STO ALLA
PORTA
anno pastorale
1992-94
Questa Lettera pastorale è
il frutto di una mia decisione previa semplicissima: quella cioè di trovare il
tempo per scriverla.
Il tuo scorrere queste
righe, cara lettrice e caro lettore, è anch'esso il frutto di una decisione:
"Voglio trovare il tempo per leggere almeno in parte questa Lettera".
Ambedue dunque ci troviamo
uniti su una piccola, ma significativa decisione: trovare il tempo per qualche
cosa che riteniamo importante, io di scriverti, tu di leggermi.
Decisione piccola, e
tuttavia difficile, perché tutti o quasi tutti noi abbiamo troppe cose da fare;
di conseguenza diciamo che ci manca il tempo e ci sentiamo incalzati dal
fuggire dei giorni assillati dalle scadenze che ci vengono incontro e ci
sorprenderanno ormai fuori tempo utile.
Quante volte ci scusiamo di
fronte a cose che pure riteniamo di dover fare - come tener compagnia a una
persona sola, scrivere una lettera di auguri a un amico, ascoltare un bisognoso
-, dicendo: "Mi scusi, ma non ho proprio tempo".
Forse pochi di noi
sospettano che tale esperienza così quotidiana e spesso così deprimente
nasconde un grande tesoro: quello della nostra chiamata a possedere con pace un
tempo non più mangiato dal ritmo inesorabile del cronometro, bensì colmo di una
pienezza che non delude; un tempo vero, proprio tutto per noi e per gli altri,
da spendere con gioia, armonia, entusiasmo, freschezza e pace.
La mia Lettera vuole aprirti
la porta verso la gioiosa scoperta di un tempo nuovo, reale, che è già entrato
o vuole entrare nella tua vita.
Che cosa è questo tempo?
come esso ci penetra e ci risana dalle nostre nevrosi dall'angoscia per i
giorni che fuggono? perché non ci siamo accorti finora di questo formidabile
dono e di questa fantastica possibilità? in che modo l'accoglienza di tale dono
cambia la nostra vita?
Ecco alcune delle domande a
cui vuol rispondere la Lettera. E spero che, dopo aver letto le prime righe, tu
non dica: "Scusami, non ho più tempo per leggere altro", ma mi
riserverai qualche ritaglio di tempo così da ascoltare la bella e buona notizia
che voglio darti.
[1] Come per le altre
Lettere pastorali, così anche per questa sono stato a lungo incerto sul titolo.
Ne ho fatti passare, o me ne sono stati suggeriti, a decine; ciascuno aveva i
suoi vantaggi una sua incisività, però alla fine non mi convinceva e cercavo
ancora.
A un certo punto, quando mi
ero quasi deciso per il misterioso grido "Maranà tha, Signore,
vieni!" mi sono orientato verso l'affermazione "Sto alla porta".
Essa, infatti, costituisce la premessa dell'invocazione "Signore,
vieni". Tu che stai davvero alla porta, tu che come amico stai bussando
per entrare, fatti avanti vieni! Non voglio più farti attendere, mi sono
accorto di te, vengo ad aprirti con gioia!
I due titoli meritano
un'ulteriore spiegazione.
1. Spiego anzitutto il
Maranà tha! E' una parola aramaica (la lingua parlata da Gesù) che significa
"Signore, vieni!". Si tratta di un grido sgorgato dal cuore dei primi
discepoli, che è stato conservato nella sua dizione originale anche da san
Paolo che scriveva in greco. Nella prima Lettera ai cristiani di Corinto,
l'Apostolo conclude con le seguenti parole scritte di suo pugno (per lo più
dettava le lettere a un segretario): "il saluto è di mia mano, di me
Paolo: se qualcuno non ama il Signore sia anatema! Maranà tha: vieni, o
Signore! La grazia del Signore Gesù sia con voi. Il mio amore con tutti voi in
Cristo Gesù" (1 Cor 16,21-22). La lettera è scritta nell'anno 57 d.C., ma
la frase riportata risale agli inizi del cristianesimo. E' dunque l'invocazione
più antica che conosciamo della comunità cristiana. Con le stesse parole, ma in
lingua greca, si conclude il Nuovo Testamento: "Vieni, Signore Gesù!"
(Ap 22,20).
Tutte queste invocazioni (cf
anche Ap 22,17: "Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni!") esprimono
l'anelito dell'uomo verso un evento risolutivo, che venga a sanare, a
riscattare il suo vivere in un tempo intriso dall'amarezza, dall'angoscia,
dalla solitudine. E' l'anelito verso il venire del tempo di Dio nel tempo
dell'uomo.
2. Ma questo tempo viene?
sta venendo? e come vivere l'attesa? Interviene l'affermazione che ho scelto
come titolo definitivo della Lettera: Sto alla porta. E' una citazione tratta
dall'ultima delle sette Lettere alle Chiese con cui si apre l'Apocalisse:
"Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre
la porta, io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me" (Ap 3,20).
Espressione di incomparabile densità, in cui richiami dall'Antico Testamento
(per esempio: Ct 5,2, Is 20,5) si uniscono a reminiscenze di parole di Gesù (cf
Gv 14,23; Lc 22,29-30) per indicare la certezza del venire di Gesù, il suo
carattere misterioso, la trepidazione dell'attesa, la gioia dell'incontro
imminente, la felicità alla quale esso darà luogo per sempre.
L'insieme di tali sentimenti
caratterizza l'atteggiamento su cui il Nuovo Testamento sovente ritorna: il
vigilare. E' il modo di porsi di una Chiesa che non vive concentrata su di sé e
neppure soltanto sul suo presente, bensì sul Signore e su ciò che Egli prepara
per il futuro dell'umanità.
Con l'immagine del Signore
che sta alla porta (vedremo in seguito come l'immagine sia polivalente e
suggerisca una vasta gamma di significati) intendo concludere il ciclo dei
programmi pastorali di questi anni dedicati rispettivamente all'educare
(1987-1990), al comunicare (1990-1992) e ora al vigilare.
[2] L'ultimo insegnamento
pubblico di Gesù, secondo il vangelo di Luca, è un'ammonizione a vigilare:
"Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a
tutto ciò che deve accadere e di comparire davanti al Figlio dell'uomo"
(Lc 21,36). Lo stesso discorso, nella versione di Marco, si conclude così:
"State attenti vegliate, perché non sapete quando sarà il momento
preciso.. Vigilate dunque... Quello che dico a voi lo dico a tutti:
'Vegliate!"' (Mc 13,33-37; cf Mt 24,42-51; 25,1-13). E prima di essere
arrestato, Gesù esorta i discepoli dicendo: "Restate qui e vegliate...
Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare un'ora sola? Vegliate e pregate, per
non entrare in tentazione" (Mc 14,34.37-38; cf Mt 26,38.40-41).
L'ammonizione a
"vegliare", a "stare attenti", ad "aver cura", è
ripresa dagli apostoli e dai discepoli in tante occasioni: "Vegliate su
voi stessi e su tutto il gregge... Vigilate, ricordando che per tre anni notte
e giorno, non ho cessato di ammonire tra le lacrime ciascuno di voi" (At
20,28.31); "Vigilate, siate saldi nella fede, siate uomini siate
forti" (1 Cor 16,13); "Siate sobri, vigilate! il vostro avversario,
il diavolo, si aggira cercando chi divorare" (1 Pt 5,8). Si tratta di un
vegliare su di sé (cf 2 Gv 8), sulla propria condotta (cf Ef 5,15), sul
ministero ricevuto (cf Col 4,17).
La vigilanza raccomandata
dal Nuovo Testamento riguarda tutto l'uomo - spirito, anima e corpo (cf 1 Ts
5,23) e investe tutte le sfere relazionali della persona: la relazione con se
stesso, con le cose, con gli altri, con Dio.
I Padri del deserto fanno
eco alle esortazioni neotestamentarie: "Non abbiamo bisogno di nient'altro
che di uno spirito vigilante", dice Abba Poemen. E Basilio, il grande
padre della Chiesa contemporaneo di s. Ambrogio, termina le sue Regole morali
domandandosi: "Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e
ogni ora ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio,
sapendo che all'ora che non pensa il Signore viene". In una omelia
afferma: "Non basterebbe il giorno intero se cominciassi a esporre tutta
la portata del comando: Sta attento a te stesso, sii vigilante" (1).
Il vigilare non è dunque un
atteggiamento marginale della vita cristiana, ma ne riassume la tensione
caratteristica verso il futuro di Dio congiungendola con l'attenzione e la cura
per il momento presente. Il vigilare diviene particolarmente attuale in tempi
di crisi o di smarrimento, quando cioè la mancanza di prospettive storiche
unita a una certa abbondanza di beni materiali rischia di addormentare la
coscienza nel godimento egoistico di quanto si possiede, dimenticando la
gravità dell'ora e il bisogno di scelte coraggiose e austere.
Ora, questo tempo di crisi è
il nostro! Mentre ci prepariamo a celebrare il secondo millennio dalla nascita
di Cristo, l'ammonizione a vegliare continua a risuonare nelle parole di
Giovanni Paolo II, a partire dalla sua prima Enciclica, sulla gravità del
nostro momento epocale di "vigilia" dell'anno 2000 (cf Redemptor
hominis, n. 1).
Ci chiede di vegliare anche
il documento della Conferenza Episcopale Italiana, dal titolo Evangelizzazione
e testimonianza della carità, interrogandoci sulla serietà con la quale
affrontiamo l'urgenza della nuova evangelizzazione.
Vigilare rappresenta come
una sintesi dell'intero ciclo dei programmi pastorali diocesani iniziati nel
1980 con La dimensione contemplativa della vita (2), perché li riassume tutti
situandoli nel loro vero sfondo: quello della vita eterna, della vita divina
che ci è donata in Cristo e che sboccerà nella pienezza dell'incontro faccia a
faccia con il Padre nello Spirito santo per un tempo senza fine.
La mia Lettera tratta del
tema della "speranza" (3), non però per dire malinconicamente:
"oggi c'è poca speranza" o per esortare retoricamente ad avere più
speranza, bensì per invitare ad aprire il cuore all'attesa vigilante del
Signore Gesù che irresistibilmente viene e ci riempie fin d'ora di una speranza
solida e luminosa. Molte tristezze dei cristiani e tante angosce che rodono i
cuori di troppa gente derivano dall'incapacità di vegliare trepidando
nell'attesa di questo grande dono e di questo gioioso incontro. Dobbiamo
imparare a riconoscere nel nostro tempo quotidiano i segni del venire di Gesù
risorto.
Siamo consapevoli che con il
nuovo biennio pastorale - che si concluderà con il Sinodo 47° - non solo non ci
alieniamo dal nostro contesto di Chiesa e di società, ma anzi ci prepariamo a
coglierlo a partire da quella visuale che sola permette di vederlo nel suo
senso globale, cioè dal punto di vista dell'eternità di Dio. Infatti, il
vegliare del Nuovo Testamento non è un semplice atteggiamento etico fatto di
attenzione, di cura e di sobrietà: è tutto retto dall'attesa del ritorno del
Signore Gesù, dall'attesa dell'irruzione definitiva della vita divina, del
Regno nell'esistenza di ciascuno di noi e nella storia intera. Vigilare è una
tensione interiore che è frutto della speranza cristiana, volta al futuro di
Dio.
Non potremo evidentemente
considerare in queste pagine gli illimitati orizzonti che la speranza cristiana
dischiude o evoca; basterà ispirarci a essa per coglierne alcuni frutti e
mettere in luce la tensione spirituale e morale che oggi è estremamente
necessaria.
[3] La Lettera comprenderà
quattro capitoli.
* La nostra incapacità a
riconoscere i segni del Signore che viene, è esaminata nel primo capitolo. Tale
incapacità si riassume nella frase così caratteristica delle nostre giornate:
"Non ho tempo", intendendo l'affermazione come segno di una nevrosi
tipica di una società che ignora il vero valore e senso del tempo e si lascia
attrarre nel vortice della fretta e dell'angoscia.
* Il secondo capitolo
esprime invece l'annuncio contrario: "Dio ha tempo per l'uomo!". Egli
ci fa dono del suo "tempo", cioè del suo modo di essere, della sua
vita, che riempie il nostro tempo di gioia e di attesa, e "sta alla
porta" proprio per farci un tale dono.
* Il terzo descrive l'etica
di una comunità che "sta alla porta" per aprire al Signore, che ha
accolto l'annuncio del tempo di Dio che cambia i tempi dell'uomo. E' l'etica e
la spiritualità della vigilanza "nell'attesa della sua venuta".
* Il quarto presenta alcuni
"itinerari della vigilanza"; segnali, tempi e momenti in cui la
speranza cristiana trasfigura il presente e lo riscatta dall'ansia e dalla
frustrazione per aprirlo a una speranza di eternità.
Potremmo qualificare i
quattro capitoli riferendoli ciascuno a un'invocazione del "Padre
nostro", la più antica preghiera cristiana che risale a Gesù stesso e che
si può considerare la preghiera del cristiano che veglia. Col grido
"liberaci dal male" chiediamo di essere liberati da quel male oscuro
che è in fondo la paura della morte (I). "Sia glorificato il tuo
nome" è il ringraziamento e l'esultanza per il tempo di Dio donato
all'uomo (II). "Venga il tuo Regno" connota la spiritualità del
cristiano che veglia e prega nell'attesa del Signore che viene (III).
"Dacci il nostro pane quotidiano" è l'umile richiesta di segni e di
strumenti (IV) che ci permettano di perseverare nella vigilanza anche se
"lunga è la notte" (4) e sembra che il Signore tardi a venire (cf Mt
25,5).
[4] La parola "Non ho
tempo" la diciamo e l'ascoltiamo così spesso che ci pare come un
condensato dell'esperienza comune. Noi abbiamo un'acuta percezione della
sproporzione tra il tempo che abbiamo e le sempre più numerose opportunità a
nostra disposizione, e insieme le molteplici scadenze, urgenze, attese che ci
incalzano.
Ma se potessimo dilatare a
dismisura il nostro tempo, se potessimo avere, come talora ci capita di
desiderare, una giornata di quarantotto ore invece di ventiquattro, la nostra
inquietudine si placherebbe? Certo, riusciremmo a fare molte più cose (almeno
lo pensiamo). E' però questo ciò di cui abbiamo bisogno? Non credo. L'ansia che
ci prende al pensiero dello scorrere del tempo non dipende dal numero delle ore
che abbiamo a disposizione.
Non è la mancanza di tempo
in quanto tale che ci assedia e ci inquieta, e neppure la molteplicità degli
impegni che sembrano gravare su di noi o la complessità dei problemi da
risolvere. E' piuttosto la percezione del fatto che il senso della nostra
esistenza dipende strettamente dal tempo. Noi sentiamo - in qualche momento
come una fitta dell'animo - che il nostro vivere consiste proprio nell'avere
tempo, e non averne più significa morire. D'altra parte, nulla di ciò che di
buono riusciamo a compiere o ad ottenere, riesce a fermare il tempo, a
trattenerlo in modo stabile e definitivo nella nostra vita. Tutto infatti, non
appena è raggiunto, di nuovo deve affrontare il tempo che passa: con le sue
incognite, con il declino che lo accompagna.
E' dunque il tempo stesso,
nel suo inesorabile trascorrere, nel suo muto linguaggio di finitezza, nel suo
implacabile andare verso la fine che genera angoscia e bisogno di fuga. Il
tempo che passa risuona in noi come una continua rivelazione della nostra
condizione di esseri limitati e avviati impietosamente senza scampo verso la
morte. Di questo, in fondo, abbiamo paura e ce ne difendiamo in tutti i modi.
Due sono le vie attraverso
le quali cerchiamo di sfuggire al problema della fine irreparabile del tempo,
di esorcizzare l'immagine della morte che fa capolino in ogni piccolo o grande
affanno per la vita. Esse sono l'ostentazione del nostro dominio sul tempo e
l'ossessione di sfuggire in tutti i modi possibili al suo dominio su di noi.
Uno storico contemporaneo
giunge, attraverso un'ampia ricognizione del tema, alla seguente constatazione:
la progressiva emarginazione della morte nelle moderne società industriali (5).
Un vero e proprio interdetto avrebbe investito i nostri paesi dove la
progressiva medicalizzazione della malattia e della vecchiaia, con il relativo
sequestro dei sofferenti e degli anziani ai margini del tempo socialmente condiviso,
porta sempre più a considerare le situazioni limite come estranee alle
condizioni della vita ordinaria. Tale fenomeno di esorcizzazione della fine è
tuttavia assai più vasto.
Nelle pagine successive
vorrei aiutare a smascherare questa operazione di cosmesi della morte, che è
nella sostanza una vera e propria perversione del significato del tempo, perché
ci fa vivere in una pericolosa illusione, ci allontana dalla vera comprensione
di noi stessi e dall'unico modo che abbiamo di possedere davvero la nostra
esistenza.
[5] "Il seme caduto in
mezzo alle spine sono coloro che... si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni
dalla ricchezza e dai piaceri della vita" (Lc 6,14). "Marta, Marta,
tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose" (Lc 10,41). Le parole di Gesù
fanno riferimento a un'esperienza universale: quella della voglia di spremere
dal presente tutto il possibile, dell'ossessione di utilizzare tutti gli attimi
e le risorse del tempo a disposizione per esaltare l'importanza di ciò che si è
e di ciò che si ha.
"Il tempo è
denaro", dice un proverbio e bisogna darsi da fare perché fruttifichi al
massimo! Il proverbio latino corrispondente è il carpe diem: afferra l'attimo
fuggente! "Quant'è bella giovinezza / che si fugge tuttavia / Chi vuol
essere lieto sia: / di doman non c'è certezza".
Insomma, se il tempo fugge,
inseguiamolo senza tregua, per averne il più possibile a nostro vantaggio. Se
ci incalza, affrontiamolo con foga, in modo da ricavarne tutte le soddisfazioni
possibili prima di esserne sconfitti. Se ci svuota di energie, preveniamolo con
astuzia, stipandolo di beni e di benessere senza perdere neppure un istante.
Sono tanti i modi di riempire il tempo per illudersi di possederlo.
Il denaro anzitutto. Se il
tempo è denaro, l'accumulo del denaro e la libertà di spenderlo mi convincono
di essere padrone del tempo: del mio e di quello degli altri. E posso arrivare
a pensare che il mio tempo vale molto, solo perché costa molto denaro; o che il
tempo degli altri vale poco, solo perché io posso comprarlo per il mio
vantaggio.
Anche l'ambizione del
dominio, inteso come esasperazione della forza, della riuscita, del successo in
ogni campo della vita, è un modo illusorio di possedere il tempo. Il potere,
per esempio quello politico, coltivato come fine a se stesso, come ebbrezza
della propria potenza e del proprio dominio sull'altro, genera l'impressione di
poter durare a dispetto del tempo, prolunga la fantasia di attraversarne il
logorio senza esserne travolti.
Infine, la spasmodica
ricerca del godimento in ogni forma, mira a neutralizzare il tempo, è una sfida
alla sua caducità. Riempire il giorno e la notte di eccitazioni, concentrarsi
puntigliosamente nella cura del proprio piacere corporeo, del proprio benessere
fisico e psichico, significa aggrapparsi alla vita biologica, pensando che il
tempo del suo godimento sia tutto il bene di cui possiamo disporre.
Ostentare ricchezza, potere,
sicurezza, salute, attivismo, sono tutti espedienti per esorcizzare l'angoscia
del tempo che ci sfugge dalle mani. Parlavo di una "cosmesi" della
morte, appunto perché noi cerchiamo di abbellire il consumarsi del tempo, che
della morte è il simbolo, esaltandoci nel consumo di beni illusoriamente
duraturi. L'esorcismo funziona come un "trucco" escogitato per prolungare
la nostra partita con la morte; eppure sappiamo che la partita non potrà durare
all'infinito, e la morte avrà l'ultima mossa.
Ma è possibile che proprio
sotto questa verità, che alimenta la nostra angoscia, si nasconda anche
un'altra verità capace di liberarci? è pensabile che in quell'affanno che ci
spinge a percorrere strade illusorie, ci sia una provocazione salutare che
dovremo portare coraggiosamente allo scoperto? In altre parole: siamo così
sicuri che la morte sia sotto ogni aspetto la fine del tempo?
