazione dei diritti è fatta all'individuo
considerato nella concretezza del suo esistere, a un soggetto, cioè, che così
come non è considerato (com'era invece nella finzione dello "stato di
natura") al di fuori della relazione sociale, tantomeno è sublimato nella
dinamica organizzativa della persona statale. Il secondo dato è inerente alla
caratterizzazione in senso pluralistico, sia associativo che istituzionale, che
consente di affermare come nella Carta del 1948 sia già implicitamente sancita
la rottura del monopolio statale dell'interesse comunitario, in vista del
riconoscimento ai soggetti del pluralismo del compito di perseguire gli
obiettivi propri dell'intera collettività statale. Quello per cui al privato
spetterebbe unicamente surrogare un pubblico carente (la cosiddetta supplenza
del privato), alla luce di quanto appena osservato, dovrebbe essere stimato
pertanto come un luogo comune superato dalla possibilità di concepire
l'attività pubblica come integrativa di quella privata, considerata idealmente
prioritaria. All'interno di un'attività di programmazione, rivolta a creare un
sistema di servizi mediante strutture pubbliche e private (rispondenti a
requisiti tecnici e organizzativi prescritti dal legislatore e accertati
mediante gli opportuni controlli) dovrebbe quindi risultare quasi indifferente
che le strutture di servizio attuative del programma possano essere gestite
dalle une o dalle altre, dovendo essere posto l'accento non tanto su chi
gestisce le stesse, quanto sullo scopo obiettivo e sul risultato da
raggiungere.
La resistenza ideologica al principio di sussidiarietà.
Benché da una lettura sistematica della Costituzione emerga un certo favor per
la sussidiarietà, aprendo una qualsiasi enciclopedia giuridica tale voce
nemmeno vi figura. Il dato è singolare ed evidenzia l'estraneità di tale
principio alla nostra tradizione giuridica, ancora in larga parte sotto lo
scacco di altre scelte di campo. Il principio di sussidiarietà, infatti, è
risultato un'idea disarmonica rispetto a una tradizione rivolta a considerare
l'interesse statale non come la semplice sommatoria degli interessi individuali
o delle varie comunità particolari, ma come un interesse affatto autonomo
trascendente quelli particolari. Il retaggio delle elaborazioni hegeliane, in
questo senso, costituisce un presupposto ancora altamente influente. Proprio in
forza del peso di questa eredità, inoltre, la rilevanza che la Costituzione
assegna nell'art. 2 alle formazioni sociali non ha avuto modo di svilupparsi
secondo l'originalità dell'aspirazione dei Costituenti. La cultura giuridica
italiana è infatti in gran parte rimasta ferma su una concezione che tende ad
appiattire la persona sul singolo e a considerare il riferimento alle
formazioni sociali come un mera garanzia supplementare, come qualcosa di
aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell'individuo in
quanto tale. È rimasto così svuotato di implicazione normativa il
riconoscimento costituzionale per cui all'interno delle formazioni sociali si
svolge la personalità individuale e, quindi, il coessenziale legame che
giuridicamente viene formulato nell'art. 2 tra la dignità dell'individuo e la
partecipazione a esse.
Le nuove forme del controllo statale sulla vita
sociale. Se quindi una pretesa totalizzante ha costituito il postulato incancellato
della tradizione giuridica, largamente depotenziando quelle aperture che invece
la Costituzione repubblicana favoriva, occorre anche avvertire come oggi questa
stessa pretesa si trovi stretta da fenomeni nuovi, sovranazionali e nazionali,
come la complessità crescente della società, la globalizzazione delle economie,
la multietnicità, la forza e la concentrazione degli interessi economici.
