I problemi etici dell'aborto nell'enciclica Evangelium Vitae

 

Tra i numerosi problemi morali di cui si è occupato il Magistero della Chiesa, l'aborto è probabilmente al primo posto per numero e qualità di interventi. Una raccolta di documenti magisteriali in materia, riguardante il periodo che va dal 1930 (anno della pubbli­cazione dell'enciclica Casti Connubi! di Pio XI) all'aprile 1973, ne poteva elencare 108, così ripartiti: «uno è dovuto al Concilio Vati­cano 11; uno alla seconda assemblea generale del Sinodo dei Vesco­vi; 22 agli ultimi quattro Pontefici; 84 agli episcopati di 27 Paesi di tutto il mondo» con la precisazione che, per quanto si riferisce ai Vescovi, sono stati scelti «solo gli interventi collettivi, meditati, responsabili, frutto di lavoro, di consultazioni e di studio»[1].

Quanti interventi si siano aggiunti nel periodo successivo 1973-1995 non è di facile conteggio. Non lo è già la numerazione di quelli dovuti solo all'attuale Pontefice nei suoi 17 anni di Pontifica­to. Una raccolta curata dallo stesso autore di quella ora citata, Giovanni Caprile, ma riguardante il ben più vasto campo della difesa e promozione della vita, e limitatamente al primo decennio di pontificato, costituisce un volume di oltre 800 pagine[2]. E l'atten­zione al problema dell'aborto è vistosamente insistente.

Quanto agli episcopati, la mole dei loro interventi in materia si può intuire in base a ciò che ben sappiamo avvenuto in Italia ad opera della Conferenza Episcopale Italiana (CEI). Tra il 1972, quando comparvero le prime proposte di legalizzazione dell'abor­to, e il 1981, l'anno in cui si svolsero i referendum abrogativi, si contano 48 documenti, emanati o dal Consiglio di Presidenza, o dal Consiglio Permanente, o da Assemblee Generali della CEI[3]. Ad essi andrebbero aggiunti i Messaggi che ogni anno la CEI invia per la Giornata in difesa della Vita a partire dal 1979, istituita con la precisa finalità di «educare all'accoglienza della vita e di combatte­re l'aborto e ogni forma di violenza esistente nella società contem­poranea»[4]. In tutti gli altri numerosi Paesi in cui si è via via posto il problema di legalizzare l'aborto, le Conferenze Episcopali sono intervenute ripetutamente, con documenti dottrinali e pastorali[5].

Davanti a tanta ricchezza di dottrina, formulata nel nostro tempo dal Magistero Ecclesiale, in organico e coerente sviluppo di punti essenziali sempre professati nella comunità cristiana, sorge sponta­nea la domanda: è possibile, da parte del Magistero, dire ancora qualcosa di nuovo in tema di aborto? O, più esplicitamente: cosa può dire di nuovo, di non già detto, l'enciclica Evangelium Vitae sul tema dell'aborto[6].

Come prima cosa sarà bene richiamare che non rientra negli scopi dell'Enciclica proporre sviluppi dottrinali nuovi. Dando at­tuazione fedele alla richiesta fattagli dal Concistoro straordinario dei Cardinali nell'aprile 1991, Giovanni Paolo n precisa così l'obiettivo di questo documento: «La presente enciclica... vuole essere... una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana» (EV 5). Sul piano dottrinale dunque, cioè circa il «valore della vita umana» e la «sua inviolabilità», l'Enciclica vuole solo «riaffermare» la dottrina già esistente, sia pure con alcune modalità, cioè con «precisione» e con «fermezza», o, come detto nella richiesta dei Cardinali, riportata dal Papa nella sua lettera indirizzata ad ogni Vescovo dopo il Concistoro: «riaffer­mare solennemente», e non in astratto, ma «in riferimento alle attuali circostanze ed agli attentati che oggi minacciano» la vita umana[7]. La riaffermazione della dottrina in tale ottica non può non implicare qualche particolare sottolineatura e qualche spunto di novità; più ancora ci può essere qualche novità nelle indicazioni operative circa le modalità concrete in cui oggi va attuato il rispet­to, la difesa, l'amore e il servizio ad ogni vita umana.