[6] "State bene attenti
che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni
della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio
esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra"
(Lc 21, 34 ss).
All'opposto dell'illusione
che pretende di possedere il tempo, sta la malinconia di chi percepisce il suo
svanire come un fatto inarrestabile, contro il quale è inutile lottare e che è
quindi meglio annegare nell'evasione. I due atteggiamenti - resistenza ed
evasione - sono strettamente collegati: si può dire che il secondo è una
conseguenza del primo, quando diventa chiara l'illusione del possedere e del
fare. Nella realtà, noi passiamo un pò dall'uno all'altro modo di sentire
perché non possiamo attestarci stabilmente in nessuno dei due. Anche la
disperazione non può durare all'infinito perché impone all'uomo una qualche
decisione di uscirne; la pressione alla quale essa lo sottopone lo costringe
infatti a "sbilanciarsi".
Come può essere veramente
tolta la disperazione? La forma tragica sarebbe la scelta di morire: il tempo e
la sua oppressione sono neutralizzati nel modo più radicale anticipando
drasticamente la fine. Una scelta che non assume, per lo più, fortunatamente,
la forma diretta e immediata del suicidio, ma si presenta nei modi più subdoli
e non meno tragici, di una vita sostanzialmente "spenta". Una vita
che sopravvive cronologicamente alla propria fine, in qualche modo già
anticipata e annunciata; penso alla droga vera e propria e a un certo tipo di
vita "drogata", dove l'uomo cerca, nell'assoggettamento a qualcosa
che lo sottrae alla fatica del pensare e del volere, una compensazione
all'incapacità di progettare il proprio futuro. Una tale ricerca dagli esiti
così umilianti e drammatici, è purtroppo omogenea con la diffusa e sottile
legittimazione ideologica dell'edonismo contemporaneo, che riveste la
sudditanza allo stimolo del piacere con i valori dell'emancipazione e della
conquista di sé.
Essere disponibili per ogni
esperienza, giudicandola esclusivamente in base alle sensazioni più o meno
forti che ne derivano, magari per dimostrare a se stessi e agli altri una
spregiudicata signoria del proprio tempo; osare fino al limite per il
discutibile vanto di trasgressioni che ci fanno sentire molto speciali. In
questa ricerca, che induce in realtà a lasciarsi passivamente divorare
dall'illusione di un'eterna adolescenza, c'è il segno di una disperata fuga dal
tempo. Ingenua strategia dell'evasione, dove l'uomo si consegna interamente al
consumo, possibilmente irresponsabile, del tempo, attraverso il quale egli
cerca di transitare come in una specie di piacevole stordimento che renda
insensibili a ciò che è brutto e penoso. Così si neutralizza il peso del tempo
in cui siamo costretti a riflettere, a decidere, a portare responsabilità: il
tempo della formazione personale, della convivenza familiare, dell'applicazione
al lavoro, del vincolo sociale, tempi inevitabilmente segnati dalla routine e
dalla banalità, dal rischio e dalla fatica, dall'errore e dalla colpa, da una
serie di tensioni e di sofferenze che sono molto difficili da portare e alle
quali si preferisce non guardare in faccia.
L'impulso a fuggire il tempo
che passa è quindi forte. Radicata nella sfera più profonda della nostra coscienza,
l'angoscia della fine emerge nei luoghi più impensati, perfino all'interno
della coscienza religiosamente orientata. Sorge addirittura il sospetto che
alcune forme delle cosiddette "nuove religiosità" siano
obiettivamente omogenee con l'accentuata fuga dalla libertà che viene descritta
come tipica del nostro tempo. Queste forme appaiono talora caratterizzate dalla
esaltazione "sperimentalistica" della religione, che incoraggia a
privilegiarne l'uso eccitante e anestetico. Spesso sono collegate a un precipitoso
azzeramento "escatologico" della storia, che sequestra gli adepti da
ogni responsabilità della vita presente. In realtà non c'è un vero esercizio
della vigilanza, cioè della capacità di raccogliere la provocazione del tempo,
che induce l'uomo al cimento della libertà. Dio non lo si incontra nella fuga
dalla libertà o nell'ossessione della fine, e neppure l'uomo.
[7] C'è però un altro modo
di affrontare il problema. Tra l'illusione di possedere il tempo e la
disperazione per il suo venirci meno sta un atteggiamento completamente
diverso, evocato con il termine vigilare.
Vigilare significa anzitutto
vegliare, stare desti, rimanere all'erta. L'immagine più immediata è quella di
chi non si lascia sorprendere dal sonno quando il pericolo incombe o un fatto
straordinario ed emozionante sta per accadere. Vigilare significa badare con
amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualche cosa di molto prezioso, farsi
presidio di valori importanti che sono delicati e fragili. Vigilare impegna
comunque a fare attenzione, a diventare perspicaci, a essere svegli nel capire
ciò che accade, acuti nell'intuire la direzione degli eventi preparati a
fronteggiare l'emergenza.
Rimanere svegli, essere
attenti avere cura, vegliare dunque: veglia la sposa che attende lo sposo, la
madre che attende il figlio lontano, la sentinella che scruta nel cuore della
notte; veglia l'infermiere accanto al malato, il monaco nella preghiera
notturna; vegliano gli uomini e le donne che sono pronti a raccogliere i
segnali di aiuto dei loro amici nel pericolo, dei loro fratelli nel dolore, del
loro prossimo nella difficoltà; veglia la comunità dei credenti che è rapida
nel reagire alla tiepidezza e alla stanchezza che l'allontanano dall'amore
degli inizi. Veglia una società civile che coglie prontamente i segni del
proprio degrado, che si erge contro la corruzione dilagante, che contrasta la
disaffezione nei confronti del bene comune, che non si rassegna alla deriva
delle sue istituzioni pubbliche e alla casualità dei suoi ritmi vitali, che poi
significano sempre il trionfo dei prepotenti e dei furbi.
[8] Vigilare è la capacità
di ritornare a prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità non
puramente clinica e commerciale della vita. Il tempo per imparare a riconoscere
il significato delle nostre emozioni impulsi, tensioni per non rimuoverle
troppo in fretta anestetizzando l'eventuale disagio che ci procurano, e
rendendo così sterile la profondità dell'esperienza nella quale esse potrebbero
introdurci. L'abitudine al consumo superficiale dei sentimenti ci rende
fragili; assegnare all'occasionale immediatezza delle emozioni un ruolo
decisivo per la nostra identificazione e la nostra condotta ("io adesso mi
sento così, faccio così decido così") ci espone al grave rischio di conferire
alla pressione delle circostanze un potere assoluto sul nostro destino. Se non
siamo vigili, saranno i nostri riflessi condizionati, e non il nostro io, a
decidere per noi. Compito incongruo con la dignità dell'uomo e curiosamente
contraddittorio nei confronti della gelosa difesa della libertà individuale,
che segna irrevocabilmente la nostra cultura.
Dalla sterilità delle
emozioni e dall'illusione alla quale si espone una vita sentimentale priva di
discernimento, ci protegge la vigile cura del tempo vissuto. Si può tuttavia
dire che tutti i modi di vegliare, che esemplificano le qualità essenziali del
vigilare, sono come momenti particolari di quella grande veglia che è
l'esistenza umana di fronte al tempo definitivo che viene: il tempo della vita
eterna con Dio, che è come la "grande festa" della vita, alla quale
ogni uomo che viene nel mondo è destinato, in attesa di esservi formalmente
invitato non appena è in grado di prendere da solo la propria decisione.
Espressione della dimensione
vigiliare del tempo vissuto è l'attesa cristiana del Signore che viene: nel
fluire del tempo, per riscattare il desiderio dell'uomo e restituirlo alla
propria libertà; alla fine del tempo, per sigillare il tempo dell'attesa e la
reciproca speranza di una comunione irrevocabile.
[9] Vigilare è perciò
disponibilità a coltivare, senza censurarne l'emozione che prima o poi sfiora
ogni uomo, il presentimento di una profondità della vita e del tempo, dei gesti
e delle cose, del corpo e dell'anima, che risuona alla nostra coscienza come
una promessa. Una verità del tempo vissuto, che non ci proietta semplicemente
"al di là", oltre le opere e i giorni che scandiscono i ritmi della
nostra vita quotidiana, bensì percorre la loro trama con il filo prezioso di
delicati trasalimenti e di folgoranti intuizioni
Molti eventi, certo, battono
alla mia porta: per tante cose mi è chiesto di avere tempo e in tanti modi mi
viene offerto di condividerlo e di cederlo. Nel tempo della nostra esistenza
qualcuno bussa sempre alla nostra porta e questo bussare, nei momenti decisivi,
ci appare enigmatico e anonimo. Gli uomini parlano della "fortuna"
che bussa alla porta, più spesso del "destino"; in ogni caso, e per
tutti, si tratta della fine del tempo e della morte, che accetta talvolta
un'ultima sfida a scacchi - come nel noto film di Bergman -, ma che infine non
aspetta affatto di essere invitata per entrare nella nostra casa.
Se però rimango vigile, e
cerco di tenere desti i sensi e lo spirito di fronte a tutto ciò che il tempo
conduce in prossimità della mia casa, nei colpi che risuonano alla porta potrò
riconoscere la voce del Signore, e distinguerne il tono amico che chiede a ogni
istante di poter entrare. L'angoscia del futuro e della morte allenterà così la
sua stretta mortale, e l'ansia del presente si scioglierà nell'emozionante
tensione dell'attesa.
La solitudine nella quale
finiamo per trovarci può essere vinta se noi veniamo a sapere che qualcuno sta
alla porta del nostro tempo con intenzione amica; se impariamo ad ascoltare, la
sua voce vince la paura e rompe l'isolamento. Allora io non sono più
prigioniero del tempo, ostaggio di un destino anonimo che avvolge le cose in
effimero transito attraverso la caducità. Qualcuno bussa alla mia porta per
dividere il suo tempo con me e dare al mio tempo una dignità e una prospettiva
che mai avrei osato sperare. Se imparo a coltivare l'attesa, a vivere il tempo
sostando nella affettuosa contemplazione del Signore, come fa la Sposa, e
nell'operoso ascolto dello Spirito, che risveglia le membra intorpidite dall'ombra
della morte, posso fare ben più che sopravvivere alla paura e fronteggiare
l'angoscia. Posso vegliare su ciò che ho di più prezioso, custodendo i valori
che ho già imparato ad apprezzare, arricchendo i talenti che mi sono stati
affidati.
Nella prospettiva del
Signore che viene, il tempo si dilata, Si ricompone nella pace, assume qualità
e prospettive che riconciliano gli affetti del cuore con la sapienza delle
cose. L'esperienza del tempo non scorre più alla superficie dei sensi fino a
declinare nella malinconia dello spirito, perché diventa esperienza sapida e
profonda della vita presente, che è certamente una vita mortale, ma non
destinata alla morte. E' una vita che proprio il tempo conduce verso la vita di
Dio, la stessa di cui vive il Figlio che è diventato un uomo per sempre; verso
la vita dello Spirito che custodisce gelosamente per noi tutti gli affetti e
gli effetti dell'amore, in vista della risurrezione della carne Ne parleremo
più specificamente nel prossimo capitolo.
[10] Se siamo cristiani
praticanti siamo abituati ad andare in chiesa. Sappiamo che Dio ci convoca
nella sua casa per pregare, ascoltare la sua Parola, celebrare l'Eucaristia.
Ma dobbiamo abituarci tutti
e non solo i praticanti, all'idea che il Signore viene a sua volta nella nostra
casa, viene a bussare alla porta della nostra vita, viene a incontrarci nei
luoghi e nei tempi della nostra esistenza quotidiana, viene per offrirci o per
rinsaldare un vincolo di amicizia. Dobbiamo imparare a coniugare insieme i due
aspetti: noi ci presentiamo alla casa del Signore per essere da lui accolti e
però prima il Signore si presenta alla nostra casa per essere accolto nei
luoghi della nostra esistenza.
Il bussare del Signore alla
porta ha tuttavia un significato molto più grande; è il volerci fare partecipi
del suo tempo, della sua vita, della sua eternità.
Nel secondo capitolo della
Lettera siamo invitati a riflettere su questo fatto straordinario: Dio ha tempo
per noi, bussa alla nostra porta per farci entrare nel suo tempo, nel suo
essere. Tutto quanto possiamo dire sulla vigilanza cristiana, sulla nostra
capacità di esorcizzare la morte per vivere in pienezza la vita, è fondato sul
dono che Dio ci fa del suo tempo, del suo amore, della sua intimità.
Partiremo da una
affermazione biblica: Dio veglia sul tempo dell'uomo. Poi contempleremo
l'origine di tutto ciò nel mistero stesso della Trinità; ne vedremo la
conseguenza per alcuni atteggiamenti di fondo; richiameremo brevemente i
momenti portanti secondo cui nella tradizione vengono scandite le realtà
ultime: morte, giudizio, inferno, paradiso; e anche quali speranze sono
possibili per il futuro della condizione umana quaggiù. Infine diremo qualcosa
sul rapporto tra noi e le realtà invisibili nella preghiera.
[11] "Il Signore
veglierà su di te quando esci e quando entri, da ora e per sempre" (Sal
121,8). Il Dio della Bibbia ha cura del tempo dell'uomo e veglia su di noi nel
succedersi delle vicende umane: "Come ho vegliato su di essi per sradicare
e demolire, per abbattere e per distruggere e per affliggere con mali, così
veglierò su di essi per edificare e per piantare" (Ger 31,28). Ogni
frammento del tempo è custodito e vegliato dalla fedeltà del suo amore.
La vigilanza di Dio sul
tempo, il suo essere custode del tempo, dà a esso dignità e valore indicibile.
Il tempo dell'uomo è il settimo giorno di Dio, di cui nel racconto della
creazione si dice che è santo: "Dio benedisse il settimo giorno e lo
consacrò" (Gen 2,3). E' il tempo del Padre che veglia nell'attesa del
ritorno del figlio che si è allontanato (cf Lc 15,20), perché non si senta
definitivamente perduto! Il tempo non è allora spazio vuoto, luogo neutro,
bensì partecipazione alla vita divina, provenienza da Dio, venuta di Dio e
avvenire aperto a Dio a ogni istante; esso riflette la provenienza, la venuta e
l'avvenire dell'Amore eterno.
[12] Con l'incarnazione il
Figlio di Dio, mandato dal Padre, fa suo il tempo degli uomini, fino a
desiderare la loro compagnia: "La mia anima è triste fino alla morte;
restate qui e vegliate con me" (Mt 26,38). Gesù viene così a conoscere la
nostra angoscia, lo stare di fronte alla morte: "E cominciò a provare
tristezza e angoscia" (Mt 26,37).
La risurrezione di Gesù e
l'effusione dello Spirito immettono nel nostro tempo la vittoria sulla morte:
"Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi,
colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi
mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11).
La missione del Figlio e
quella dello Spirito rivelano la profondità del rapporto tra il Dio vivo e il
tempo degli uomini Il tempo viene dalla Trinità, creato con la creazione del
mondo; si svolge nel seno della Trinità, perché tutto ciò che esiste, esiste in
Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo e siamo; è destinato alla gloria della
Trinità, quando tutto sarà ricapitolato nel Figlio e consegnato al Padre,
perché sia tutto in tutti (cf 1 Cor 15,28). Vivere seriamente il tempo è dunque
vivere nella Trinità; cercare di evadere dal tempo è fuggire dal grembo divino
che ci avvolge. Il cristianesimo non è la religione della salvezza dal tempo e
dalla storia, ma del tempo e della storia.
Perché il tempo sia vissuto
così, sia cioè santificato, è necessario che alla vigilanza e alla custodia di
Dio sul tempo corrisponda la vigile accettazione dell'uomo: se Dio ha tempo per
l'uomo e custodisce il senso della sua vita e della sua storia, l'uomo deve
aver tempo per Dio e riconoscerlo, nella vigilanza della fede, della speranza e
dell'amore, come il Signore della sua vita e della sua storia.
[13] Il
"riconoscimento" di Dio come Signore della propria vita equivale a
risorgere a una vita nuova, ad accedere all'esistenza autentica. Quando ero
ancora incerto sul titolo da dare alla Lettera, uno di quelli che più mi
attraevano si riferiva al racconto della risurrezione di Lazzaro (cf Gv
11,1-44). Pensavo all'espressione "Vieni fuori dalla prigione del
tempo!", per indicare che chi ascolta la voce di Gesù si lascia svegliare
dal sonno mortale dell'illusione di possedere il tempo e della disperazione che
ci spinge a evaderne. Illusione e disperazione chiudono la nostra vita
all'azione di Dio. Abbiamo bisogno di essere liberati dalla chiusura, dalla
prigione; "Lazzaro, vieni fuori!" (Gv 11,43) è il grido che il
Signore fa risuonare nel tempo per liberare non solo dalla prigionia della
morte, bensì dalla prigionia del tempo vissuto nell'illusione e nella
frustrazione. Chi si lascia risuscitare come Lazzaro dal Dio che gli viene
incontro e piange sulla sua creatura mostrando quanto la ama (cf Gv 11,33-36),
vive l'esperienza della liberazione dal non senso, dall'angoscia di un tempo
chiuso all'orizzonte dell'eternità.
La vigilanza richiesta al
cristiano consiste nel vivere i giorni nell'orizzonte del Dio che è venuto, che
viene e che verrà. Rapportare a lui la propria vita, riconoscere in lui
l'ultimo senso e l'ultima patria che dà valore e sapore a ogni scelta e a ogni
passo nel tempo significa rispondere con amore all'amore con cui Dio ci ha
amati e ha tempo per noi.
Dire a qualcuno: "Lazzaro,
vieni fuori!" significa proporgli la gioia e la pace di gustare il
presente come ora della venuta del Signore, attesa del suo ritorno per
prenderci con Lui nella gloria.
[14] Introducendo il
racconto della risurrezione di Lazzaro, l'evangelista ricorda una parola
misteriosa di Gesù che vuole incoraggiare i suoi discepoli ad affrontare il
pericolo superando la paura di salire con lui verso Gerusalemme: "Non sono
forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché
vede la luce di questo mondo; se invece uno cammina di notte, inciampa, perché
gli manca la luce" (Gv 11,9-10).
Il Signore conosce
l'ambiguità nascosta nel tempo dell'uomo: sta a noi scegliere se vivere nella
luce o nelle tenebre. Vigilare è decidere di camminare nelle ore luminose del
giorno, credendo a Colui che dice: "Io sono la luce del mondo: chi mi
segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
Vigilare è seguire Gesù,
scegliere ciò che Gesù ha scelto, amare ciò che lui ha amato, conformare la
propria vita al modello della sua; vigilare è avere la percezione di vivere
ogni attimo del tempo nell'orizzonte dell'amore con cui Dio ci ama in Gesù e
vuole essere amato da noi in Lui e con Lui.
[15] Le dodici ore del
giorno (cf Gv 11,9) sono vissute pienamente nella luce quando sono vissute
nella speranza. La speranza non è soltanto l'attesa di un bene futuro arduo, ma
possibile a conseguirsi; è l'anticipazione delle cose future promesse e donate
dal Signore che ha avuto tempo per l'uomo, il terreno d'avvento dove il domani
di Dio viene a prendere corpo nel presente degli uomini. E la sorella più
piccola, come dice, che tiene per mano e guida verso la mèta le due maggiori,
la fede e la carità (6). Nella speranza l'oggi si apre all'orizzonte della eternità
e l'eternità viene a mettere le sue tende nell'oggi; grazie alla speranza, il
tempo quantificato (che non ci basta mai che è sempre troppo poco) diviene
tempo qualificato, ora della grazia, tempo favorevole, oggi della salvezza,
momento gustato nella pace.
La speranza è la condizione
filiale (l'essere figli del Padre celeste in Gesù, che è il tutto della vita
cristiana) vissuta riguardo all'avvenire: perché "noi fin d'ora siamo
figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che
quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così
come egli è" (1 Gv. 3,2). E la vigilanza è l'atteggiamento di chi tiene
salda la speranza, non permettendo che sia insidiata la sua condizione di
figlio, mantenendo la tensione del desiderio di vedere il volto del Padre e
difendendola dall'afflosciarsi nel presente, dal lasciarsi imprigionare dalle
banalità quotidiane.