Fenomeni, questi, che hanno minato quella presunta unicità: oggi la "crisi
dello Stato" non è solo evidente nel processo di smobilitazione
conseguente al "fallimento dello Stato", ma si manifesta anche nel
fallimento del miraggio del "controllo totale", cioè del controllo
diretto di ciò che è giuridico. Le pretese totalizzanti non sono però venute
meno e il nuovo volto del Leviatano rischia di divenire più pervasivo di quello
antico: significativamente, da qualche tempo, il mondo degli addetti ai lavori
si interroga sul fenomeno della proliferazione incontrollata di nuove autorità
- normalmente definite come indipendenti -, ma in realtà concepite come
articolazione del potere pubblico, quasi una sorta di braccio secolare di
questo, destinate a sovrintendere settori particolari della vita sociale o
dell'ordinamento giuridico. Queste autorità sono dotate di poteri amplissimi,
in quanto, in deroga al tradizionale paradigma garantista della divisione tra
potere normativo, esecutivo e giudiziario, emanano atti che sono, ad un tempo,
regole, ordini e sentenze. Molti giuristi hanno denunciato il problema di quale
tutela dei diritti dei cittadini sia concretizzabile dinanzi agli atti di tali
organismi di incerta natura e normalmente privi di una legittimazione
democratica per lo meno adeguata al potere di cui dispongono.
Il processo di costituzione di queste autorità è molto
intenso: da quelle più vecchie come la Consob fino alle più recenti, come la
potentissima Autorità garante della concorrenza e del mercato o la
neocostituita Autorità per le Telecomunicazioni o, infine, l'Autorità garante
per la tutela delle persone e del trattamento dei dati personali - meglio nota
come Garante della privacy. Se queste sono le più note, ve ne sono poi
moltissime altre, meno conosciute, ma non meno importanti come la Commissione
di garanzia per l'attuazione della legge 12/6/1990 (cosiddetta Autorità per lo
sciopero nei servizi pubblici essenziali), la Commissione di vigilanza sui
fondi pensione, l'Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione
(AIPA), l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, l'Autorità per la
regolazione dei servizi di pubblica utilità nel settore del gas e dei servizi
elettrici, ecc. Alle autorità si affiancano poi le agenzie: si pensi, ad
esempio, all'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni, l'Agenzia per i servizi sanitari regionali, l'Agenzia
nazionale per la protezione dell'ambiente. Sebbene la fioritura di queste
autorità non possa essere considerato un male in sé, dal momento che alcune
tendono a porsi come garanti di valori e interessi fondamentali, è altresì
evidente come nel complesso il fenomeno sia un inquietante e significativo
sintomo di un crescente tentativo di controllo della vita sociale, realizzato
attraverso la costituzione di appositi poteri pubblici. Il deficit di
democraticità che in ogni caso si deve accusare in questo nuovo volto del
potere pubblico ripropone la domanda se la via maestra non possa essere
un'altra: quella di ripensare globalmente ciò che lo Stato deve realmente fare
e quello che, invece, deve riconoscere e incentivare secondo appunto un principio
di sussidiarietà.
La sussidiarietà come "principio
costituzionale" dell'Unione Europea. Lasciato nell'oblio per moltissimi
anni, il principio di sussidiarietà entra prepotentemente sulla scena del
diritto europeo con il Trattato di Maastricht in cui, all'art. 3b, viene
sancito tra i principi cardine dell'Unione Europea che "la Comunità
interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in
cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente
realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni e
degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati a livello
comunitario".
Nessun altro documento costituzionale europeo conosce
una definizione così esplicita del principio, benché esso non sia del tutto
nuovo per il diritto: la Costituzione tedesca, infatti, lo mette a presiedere
il riparto delle competenze legislative tra Federazione e Stati membri, e
l'Atto Unico lo afferma al momento di dotare la Comunità di poteri di
intervento nel settore della tutela ambientale. La portata di queste norme è
comunque pur sempre parziale, riguardando solo i rapporti tra livello di
governo e certe specifiche materie; lo stesso Trattato di Maastricht lo
riferisce unicamente a certe competenze, quelle cosiddette
"ripartite", essendo palese che per quelle esclusive vige invece il
monopolio di intervento in capo agli organi comunitari. Di conseguenza, se da
un lato è da considerarsi in modo positivo il fatto che il principio in esame
sia stato recepito anche dai documenti che presiedono all'organizzazione
politica continentale, dall'altro lato non vien meno la necessità di
considerare con criticità tale recepimento, criticità che si sostanzia nella