Non è nuova la dottrina, ma nuova, rispetto ai documenti antece­denti del Magistero pontificio, è anzitutto l’impostazione del tema dell'aborto. Nell'enciclica Evangelium Vitae l'aborto trova posto nel capitolo centrale, il terzo, «non uccidere», subito dopo la tratta­zione teologica e la solenne riaffermazione del principio generale della inviolabilità assoluta di ogni vita umana innocente; principio, a sua volta, fondato sulla concezione e il valore della vita umana, ampiamente esposti nel secondo capitolo. Emerge così una linea logica in cui la valutazione della moralità oggettiva dell'aborto procurato, diretto e volontario, appare come corollario, logico e ineludibile, della valutazione di ogni uccisione, diretta e volontaria di un essere umano innocente come «sempre gravemente immora­le» (EV 57).

Sia il principio della inviolabilità della vita, sia la conseguente condanna dell'aborto, vengono esposti nell'enciclica con metodo rigorosamente teologico. Viene, infatti, dimostrato e documentato che essi fanno parte degli insegnamenti contenuti nella Sacra Scrit­tura, costantemente professati nella viva Tradizione della Chiesa, e unanimente proposti dal Magistero, sul fondamento anche della legge naturale (cfr. EV 57 e 62).

Da tutto questo consegue un'altra novità che riguarda non la sostanza della dottrina, ma il suo peso teologico o, con terminolo­gia tradizionale, la «nota teologica» di questa dottrina morale. È evidente l'accentuata e singolare solennità con cui il Pontefice la riafferma: «Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che...» (EV 57); così per il principio dell'inviolabilità della vita umana; e per l'aborto: «Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi che..., pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina, dichiaro...» (EV 62). E dopo ognuna delle due solenni affermazioni segue, quasi con le stesse parole in ambedue i casi, un'aggiunta in cui viene sottolineato che si tratta di dottrina fondata sulla legge naturale, chiaramente contenuta nella Sacra Scrittura, costantemente professata nella Tradizione vivente della Chiesa, e insegnata dal Magistero unanimemente.

Siamo, allora, davanti ad una definizione infallibile di questa verità morale? Da un esame attento del testo, e dall'esplicito rinvio ai numeri 2 e 25 della Costituzione Dogmatica Lumen Gentium del Vaticano II[8], risulta che il Pontefice vede qui pienamente realizzate tutte le condizioni che il documento conciliare richiede, perché una verità, in materia di fede o di morale, possa dirsi infallibilmente professata e insegnata dalla Chiesa. Il Papa nell'enciclica non for­mula una definizione infallibile delle accennate verità, ma dichiara autorevolmente che quelle verità fanno già parte degli insegnamen­ti che la Chiesa propone infallibilmente. In altre parole: la qualifica di «infallibile» non viene qui conferita ma solo autorevolmente riconosciuta come già esistente.

Le novità finora evidenziate rimangono, in certo senso, ai mar­gini, cioè non riguardano la sostanza della dottrina sull'aborto riaffermata nell'enciclica. Cominciando ad accostarci anche alla sostanza, appare particolarmente evidente la novità di alcuni aspetti nel problema dell'aborto. Non del tutto nuovi però, perché già accennati in documenti magisteriali anteriori o perché trattati dal Papa in discorsi e messaggi. Mi riferisco ad alcuni aspetti e proble­mi suscitati dalla legalizzazione dell'aborto in numerosi Stati a regime democratico, e alla connessione che, a livello intemazionale si vuole porre tra aborto e problema demografico, tra aborto e problema dei rapporti tra il Nord e il Sud del mondo e, quindi, con quello dello sviluppo dei popoli. L'aborto, dunque, come problema morale non solo a livello di comportamento di persone, ma anche come problema di morale sociale, in linea, perciò, con la prospetti­va di fondo dell'enciclica che ha messo a tema la difesa della vita umana come un nuovo capitolo di morale sociale (cfr. EV 5).