Il già, accolto dalla fede e
vissuto nell'amore, si proietta verso il non ancora della promessa grazie alla
speranza; speranza è perciò l'altra faccia della vigilanza, l'andare incontro
consapevole, libero e desideroso a Colui che - venuto una volta - sempre
nuovamente ci viene incontro fino a che non si compiano i tempi ed Egli venga
nella gloria.
[16] Il Dio che ha fatto
suoi il tempo e la morte, ha dato a noi la sua vita, nel tempo e per
l'eternità. La Pasqua del Signore rivela la solidarietà del Dio vivente alla
nostra condizione di abitatori del tempo, e insieme ci dà la garanzia di essere
chiamati a divenire gli abitatori dell'eternità. Nella risurrezione di Cristo
ci è promessa la vita, così come nella sua morte ci era assicurata la vicinanza
fedele di Dio al dolore e alla morte. La Pasqua è l'evento divino nel quale ci
è rivelata e promessa la destinazione del tempo al suo felice compimento nella
comunione in Dio.
Lo spazio temporale che sta
tra l'ascensione e il ritorno di Cristo nella gloria appare così come un
estendersi del mistero pasquale all'intera vicenda umana; nella sofferenza e
nella morte, che ancora caratterizzano la nostra storia, si fa presente la
sofferenza della Croce, perché la vita del Risorto sia pregustata da chi con
Cristo percorre il suo esodo pasquale. L'intera vita del cristiano è un
pellegrinaggio di morte e risurrezione continua, vissute con Cristo e in Cristo
nello Spirito, portando anzi Cristo in noi "speranza della gloria".
Vigilare è accettare il
continuo morire e risorgere quale legge della vita cristiana; le condizioni
della vigilanza evangelica non sono dunque la stasi o la nostalgia, bensì la
perenne novità di vita e l'alleanza celebrata sempre nuovamente col Signore
Gesù che è venuto e che viene.
Nella luce dell'evento
pasquale si coglie allora il pieno significato cristiano della morte fisica,
ultima vicenda visibile della nostra esistenza. La morte è evento pasquale,
segnato contemporaneamente dall'abbandono e dalla comunione col Crocefisso
Risorto. Come Gesù abbandonato sulla Croce, ogni morente sperimenta la
solitudine dell'istante supremo e la lacerazione dolorosa; si muore soli!
Tuttavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre
che, nello Spirito, colma l'abisso della distanza e fa nascere l'eterna
comunione della vita. Perciò, per la grande tradizione cristiana la morte è
dies natalis, giorno della nascita in Dio, dell'uscire dal grembo oscuro della
Trinità creatrice e redentrice, per contemplare svelatamente il volto di Dio,
in unione col Figlio, nel vincolo dello Spirito santo.
[17] Tutto ciò che segue
alla morte viene letto dalla fede nella luce dell'evento pasquale di Gesù.
Il giudizio è l'incontro con
lui che raggiunge la persona col suo sguardo penetrante e creatore e la porta
alla piena conoscenza della verità su se stessa davanti all'eterna verità di
Dio. La sua vigilante anticipazione avviene nel confronto della coscienza con
la Parola, nella celebrazione del sacramento, in particolare della
Riconciliazione, nell'incontro con il fratello bisognoso di aiuto.
L'inferno è la condizione
insopportabilmente dolorosa della separazione da Cristo, dell'esclusione eterna
dal dialogo dell'amore divino; possibilità tragica e però necessaria se si vuol
prendere sul serio la libertà che Dio ha dato all'uomo di accettarlo o di
rifiutarlo. L'inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità
suprema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragicità del
male; proprio per questo e in tutto questo evidenzia l'amore del Dio che,
creandoci senza di noi non ci salverà senza di noi Egli infatti che ci ha amato
quando ancora eravamo peccatori, rimarrà separato da noi solo se noi ci
ostineremo nell'essere separati da lui.
Il purgatorio è lo spazio
della vigilanza esteso misericordiosamente e misteriosamente al tempo dopo la
morte; è un partecipare alla passione di Cristo per l'ultima purificazione che
consentirà di entrare con lui nella gloria. La fede nel Dio che ha fatto sua la
nostra storia è il vero fondamento del credere a una storia ancora possibile al
di là della morte, per chi non è cresciuto quanto avrebbe potuto e dovuto nella
conoscenza di Gesù. L'anticipazione di tale spazio è il tempo dedicato alla
cura della finezza dello spirito che si nutre di sobrietà, di distacco, di
onestà intellettuale, di frequenti esami di coscienza, di trasparenza del
cuore, di unificazione della vita sotto la regia della sapienza evangelica:
come pure dell'ascesi e della purificazione necessarie per fortificarci nella
tentazione, scioglierci dall'inerzia delle nostre colpe e liberarci
dall'opacità delle nostre abitudini cattive.
Il paradiso è l'essere
eternamente col Signore, nella beatitudine dell'amore senza fine: "Oggi
sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). La parola del Crocefisso al ladrone
pentito è la rivelazione di ciò che il paradiso è: un "essere con
Cristo", un vivere eternamente in lui il dialogo dell'amore col Padre
nello Spirito santo. Questa relazione con il Signore, di una ricchezza per noi
inimmaginabile, è il principio essenziale, il fondamento stesso di ogni
beatitudine dell'esistere. La vigilanza si esercita nell'anticipazione della
gioia dell'incontro con il Signore e nella letizia della comunione fraterna
vissuta con tutti coloro che ne condividono il desiderio.
La figura di tale
anticipazione è così profonda e delicata da farci comprendere l'importanza
della vita contemplativa, pur se la sostanza dell'anticipazione appartiene a
ogni vita di fede, sollecitata a diventare esperienza vissuta nella confidenza
con il Signore e nella fiducia della sua tenera cura. La spiritualità del
Cantico dei Cantici - lo insegna una tradizione spirituale costante e sempre
rinnovata del cristianesimo - è dunque una dimensione vitale della nostra
relazione quotidiana con Dio; è il tempo dell'innamoramento, destinato a
consumarsi nell'esuberanza dell'amore, da coltivare, custodire, impreziosire
nell'intimità di un dialogo che raggiunge le fibre più sensibili del nostro
essere.
Infine, nella luce della
risurrezione di Gesù possiamo intuire qualcosa di ciò che sarà la risurrezione
della carne. In essa l'essere con Cristo si estenderà ad abbracciare la pienezza
della persona e la globalità dell'esperienza umana anche nella sua dimensione
corporea, così come la risurrezione del Crocefisso nella carne ha portato nella
vita eterna la carne del nostro tempo mortale, fatta propria dal Figlio di Dio.
L'anticipazione vigilante della risurrezione finale è in ogni bellezza, in ogni
letizia, in ogni profondità della gioia che raggiunge anche il corpo e le cose,
condotte alla loro destinazione propria, che è quella delle opere dell'amore.
Non dobbiamo dimenticare che
il cristianesimo, con alterne vicende, ha condotto una dura battaglia per
respingere l'impulso al disprezzo del corpo e della materia in favore di una
malintesa esaltazione dell'anima e dello spirito. L'esaltazione dello spirito
nel disprezzo del corpo, come l'esaltazione del corpo nel disprezzo dello
spirito, sono di fatto il seme maligno di una divisione dell'uomo che la grazia
incoraggia a combattere e a sconfiggere. La vigilanza consiste nell'esercizio
quotidiano dei sensi spirituali, ossia degli stessi sentimenti che furono di
Gesù, nella coltivazione della sapienza evangelica che unifica l'esperienza e
ci consente di apprezzare i legami fini e profondi del corpo con lo spirito. In
tal modo possiamo custodire fin d'ora, in attesa che si compia la promessa
della risurrezione della carne, il piacere della libertà del corpo da tutto ciò
che è falso e ottuso, laido e volgare, avido e violento.
La fede nella risurrezione
finale ci aiuta quindi a valorizzare e amare il tempo presente e la terra. La
vigilanza cristiana, illuminata dall'orizzonte ultimo, non è fuga dal mondo,
bensì capacità di vivere la fedeltà alla terra e al tempo presente nella
fedeltà al cielo e al mondo che deve venire. Nella luce della Pasqua, i
novissimi - morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso e risurrezione
finale della carne - sono tutte forme dell'essere con Cristo, che è promesso e
donato all'abitatore del tempo e si configura a seconda del rapporto che, nella
vigilanza o nel rifiuto, si stabilisce tra ogni persona umana e il Signore
Gesù.
[18] La speranza cristiana
rischia anch'essa una duplice riduzione: o alle sole attese celesti per l'altra
vita, o (almeno come concentrazione psicologica) alle - anticipazioni terrene
(il regno di Dio è già tutto qui!), come in alcune proposte di teologia
politica. Difficilmente evitiamo, nella pratica, l'uno o l'altro dei due
estremi perché siamo limitati e ci riesce difficile abbracciare d'un solo colpo
tutto l'orizzonte dell'uomo. Dobbiamo continuamente riequilibrare il nostro
pensiero e il nostro linguaggio per cogliere l'unità che tiene insieme le
speranze terrene - di cui la Bibbia parla spesso - con quelle invisibili,
definitive, che danno il sapore a tutto il resto. Tra le due non c'è
opposizione, bensì continuità e, se è comprensibile qualche oscillazione
nell'accentuazione della speranza dei cristiani (a volte più sull'altra vita, a
volte più sui beni messianici di questa vita come anticipazione del mondo
futuro), non possiamo mai permettere la mancanza di speranza, la rassegnazione
amara, lo scetticismo.
Precedentemente abbiamo
parlato di ciò che speriamo nella morte e dopo la morte; ora diciamo qualcosa
di ciò che speriamo nella vita terrena per ciascuno di noi e per la
collettività umana.
Per noi speriamo fin d'ora
quanto è espresso più volte nei Vangeli e nelle Lettere apostoliche: esultanza
per la figliolanza divina (cf 1 Gv 3,1-2), certezza di essere nelle mani di un
Padre buono (cf 1 Pt 1,3 ss; 1,17-21), giustizia, pace e gioia nello Spirito
santo (cf Rm 14,17), consolazione interiore (cf 2 Cor 1,3-7), tante espressioni
del "centuplo in questa vita" (cf Mc 10,28-30), che solo può intuire
e gustare chi lascia decisamente tutto per seguire Gesù povero e crocefisso.
Speriamo, per noi tutti, ciò che è oggetto della preghiera insegnataci da Gesù:
il pane per l'oggi, il perdono, l'essere custoditi dalla tentazione, la
liberazione dal male.
[19] Per la collettività
umana esprimerò le speranze temporali partendo dalla speranza eterna (7).
1. Seguendo Gesù e
affidandoci totalmente a lui possiamo sperare anzitutto in un compiersi
positivo dell'intera storia umana con l'insieme del suo ambito culturale e
naturale. Possiamo sperare in una raggiunta definitiva armonia delle realtà
umane, sociali, naturali nella pienezza del regno di Dio.
2. Il regno di Dio viene
realizzato già in parte sulla terra, ovunque, in forza dello Spirito di Cristo,
appaiano segni di conversione alla pace, alla giustizia, alla comunione. In
tali luoghi la forza distruttrice del peccato, della guerra e dell'ingiustizia
vengono contrattaccate, la povertà viene lenita, la sofferenza consolata,
l'inimicizia riconciliata, la natura rappacificata con l'uomo. Ogni piccolo
segno sociale di questo tipo, ogni incontro di fratelli e sorelle che si
realizza nella vittoria del dono sul calcolo è una pregustazione del Regno
definitivo e può essere sperato come dono di Dio.
3. Il formarsi di una rete
di tali realizzazioni del regno di Dio fin d'ora e il loro coagularsi in
alleanza per tutta la terra, in costante combattimento contro il male e contro
il degrado, è il massimo che possiamo sperare per la nostra storia; già così,
esso richiede tutto l'impegno, la costante vigilanza, un grande spirito di
sacrificio e un'invincibile fiducia nelle energie del Regno. Infatti il
sovrabbondare dell'ingiustizia, la ricerca sfrenata dei propri comodi le liti e
le inimicizie, lo sfruttamento selvaggio della natura, minacciano continuamente
di sommergere i luoghi della speranza.
4. La Chiesa, come comunità
di coloro che esplicitamente professano la loro speranza nella venuta del
Regno, è la comunità in cui, fin d'ora e in maniera privilegiata, possono e
devono realizzarsi alcuni segni della presenza della pace e della giustizia del
Regno. Ciò può e deve avvenire non solo all'interno della comunità (cf At 2,42-47;
4,32-35), ma quale irradiazione e forza trasformante verso l'esterno, per
esempio nel fatto che la Chiesa unisce razze, nazioni e classi diverse, in un
modello di unità universale, e perché essa lavora con tutte le persone di buona
volontà per un futuro sulla terra che sia più degno dell'uomo. In questo quadro
si colloca la "dottrina sociale" della Chiesa, intesa come una morale
sociale che prospetta per tutti gli uomini (e non solo per i credenti) ideali
storici concreti. "Il cristiano non può accontentarsi di principi
religiosi. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità,
promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani
della libertà e della giustizia" (Educare alla legalità, Nota Pastorale
della Commissione Ecclesiale "Giustizia e Pace", ottobre 1991, n. 5).
5. Ogni nostro sforzo
autentico nelle direzioni sopra indicate, è consapevole del fatto che la forza
del peccato e dell'ingiustizia è sempre all'opera e contrasta continuamente gli
ideali di bene. Non aspettiamo dunque, quale oggetto della speranza teologale,
il momento in cui le forze del male saranno definitivamente vinte sulla terra
(cf Mt 13,2430.36 43.47-50), e non va escluso che la malizia degli uomini possa
far precipitare la storia in una catastrofe del mondo umano e del suo ambiente.
Siamo perennemente in condizione di lotta e tuttavia abbiamo la certezza che la
forza dello Spirito non ci mancherà mai, che nessuno di coloro che invocheranno
con fede il nome del Signore soccomberà alla tentazione, che la Chiesa rimarrà
fino all'ultimo momento della prova rifugio sicuro per quanti si affideranno a
essa.
6. Sappiamo che le forze del
male e dell'ingiustizia non riusciranno a distruggere quanto è stato costruito
per grazia dello Spirito d'amore. Pur nei momenti più neri, come in quello
della morte di Gesù, l'amore e il perdono dei giusti vincono l'odio e
spalancano orizzonti di vita.
7. Le nostre speranze per
questa vita possono dunque rimanere in buona parte nascoste agli occhi della
storia e sono chiaramente percepibili solo agli occhi della fede e della
speranza. Chi ha questi occhi lotta con amore per la giustizia, per la pace,
per una più grande uguaglianza dell'umanità, per l'equilibrio della natura; si
impegna per "utopie realistiche" come la visione di una nuova umanità
proposta dall'insegnamento sociale della Chiesa; lavora per l'affermarsi pur
circoscritto dei valori del Regno, con la certezza che essi rimangono in
eterno; sono un'anticipazione di quella pienezza che, con fiducia e sicurezza,
attendiamo da Dio solo.
Su tale base è possibile
costruire un'etica realistica della speranza, e lo vedremo nel prossimo
capitolo.
[20] Jacques Maritain, in
una conversazione tenuta a Tolosa ai Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld
nel 1962, ha descritto con semplicità e profondità la misteriosa e tenera
relazione che unisce ciascuno di noi con i membri della Chiesa che ci hanno
preceduto nel regno eterno. Egli ricorda come coloro che stanno presso Dio non
cessano di interessarsi delle realtà per le quali si sono spesi nella vita
terrena e che ora contemplano nella luce di Dio. Con loro (genitori, parenti
amici santi protettori sacerdoti che ci hanno preceduto nel ministero) noi
possiamo entrare in conversazione, confidando ciò che ci sta a cuore e che anch'essi
ebbero a cuore, per cui lavorarono e soffrirono (8).
E la conversazione più
tenera e incessante deve svolgersi con la Vergine Maria, Regina del mondo,
Madre della Chiesa e di tutti gli uomini e soprattutto con Gesù Cristo,
redentore dell'umanità.
La preghiera è perciò
l'espressione prima e principale della vigilanza e della speranza cristiana.
Nessun programma pastorale sulla vigilanza avrà efficacia se non sarà macerato
nell'esperienza di preghiera che costituisce il banco quotidiano di prova e il forno
infuocato di purificazione della speranza. Chi prega costantemente e
intensamente, impara che cos'è la vigilanza e, anche nella prova, vede nascere
in lui la speranza che non delude (cf Rm 5,2-5). Se vogliamo allora giungere a
una percezione reale, non puramente nozionistica, di quanto ho spiegato nelle
pagine precedenti, dobbiamo ascoltare le esortazioni pressanti di Gesù e degli
Apostoli: "Bisogna pregare sempre senza mai stancarsi" (Lc 18,1);
"Vegliate e pregate per non entrare in tentazione" (Mt 26,41);
"Siate assidui nella preghiera: che essa vi mantenga vigilanti nel
rendimento di grazie" (Col 4,2).
[21] Dopo la riflessione
antropologica (c. I: Non ho tempo) e quella teologica (c. II: Sto alla porta:
Dio ha tempo per l'uomo), passo alla riflessione etica: che cosa significa
vivere il tempo presente con la speranza nel Signore che viene? in che maniera
lo sguardo rivolto all'eternità dà sostanza e vigore agli atteggiamenti e alle
scelte che l'uomo compie nell'oggi?
La risposta si articolerà in
diversi momenti.
Anzitutto parlerò
dell'esigenza decisiva, primaria che deriva dallo sguardo rivolto verso il
futuro di Dio, cioè del discernimento: la capacità di distinguere le cose
essenziali dalle accessorie, le ultime dalle penultime, le cose che passano da
quelle che restano. Non per deprezzare i beni accessori, né i penultimi né
quelli che passano, bensì per avere un criterio di valore che permetta di
accoglierli e viverli nella loro pienezza relativa, nella loro bellezza vera,
nella loro bontà autentica.
Ci chiederemo poi qual è
l'atteggiamento spirituale permanente che caratterizza e sostiene la capacità
di leggere le cose penultime alla luce delle ultime: è una spiritualità
connotata dalla gioia di una trepida attesa del Regno - "e non mi pesa/la lunga
attesa" (9) -, una spiritualità delle beatitudini, a cui ci si dispone con
un sano esercizio ascetico.
Quindi esamineremo alcune
grandi sfide culturali e civili del vigilare oggi nelle quali coniugare la
fedeltà al presente con la fedeltà al mondo che deve venire.
Infine ci interrogheremo
sulla Chiesa luogo per eccellenza in cui si attende la venuta del Signore; in
che maniera la vigilanza incide sulla vita del popolo di Dio ed è stimolo a una
continua conversione e riforma?
[22] Vivere nell'attesa del
ritorno del Signore non è fuga dalla storia; è vivere ancora più pienamente la
storia nell'orizzonte del suo destino ultimo.
L'atteggiamento evangelico
della vigilanza fonda così un'etica del discernimento: chi attende il Signore
si sa chiamato a vivere responsabilmente ogni atto alla presenza del suo Dio, e
comprende che il valore supremo di ogni scelta morale sta nello sforzo di
piacere a Dio e di santificare il suo Nome compiendo la sua volontà.
Dio, quale orizzonte ultimo
e patria vera, diviene il criterio della decisione morale; il discernimento di
ciò che è penultimo rispetto a ciò che è ultimo e definitivo si offre come la
forma concreta in cui si esercita la responsabilità etica.
Guardando al mistero
pasquale come statuto della vigilanza cristiana, si potrebbe dire che, sotto il
profilo morale, la speranza della risurrezione è la morte e risurrezione delle
speranze umane: essa dimostra la miopia di tutto ciò che è meno di Dio e al
tempo stesso fonda il valore di ogni gesto di amore autentico. In questa luce,
i temi decisivi del nascere e del morire si colorano del loro significato più
profondo: nascere è essere chiamati a un destino di eternità, che a nessuno è
lecito manipolare o pretendere di interrompere; morire è andare incontro al
compimento di tale destino, con tutta la dignità dell'esercizio della libertà
che ci è data, per piacere a Dio e santificarne il Nome nella gioia e nel
dolore, nella vita e nella morte (10).