tensione ad affermare che, rettamente inteso, il principio di sussidiarietà,
come già si è ricordato, mantiene una portata ben più vasta e radicale. La
codificazione a livello europeo, in ogni caso, ha dato origine a un ampio
dibattito sul significato e sulla rilevanza del medesimo. Molti sono gli
studiosi e gli uomini politici che ne hanno una visione ristretta, quasi si
trattasse di un "non principio", cui attribuire di volta in volta il
significato che è più consono agli scopi politici contingenti. Vi sono, però,
posizioni più interessanti che hanno della sussidiarietà una visione
onnicomprensiva e radicale, comprendente sia i rapporti tra i diversi livelli
di governo sia le relazioni tra realtà pubblica e iniziativa dei privati e
delle loro aggregazioni. Tali concezioni mettono in relazione la sussidiarietà verticale
con altre norme del Trattato di Maastricht, e in particolare quelle che ne
affermano - almeno implicitamente la dimensione orizzontale (ad esempio
l'affermazione che richiama la necessità di costruire una "Europa dei
cittadini"). Pregevole è pure il tentativo in atto in Europa di elaborare
dei criteri specifici e sufficientemente precisi che consentano la verifica in
sede giudiziale del rispetto del principio. La giustiziabilità, infatti, è
stata finora praticamente inesistente per il dogma della presunta
"bontà" degli interventi legislativi sopra richiamato. Ora invece il
Trattato di Amsterdam ha tra i suoi allegati proprio un documento che elabora
dei "criteri" in base ai quali fare valutazioni degli interventi
legislativi e sottoporre quindi i medesimi a controlli anche giurisdizionali.
Se questo si realizzerà, come è auspicabile, allora verrà meno uno degli
ostacoli che si frappongono a realizzare in concreto la sussidiarietà, che è
dato appunto dall'inesistenza di istanze di controllo preposte alla verifica
della sua attuazione.
Il principio di sussidiarietà nel dibattito sulla
riforma costituzionale. Una precisazione importante. Il dibattito in seno alla
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali si è orientato per
l'espressa previsione nel progetto di Costituzione del principio di
sussidiarietà. A differenza di quanto sostenuto da molti giuristi, per i quali
questa intenzione concretizzerebbe un'indebita scorribanda nella prima parte
del testo della Costituzione - rispetto alla quale la riforma non può
intervenire -, quanto detto in precedenza consente invece di sostenere come
questa previsione si ponga in ideale continuità con quanto in essa è già
implicitamente stabilito.
Le alterne vicende della sussidiarietà. Ripercorrendo
brevemente l'iter della discussione, si deve rilevare come l'iniziale valenza
con cui il principio è stato recepito faceva riferimento alla sola accezione
relativa alla distribuzione del potere pubblico tra centro e periferia
(sussidiarietà verticale) senza menzione del significato originario e più
peculiare del principio (sussidiarietà orizzontale). La più ampia accezione del
principio è entrata successivamente nel dibattito costituente dapprima come
istanza avanzata dai rappresentati del Forum del terzo settore nel corso di
un'audizione in Commissione, e, quindi, a seguito della presentazione di tre
emendamenti dal contenuto sostanzialmente analogo, provenienti, in modo
trasversale, sia da esponenti della maggioranza parlamentare che
dell'opposizione. Il dibattito in relazione alle diverse accezioni, estensive o
restrittive, del principio è continuato in modo piuttosto vivace vedendo
contrapposte da un lato Rifondazione comunista, Verdi, Ulivo e Sinistra
democratica e, dall'altro, Partito Popolare e Forza Italia. La posizione
restrittiva discendeva dalla preoccupazione di una possibile sottrazione
dell'esercizio delle funzioni pubbliche allo Stato, soprattutto in materia di
scuola e di sanità, in quanto - si è osservato - dal punto di vista economico
l'iniziativa privata potrebbe essere da questi gestita meglio. In altre parole
il timore derivava dal fatto che stabilendo in Costituzione una preminenza
automatica tra pubblico e privato, a parità di condizioni il primo avrebbe
dovuto comunque cedere al secondo.
La proposta di mediazione proveniente dagli assertori
della sussidiarietà orizzontale nei confronti dei sostenitori dell'opzione
restrittiva è stata quindi nel senso di limitarne l'ambito di applicazione
all'ipotesi in cui le funzioni interessate non possano più essere adeguatamente
svolte dall'autonomia dei privati, intendendo così sottolineare che, in
un'eventuale comparazione tra pubblico e privato, il primo non dovesse essere
penalizzato e che, laddove esistesse per il pubblico la possibilità di svolgere
adeguatamente e in modo conforme ai criteri di adeguatezza, di efficacia e di
efficienza una determinata funzione, ciò dovesse essere consentito.