Dato che, per quanto riguarda l'aborto in connessione col pro­blema demografico e con quello dello sviluppo dei popoli, il Magi­stero ne tratta ampiamente in altri suoi documenti e interventi, e insieme a contraccezione e sterilizzazione, è ovvio che nella Evangelium Vitae si trovi solo qualche breve richiamo in materia (cfr. EV 16 e 91), senza novità alcuna rispetto a quei documenti. Perciò qui non me ne occuperò. Mi soffermerò, invece, sui problemi etici che solleva la legalizzazione dell'aborto. Vedremo poi quali ele­menti nuovi presenta l'enciclica sull'aborto in se stesso, dal punto di vista etico.

 

Problemi etici sollevati dalla legalizzazione dell'aborto

 

Tranne le parti in cui l'enciclica si occupa esclusivamente dell’aborto (cfr. specialmente EV 58-63), molte volte gli insegnamenti che vengono formulati riguardano, oltre all'aborto, anche l'eutanasia, a volte si aggiunge l'infanticidio e persino l'insieme degli attentati contro la vita umana nel nostro tempo. Ciò si verifica anche sull'argomento che sto per sviluppare. Ma, dato che il pre­ti sente studio riguarda esclusivamente l'aborto, penso di poter legittimamente chiamare in causa, come inerenti l'aborto, anche affer­mazioni che nell'Enciclica hanno l'accennato più ampio oggetto di ;  riferimento.

L'effetto dirompente sulla società della diffusa legalizzazione dell'aborto, specialmente quando giunge, anche solo surrettiziamente, a configurarsi come liberalizzazione, trova nell'enciclica una prima e incisiva denuncia nei termini di paradossale passaggio  dell'aborto, «nella coscienza collettiva» da delitto, a diritto (cfr. EV 11). E questo, proprio in una società che ha il vanto di aver riscoperto, e solennemente proclamato, i diritti dell'uomo come diritti originari di ogni essere umano, che lo Stato deve riconoscere e proteggere in tutti senza alcuna discriminazione. Con una tragica e «sorprendente contraddizione», il primo e fondamentalmente di tali diritti, quello alla vita, viene invece proclamato e calpestato, «in particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire» (EV 18).

La qualifica di «contraddizione» rischia di far pensare solo ad una violazione delle leggi della logica. Anche se in essa è implicata una valutazione morale. Un agire contraddittorio è evidentemente irrazionale, perciò in contrasto con la dignità della persona. Ma qui il soggetto è lo Stato e la società democratica; l'iniquità di ogni legge che pretende di legittimare l'aborto emerge in un'altra pro­spettiva: quella propria dell'etica sociale e politica. L'argomento, nell'Enciclica, trova un primo e breve accenno nel primo capitolo, precisamente nell'analisi delle cause della denunciata contraddi­zione (EV 19-20). Vi si trova già la forte espressione «Stato tiran­no», nei confronti di ogni Stato «che presume di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio». Mentre, delle leggi che lo autorizzano, è detto che «sia­mo di fronte solo a una tragica parvenza di legalità», e «la democra­zia... cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo»; anzi, vengono «innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di una autentica convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale» (EV 20). Ce n'è più che a sufficienza per qualificare la legalizzazione dell'aborto come un crimine contro l'umanità e contro lo Stato.

Ma il tema dei rapporti tra legge civile e legge morale viene ampiamente ripreso più avanti (EV 68-74), subito dopo la trattazio­ne dei problemi etici riguardanti l'aborto e l'eutanasia, di cui l'en­ciclica completa così l'esposizione trattando i problemi etici che solleva la loro legalizzazione.

Punto nodale, verso cui convergono e da cui si dipartono altri punti, la valutazione morale di ogni legge che pretende di legittima­re l'aborto: sono leggi «del tutto prive di autentica validità giuridica (EV 72), perciò «non creano nessun obbligo» (EV 74); sono «una legge intrinsecamente ingiusta», e quindi «non è mai lecito confor­marsi ad essa» (EV 73).