[23] Chi, credendo alla
promessa di Dio rivelata nella Pasqua, attende il ritorno del Signore e si
sforza di vivere nell'orizzonte della speranza che non delude, sperimenta la
gioia di sapersi amato, avvolto e custodito dalla Trinità santa. Come le
vergini sagge della parabola (cf Mt 25,1-13), egli attende lo Sposo,
alimentando l'olio della speranza e della fede con il cibo solido della Parola,
del Pane di vita e dello Spirito santo che nella Parola e nel Pane si dona a
noi.
Vivere la spiritualità
dell'attesa è vivere la dimensione contemplativa nella profonda consapevolezza
dell'assoluto primato di Dio sulla vita e sulla storia. Perciò l'atteggiamento
spirituale della vigilanza è un continuo riferire al Signore che viene la
propria vita e la vicenda umana, nella luce della fede che ci fa camminare da
pellegrini verso la patria (cf Eb 11) e ci permette di orientare a essa ogni
nostro atto.
Il totale orientamento del
cuore a Dio colma la persona della letizia e della pace proprie di chi vive le
beatitudini (cf Mt 5,1-11, Lc 6,20-23). Essa non sperimenta naturalmente la
beatitudine di chi si sente arrivato, bensì quella umile e fiduciosa di chi,
nella povertà e nella sofferenza, nella mitezza e nella sete di giustizia,
nella custodia del cuore e nel costruire rapporti di pace, si sa sostenuto
dall'amore del Signore che è venuto, viene e tornerà nell'ultimo giorno.
La spiritualità dell'attesa
esige quindi povertà di cuore per essere aperti alle sorprese di Dio, ascolto
perseverante della sua Parola e del suo Silenzio per lasciarsi guidare da lui
docilità e solidarietà con i compagni di viaggio e i testimoni della fede, che
Dio ci affianca nel cammino verso la mèta promessa. La vigilanza nutre il senso
della Chiesa, nella compagnia della fede e della speranza con quanti camminano
con noi verso la celeste Gerusalemme.
[24] "Siate temperanti
e vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro,
cercando chi divorare" (1 Pt 5,8-9). La Liturgia delle Ore ci fa leggere
ogni martedì nella Compieta questa ammonizione che ci introduce nell'aspetto
ascetico della vigilanza.
Vogliamo comprenderla a
partire dal "disordine" espresso dall'affermazione "Non ho
tempo". Non ho tempo di pensare al "tempo" di Dio perché il
tempo è "mio", come mia è la vita, la natura, le cose, il denaro, Dio
stesso; tutto è mio! Io sono il padrone e tutto uso e consumo a mio piacere. Se
Dio non serve a esaudire la mia voglia di benessere, a soddisfare le mie
esigenze, a compiere i miracoli che mi procurano successo, carriera, prestigio
e potere, quale senso ha il suo esistere? non ho tempo di pensare ad altro che
a farmi il "mio" regno, perché chi mi garantisce che ci sia il
cosiddetto regno di Dio, per raggiungere il quale dovrei dedicare tempo e
vigilanza?
Tali domande ispirano la
cultura e il comportamento della società secolaristica che ha relegato Dio tra
le cose da usare: sono domande e pensieri che si possono ben qualificare come
"seduzioni di satana". Nel Rito delle promesse battesimali che si
rinnovano ogni anno nella Veglia Pasquale è posta la domanda: "Rinunci a
satana, alle sue opere e alle sue seduzioni?". Se la vigilanza cristiana
mira a preparare giorno dopo giorno l'incontro con il Signore che viene, esige
pure una saggia attenzione a quanto può distoglierci da questo ideale, in
particolare alle "seduzioni", che, più insidiose delle comuni tentazioni,
sono come forti attrazioni che nascondono l'inganno.
Esse si possono ricondurre
all'istinto del godimento, del possesso, del prestigio e del potere (cf 1 Gv
2,16), strettamente connessi tra loro e interdipendenti (cf 1 Gv 2,16; cf anche
Mt 4,1-11; Mc 1, 12-13; Lc 4,1-13). Il godimento, ricercato come fine in se
stesso e senza alcuna regola fuorché quella di godere il più possibile; la
ricchezza, avidamente accumulata, posseduta e goduta; l'ambizione e la
superbia, sempre a caccia di consenso, di prestigio e di successo, quali
premesse per garantire il potere di asservire altri e manipolarli a mio uso e
consumo. Questi atteggiamenti culturali e comportamentali non sono estranei
neppure a una certa pratica religiosa, alle devozioni e alle oblazioni: si può,
infatti agire come se Dio, la Madonna e i Santi esistessero per soddisfare le
nostre esigenze. Non si pensi che le attrazioni siano tipiche di alcune
categorie di persone, poiché ciascuno di noi vi è esposto.
Siamo chiamati a vigilare
per dominarle, in modo che, liberi della libertà dei figli di Dio, possiamo
scegliere di dare tempo a Lui che ci dedica il suo eterno tempo per realizzare
la nostra vita secondo il suo progetto e compierla nell'incontro con Gesù, il
Signore.
La vigilanza si attua nelle
diverse forme di rinuncia, sia a ciò che è illecito, sia - con la dovuta
discrezione - a qualcosa che di per sé sarebbe lecito. E' utile abituarsi a
piccole rinunce al fumo, ai dolci, alle bibite, alla televisione, a lunghe e
superficiali conversazioni telefoniche, a letture dispersive, a spese superflue
nel cibo e nell'abbigliamento, ecc. Una simile ascesi giova pure al sistema
nervoso, unifica la mente, aiuta il raccoglimento nella preghiera.
[25] Per quale motivo la
vigilanza, cioè la trepida attesa del Signore che viene, genera un'etica della
responsabilità rispetto alle cose di questa terra, in particolare rispetto ai
problemi e agli impegni della vita sociale e politica?
Perché la percezione che
l'Amore di Dio intimamente presente in ogni cosa, universalmente all'opera nel
creato e luminosamente trasparente in ogni valore è prossimo a manifestarsi
nella mia vita e nella storia, mi libera dalla paura di dispiacere e dall'ansia
di piacere agli altri, dall'ossessione del loro plauso, dal miraggio di un
successo mondano fatto di potere o di denaro. Si attua nel mio cuore una
libertà rispetto al godimento delle cose di quaggiù che viene dall'anticipata
presenza, nella speranza e nell'attesa, del godimento pieno e definitivo della
bontà e bellezza di Dio.
Il nuovo slancio dato alla
vita mediante lo sguardo rivolto all'eternità scioglie dagli impacci delle
convenzioni permette uno sguardo e un agire libero rispetto ai beni, alle
istituzioni, allo stesso consenso sociale. E chi ha responsabilità politiche
non sarà schiavo del consenso sociale, bensì un "ministro", cioè un
saggio servitore, preoccupato del bene di tutti.
La vigilanza nell'attesa del
futuro affranca, infatti, il cuore dalla servitù del presente (del successo,
del danaro, della fama) e permette di vivere l'oggi con rispetto verso l'altro.
E una mentalità, prima ancora che una serie di comportamenti concreti; è un
atteggiamento di responsabilità e di attenzione per la cura della cosa
pubblica. C'è da chiedersi in che modo un abituale disinteresse per il bene comune
scoraggi i cittadini e i responsabili della cosa pubblica. Ci si può pure
domandare come sia possibile sottrarsi alla deriva dell'interesse egoistico e
della faziosità - che inducono a disgregazione nel tessuto politico e sociale -
quando la formazione del consenso è sistematicamente perseguita attraverso la
vischiosità di legami clientelari o pressioni di carattere corporativo.
Ci troveremmo oggi così
amareggiati e indignati per tante situazioni incresciose che offuscano la
nostra vita politica e amministrativa, se fossimo stati un pò più vigili, se
avessimo alzato lo sguardo, allargando gli orizzonti oltre le comodità o
l'interesse immediato? Ciascuno è chiamato a interrogarsi, a mettersi in
discussione, a chiedere conto a se stesso delle proprie eventuali
responsabilità, non solo attive, ma pure di omissione o di semplice
distrazione. Vediamo qualche esempio.
[26] Anzitutto all'interno
dei partiti. Penso agli onesti, trasparenti e specchiati nella loro vita e,
tuttavia, disancorati dalla realtà. Penso a un'altra categoria di onesti, che
pur non commettendo nulla di illecito, non si domandano mai come può mantenersi
il loro partito o la corrente. Infine, vado con la mente agli onesti che
voltano la testa dall'altra parte quando accade qualcosa, quasi la vicenda
della gestione pratica della politica non li riguardasse. E che dire poi di chi
ha i numeri per farsi avanti e partecipare, eppure si defila per paura di
"sporcarsi le mani" rifiutando responsabilità pubbliche?
Il discorso vale egualmente
per i dirigenti pubblici e per la burocrazia. Chi lavora per lo Stato, gli Enti
locali, i servizi sanitari e sociali, riceve spesso pochi incentivi, compensi
bassi per prestazioni non sempre qualificate, con scarsi controlli. Vigilare
significa però cambiare rotta anche nei confronti del pubblico, impegnarsi
perché lo Stato riempia di qualità le strutture dequalificate. Non è morale
regalare interi settori all'inefficienza. Una burocrazia più responsabilizzata
e professionalmente considerata rappresenta il primo occhio vigile nei
confronti dei politici che puntassero a utilizzare e a sfruttare il pubblico.
Sono convinto che una ripresa morale è possibile solo se parte da tutti e se
coinvolge ciascuno.
Nel vigilare sono coinvolti
pure i mezzi di comunicazione sociale, i giornali, i servizi informativi delle
reti radiotelevisive. Ho già parlato, lo scorso anno, ne Il lembo del mantello,
della responsabilità dei giornalisti in rapporto alla vita politica (cf pp.
45-47). Oggi mi chiedo, dopo gli scandali delle tangenti, quale sia la parte
che tocca all'informazione. Non mi riferisco all'emergenza, quando scoppiano
cioè i "casi giudiziari" ed è facile calcare la mano e i toni, bensì
al momento in cui i grandi riflettori sono spenti mentre sarebbe necessario
tenere accesa la piccola lucerna della coscienza critica. In proposito si
rivela fondamentale un'educazione permanente all'uso critico e responsabile dei
media.
Vigile deve essere la
galassia rappresentata dal mondo associativo, dalle organizzazioni culturali,
dai promotori di convegni, tavole rotonde, ricerche sofisticate. Fare cultura
non è limitarsi a un'operazione di documentazione o di commento; ogni
iniziativa dovrebbe essere animata da forte senso dei valori, prospettive di
ampio respiro, senso profondo della dignità dell'uomo e della sua trascendenza.
Il vigilare sul civile,
infine, coinvolge in prima persona la Chiesa. L'episcopato si è espresso più
volte su questi temi, fino al forte documento, del novembre 1991, della
Commissione nazionale "Iustitia et Pax" sulla legalità; letto alla
luce dei più recenti avvenimenti, è un testo davvero profetico. Tuttavia il
vigilare non deve essere prevalentemente lasciato alle alte espressioni della
gerarchia; deve farsi prassi quotidiana delle parrocchie, dei gruppi dei
movimenti. E' una tensione che non può in alcun modo subire allentamenti o
scendere a compromessi.
Nel vigilare assume
particolare rilievo l'ampia gamma dei servizi alla persona, attinenti le
povertà invisibili o "sommerse", cosiddette da "quarto
mondo". Il fenomeno è presente ormai in quasi tutti i paesi europei dove
alcune categorie di persone, oltre a vivere in condizioni di gravissimo disagio
fisico e psichico, hanno perso la legittimazione di "soggetti di
diritto" perché non sono garantite da protezione giuridica e sociale.
Ricordo a modo esemplificativo:
- "senza tetto" o
"barboni";
- immigrati e nomadi,
soprattutto clandestini;
- malati mentali, la cui
sofferenza psichica non è riconducibile ai canoni classici dell'intervento
clinico o terapeutico;
- anziani non
autosufficienti e/o cronici per i quali spesso non è garantito neppure il
diritto alla tutela della salute e alla dignità della vita quotidiana;
- tossicodipendenti con
patologie comportamentali o psichiatriche;
- malati di AIDS,
soprattutto in fase avanzata, isolati e abbandonati.
Queste povertà, insieme alle
più tradizionali, evidenziano un denominatore comune: la mancanza di
"relazionalità". Per esse invochiamo una prossimità del tutto nuova,
che non chiede moltiplicazione ripetitiva di servizi tradizionali, ma evoca un
"prendersi cura" non delegabile e che solo un attento vigilare può
suscitare.
[27] Oggi si prospetta una
grande sfida da cui dipendono le sorti prossime venture del nostro Paese. E'
necessario creare una cultura della vigilanza, capace di contrastare la cultura
della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della
depressione, della rivalsa, dell'autoconsolazione, della chiusura in se stessi
a doppia mandata.
L'interrogativo che ci deve
in qualche modo mobilitare può essere formulato così: come recuperare una
pedagogia della vigilanza diffusa? E' stato detto negli anni scorsi che
bisognava passare da una stagione dei diritti a una dei doveri; ora è il
momento delle responsabilità. Ciò significa, per esempio, sotto l'aspetto
civile che ci interessa, rendersi attivi, non aspettando che lo Stato o gli
altri si muovano, informandosi e facendo valere ragionevolmente le proprie
istanze.
Due anni fa, per esempio, è
stata promulgata una Legge (n. 241/1990) che forse pochi conoscono e ancor meno
mettono in pratica. Eppure si tratta, dopo tante parole, di una vera, pur se
piccola, rivoluzione: essa stabilisce le "nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi". Gli uffici pubblici non dovrebbero essere più luoghi
verso cui nutrire riverenza o paura, oppure centri di potere da cui ottenere
favori. Ovviamente la libertà costa fatica e va quotidianamente conquistata.
La stagione delle
responsabilità coinvolge ancor più direttamente le cosiddette nuove
soggettualità sociali (cf Centesimus annus, n. 49); accanto alla citata Legge
sul procedimento amministrativo, abbiamo la normativa sulle autonomie locali
(Legge 142/1990), che offre ampie possibilità, con Statuti e Regolamenti, di partecipazione
della gente di un territorio alla vita e al bene comune; pure il volontariato
(con la Legge 266/1991) e le cooperative sociali (con la Legge 381/1991) sono
oggi riconosciuti quali nuovi soggetti sociali, dotati di autonomia statutaria
e funzionale, di specificità e originalità nell'intervento. Le leggi
riconoscono e valorizzano il ruolo fondativo e insostituibile di promozione, di
attuazione e di gestione del bene comune. E' compito della vigilanza il
sollecito impulso perché questi spazi (oltre quelli tradizionali dello Stato e
del mercato) non restino deserti; essi più che altri possono descrivere e
ridescrivere una convivenza fraterna, non condominiale, fondata non solo e non
tanto sull'essere soci quanto e soprattutto sull'essere "prossimi".
Le nostre Scuole diocesane
di formazione all'impegno sociopolitico diventino sempre di più un'attuazione
pratica di pedagogia della vigilanza.
[28] Se una persona è
"vigile" sente scattare dentro di sé l'esigenza etica. Ciò vale in
particolare per l'etica professionale. Se vogliamo riqualificare le professioni
alla luce del vigilare, dobbiamo recuperare il valore profondo del termine
"professione". In ambito religioso si dice "professare" in
riferimento alla fede, per significare la testimonianza pubblica del proprio
credo in Gesù. Attualmente il termine è assunto quasi esclusivamente
nell'accezione laica; professione è lavoro, mestiere, compito sociale. La
radice della parola resta però sempre la stessa - profiteri - e lo sfondo
autentico sono i valori indicati nel capitolo II Dio ha tempo per l'uomo. La
riscoperta della radice della professione può promuovere un modo efficace di
avere cura del bene comune.
L'inversione di tendenza
rispetto al clima pesante di lamentele e di rassegnazione, di protesta e di
rabbia, è tornare a compiere bene il proprio mestiere, recuperando il rapporto
di senso tra attitudini preparazione e utilità sociale di quanto una persona
fa, ritrovando l'orizzonte in cui l'utilità sociale si misura anzitutto
rispetto a un bene comune solido e duraturo. L'istanza etica è individuale e
soggettiva, ma risponde a un ethos collettivo. Le categorie, le associazioni
gli Ordini professionali, devono "ridirsi" e "ridisegnarsi"
rispetto a un ethos collettivo che corrisponda a un progetto di uomo e di
umanità autentici, in cui i propri associati riscoprano collocazione e
significato del lavoro. Diversamente è improduttivo lamentarsi perché, essendo
impotenti di fronte a un sistema che non si condivide e ci sovrasta, restiamo
fermi alle difese corporative.
Perché un imprenditore deve
ribellarsi alla richiesta di pagare una tangente? perché un giornalista deve
affrancarsi dal conformismo? perché un infermiere deve trattare bene i pazienti
scomodi e noiosi? perché questi e altri atteggiamenti devono essere la regola,
non "eroismo" di singolo? La risposta è semplice: perché il lavoro è
testimonianza di una chiamata, è la "professione" pubblica della
funzione di crescita collettiva che ha come sfondo una visione di umanità e di
futuro capace di far sprigionare energie morali imprevedibili.
Non dobbiamo dimenticare che
la professionalità è ciò che ci può accomunare al resto dell'Europa, al di là
di molta retorica spesa in questi ultimi tempi in cui si sta approssimando
l'unità continentale. E' difficile far sparire d'incanto luoghi comuni e realtà
concrete, uniti nella fama di scarsa credibilità internazionale del nostro
Paese; tuttavia è possibile ritrovarsi sulla professionalità all'Ovest e
all'Est, al Nord e al Sud.
Non vorrei infine
dimenticare altri due aspetti del vigilare: quello familiare e quello della
scuola. Sono aspetti diversi perché diversi sono gli ambiti eppure numerose
complementarietà interessano il difficile mestiere di essere genitori o di
stare dietro una cattedra a insegnare. Al riguardo richiamo quanto è stato
proposto nel triennio pastorale educare (1987 1990) e confido che nella
preparazione del Sinodo diocesano i singoli argomenti verranno ripresi
adeguatamente, quali implicazioni più immediate e quotidiane del vigilare.
La prossima Giornata
diocesana delle Scuole cattoliche (25 ottobre 1992) ci richiamerà alcuni di
questi impegni.
[29] "Conferma, o
Padre, nella fede e nell'amore, la tua Chiesa, pellegrina sulla terra".
Così recita la Preghiera eucaristica m, riferendosi alla realtà "pellegrinante"
della Chiesa in cammino verso il regno di Dio.
La vigilanza è virtù tipica
del pellegrino: attenzione alla scelta del cammino, cura di non attardarsi,
prontezza nel riprendersi dopo le soste, sguardo interiore teso verso la mèta.
La Lettera agli Ebrei, nel capitolo 11, passa in rassegna i grandi pellegrini
dell'Invisibile, da Abele a Enoch a Noè, ad Abramo che "obbedì partendo
per un luogo che doveva ricevere in eredità" (v. 8), a Mosè che "per
fede lasciò l'Egitto, senza temere l'ira del re; rimase infatti saldo, come se
vedesse l'invisibile" (v. 25).
La Chiesa è l'insieme di
tutti questi pellegrini e deve caratterizzarsi per le virtù di scioltezza, di
distacco, di prontezza a riprendersi, a convertirsi a riformarsi che sono
proprie di un pellegrino. "Carissimi io vi esorto come stranieri e
pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra
all'anima", dice Pietro (1 Pt 2,11) ricordando le conseguenze ascetiche
del sapersi in cammino verso la patria.