Il testo così modificato è stato quindi approvato dalla
Commissione con il voto contrario di Rifondazione comunista, l'astensione della
Lega e del Pds, e con l'accordo raggiunto tra Polo e Partito popolare. L'art.
56, quindi, prevedeva che: "le funzioni che non possono essere più
adeguatamente svolte dall'autonomia dei privati sono ripartite tra le comunità locali,
organizzate in Comuni, Province, Regioni e Stato, in base al principio di
sussidiarietà e di differenziazione, nel rispetto delle autonomie funzionali
riconosciute dalla legge. La titolarietà delle funzioni spetta agli enti più
vicini agli interessi dei cittadini secondo il criterio di omogeneità e
adeguatezza delle funzioni organizzative rispetto alle funzioni medesime".
Nel corso del dibattito, tuttavia, il testo è stato ulteriormente modificato e
il principio di sussidiarietà è stato praticamente rovesciato. Nel testo
approvato il 24 settembre 1997 l'art. 56 risultava così modificato: "Nel
rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall'autonoma
iniziativa dei privati, anche attraverso le formazioni sociali, le funzioni
pubbliche sono attribuite a Comuni, Province, Regioni, Stato, sulla base di
sussidiarietà e differenziazione. La titolarietà delle funzioni compete
rispettivamente a Comuni, Province, Regioni e Stato, secondo i criteri di
omogeneità e adeguatezza".
È stato così introdotto un principio di sussidiarietà
rovesciata, potenzialmente in contrasto con la valorizzazione della persona
umana considerata come soggetto idoneo a svolgere attività di rilievo pubblico
e, quindi, tale da limitare fin dall'origine i poteri degli enti politici,
locali, regionali o nazionali.
Questo preoccupante travaglio del principio di
sussidiarietà - negato, poi concesso, e infine rovesciato - denota la mancanza
di una chiara cognizione del suo significato e della sua rilevanza. Nell'ultima
formulazione l'intervento degli enti non profit è destinato a essere
configurato come meramente integrativo di quello statale, così come nella
formulazione precedente esso risultava formulato nel senso di accogliere
indifferentemente la prospettiva "comunitaristica" propria delle
origini storiche del principio e quella "individualistica", tipica
invece di una concezione neoliberista del sistema economico.
Spetterà, quindi, alle assemblee chiamate ad approvare
il progetto esaminato rimuovere ogni incertezza al riguardo riconsiderando il
ruolo del potere pubblico in campo sociale conformemente alla fine del
monopolio statale dell'interesse comunitario e giungere a una formulazione del
principio che lo riporti nel suo campo d'azione più tradizionale rivolto alla
valorizzazione del privato che svolge attività di interesse pubblico
(cosiddetto privato sociale).
In questa direzione sembra muoversi il recente
emendamento proposto dall'Onorevole Guarino che si dimostra efficace nel
conciliare la ripresa di un ruolo sussidiario del potere pubblico nei riguardi
della capacità individuale e collettiva in campo sociale con le istanze di una
sussidiarietà verticale avanzate dagli enti territoriali. Secondo la proposta
il primo comma dell'art. 56 risulterebbe così formulato: "Lo Stato, le
Regioni, le Province e i Comuni esercitano le funzioni ad essi attribuite, in
conformità alle finalità di interesse generale previste dalla Costituzione e in
maniera proporzionata all'obbligo di volta in volta perseguito, quando il
conseguimento di tali finalità non può essere adeguatamente assicurato
dall'autonomia dei privati, anche attraverso le formazioni sociali. La
titolarietà delle funzioni compete rispettivamente a Comuni, Province, Regioni
e Stato in base a principi di sussidiarietà e differenziazione e secondo
criteri di omogeneità e ragionevolezza. La legge garantisce le autonomie
funzionali".
L'unica perplessità, anche in vista delle possibili
distorsioni interpretative, riguarda l'espressione "titolarietà delle
funzioni pubbliche" contenuta nella seconda parte dell'articolo, sarebbe
stato preferibile, infatti, parlare di "ripartizione delle
competenze".
Tratto dalla rivista TEMPI