Giovanni Paolo n qui non fa che applicare ad un caso particolare una dottrina di portata generale sul rapporto tra legge civile e legge morale, ampiamente sviluppata nel Magistero pontificio, special­mente da Pio XII e più ancora da Giovanni XXIII nell'enciclica Pacem in Terris, ma radicata in una lunga tradizione che ha trovato la sua più attenta formulazione in San Tommaso d'Aquino (cfr. EV 71-72).

Vale la pena di sostare, sia pure brevemente, su questo punto, anche perché attorno ad esso si è accesa una vivace discussione, troppe volte viziata da pregiudizi, malintesi, ignoranza e anche malafede quando a fare certe affermazioni non sono persone sprov­vedute, ma di alta levatura culturale e sociale. Nessun dubbio che sui rapporti tra diritto e morale esistano ancora problemi irrisolti e discussi[9]. Ma alcuni punti fondamentali sono chiari e saldamente fondati. La corrispondenza totale tra legge civile e legge morale è una tesi mai sostenuta nell'etica, sia quella filosofica sia quella teologica. Oltretutto, è semplicemente impossibile attuarla. Ma neppure la tesi opposta è sostenibile, cioè che la legge civile non ha nulla a che vedere con la legge morale. È un'esigenza universal­mente riconosciuta che la legge civile deve essere giusta. E non di una giustizia solo formale, nel senso di essere emanata secondo le procedure stabilite nella Carta Costituzionale, ma giusta anche, e principalmente, nei suoi contenuti normativi. Criterio determinante per tale giustizia è che detti contenuti siano a servizio del bene comune. E «nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune tro­va la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri della perso­na»[10]. In altre parole: si assicura «il bene comune delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali dirit­ti» (EV 71). Dunque nell'ambito dei diritti umani, la corrisponden­za tra legge civile e legge morale è un'esigenza etica fondamentale inderogabile. Ed è evidente che il primo di tali diritti, e condizione indispensabile di ogni altro diritto, è il diritto alla vita; diritto di ogni essere umano. Una legge che lo riconosca ad alcuni e lo neghi ad altri (come è ogni legge che autorizza l'aborto) è per ciò stesso priva di legittimità giuridica ed eticamente iniqua.

Appaiono allora pienamente giustificate le gravi affermazioni che troviamo nell' Evangelium Vitae, come queste: «Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non nata, non assume forse una decisione «tirannica» nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso?... La democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità» (EV 70). E ancora: «II valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assun­zione del «bene comune» come fine e criterio regolativo della vita politica» (ibi). E appaiono pure più solidamente fondate altre affer­mazioni, collocate un po' prima nell'enciclica, cioè dopo la solenne riconferma del principio dell'inviolabilità assoluta di ogni vita umana innocente, affermazioni tratte dalla Dichiarazione sull'euta­nasia, della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 5 maggio 1980: «Niente e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia... Nessuna autorità può legittimamente importo ne permetterlo» (EV 57).

Per sottrarre l'aborto e la sua legalizzazione a queste gravi e argomentate condanne morali, è nota la via che è stata astutamente escogitata e abilmente messa in circolazione. Si  è negato che la vita umana abbia inizio col concepimento, e se ne è stabilito l'inizio in tempi successivi, oscillanti tra il quattordicesimo giorno dal conce­pimento e la nascita, o anche oltre. Già la stessa varietà delle date proposte tradisce il carattere arbitrario di esse. Si è poi abilmente inventata la denominazione di «preembrione» per indicare l'indi­viduo umano vivente nei primi quattordici giorni della sua esisten­za. Un termine che veicola chiaramente l'idea che quell'essere non è un embrione, ma qualcosa d'altro, che rimane però nel mondo del vago e dell'indeterminato. Quanto basta per mettere al riparo dalla qualifica di omicidio la sua soppressione, o la sua riduzione a cavia nei laboratori di ricerca.

Ed è davvero sorprendente che teorie del genere sopra accennate vengano avanzate proprio mentre i recenti progressi della genetica e dell'embriologia hanno dato una solida conferma scientifica alla tesi dell'inizio della vita individuale dal momento del concepimen­to, una tesi che in passato disponeva a suo sostegno soltanto di argomenti filosofici.