L'atteggiamento di interiore
ed esteriore costante conversione e riforma non significa disprezzo verso le
forme tradizionali del costume ecclesiastico e quelle popolari e semplici della
vita dei fedeli. Riforma non significa contrapposizione tra chi la propugna e
chi la subisce, tra chi si atteggia a riformatore e la persona o l'istituzione
che si pensa debba essere riformata. E' invece consonanza degli uni e degli
altri nel desiderare l'unico Signore: "Lo Spirito e la Sposa dicono:
vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!" (Ap 21,17). Il grido di tutti è
l'anelito comune in cui ci aiutiamo, ci riconosciamo viandanti deboli e
peccatori pieni di nostalgia del volto del Signore, desiderosi di tendere a lui
con più purezza e verità. Se ciascuno di noi entrerà nei sentimenti del
pellegrino cristiano, di colui che veglia nell'attesa dello Sposo, sarà più
facile e più lieto il compito di camminare insieme nella continua conversione e
nella gioia.
Per vivere tali
atteggiamenti nulla è più efficace della liturgia. Essa, soprattutto nella
celebrazione eucaristica, è continuamente percorsa da aperture escatologiche,
stimoli a guardare verso la patria celeste, desideri di eternità. Pregando con
attenzione e devozione (e con le dovute pause!) e meditando i testi liturgici,
ci metteremo nel giusto atteggiamento dei pellegrini che riprendono ogni giorno
il cammino verso la mèta. La dimensione dell'attesa vigilante, del resto, è
iscritta nella natura stessa della liturgia: "Ogni rito vive di memoria e
si alimenta di speranza, annuncio dell'evento da cui è scaturita la salvezza e
profezia che ne anticipa il compimento... Mentre attende e prega, la Chiesa sa
che la sua attesa non andrà delusa, e che la sua preghiera non rimarrà senza
esito" (11).
[30] Il quarto e ultimo
capitolo vuole offrire qualche conclusione pratica, derivata dalle precedenti
riflessioni, per la vita delle nostre comunità.
Si tratta di una parte
applicativa che intende aiutare le Parrocchie, i gruppi, le comunità, le
diverse istituzioni ecclesiali, a individuare alcune linee operative, tra le
molte possibili, per calare nella quotidianità i grandi temi evocati a
proposito della speranza cristiana, delle "cose ultime", del
vigilare.
Le applicazioni pratiche non
sono però che piccoli segnali di un'importante intuizione di fondo che deve
permeare la nostra vita: camminiamo verso un futuro certo, grande, che è al di
là di quanto vediamo o immaginiamo, un futuro che è Dio stesso, è Gesù risorto
nella pienezza del suo Corpo, è il Regno, è la Gerusalemme celeste. Tale
visione - impressa nel cuore dalla virtù teologale della speranza, contemplata
e desiderata con ardore e fiducia - costituisce la sostanza di ciò che ho detto
precedentemente e il punto di riferimento su cui verificare ogni nostro
pensiero, intendimento e azione pastorale.
Tra le indicazione pratiche,
mi preme sottolineare tre adempimenti.
Il primo è una rilettura dei
programmi pastorali dal 1980 a oggi. Alla luce del vigilare e della vita eterna
essi possono essere meglio compresi nel loro specifico messaggio, nel loro
rapporto organico e nella loro permanente validità.
Il secondo è l'attenzione da
porre ad alcuni "segnali" provvidenziali che nella nostra Chiesa ci
esortano alla vigilanza e ci aiutano a "restare svegli" nell'attesa
del Signore che viene.
Il terzo è costituito da una
serie di appuntamenti nei quali sarà possibile, durante il corso dell'anno
pastorale 1992-1993, tenere vigile la nostra mente e il nostro cuore rispetto
alle "cose ultime".
[31] Sfogliando l'indice
analitico che accompagna la raccolta dei programmi pastorali pubblicata in
occasione del mio primo decennio di episcopato a Milano (12), non ho trovato
tra le numerose voci il termine "vigilare" e nemmeno qualche
sinonimo. Quello della vigilanza sarebbe dunque un tema nuovo nel nostro
cammino pastorale?
Penso proprio di no! Si può
ritrovare nel cammino di questi anni il filo rosso della speranza teologale che
stimola il nostro vegliare nell'attesa del Signore. Lo vedremo rifacendoci alle
parole dell'Apocalisse: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta
la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con
me" (Ap 3,20), rivolte alla comunità di Laodicea, che vive una fase di
stanchezza perché ritiene acquisita una volta per sempre la fede. E' una
comunità che si sta adagiando sul benessere materiale, nel mito della
produzione, nella smania per le comodità. Proprio per questo le viene rivolto
l'appello tenero e pressante del Signore. Lo stesso viene rivolto con forza
alla nostra comunità di Milano in questa fine del XX secolo.
[32] Sto alla porta esprime
plasticamente una dimensione della vita cristiana che è stata decisiva nel
nostro cammino pastorale: la dimensione contemplativa della vita. Prima di ogni
altra parola o gesto, prima ancora della nostra vigile attesa, c'è Colui che
viene costantemente dentro la trama dei giorni e che il credente attende con
cuore vigile e in atteggiamento contemplativo.
Fin dalla prima Lettera
pastorale (del 1980), avevo chiesto a tutti di riconoscere con stupore adorante
il primato di Dio. Proponendo alla nostra Chiesa ambrosiana e alla nostra
gente, così giustamente fiera delle sue realizzazioni e tesa nei suoi impegni
produttivi, la riscoperta dell'atteggiamento contemplativo, mi premeva,
all'inizio del mio episcopato, affermare quell' "Io sono il Signore Dio
tuo" che sta al principio della nostra esperienza religiosa. Come è
richiesto al pio israelita, esortavo i fedeli a ripetere l'antica acclamazione:
"Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno
solo..." (Dt 6,4ss).
Ma chi riconosce il primato
di Dio non può non essere vigilante. Oggi, dopo i cinque programmi pastorali
1980-1987 e dopo gli anni dedicati all'educare (1987-1990) e al comunicare
(1990-1992), ci volgiamo al vigilare, non certo per il gusto di cambiare
pagina, bensì per ritornare allo stile contemplativo da cui eravamo partiti.
Stile contemplativo e vigilanza sono accomunati dal silenzio, poiché solo nel
silenzio ci si può accorgere di Colui che sta alla porta e bussa. Scrivevo
infatti nella mia prima Lettera: "L'uomo nuovo, come il Signore Gesù che
all'alba saliva solitario sulle cime dei monti (cf Mc 1,3; Lc 4,42; 6,12,
9,28), aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono
alienante, dove sia possibile tendere l'orecchio e percepire qualcosa della
festa eterna e della voce del Padre. Ciascuno di noi è esteriormente aggredito
da orde di parole, di suoni di clamori, che assordano il nostro giorno e
perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio
mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde" (La dimensione
contemplativa della vita, p. 21).
Anche Martin Heidegger, il
grande filosofo contemporaneo, ha indicato il silenzio come condizione
essenziale dell'ascolto e quindi della vigilanza: "Nel corso di una
conversazione, chi tace può 'far capire', cioè promuovere la comprensione più
autenticamente di chi non finisce mai di parlare... Tacere non significa però
essere muto... Solo il vero discorso rende possibile il silenzio autentico. Per
poter tacere l'uomo deve avere qualcosa da dire, deve cioè poter contare su una
apertura di se stesso ampia e autentica. In tal caso, il silenzio rivela e
mette a tacere la 'chiacchiera"' (13). E, sempre nella dimensione
contemplativa della vita, ricordavo una significativa espressione di Clemente
Rebora riguardante la sua conversione: "La Parola zittì chiacchiere
mie" (p. 20).
[33] Vigilare, per il
credente, non è semplice attesa di eventi magari catastrofici: è attesa di
Qualcuno. Vigilano le dieci vergini in attesa dello Sposo (cf Mt 25,1-13);
vigilano i servi in attesa del padrone e per sventare l'arrivo del ladro (cf Lc
12,27-39); vigila l'amico con l'orecchio teso a cogliere il segno di colui che
sta alla porta e bussa (cf Lc 11,5-8, Ap 3,20). Vigiliamo perché la nostra vita
attende il Signore, perché Dio ha riempito con la sua parola il vuoto che ci
spaventa e che tentiamo di colmare mediante il rumore. "In Gesù Dio non
solo ha comunicato con l'uomo, ma si è comunicato. Dio non solo è presente in
lui, ma è una cosa sola con lui. Egli dunque è la parola piena e
definitiva" (In principio la Parola, p. 64).
Negli anni scorsi ci siamo
lasciati continuamente ispirare, partendo dalla seconda Lettera pastorale (del
1981) dalla forte affermazione del Concilio Vaticano II: "L'ignoranza
delle Scritture è ignoranza di Cristo. I fedeli devono accostarsi volentieri al
sacro testo, sia per mezzo della sacra Liturgia ricca di parole divine, sia
mediante la pia lettura... ricordandosi però che la lettura della Sacra
Scrittura deve essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il
colloquio tra Dio e l'uomo, poiché quando preghiamo parliamo con lui, lo
ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini" (Dei Verbum, n. 25). Sono
sempre più persuaso che un'educazione all'ascolto del Maestro interiore passa per
l'esercizio della lectio divina, della meditazione orante sulla parola di Dio,
e non mi stancherò di ripetere che essa è uno degli strumenti principali con
cui Dio vuole salvare il nostro mondo occidentale dalla rovina morale che
incombe su di esso a causa dell'indifferenza e della paura a credere. La lectio
divina è l'antidoto che Dio propone ai nostri tempi per farci superare il
consumismo e il secolarismo, favorendo la crescita di quella interiorità senza
la quale il cristianesimo non supererà la sfida del terzo millennio.
Penso che nessun cristiano,
con un minimo di cultura e voglioso di compiere un serio cammino interiore,
giunga a dire di non avere tempo per leggere la Scrittura. Non lo avrà per
leggere il giornale, per vedere la televisione, per sorseggiare un aperitivo,
per seguire le competizioni sportive; tuttavia dovrà trovare il tempo per
dedicare alcuni minuti (inizialmente ne bastano dieci) alla lectio divina, la
sera prima di addormentarsi, la mattina prima di iniziare il lavoro, durante una
breve pausa a metà giornata. Assicurando questi tre momenti e collegandoli
l'uno all'altro con il filo rosso della memoria orante del Vangelo del giorno o
della domenica successiva, scopriremo quanto sono importanti per nutrire lo
spirito.
Lo scopo delle Scuole della
Parola - promosse in questi anni - è proprio quello di insegnare l'esercizio
della lectio divina, di insegnare a mettersi personalmente di fronte al testo
per pregare. Imparare a vivere della Parola, a stare nella Parola, significa
imparare a vivere con gioia, con gusto, con sorpresa l'incontro con la parola
di Dio scritta, che poi diventa incontro con Gesù che mi sta chiamando e al
quale cerco di rispondere.
Perciò le Scuole della
Parola, e ogni altra forma di lettura orante della Bibbia, sono un esercizio di
vigilanza, ascolto di Colui che bussa, apertura del cuore affinché possa
prendervi dimora.
[34] Ogni volta che i
discepoli, nell'Eucaristia, annunciano la morte e la risurrezione del Signore,
ne attendono il ritorno. Tale dimensione della celebrazione eucaristica non è
però viva nella coscienza cristiana, mentre prevalgono altri aspetti memoriale
della croce, convito fraterno, presenza viva del Risorto. Eppure nei testi
eucaristici del Nuovo Testamento la prospettiva escatologica è insistente:
"Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al
giorno in cui lo berrò di nuovo con voi nel regno del Padre mio" (Mt
26,30). E Paolo ricorda che "ogni volta che mangiate di questo pane e
bevete di questo calice voi annunciate la morte del Signore finché egli
venga" (1 Cor 12,26).
Nella Lettera Attirerò tutti
a me (del 1982), l'Eucaristia, compresa come "centro della comunità e
della sua missione" (secondo il titolo del Congresso Eucaristico Nazionale
del 1983), ha suscitato nel nostro cammino pastorale un dinamismo missionario e
caritativo. Ora, l'appello evangelico alla vigilanza può aiutarci a fare della
celebrazione eucaristica il luogo decisivo di una comunità che non ha la sua
dimora definitiva sulla terra, ma si protende verso il Signore che viene.
Almeno due sono i tratti caratteristici di una Chiesa che vive l'Eucaristia
vigilando nell'attesa.
[35] a. Il primo è di essere
una Chiesa sempre più relativa a Gesù, rivolta unicamente a lui.
Suggestiva, in proposito,
l'immagine astronomica cui si riferivano antichi autori cristiani: il rapporto
tra Cristo e la Chiesa è analogo a quello tra il sole e la luna. La luna riceve
tutta la sua luce dal sole, la Chiesa ha da trasmettere solo la luce di Cristo.
E' Cristo la salvezza di tutti gli uomini e non a caso, nella celebrazione
eucaristica, alla proclamazione "Mistero della fede" noi rispondiamo
annunciando Cristo morto, risorto e atteso. La Chiesa è totalmente relativa a
Gesù, subalterna a lui. Nel cuore dell'Eucaristia, perciò, ogni parola, gesto,
progetto pastorale delle nostre comunità dovrebbe essere verificato alla luce
della domanda essenziale: come e in quale misura questa parola, gesto,
progetto, rinviano al Signore atteso?
[36] b. Il secondo tratto di
una Chiesa che celebra l'Eucaristia nell'attesa è di vivere la tensione tra
Chiesa e Regno: la Chiesa è inizio del Regno, non ancora pienezza. Dobbiamo
impegnarci dunque per una teologia della gloria e insieme della debolezza della
Chiesa.
La prima - quella della
gloria - è dominata dalla certezza che non viviamo in un tempo vuoto e
irrilevante: la Chiesa - abitata dallo Spirito di Gesù - è infatti segno,
primizia del Regno.
La seconda - quella della
debolezza - ci avverte che essa non è ancora del tutto compiuta, che è sempre
protesa al Regno. Da qui nasce il suo costante bisogno di riforma, di
conversione. Secondo le parole del Vaticano II, la Chiesa, pur essendo
"santa", è imperfetta, "bisognosa di purificazione", e per
questo "mai tralascia la penitenza", mai "cessa di rinnovare se
stessa" (Lumen gentium, n. 8).
Il cammino ecumenico verso
l'unità piena non può allora essere inteso quale semplice ritorno degli altri
alla Chiesa così come ora si presenta. Tale cammino comporta lo sforzo di
ciascuno per una conversione che renda più fedeli all'unico Signore e Maestro.
Perciò la stessa Chiesa cattolica, senza smarrire la certezza di essere come
"un sacramento o segno e strumento dell'intima unione con Dio", è
entrata irreversibilmente nel cammino ecumenico, come ripetutamente ha sottolineato
Giovanni Paolo II.
Una Chiesa vigilante,
plasmata dall'Eucaristia "viatico" fino al ritorno del Signore, è in
permanente stato di riforma, di purificazione e rinnovamento. Essa è ferita
dalle divisioni e dai peccati dei suoi membri (14); a eccezione di Maria, la
Chiesa porta sul volto "macchie e rughe" e i suoi figli si impegnano
a lottare contro il peccato e a rinnovarsi continuamente.
[37] Se lo stile di
'vigilanza' nei primi tre programmi pastorali si esprime soprattutto nella
forte apertura a Cristo e nell'orientamento a lui che ritorna, nei successivi
programmi si esprime per l'impegno a prendersi cura di quanto ci è stato
affidato.
Nelle parabole della
vigilanza, insieme - all'invito a stare desti rivolti al ritorno del Signore,
vi è quello di custodire la casa, di far fruttificare i talenti, di provvedere
di olio le lampade, di praticare le opere della misericordia, di prendersi cura
dei doni di Dio.
Il primo dono di cui
prendersi cura è la parola della fede da conservare e da trasmettere nella sua
integrità e nella sua forza. E' singolare come Paolo, avvicinandosi alla morte,
raccomandi con urgenza al discepolo il compito di custodire le "sane
parole" (2 Tm 1,13), "le parole che hai udito da me" e di
"trasmetterle a persone fidate" (2 Tm 2,2). Queste ultime esortazioni
dell'Apostolo, accorate e imperative ("custodisci, attingi forza,
ricordati, richiama alla memoria, guardati bene, rimani saldo, ti
scongiuro...": (cf 2 Tm 1,14, 2,1.8 14; 3,5.14, 4,1) valgono per tutti i
discepoli del Signore ai quali è affidato il buon deposito della fede, da
custodire e da trasmettere. L'impegno missionario, proposto in Partenza da
Emmaus (1983), trova qui la sua sorgente.
[38] Il frutto maturo della
vita cristiana è la carità. La Lettera Farsi prossimo (del 1984), conclusiva
dei primi cinque programmi, può essere oggi riletta alla luce del cammino della
Chiesa Italiana degli anni '90 Evangelizzazione e testimonianza della carità.
Ai cristiani è stato spesso
rivolto il rimprovero di avere gli occhi rivolti al cielo tanto da dimenticare
la terra e i suoi bisogni. L'accusa di alienazione ha purtroppo reso arduo il
dialogo tra Chiesa e mondo del lavoro. Appoggiandosi su Marx, si è ritenuto che
la religione, proprio in quanto orizzonte escatologico - tensione verso l'al di
là - fosse responsabile di non favorire la giustizia e la promozione umana
sulla terra. Così, in anni recenti, non pochi cristiani hanno voluto smentire
tale accusa di alienazione con un impegno radicale di liberazione. Qualcuno è
stato addirittura tentato di dimenticare le cose ultime ritenendo le penultime
(pane, casa, lavoro) talmente urgenti e importanti da dover anzitutto
provvedere a esse e solo in seguito alle altre.
La testimonianza evangelica
della carità deve essere un banco di prova decisivo della nostra scelta
preferenziale dei poveri e al tempo stesso della nostra fede. Tre strade mi
sembrano necessarie per vivere la carità senza cadere in forme alienanti e
senza smarrire l'eccedenza evangelica della carità.
a. Uno stile cristiano di
laicità
[39] E' importante operare
partendo da valori cristiani ma sforzandosi di arrivare a gesti che, senza
perdere nulla del mordente evangelico, raggiungano l'uomo in quei valori
profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli uomini.
Bisogna esprimere concretamente la carica di umanizzazione che si radica nella
fede in Cristo. Essa ha un'origine che non potremmo negare senza negare noi
stessi e senza farci vanto di ciò che non è nostro (cf 1 Cor 4,7); poiché è
puro dono di Dio, siamo chiamati a comunicarla a ogni uomo attraverso diversi
modi e diverse forme culturali.
b. La promozione delle
evidenze etiche a partire dalla fede
[40] Lo stile di laicità si
esprime mediante la promozione delle evidenze etiche, di valori di fondo su cui
basare un consenso di popolo per le grandi scelte di vita, di solidarietà, di
fraternità.
Quanto più la comunità
cristiana sarà in grado di esibire scelte e stili di vita coerenti con il
Vangelo, quindi carichi di forza aggregante e persuasiva sui problemi della
vita umana, tanto più sarà efficace la sua offerta di un servizio alla
ricostruzione della comunità sui temi etici. Senza di essi non disporremo di
riferimenti utili a impedire che i processi economici e le nuove forme di
potere, messe a disposizione del progresso scientifico, conducano a esiti
deleteri. In altri termini la centralità dell'etica comporta che il cuore sia
il luogo decisivo della libertà e del senso. Il cuore nuovo chiama in causa
valori universali presenti in tutti gli uomini: la coscienza, la libertà, la
ricerca, il dialogo, la responsabilità, ecc. La fede cristiana non annulla né
snatura tale patrimonio nativo, anzi lo nobilita e lo svela più pienamente;
diventa allora possibile uno scambio di riflessioni e di impegni con ogni persona
sinceramente desiderosa di verità, di giustizia, di fraternità.
c. La coscienza del "di
più" della carità
[41] Il discepolo del
Vangelo è pure chiamato a custodire la "differenza", ovvero a saper
manifestare l'eccedenza della carità evangelica, la sua forza escatologica e
non solo la sua dimensione storico-sociale.
Ricordo di aver detto, per
esempio, ai lavoratori di un'industria preoccupati per la grave crisi
occupazionale che il mio essere tra loro era in nome del Vangelo; non dunque
per offrire una soluzione immediata di problemi tecnici la cui impostazione
corretta spetta alle diverse realtà sociali implicate, bensì per essere voce
del Vangelo. Ci chiediamo: in quale modo si articola l'essere "voce del
Vangelo"?
Ho prima indicato la valenza
laica della carità cristiana, ma dobbiamo custodirne la forza e l'originalità.
Proprio perché viene dal mistero, la carità della Chiesa è in grado di
conferire ai programmi umani la direzione, l'orizzonte, la riserva di energie,
la contestazione critica quando sia necessaria. Affinché questo contributo non
appaia superficiale o astratto si richiede l'intelligente mediazione di
competenze e di abilità, tecniche e politiche, ordinate a plasmare le strutture
della società complessa, con la consapevolezza delle sue molteplici
interdipendenze. Sul piano istituzionale la differenza peculiare della fede si
traduce in una solidale partecipazione dei cristiani, e insieme in una
eccedenza di ideali di vita rispetto alla giustizia puramente legale, che è
indizio e anticipazione di rapporti umani eticamente più densi e aperti a un
orizzonte trascendente.
Negli anni della furia
nazista Dietrich Bonhoeffer, pastore evangelico incarcerato e ucciso per la sua
opposizione al regime, scriveva: "Solo chi grida per gli Ebrei ha il
diritto di cantare il gregoriano". Come a dire che, senza un impegno
coraggioso per la giustizia, anche il culto e la lode a Dio finiscono
nell'alienazione. La parola provocatoria di Bonhoeffer vale pure in senso
inverso: proprio perché il credente canta la sua lode a Dio, è libero ed è
capace di gridare in difesa dei più deboli.
Questa è la sfida della
vigilanza cristiana: una comunità in attesa del Signore, a lui rivolta notte e
giorno come sentinella, è una comunità così libera e povera da farsi voce dei
piccoli e dei poveri, voce della loro fame di pane e di giustizia, del loro
bisogno di una Parola che non passa.
[42] Nella medesima
prospettiva, cioè con la sottolineatura suggerita dallo stile della vigilanza,
è utile rileggere il triennio dedicato all'educare e il biennio del comunicare.
Il lavoro educativo e
comunicativo, quando sia compiuto con lo sguardo a Colui che deve venire, il
Signore, è al riparo dalla tentazione che genitori ed educatori conoscono bene:
la tentazione di non saper amare abbastanza la libertà dell'altro, al punto da
rendersi progressivamente inutili. Don Lorenzo Milani, che fu un esigente
educatore, scriveva che il fine ultimo di ogni lavoro educativo è crescere
figli più grandi di noi, così grandi che ci possano superare. Solo allora la
vita del maestro raggiunge il suo compimento e nel mondo c'è progresso.
Sono due le figure del Nuovo
Testamento, che esprimono meglio di altre questa qualità di un vero lavoro
educativo e comunicativo: Giovanni Battista e Maria di Nazaret, entrambi capaci
di rinviare all'unico Maestro. "Non sono io il Cristo, ma sono stato
mandato innanzi a lui... Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv
3,28-30); e l'ultima parola di Maria, trasmessaci dai vangeli, è quasi il suo
testamento: "Fate quello che lui vi dirà" (Gv 2,5).
Se le nostre comunità e, in
esse, gli educatori e i comunicatori guarderanno a Colui che viene, avranno un
cuore vigilante, sapranno sempre e solo rinviare alla sequela dell'unico
Signore. Non è forse vero che il compito educativo e comunicativo è a volte
compromesso da una concentrazione ossessiva sulla figura dell'educatore o del
comunicatore, sulle sue doti carismatiche, sulla sua leadership, sulla sua
capacità di suggestionare, inducendo fenomeni di mimetismo e di dipendenza? Ma
è stolto, dice un proverbio, chi si ferma a guardare il dito, invece di
guardare nella direzione indicata da esso.
Ho richiamato solo
brevemente gli ultimi programmi pastorali perché spero siano presenti nella
memoria. Affido comunque alle Scuole di Formazione per Operatori pastorali il
compito di far ripercorrere questi sentieri e di mostrarne la coerenza con il
messaggio della Scrittura, "perché l'uomo di Dio sia completo e ben
preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3,16).
[43] "Così dice il
Signore: fermatevi nelle strade e guardate, informatevi circa i sentieri del
passato, dove sta la strada buona e prendetela, così troverete pace per le
anime vostre" (Ger 6,16). La strada del vigilare non è nuova nella Chiesa;
è stata percorsa da coloro che il Signore ha fatto camminare prima di noi nelle
sue vie. Occorre perciò guardarci intorno e riconoscere i "segnali della
vigilanza", i paletti indicatori che sono stati posti sulle vie della
Chiesa perché si ricordi sempre di essere in cammino verso la pienezza del
Regno.
Vorrei ricordare alcuni di
questi segnali: la vita consacrata, i gesti e i tempi della gratuità, alcuni
momenti liturgici particolarmente significativi per il vigilare.
[44] I documenti dedicati al
programma sul vigilare dal Consiglio Pastorale Diocesano (sessione del 2829
marzo 1992) e dal Consiglio Presbiteriale (sessione del 18-19 aprile 1992)
ritengono indispensabile un riferimento alla vita di speciale consacrazione,
intesa come "splendido segno" delle realtà ultime.
La vigilanza-attesa, che
qualifica la vita cristiana, trova infatti un'espressione eminente e pubblica
nello stato di vita consacrata. Pur nella varietà delle attuazioni storiche e
nelle molteplicità delle motivazioni immediate, la consacrazione tramite la
professione dei consigli evangelici ha tra i suoi motivi fondamentali e più
profondi quello dell'attesa del Signore. In tale tensione la vita consacrata va
intesa come un atteggiamento emblematico dell'esistenza cristiana e quindi
comune a ogni stato di vita scelto "nel Signore". Nessuna forma di
vita cristiana, neppure la più impegnata nel temporale, può rinunciare a
esprimere l'attesa vigilante dell' "escatologico", così come nessuna
forma della vita cristiana per quanto "contemplativa" può sottrarsi
al vincolo della fraternità ecclesiale e a una qualche "operosa
condivisione" dell'umano bisogno di solidarietà.
Tuttavia lo stato di vita
consacrata, per la sua stessa struttura esteriore di audace rinuncia alla
famiglia, al possesso dei beni e a una carriera autonomamente costruita, è di
per sé un segno escatologico, un segno di ciò che sarà la vita eterna:
immersione nel dialogo d'amore trinitario, contemplazione estatica del volto di
Dio, godimento di una vita buona e felice con tutte le creature illuminate
dalla presenza del Signore. Secondo l'insegnamento del Vaticano II lo stato di
vita consacrata "rende più liberi dalle cure terrene coloro che lo
professano, meglio anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già
presenti in questo mondo, meglio testimonia la vita nuova ed eterna acquistata
con la redenzione di Cristo, e meglio preannuncia la futura risurrezione e la
gloria del Regno celeste" Lumen gentium, n. 44).
Coloro che coraggiosamente
abbracciano la vita consacrata devono incarnare la Chiesa in quanto pellegrina
e in quanto desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle Beatitudini;
ciascuno diventa segno profetico nella misura in cui con tutta la sua vita
proclama Colui che viene.
I consacrati sono pertanto
chiamati a vegliare sul dono della loro specifica vocazione, in totale
confidenza nel Signore e a favore di tutti.
E' provvidenziale che il
programma sul vigilare preceda immediatamente il tempo della preparazione e
della celebrazione del Sinodo dei Vescovi del 1994 sul tema La vita consacrata
e la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Mentre ringrazio i consacrati che
vivono nella Chiesa di Milano, negli Istituti religiosi o negli Istituti
secolari, nella contemplazione o nelle opere di carità, li invito a verificare
la loro impostazione di vita e a renderne sempre più chiara l'eccezionale
testimonianza davanti a tutto il popolo di Dio.
Non dovranno mancare, da
parte delle altre realtà diocesane, fraterna attenzione e sostegno sincero.
Auspico che si dia maggiore rilievo alla Giornata diocesana della Consacrazione
religiosa (2 febbraio) nelle Zone, nei decanati nelle parrocchie. Ricordo
inoltre che il 25 marzo di quest'anno mi sono rivolto, tramite Radio A, a tutte
le religiose della diocesi parlando del rapporto tra consacrazione e vigilanza
e additando l'esempio della Vergine dell'annunciazione. Perché Maria, che
riceve l'annuncio dell'Angelo, porta in sé tutta la speranza dei patriarchi e
dei profeti, tutta l'attesa del popolo, l'anelito e il desiderio del volto di
Dio espresso nei Salmi; il suo "sì" è il sigillo della sua speranza.
Ella dice la speranza della Chiesa, il desiderio vivo dell'umanità per la
venuta definitiva di Cristo, l'ansia dei cristiani di manifestare la gloria di
Dio, la sua verità, la sua giustizia, il suo Regno nel mondo. La speranza di
Maria è divenuta l'attesa amorosa e vigilante di tutte le persone che, sul suo
esempio, si consacrano totalmente al mistero dell'Amore. E concludevo con una
preghiera che voglio ripetere dedicandola non solo agli uomini e alle donne che
assumono i consigli evangelici della povertà, castità, obbedienza nelle diverse
forme riconosciute dalla Chiesa, bensì a tutti coloro che nel celibato per il
Regno professano il primato del mondo futuro:
"Vergine
dell'Annunciazione,
rendici, ti preghiamo, beati
nella speranza;
insegnaci la vigilanza del
cuore,
donaci l'amore premuroso
della sposa,
la perseveranza nell'attesa,
la fortezza nella croce.
Dilata il nostro spirito
perché nella trepidazione
dell'incontro definitivo
troviamo il coraggio di
rinunciare
al bene di una famiglia
nostra
per anticipare a noi e agli
altri
la tenera e intima
familiarità di Dio.
Ottienici, o Madre, la gioia
di gridare con tutta la
nostra vita
'Vieni, Signore Gesù',
vieni Signore che sei
risorto,
vieni nel tuo giorno senza
tramonto
per mostrarci finalmente
e per sempre il tuo
volto!".
[45] Il documento del
Consiglio Presbiteriale, dedicato al vigilare, ricordava che "l'esistenza
da vivere nella vigilanza è da vivere facendo fruttare i talenti ricevuti (Mt
25,14-30) e più precisamente e definitivamente nel riconoscere e accudire il
Signore nei suoi piccoli fratelli (Mt 25,31ss)".
I gesti della solidarietà
rappresentano perciò un frutto maturo del vigilare. Il tempo non è più soltanto
contrattuale, cioè scambiato con benefici equivalenti o con danaro, ma è
donato; è il tempo dell'incontro con il limite e con la sofferenza, il tempo
della pazienza e del mutuo aiuto, lo spazio in cui ci si confronta col volto
del fratello e della sorella più deboli senza difendersi dietro a ruoli già
previsti.
Oggi tuttavia il volontariato
esige anche una formazione specifica. Il mio aprirmi, uscire di casa, offrire
comprensione, servono se accetto di prepararmi al compito che vado a svolgere:
assistere un malato di AIDS, infatti, non è lo stesso che far giocare i bambini
all'oratorio o accudire un anziano infermo.
La formazione riguarda
anzitutto le "affinità elettive" tra il soggetto che si offre
volontario e il servizio per il quale si dà la propria disponibilità; non tutti
sono adatti a ogni tipo di volontariato. Bisognerà avere la pazienza necessaria
per riconoscere le proprie attitudini di carattere, le motivazioni, la capacità
di resistenza, la predisposizione al coinvolgimento. Il primo regalo vero dei
volontari è donarsi per ciò che si è realmente, non per solo entusiasmo o per quanto
si pensa di essere o di potere e voler dare. Il secondo regalo è l'umiltà
nell'accettare che chi è più esperto di noi ci indichi i compiti per i quali
dimostriamo maggiore idoneità.
Invito dunque le comunità
cristiane a dare importanza alla formazione di base e ad avvalersi delle
iniziative della Caritas diocesana, delle Caritas decanali e parrocchiali, di
cui auspico la sollecita costituzione là dove ancora non esistono. La Giornata
diocesana della Caritas (8 novembre 1992) ci darà modo di attualizzare queste
riflessioni.
C'è poi una pedagogia del
volontariato che parrocchie e decanati devono sviluppare; oltre alla conoscenza
delle tecniche di ascolto, approccio, accoglienza, aiuto, occorre una ricerca
mirata a collegare le prestazioni volontarie con la prospettiva di senso in cui
esse vanno inserite. Tale prospettiva è indicata nel capitolo II della Lettera,
dove si riflette sulla teologia del vigilare: la filantropia è dote importante,
però la carità è altra cosa; si radica nella fede e nella speranza nascendo da
Dio amore che ha tempo per l'uomo e rende significativo per il cristiano il
tempo gratuito.
L'ultima tappa della
formazione è relativa al settore in cui il volontario lavora misurandosi con i
problemi, con i soggetti, con le difficoltà esterne, ma pure con quelle che si
possono affacciare inopinatamente dentro di noi. Più alta si fa la sfida, più
complesse diventano le nostre reazioni: le frustrazioni, le depressioni, le
sconfitte, i sensi di impotenza che mai avremmo pensato di sperimentare. Penso
a coloro che si dedicano a seguire i malati di AIDS come alla metafora dello
spirito volontario e insieme delle energie richieste nella linea della speranza
teologale. Il malato di AIDS è inguaribile, almeno finora, e rappresenta quindi
un paradosso per la medicina, nata per curare e per guarire, e una provocazione
per il volontario che solitamente investe le sue energie nel desiderio di poter
cambiare la situazione.
In tale tipo di assistenza e
in molte altre (basti pensare ai malati mentali, anziani cronici,
tossicodipendenti che continuano a ricadere), la realtà oggettiva presente non
può essere cambiata. L'eventuale mutamento avviene soltanto a livello del
cuore, subendo spesso uno smacco sul piano dei risultati concreti, accettando
il proprio limite e affidandosi alla pienezza di vita che Dio darà nel suo
regno ai poveri (cf Lc 6,20).
[46] La scelta della Chiesa
di iniziare l'anno liturgico con il tempo di Avvento nasce da una sapienza
pedagogica antica e profonda. L'iniziativa di Dio di visitare il suo popolo e
di porre tra noi la sua dimora, chiede al discepolo un cuore preparato e
vigilante; lungo le sei settimane che, secondo la tradizione della Chiesa
ambrosiana, preparano il Natale, la liturgia offre sentieri suggestivi per
educarci ad attendere il Signore e ad accoglierlo nella gioia.
Suggerisco che si utilizzi
il tempo di Avvento 1992 e la spiegazione delle letture delle messe domenicali
per sottolineare il tema della vigilanza nell'attesa del Signore.
Ma il momento più
significativo della liturgia nel quale veniamo educati alla vigilanza è
indubbiamente la Veglia Pasquale. Il Consiglio Pastorale Diocesano ha in
proposito approvato una mozione che dice, tra l'altro: "E' necessario che
il piano pastorale sottolinei il senso e il valore della Veglia Pasquale, madre
di tutte le veglie e che su questo paradigma la comunità cristiana manifesti,
nella partecipazione autentica ai sacri misteri, l'attesa del Signore che
viene". Il documento del Consiglio Presbiteriale aggiunge che occorre
ricuperare il senso sia della Veglia Pasquale sia delle varie
"vigilie" celebrate nella liturgia. Esso non può certamente essere
quello di istituire e celebrare un'attesa dissociata da quella insita nella
stessa vita cristiana, bensì di sostenere e di esprimere efficacemente tale
attesa.
Si celebri dunque la Veglia
Pasquale come il segno di un'intera comunità che vigila e attende, scegliendo
bene l'orario, favorendo un intenso clima di preghiera, vivendo la tensione
verso Cristo Signore così come è scandita dai grandi simboli cristologici che
stanno al centro delle quattro parti di cui si compone (luce, Parola, acqua,
pane e vino). E' il centro e la fonte di tutti i misteri del Signore celebrati
nella liturgia.
Dobbiamo trovare, a partire
dalla riscoperta della Veglia Pasquale, il gusto delle "veglie" come
momenti forti di preghiera in unione con la preghiera di Gesù nel giardino
degli ulivi, con le sue orazioni notturne durante la vita pubblica, con le
veglie dei monaci e delle claustrali, con tutti coloro che vegliano nei turni
di lavoro, negli ospedali, nelle sofferenze di pesanti insonnie e di angosce
solitarie (pensiamo ai carcerati ai prigionieri ai rapiti a quanti non hanno
prospettive per il proprio domani). "Gesù sarà in agonia fino alla fine
del mondo" diceva Pascal, lo sarà nella sofferenza di tutti gli uomini e
nell'agonia dei suoi figli la Chiesa si fa compagna di veglia.
Non è sempre necessario che
la veglia abbia carattere penitenziale; in alcune vigilie, come in quella di
Pentecoste o nella Veglia in traditione symboli si festeggia il dono dello
Spirito santo o la consegna gioiosa della fede. Tutte le veglie sono però
contrassegnate da un certo spirito di sacrificio, di sobrietà, di perseveranza
nell'orazione prolungata, di attenzione alle sofferenze del mondo.
Incoraggio le comunità
parrocchiali, e specialmente i gruppi giovanili, a rivedere il loro calendario
di veglie, soprattutto nei tempi forti cercando di capire che cosa si possa
fare per arricchire tutti coloro che con buona volontà partecipano a questi
momenti che purificano e ricaricano lo spirito. Bisognerà tener presente anche
l'opportunità di tali momenti per la preparazione e l'esercizio del sacramento
della Riconciliazione, come pure per la penitenza volontaria.
In questo 1992 la Veglia di
Natale, che precede la Messa di mezzanotte, dovrà diventare per tutti un
momento di proclamazione del vigilare, utilizzando opportunamente la preghiera
che conclude la presente Lettera, con canti, letture, segni e gesti simbolici
collegati al tema.
Quanto al giorno domenicale,
che ha al suo centro la celebrazione eucaristica, esso deve mantenere la sua
originaria sottolineatura di attesa vigilante. Si tratta infatti di un momento
fondamentale della vita della comunità, per il quale è richiesta tutta
l'attenzione pastorale.
Risento ancora incisive e
attuali alcune espressioni della Nota pastorale della CEI Il giorno del
Signore, pubblicata nel 1984: "Nel suo preciso significato cristiano la
domenica è anzitutto il primo giorno della settimana, l'una sabbatorum, il giorno
in cui Dio riprende la sua opera creatrice. E' anche il giorno del riposo,
pregustazione e pegno del riposo vero, ultimo, eterno; il giorno che non avrà
mai fine oltre al quale non ci sarà altro giorno: l'ottavo, l'ultimo, il
definitivo. Il giorno in cui il lavoro cede definitivamente il posto alla
contemplazione, il pianto alla gioia, la lotta alla pace. Non alibi alla
pigrizia, ma progetto e speranza per dare senso e coraggio all'impegno di
anticipare già nell'oggi ciò che viene contemplato e sperato come futuro. Il
cristiano non è un ingenuo, non si illude di poter rendere la terra un
paradiso. Il cristiano non sogna, agisce. E mentre contempla un ideale che sa
irrealizzabile nel presente, si adopera nondimeno perché la realtà assomigli
sempre più a quell'ideale. Ma lascia a un altro giorno la sorte di introdurlo
in quel mondo, in quella vita per tanto tempo contemplata, preparata,
attesa" (n. 20).
Ricordo infine il gran
momento di veglia epocale che il Papa richiama continuamente: è l'avvento dell'anno
2000, che sollecita l'intera umanità e, in particolare, la Chiesa all'impegno
per una nuova evangelizzazione, così da presentare al Signore un popolo
riconciliato nella memoria della sua venuta a Betlemme e nell'attesa della sua
venuta nella gloria.
Mi sembra utile ricordare
quattro particolari impegni che ci aiuteranno a fare memoria del vigilare.
[47] Ne avevo già parlato
nella Lettera Il lembo del mantello (cf n. 48) e l'ho menzionato sopra (c.
III,1). Vorrei sottolineare alcuni punti essenziali e utili specialmente per il
presente anno celebrativo che vedrà il suo culmine nell'incontro di maggio
delle diocesi lombarde.
Lungo l'anno pastorale,
infatti diversi sono gli appuntamenti che ci attendono e articolate le proposte
che ci vengono suggerite.
Anzitutto sono coinvolte le
comunità parrocchiali con la preghiera, la riflessione, la catechesi:
* in tutte le assemblee
eucaristiche di ogni prima domenica del mese, fino al prossimo febbraio, si
continui a recitare, possibilmente da parte di tutti i presenti la Preghiera
del Convegno";
* se non è stato ancora
fatto, si dedichi almeno una sessione del Consiglio Pastorale Parrocchiale alla
riflessione sulle tematiche del Convegno, lasciandosi sollecitare dall'apposita
scheda inviata ai presbiteri fin dallo scorso mese di marzo;
* nell'animazione delle
liturgie eucaristiche e nelle omelie delle prossime domeniche di Quaresima con
l'aiuto di sussidi che verranno diffusi in tempo utile - si riprenda il tema
della vita umana, rileggendolo alla luce delle pericopi evangeliche proposte
dalla liturgia e del primato della vita divina;
* secondo le indicazioni e i
suggerimenti diocesani, la catechesi, sia degli adulti che dei giovani, dovrà
approfondire gli stessi temi del "nascere e morire" con l'aiuto di
schede che verranno proposte dagli organismi diocesani competenti.
Oltre all'Azione Cattolica,
che nel suo itinerario formativo terrà presenti i vari aspetti evocati nel
cammino del Convegno Nascere e morire oggi, confido che le altre associazioni i
diversi gruppi e i movimenti ecclesiali troveranno anch'essi il modo di
promuovere analoghi momenti di preghiera, di riflessione e di catechesi.
Un cenno particolare
meritano le proposte della Pastorale giovanile. Raccomando ai presbiteri e agli
educatori dei giovani di prenderle in attenta considerazione, per sentirsi in
profonda comunione con il cammino delle Chiese lombarde e per prepararsi alla
Giornata mondiale della Gioventù dell'estate 1993.
Dalla nostra diocesi e dalle
altre Chiese di Lombardia alcuni Delegati parteciperanno ai due appuntamenti
regionali previsti per il prossimo autunno: quello di sabato 14 novembre a
Milano, per operatori pastorali, sul tema Animare, celebrare, servire il
Vangelo della vita, quello di sabato 12 dicembre a Brescia per i cristiani impegnati
nella cultura, nel sociale, in economia e in politica sul tema Nella città
dell'uomo a servizio della vita.
Singolare rilievo assumerà,
sia a livello diocesano che parrocchiale, la celebrazione della XV Giornata per
la Vita del 7 febbraio 1993; io stesso, nel pomeriggio di sabato 6 febbraio
1993 presiederò in Duomo una Veglia di preghiera che mi auguro possa vedere la
partecipazione di molti fedeli giovani e adulti, e di numerose famiglie.
Con tutti i Vescovi lombardi
e migliaia di fedeli delle nostre Chiese - uomini e donne, ragazzi e giovani,
adulti e anziani - ci ritroveremo, probabilmente nel prossimo mese di maggio,
per una grande manifestazione pubblica. In quell'incontro, senza spirito di
rivalsa nei confronti del mondo in cui viviamo, ma curvandoci con amore e
simpatia sulle nostre città e sulla nostra civiltà, ringrazieremo il Signore
per il dono inestimabile della vita, professeremo la nostra fede nella vita
eterna e quindi proclameremo a tutti la dignità di ogni uomo chiamato a
partecipare alla vita di Dio, invocando la forza dello Spirito per essere
capaci di "onorare" ogni uomo e di costruire una nuova cultura della
vita umana.
[48] Siamo chiamati a
esaminarci, come singoli e come comunità parrocchiali o gruppi, sulle
attenzioni che abbiamo verso le categorie di persone che pesantemente avvertono
il trascorrere del tempo della vita, il peso della malattia o l'angoscia della
morte. Quali aspetti abbiamo trascurato, quali iniziative possono essere
rilanciate? come far vivere ai malati il sacramento dell'Unzione con i
sentimenti di fede e di speranza richiamati nella catechesi della scorsa
Quaresima?
La malattia è un formidabile
richiamo a riflettere sui destini ultimi dell'esistenza umana. Quando si sta
bene ci si pensa poco, ma la caduta della salute ridimensiona i progetti a cui
inducono il benessere e il consumismo e di colpo ci si trova di fronte a
problemi nuovi e spesso angoscianti. Per i tanti interrogativi che assillano
l'ammalato, abbiamo una risposta adeguata, tempestiva e rasserenante? Il
personale ospedaliero è pronto a farsi carico di un dialogo di tipo spirituale?
In proposito indico due piste educative: una per la Pastorale giovanile e una
per la Pastorale della sanità. Se educare i giovani d'oggi significa aiutarli a
fare scelte di vita controcorrente, insieme alla prospettiva della radicale
consacrazione a Dio per il regno anche nel campo sanitario, c'è quella di
privilegiare, a parità di attitudini, le professioni a forte valenza umana.
Le Scuole per la formazione
degli infermieri dirette da personale religioso, l'Associazione Cattolica
Operatori Sanitari (ACOS), l'Associazione Italiana Medici Cattolici (AIMC), le
diverse forme di volontariato ospedaliero sono di grande utilità per preparare
le persone a rispondere alle domande importanti degli ammalati.
La condizione anziana, la
terza, quarta età, l'essere o il diventare anziani, interpella tempo e luoghi
del vigilare: anzitutto perché la vecchiaia, nel suo duplice costituirsi in
"anzianità" (cresce il numero dei vecchi) e in "longevità"
(cresce il tempo di vita dei vecchi) è luogo e tempo "censurato",
esorcizzato, rimosso dal sentire comune e dall'immaginario collettivo. Nella
stessa neutralizzazione del linguaggio (si dice "anziano" e non
"vecchio") non appare più un tempo di vita. Spesso, anzi i servizi
per gli anziani diventano luoghi di smemoramento di sé per l'inaccettabilità di
questo tempo cui è sottratta ogni eccedenza di senso, l'unica capace di far
vivere la transizione.
C'è un triplice percorso del
vigilare da affidare a una comunità cristiana che vigila:
* percorso culturale.
Restituire dignità alla vecchiaia come tempo di vita, dando parola al vissuto
dei vecchi, dando voce alla loro memoria, promuovendo momenti culturali e di
incontro (Centri Diurni, focolari, comunità);
* percorso strutturale.
Ricercare, nei luoghi ordinari del vivere e del convivere le condizioni
migliori per l'anziano: facendo con esso "famiglia", in assenza di
quella naturale o di origine, mantenendolo nella sua casa, abbattendo le
barriere architettoniche, facilitando con opportune informazioni l'accesso ai
servizi previdenziali, sociali, sanitari, assistenziali, creando spazi fisici,
affettivi e sociali, quanto più la sua situazione è esposta al rischio
dell'abbandono e della solitudine;
* percorso funzionale.
Accompagnare la terza e la quarta età con tutte le forme di solidarietà
familiari primarie e secondarie e con servizi pubblici o privati di privato
sociale, per far sentire a queste persone di essere vive. Vigilare affinché sia
garantita la tutela della salute nelle forme ambulatoriale, domiciliare, diurna
e residenziale, e perché siano attivati tutti i necessari servizi sociali.
Il vigilare della comunità
cristiana continuerà ad attuare tutte le forme di prossimità:
* l'assistenza, come accompagnamento
per l'accesso ai servizi;
* l'assistenza
previdenziale, sociale, sanitaria, legale; * l'assistenza domestica e
domiciliare (infermieristica, abilitativa, riabilitativa, integrativa);
* l'assistenza durante il
ricovero ospedaliero (soprattutto nei casi di solitudine e di particolare
gravità);
* l'assistenza e la
collaborazione nell'ospedalizzazione a domicilio;
* l'assistenza e la cura, il
supporto e l'aiuto in tutte le forme di non autosufficienza fisica e psichica;
* l'assistenza e
l'accompagnamento durante la malattia lunga o terminale (soprattutto a casa);
* l'accoglienza familiare di
anziani soli;
* i modi imprevisti e
imprevedibili di intervento personale e familiare, che evitino
l'istituzionalizzazione dell'anziano;
* la prossimità vissuta e testimoniata
dal singolo, dalla famiglia e dalla comunità nelle situazioni di ricovero della
persona anziana;
* la prossimità alle
situazioni limite dove avviene che l'anziano malato o inguaribile diventi
incurabile per la società.
La genialità cristiana custodisce
la terza e quarta età perché sia un tempo vivo e non morto, protetto e non
esposto, di saggezza e non di disperazione.
[49] La vigilanza, abbiamo
detto, è uno stile di vita responsabile, che sa prendersi cura di chiunque: non
può mancare allora nel biennio dedicato al vigilare una specifica attenzione
per l'educazione alla fede dei ragazzi e dei giovani continuando lo sforzo
avviato nei programmi pastorali precedenti.
Chiedo alla Pastorale
giovanile, in stretto rapporto con la FOM, l'Azione Cattolica e il Seminario
diocesano, e collegandosi con le istituzioni le associazioni e i movimenti che
operano tra i giovani di continuare a elaborare il "progetto
educativo" affinché tenga conto delle diverse età e situazioni dei giovani
e li guidi a compiere cammini vocazionali autentici.
Nel biennio sul
"comunicare" avevamo posto l'accento sui 18-19enni e sul loro
ricevere dagli adulti la fede da trasmettere. Vogliamo allargare l'impegno
dedicandoci soprattutto all'attenzione educativa nei riguardi degli adolescenti
a coloro cioè che si preparano alla Professione di fede (14enni) e a coloro che
iniziano il cammino dopo la scuola media (15-17enni).
Sapendo che la
preoccupazione per uno è segno della preoccupazione per tutti cercheremo di
armonizzare i passaggi tra le diverse tappe in cui si articola l'itinerario
giovanile verso una scelta di fede personale, convinta e matura.
* La Professione di fede dei
14enni. I 14enni che si preparano alla Professione di fede, assumendo per la
prima volta pubblicamente la responsabilità del tempo della loro vita in vista
dell'eternità, vivono un'età affascinante e difficile. Per questo non può
mancare la cura vigilante della comunità cristiana adulta. Già tanto si è fatto
in diocesi al riguardo, però molto resta da fare per rendere potenzialmente
accessibile a tutti i cresimati l'itinerario formativo. Potremmo domandarci se
in parrocchia, in oratorio, nella scuola cattolica abbiamo operato in tal
senso. Come si è utilizzato, per esempio, l'apposito sussidio C'e qui un
ragazzo? come si può fare per mettere in pratica quanto suggerito in Educare
ancora (cf n. 25), cioè di assegnare a ogni ragazzo e ragazza della Cresima un
educatore che lo accompagni verso la Professione di fede? come rendere più
organica la proposta dell'ACR, che si rivela per i ragazzi più sensibili un
valido aiuto nella crescita della fede e per le prime responsabilità
apostoliche?
* Il cammino educativo degli
adolescenti (15-17enni). Avvieremo in diocesi un impegno particolare per il
cammino degli adolescenti (15-17enni); essi attraversano un momento splendido e
delicato che, nel contesto della nostra cultura e della società frammentata e
priva di valori condivisi, diventa spesso faticoso; consapevoli del loro
disorientamento vogliamo impegnarci a custodire la loro generosità educandoli
al dono di sé.
L'Organismo diocesano per la
promozione della Pastorale giovanile ha quindi preparato uno strumento di
lavoro dal titolo Prospettive e orientamenti per una pastorale diocesana
adolescenti. Vi si raccolgono anzitutto le ricchezze educative in atto nella
diocesi; si offrono le indicazioni fondamentali per interpretare questa età; si
delineano itinerari attenti alle diverse situazioni in cui gli adolescenti si
trovano; si richiamano lo stile e i compiti degli educatori e le scelte
pastorali diocesane. Tale strumento verrà studiato e approfondito secondo le
indicazioni della Pastorale giovanile così da giungere a un progetto diocesano
che sia di aiuto e collegamento tra le diverse realtà locali.
Il primo appuntamento sarà il
Convegno di domenica 27 settembre 1992, nel quale incontrerò i ragazzi e le
ragazze di 15, 16 e 17 anni (le prime tre dassi delle Superiori).
Invito le famiglie, i preti
i religiosi e le religiose, gli educatori e le educatrici a far emergere
coraggiosamente il meglio delle loro capacità educative lavorando anche insieme
e valorizzando le iniziative formative che soprattutto l'AC e la FOM propongono
per gli educatori dei gruppi parrocchiali Tutti gli educatori delle scuole, in
particolare delle scuole cattoliche, potranno trarre ispirazione da questi
suggerimenti per adattarli al loro ambiente.
* Collaboratori nella
"vigilanza pastorale" sui due campi di impegno educativo sopra
richiamati raccomando l'attenzione dei responsabili di decanato della Pastorale
giovanile e delle Consulte. Stanno svolgendo un servizio prezioso, pur se
iniziale e non privo di qualche oggettiva difficoltà, per sostenere,
incoraggiare e vivificare una reale dedizione a tutti i giovani che il Signore
ci affida e promuovere negli oratori, nell'AC, nei gruppi e nei movimenti
un'autentica formazione missionaria in linea con l'eredità trasmessaci
dall'Assemblea di Sichem. A volte li ho immaginati quali "custodi
dell'arca dell'alleanza nel deserto", segni di incoraggiamento per gli
altri educatori in un tempo che assomiglia a quello del cammino d'Israele nel
deserto.
Oltre ai compiti di
vigilanza pastorale, che già la Pastorale giovanile loro affida (cf il
Programma 92/ 93), vorrei che i responsabili scoprissero e sollecitassero ciò
che può essere promosso e sostenuto per una cura più premurosa degli
adolescenti; auspico che nelle Consulte decanali, d'accordo con la Pastorale
giovanile diocesana, si raccolgano dati riflessioni ed esperienze.
[50] Voglio, infine,
richiamare brevemente il tema della comunicazione attraverso i mass-media, che
è stato oggetto della Lettera pastorale dello scorso anno e che vorrei
diventasse una normale attenzione pastorale (cf anche Aetatis novae, nn. 17.
20; Redemptoris missio, n. 37). E' un punto sul quale esprimere concretamente
la nostra vigilanza.
Allo scopo invito anzitutto
educatori e sacerdoti a dedicare grande cura e attenzione per scoprire
personalità in grado di lavorare nel difficile campo dei media. Invito pure
tutte le realtà educative (Seminario, Pastorale giovanile, scuola, comunità
parrocchiali, ecc.) a individuare specifici itinerari formativi al problema
della comunicazione e dei media.
Per quanto riguarda gli
strumenti diocesani, verrà riproposta la catechesi quaresimale attraverso Radio
A (che ora è possibile ascoltare in tutta la diocesi eccetto la Zona pastorale
II - sulla frequenza 93.3), che ha riscosso notevoli consensi, sulle virtù
tipiche del cristiano che vigila.
Esorto inoltre i Consigli
Pastorali Parrocchiali e Decanali a usare i settimanali diocesani come
strumenti di lavoro per vigilare circa la sintonia dell'azione pastorale locale
con quella dell'intera diocesi.
Nel più ampio quadro degli
strumenti di comunicazione di ispirazione cristiana, presenti a livello
nazionale, va ricordato il quotidiano cattolico Avvenire. Ogni cristiano che
voglia essere protagonista e vigilante nella complessa realtà di oggi, va
stimolato a un uso non solo episodico di questo giornale e dobbiamo sentirci
impegnati per la crescita e la valorizzazione di tale strumento.
Un servizio concreto alla
gente per la ripresa di un discorso di educazione al linguaggio televisivo,
potrebbe essere una nuova pratica del teleforum, sia nella forma di una
presenza di esperti in grado di aiutare lo spettatore nell'analisi del
linguaggio specifico televisivo, sia nella forma più debole, però utilissima,
che vede il riunirsi insieme di più famiglie in una sorta di gruppo di visione
per discutere su un determinato programma.
E' infine opportuno favorire
la diffusione dell'AIART (Associazione Italiana Ascoltatori Radio-Televisivi):
i circoli culturali, i gruppi, le associazioni cattoliche e di ispirazione
cristiana potrebbero aderirvi garantendo solidarietà e pubblica mobilitazione
alle campagne che essa lancerà a favore di programmi televisivi positivi e
anche, eventualmente, contro qualche programma particolarmente insidioso. E' un
modo di diventare, in questa forma e come comunità cristiana,
"committenti" di programmi di valore.
Per tutto ciò e per altre
eventuali iniziative, il punto di riferimento resta l'Ufficio diocesano delle
Comunicazioni Sociali.
[51] Ricordo in chiusura
che, al primo anno pastorale dedicato al vigilare, in cui chiedo soprattutto
una riflessione di fondo sul tema e sulla sua rilevanza nella vita cristiana,
seguirà un secondo anno in cui ci dedicheremo specificamente a quell'impegno
che è già all'orizzonte da qualche tempo: il Sinodo diocesano 47°. Il Sinodo
46°, come è noto, è stato concluso dal mio venerato predecessore, il Card.
Giovanni Colombo (che il Signore ha chiamato a sé il 20 maggio scorso), nel
1972. Ci spingono al Sinodo da una parte le prescrizioni della Chiesa e,
dall'altra, la necessità di fare il punto della situazione pastorale dopo i
programmi annuali che hanno ritmato il nostro cammino e ora chiedono di trovare
una sistemazione sintetica, capace di presentare il volto della nostra Chiesa
alla vigilia del 2000. Costituirà dunque un'attuazione pratica complessiva del
vigilare.
Durante l'anno verranno date
le indicazioni opportune per la preparazione al Sinodo, che vorrei fosse
soprattutto un evento spirituale, uno sguardo di fiducia verso il futuro,
nell'attesa del ritorno del Signore. Così si concluderà il ciclo di programmi
pastorali con l'invocazione che unisce lo Spirito e la Sposa: "Vieni,
Signore Gesù!".
[52] Delle cose ultime non
abbiamo una diretta esperienza. Ne parliamo mediante simboli parabole,
proiezioni che partono dal nostro vissuto di fede e di esperienza, consci di
non saper dire adeguatamente ciò che le parole della fede ci fanno intuire. Di
fronte a realtà che tanto ci sovrastano e insieme tanto ci urgono, il
linguaggio più evocativo, che più ci introduce dentro le realtà indicibili, è
il linguaggio della preghiera. Non sol tanto la preghiera come parole umane
rivolte a Dio (perché i singoli vocaboli sono allora sempre gravati
dell'ipoteca dell'analogia e della legge del simbolo), bensì la preghiera come
volo del cuore, portato dallo Spirito verso le cose di Dio.
Per dare stimolo a tale
esercizio offro un'ampia proposta di testi da pregare; quattordici bozze o
tracce, quasi quattordici stazioni di una "via lucis" o "via
aeternitatis", che si possono percorrere o di seguito o in ordine sparso,
scegliendo runa o l'altra secondo l'inclinazione dello spirito. Sono solo un
esempio e quasi un trampolino per slanciarsi verso un "cuore a cuore"
col Dio della promessa eterna, che ci faccia gustare qualcosa dell'indicibile e
ci innamori delle realtà che già ci sollecitano e che un giorno contempleremo a
viso scoperto.
La proposta ha la forma di
una "preghiera-esame di coscienza sul tempo" e sulle diverse vicende
che ci fanno passare dal nostro tempo al tempo senza tempo. Frutto della
preghiera sarà il vivere con amore e pace il breve tempo terreno.
[53] Io so, Padre,
che il mio tempo è prezioso
ai tuoi occhi
perché ti sono figlio.
Un figlio voluto con amore,
teneramente concepito e
pensato da un tempo immemorabile,
dato alla luce e chiamato
per nome con giubilo festoso.
Un figlio con ogni cura
seguito,
anche quando è affidato ad
altre mani premurose.
Un figlio cercato in ogni
abbandono,
anche quando per sua
iniziativa si è perduto.
Un figlio generosamente
consegnato alla libertà
e alla responsabilità che lo
rendono
uomo e donna.
[54] Io so, Padre,
che il tempo che tu mi dai è
un dono sincero
e che diventa a tutti gli
effetti il mio tempo.
Piccola traccia,
ma indelebile e
irripetibile,
di un'esistenza personale
che attraversa la vita del mondo:
tu la riconosci tra mille
col tuo sguardo
infinitamente limpido e profondo.
Per quanto piccola, labile e
leggera
sia la linea del tempo che
la mia traccia percorre,
solido e indistruttibile è
il valore di cui è segno
fin dal primo istante;
pura l'intenzione che vi si
esprime;
indefettibili il vincolo e
la promessa che l'accompagnano.
In ogni istante del tempo il
dono si rinnova;
e con esso la certezza che,
anche se tutti mi
abbandonassero,
sono desiderato almeno da
te,
sono sommamente importante
almeno per te.
[55] Tu sai bene, mio Dio,
che spesso gli eventi del
tempo ci allontanano da te.
Eventi a volte difficili
e al limite delle mie
capacità di volere e di intendere.
Quando la durezza degli
accadimenti mi turba,
quando la tua apparente
distanza mi ferisce e mi svuota,
allora le forze mi
abbandonano
e la speranza si indebolisce
fino a venire meno.
In quei momenti sono molto
fragile
ed esposto alla tentazione.
La tentazione di cedere
all'angoscia del tempo che mi sfugge,
dove l'immagine di una fine
che incombe inesorabile
prevale su quella del
compimento che si avvicina.
Invece di affrontarla e di
vincerla,
sono tentato di rimuovere
l'angoscia
con l'ossessiva cura del mio
corpo,
con la fuga dalla povertà e
dalla malattia dell'altro,
con lo stordimento dei sensi
e l'indurimento del cuore.
Non vedo più nulla alle
spalle della mia nascita,
nulla di decisivo nella vita
e non scorgo più nulla oltre
la mia morte.
[56] Tu sai bene, mio Dio,
che questa angoscia dipende
anche dal timore
di perdere il bene che ho
ricevuto e talora donato.
La gravità del mio
smarrimento deriva pur sempre dal sospetto
che tu non abbia tempo per
me;
che non ci sia affatto un
tempo infinito
nel quale desideri
accogliermi.
Tutto ciò mi rende incerto
sul tempo che ora mi dedichi
e infine dubbioso sulla
qualità del dono ricevuto.
Il risentimento,
accovacciato alla mia porta,
oscura i segni della tua
benedizione e della tua promessa.
Mi sento addirittura
minacciato e perseguitato
dallo sguardo che mi
rivolgi.
La prospettiva della tua
venuta
si associa all'immagine
della sventura,
e ti sento bussare alla mia
porta
con i colpi grevi e duri
della morte annunciata.
[57] Tu sai bene, mio
Signore e mio Dio,
che allora, diffidando di
te,
incomincio a dissipare il
tempo che mi doni
in ciò che vale di meno
dell'amore autentico
e dura più poco della vita.
Il mio tempo si fa frenetico
e vuoto,
divento avaro del tempo che
mi dai per altri
e spreco il tempo che tu
trovi per me.
Il mio sguardo diventa
piccolo ed egoista,
freddo e calcolatore.
Anche quando resisto, magari
per viltà,
alle colpe più gravi
rendo più greve il tempo
della vita umana
con la premeditata grettezza
del mio modo di sentire:
e perfino di credere, di
sperare, di volere bene.
Le scelte sono così regolate
più dalla convenienza
che non dalla scoperta della
tua dedizione.
E lasciano ampio varco per
quella quota di arroganza,
di arrivismo, di ipocrisia,
che mi consentono di
spremere al tempo che mi è dato
tutto il benessere che mi è
possibile.
[58] Tu sai, mio Dio,
che sono debole e
impreparato al buon uso del tempo.
Non ti fidare troppo della
mia resistenza alla tentazione,
non mi lasciare a lungo
esposto nella prova.
Perché io voglio
sinceramente
benedire il tuo Nome,
desidero realmente entrare
nel tuo Regno,
sono certo che la tua
volontà
è il compimento del mio
bene.
Credo con tutto il cuore
che tu custodisci le cose
buone
per le quali riesco a
trovare il tempo,
affinché non vadano perdute.
E che sei pronto a
sciogliermi dal tempo che ho perduto
nel momento stesso in cui
riesco a vincere la mia paura
e a confessare la mia colpa.
Quando io ti rendo
disponibile il tempo che mi affidi,
e lo arrischio per venire in
soccorso
della mancanza del mio
fratello,
io so che il mio tempo si
arricchisce
fino a cento volte, fin
d'ora:
e molto mi viene perdonato.
E quando infine riconosco la
stupidità della mia colpa,
e mi rivolgo contrito a te,
Padre,
non incontro l'ombra del tuo
risentimento,
ma soltanto la tenacia della
tua fedeltà.
Scopro che il mio tempo
perduto
fu per te il tempo
dell'attesa
e il tempo insperabilmente
ritrovato
è subito il tempo della
festa.
[59] In verità, Signore,
l'evangelo della giustizia
di Dio
è il mio sostegno e la mia
consolazione.
La mia incredulità teme il
tuo giudizio,
ma la fede che tu mi doni
nel tuo amore per me
scioglie nella speranza ogni
angoscia dell'anima.
La certezza che tu solo
abbia l'ultima parola
sulle vere inclinazioni del
mio cuore
mi conforta.
La limpidezza del tuo
sguardo mi tranquillizza,
la comprensione della tua
mente mi rassicura,
l'umanità della tua
condivisione mi dà pace.
E' bello pensare
che in fondo a questa
parabola di iniziazione
alla vita eterna che tu mi
hai destinato,
il tuo sguardo infallibile e
sicuro
farà lievitare la coscienza
fino alla sua verità infinita
rendendola per noi
accessibile in ogni direzione,
e consentendoci di capire,
di apprezzare il valore di ogni gesto,
di ogni parola, di ogni simbolo,
di ogni affetto, di ogni
legame.
[60] Veramente, Signore,
il tuo giudizio ci libera
dal peso
di ogni insuperabile
fraintendimento
di ogni parziale
apprezzamento
di ogni limitata
prospettiva.
Nessuno, nemmeno le persone
che più ci hanno amato
possono riconciliarci fino
in fondo
con la verità del nostro
cuore.
Neppure alle persone che più
amiamo,
noi stessi possiamo
assicurare la gioia
di una perfetta comprensione
di un totale apprezzamento.
Ma il segno splendente del
tuo amore
è infine il gesto che conferisce
al nostro ingresso nel tempo
infinito della vita
la forma della scelta,
pur sollevandoci dal peso
insopportabile di doverci pronunciare
con perfetta padronanza
sulla verità delle cose
e sull'assoluta differenza
del bene e del male.
Così la dignità dell'esistenza
che tu ci hai destinato è
custodita intatta
e l'ossessione dell'umano
pregiudizio
di una debolezza senza
scampo
è per sempre allontanata.
Nessuno è condannato alla
propria debolezza,
né alcuno è premiato
dall'astuzia della sua prevaricazione
come avviene tra gli uomini.
[61] Tu sai Signore e Padre
mio,
che voglio abbandonare a te
la mia vita e la mia morte,
come Gesù.
Ma tu sei la purezza
assoluta,
la luce che illumina ogni
angolo oscuro del mio cuore,
ogni angolo che non si apre
a te nella vigilanza,
che resta prigioniero del
tempo
e della frustrazione.
Così dopo la morte, mi darai
ancora
qualche altro misterioso
tempo
diverso da quello terreno
per realizzare in me,
pienamente,
il nome nuovo che da sempre
mi hai dato,
la condizione di figlio che
sola mi permetterà
di chiamarti - guardandoti
negli occhi - "Padre".
Vado incontro con pace
a questo tempo di
purificazione, senza angoscia
sapendo che mi ami
nell'unico desiderio di
presentarmi a te
con la veste bianca delle
nozze.
Ci vado incontro con
sollievo
perché esso mi libera
dall'ossessione di una perfezione assoluta
rimettendo tutto me stesso e
quel poco che ho fatto
e il molto che non ho fatto
al tuo amore purificatore.
[62] Davvero, mio Signore,
non mi è possibile pensare
ad alcuna buona ragione per
respingere il tuo vangelo.
Non riesco a vedere un tempo
più perduto
di quello che impiego per
resistergli.
I segni della sua Verità
sono semplici
trasparenti alla portata di
tutti:
i ciechi vedono, gli zoppi
camminano,
i prigionieri sono sciolti, per
i peccatori c'è riscatto,
ai poveri viene comunicata
una buona notizia.
Non riesco a immaginare
nessuno che possa sentirsi escluso:
per quanto ferita,
sbagliata, marginale possa apparire
la sua vita ai suoi stessi
occhi.
A meno che esista un essere
umano che,
fino all'ultimo, resista con
violenza alla sola idea
che tu abbia un tempo anche
per l'altro
che egli non ama,
che si opponga fieramente
all'eventualità
di dover condividere i beni
della vita
con coloro che tu chiami
all'esistenza,
che ritenga che in te non
c'è riscatto,
redenzione, perdono.
A meno che un uomo o una
donna
non intendano in alcun modo
farsi persuadere
dall'icona del Figlio,
innocente e ucciso
e ne traggano argomento di
sfida indirizzata allo Spirito
contro ogni possibilità di
dimostrare
- in qualche luogo e in
qualche tempo -
la radicale differenza del
bene e del male.
Prospettiva terribile sopra
ogni altra,
questa;
perché nella coscienza che
si lasci plasmare da tale peccato
ogni varco si chiude e ogni
tempo è perduto.
Mi rendo conto che c'è
qualcosa di terribile
nelle conseguenze di una
tale intolleranza e incredulità.
Ogni giorno tuttavia scorgo
i segni drammatici
di questa spirale perversa:
nell'avidità che requisisce
i beni della terra,
abusa del potere e della
ricchezza
e in molti modi condanna a
morte l'altro uomo
con pretestuose ragioni.
Ragioni e pretesti che essa
trae, per giustificarsi
da ogni dove:
dalla storia e dalla
scienza,
dalla politica e
dall'economia,
dalle filosofie e dalle
religioni.
Ragioni e pretesti che sono
come pietre tombali
per chiudere il cuore dentro
un sepolcro di solitudine.
Signore, che io non resti
confuso in eterno!
Io so, mio Dio,
che la tua giustizia è il
principio stesso
della differenza radicale
tra bene e male
e la sua ferma custodia è a
protezione e riscatto
di ogni amore ferito, di
ogni debolezza sopraffatta.
Il tuo tempo, Signore,
è il tempo in cui la
differenza del bene e del male,
del santo e del laido, del
bello e dell'orribile,
si afferma a favore
dell'uomo.
Ogni tempo esercitato nella
sua negazione
è invece estraneo alla tua
giustizia
così come al compimento del
nostro desiderio.
Esso è destinato a rimanere,
nello spirito e nella carne,
il tempo duramente trafitto
da un desiderio bruciante
che rimane separato dal
proprio compimento.
In esso è infinitamente
rappresentata e ripetuta
proprio la figura della
morte che ci fa più paura;
quella che le Scritture
chiamano "seconda morte".
E' il tempo di un'esistenza
"infinitamente perduta"
che non va augurata a
nessuno.
Salvaci Signore, dalla
seconda morte!
[63] Spirito benedetto e
santo,
io so che tu accogli il
gemito di ogni creatura
resistendo a ogni falsa
sapienza,
a ogni prevaricazione delle
potenze.
So che la tua premurosa
ispirazione ci persuade alla speranza
e la tua splendida energia
ci risolleva da ogni prostrazione.
Il mio cuore esulta pensando
che la dignità dell'uomo e
la bellezza del mondo
sono oggetto della tua
ostinata fedeltà
e della tua inesauribile
cura.
Io confido nella forza della
tua protezione
e con ogni timore e tremore
spero nella potenza del tuo riscatto
per il tempo dell'uomo e
della donna.
Io ho imparato da te
che un tempo libero dal male
e protetto dal maligno
è reso accessibile per
ognuno soltanto dall'amore
e dalla fedeltà che lo
accompagna.
La qualità della vita che vi
si schiude
è decisa dall'apertura del
cuore alla tua sapienza.
So che questo tempo è
vicino, è qui.
Già ora esso preme
affettuosamente su di noi
nella contemplazione dei
tuoi segni:
nell'esultanza che
accompagna ogni sconfitta del male,
nella fermezza che vince la
prevaricazione,
nella tenerezza che si
prende cura di ogni debolezza.
Nell'esperienza del Figlio
crocefisso
che si ripete per tutti
coloro
che sono perseguitati a
causa della giustizia
e nella certezza del Risorto
che si tramanda
mediante l'opera dei discepoli
che edificano la Chiesa,
io ne ricevo una conferma
decisiva.
La moltiplicazione del male
non ha futuro,
la mediocrità interessata
non ha speranza
di poter prolungare la sua
sopravvivenza
a spese dei puri di cuore,
degli operatori di pace,
degli appassionati per la
giustizia;
e con essa, ogni egoismo
religioso chiuso nel proprio privilegio
ogni parassitismo economico
chiuso nel proprio benessere
ogni calcolo politico chiuso
nel proprio dominio.
Tutto ciò deve essere
consumato
nel fuoco dell'ira di Dio
nell'incandescente purezza
dell'amore crocefisso di
Gesù.
Io so, Signore,
che il popolo delle
Beatitudini
e la schiera dei testimoni
fedeli
saranno infine risarciti dal
tempo delle lacrime,
e tu sarai tutto in tutti
nella pienezza del Regno.
[64] Riconosco, Signore,
che la durata della mia
condizione mortale
è gravata dalla maligna
separazione
che nell'incredulità si
produce tra il nostro tempo e il tuo.
E so che questa separazione
si riflette
nell'angoscia in cui
trascorre il tempo
che ciascuno di noi cerca di
aver soltanto per se stesso.
La malinconia del tempo
inesorabilmente passato
è figlia dell'incredulità
e madre della disperazione.
La morte si presenta allora
- e solo allora -
come una dimostrazione
dell'inutilità del tempo dell'amore.
I colpi con cui il dolore
percuote l'uscio di casa
diventano i segni di un
destino implacabile
che assegna alla morte
l'ultima parola.
La nostalgia del tempo
perduto
si trasforma in una malattia
che rende cronica la perdita
di ogni senso del tempo.
[65] Ma se io, Signore,
tendo l'orecchio e imparo a
discernere i segni dei tempi
distintamente odo i segnali
della tua rassicurante
presenza alla mia porta.
E quando ti apro e ti
accolgo
come ospite gradito nella
mia casa
il tempo che passiamo
insieme mi rinfranca.
Alla tua mensa divido con te
il pane della tenerezza e
della forza,
il vino della letizia e del
sacrificio,
la parola della sapienza e
della promessa,
la preghiera del
ringraziamento
e dell'abbandono nelle mani
del Padre.
E ritorno alla fatica del
vivere
con indistruttibile pace.
Il tempo che è passato con
te
sia che mangiamo sia che
beviamo
è sottratto alla morte.
Adesso,
anche se è lei a bussare,
io so che sarai tu a
entrare;
il tempo della morte è
finito.
Abbiamo tutto il tempo che
vogliamo
per esplorare danzando
le iridescenti tracce della
Sapienza dei mondi.
E infiniti sguardi d'intesa
per assaporarne la Bellezza.
[66] Gesù, tu che sei venuto
nel mondo
nascendo dalla Vergine
Maria,
tu che vieni a ogni istante
nella mia vita
e nella vita di ciascun uomo
e di ciascuna donna,
tu che busserai
amichevolmente alla mia porta
anche nel momento della
morte,
un giomo ritornerai
per porre fine a questo
tempo
che siamo chiamati a vivere
come dono prezioso di Dio,
anticipo e preludio della
benedizione eterna.
Fa' che possiamo desiderare
il giomo del tuo ritomo,
quando la finitezza della
creazione
lascerà il posto a nuovi
cieli e nuova terra
e saremo tutti insieme
nell'infinita beatitudine
della Trinità santa.
Per sempre. Amen.
Milano, 6 agosto 1992
Festa della trasfigurazione
del Signore
Note
1. Cf PG, 31,208 B. Per una rassegna accurata dei
testi biblici e patristici sul "vigilare" cf una raccolta a cura di
E. BIANCHI, presso la Comunità di Bose.
2. Cf La dimensione contemplativa della vita (1980);
In principio la Parola ( 1981 ); Attirerò tutti a me ( 1982); Partenza da
Emmaus ( 1983); Farsi prossimo ( 1985); Dio educa il suo popolo ( 1987);
Itinerari educativi (1988); Educare ancora (1989); Effatà, apriti (1990); Il
Lembo del mantello (1991). Cf anche i nn. 28.32 della presente Lettera.
3. Si tenga presente la terza delle domande che Kant
pone verso la fine della sua Critica della ragion pura e che, a suo giudizio,
definiscono l'uomo. Esse sono: 1. Che cosa posso conoscere? 2. Che cosa devo
fare? 3. Che cosa mi è dato di sperare? Kant connette la terza domanda con la
tensione religiosa dell'uomo.
4. Cf Liturgia ambrosiana delle Ore, Lucemario dei
Venerdì della III settimana. E' pure significativo in proposito il ritornello
aunque es de noche della poesia Cantico dell'anima che si rallegra di conoscere
Dio per fede, di s. Giovanni della Croce.
5. P. ARIES, Storia della morte in Occidente dal
Medioevo ai giorni nostri, Milano 1978, e L'uomo e la morte dal Medioevo a
oggi, Bari 1980.
6. "Il popolo cristiano non vede che le due grandi
sorelle, quella che è a destra e quella che è a sinistra, e non vede quasi mai
quella che è nel mezzo (...) Nel mezzo, tra le sue due grandi sorelle, la
speranza dà l'impressione di lasciarsi trascinare come una bambina che non ha
la forza di camminare, ma in realtà è lei a far camminare le altre due. E che
le trascina, e che fa camminare il mondo intero, trascinandolo. Le due grandi
camminano solo grazie alla piccola" (C. PEGUY, La porche du mystère de la
deuxième vertu, in Oeuvres poetiques complètes, Paris 1957, 539-540).
7. Cf M. KEHL, Eschatologie, Wurzburg 1986, 216-220.
Una presentazione sintetica delle speranze storiche del cristiano si ha nella
Costituzione conciliare Gaudium et spes, in particolare ai nn. 9.10.11.26.
8. Cf J. MARITAIN, A propos de l'Eglise du ciel.
Riflessione del 28 maggio 1963 ai Piccoli Fratelli di Gesù di Tolosa.
9. La citazione è tratta dalla famosa romanza
dell'opera lirica Madame Butterfly di Giacomo Puccini. Tra le tante riflessioni
poetiche ispirate al tema della tensione e dell'attesa, mi piace ricordare una
poesia di Clemente Rebora, scritta prima della sua conversione, ma che assume
un valore profetico se riletta alla luce di quell'incontro con Cristo che segnò
l'ultima parte della sua esistenza.
Dall'immagine tesa / vigilo l'istante
con imminenza di attesa - / e non aspetto nessuno:
nell'ombra accesa / spio il campanello
che impercettibile spande / un polline di suono -
e non aspetto nessuno! / tra quattro mura
stupefatte di spazio / più che un deserto
non aspetto nessuno: / ma deve venire,
verrà, se resisto / a sbocciare non visto,
verrà d'improvviso, / quando meno l'avverto:
verrà quasi perdono / di quanto fa morire,
verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro / delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene / il suo bisbiglio
(C. REBORA, Canti anonimi 1922 in Le poesie, a cura di
Scheiwiller, Milano 1982, 143).
10. Il Convegno delle Chiese di Lombardia 1992-1993
Nascere e morire oggi, si presterà particolarmente per l'approfondimento di
questi aspetti fondamentali dell'esistenza umana.
11. Celebrare in spirito e verità: sussidio
teologico-pastorale per la formazione liturgica, Roma 1992, nn. 30 e 7.
12. Programmi pastorali diocesani 1980-1990, Bologna,
1990
13. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Torino 1969, 264.
14. Cf Congregazione per la Dottrina della Fede,
Lettere su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, Roma, 28 maggio
1992, n. 17.