Ma c'è chi, pur accettando pienamente i dati scientifici, trova la via per eluderne le conseguenti implicazioni etiche, grazie ad una nuova e fantasiosa distinzione tra vita biologica e vita personale. È stato perciò costruito un nuovo e arbitrario concetto ài persona, tale da risultare inapplicabile all'embrione, al feto e anche ad altri esseri umani, con il conseguente rifiuto di riconoscerli soggetti di diritti, compreso, ovviamente, il diritto alla vita. Hugo Tristram Engel-hardt Jr., considerato un maestro nella bioetica «laica», così si esprime: «Ciò che caratterizza le persone è la loro capacità di essere autocoscienti, razionali e interessati al merito di biasimo ed elogio... Non tutti gli esseri umani sono persone... I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane. Tali entità sono mèm­bri della specie umana»; ma «ciò che è importante in noi in quanto esseri umani non è la nostra appartenenza alla specie Homo sapiens in quanto tale, ma il fatto che siamo persone». E con lineare consequenzialità Engeihardt afferma: «II fatto di non trattare un feto o un infante come una persona in senso stretto non dimostra mancanza di rispetto verso di lui»[11]. Egli pone, dunque, una netta e sostanziale differenza tra «esseri umani» e «persone umane», tra «vita umana meramente biologica» e «vita umana personale». Si sarà anche notato che non-persone, per lui, sono non solo i feti, ma anche gli infanti, i malati di mente, i comatosi in coma irreversibile. E coerentemente egli mostra di condividere la tesi di Charles Hartshome, a cui da la qualifica di «teologo naturale» (?!), secondo cui «il valore intrinseco di un feto umano sarebbe inferiore a quello di un membro adulto normale di qualche altra specie di mammiferi»[12]. Ogni commento, oppure critica, è superflua.

L'enciclica Evangelium Vitae fa un breve cenno a posizioni del genere, limitandosi poi a riportare e confermare quanto in proposito era già stato detto nella Dichiarazione sull'aborto procurato, della Congregazione per la Dottrina della Fede, e nell'istruzione Donum Vitae, dello stesso Dicastero (cfr. EV 60). Per giungere alla conclusione convincente che simili teorie non sono in grado di conferire legittimità morale all'aborto, non è necessario attardarsi a dimo­strarne l'inconsistenza. È sufficiente sottolineare che sono per lo meno altrettanto serie le posizioni opposte, scientifiche e filosofi-che; perciò nessuno può prendersi l'arbitrio di spacciare per certe quelle teorie. E a rendere gravemente illecito ogni intervento mirante a sopprimere un embrione umano, basta anche «la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona umana» (EV 60). Chi agisce così, infatti, mostra chiaramente una volontà decisa ad uccidere.

Rimane, dunque, in tutta la sua forza la severa condanna morale dell'aborto procurato, come pure la qualifica di legge iniqua e giuridicamente nulla per ogni disposizione normativa che pretenda di autorizzare l'esecuzione di aborti.

Tra i problemi etici che la legalizzazione dell'aborto solleva, oltre alla ricordata sua valutazione morale, due vengono attenta­mente esaminati nell'enciclica: l'obiezione di coscienza e le nuove forme di cooperazione nell'esecuzione di aborti, a cui tali leggi hanno dato luogo.

 

L'obiezione di coscienza

 

II dovere di rifiutare l'obbedienza ad una legge che impone, o anche solo autorizza, azioni disoneste, ha sempre fatto parte non solo dell'insegnamento cristiano, e, prima ancora, della morale veterotestamentaria, ma anche della morale pagana. Si può dire che fa parte di ogni etica semplicemente umana. È proprio per la fedeltà a questo dovere che si sono avuti milioni di martiri nel cristianesi­mo, e di autentici eroi fuori di esso.

Antica, dunque, l'obiezione di coscienza come dovere, è invece recente la sua concessione come diritto, quale componente essen­ziale del diritto di libertà di coscienza.

Tale diritto, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uo­mo, è formulata nei termini seguenti: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione»[13]. Il contenuto di tale libertà ha trovato una sintetica e felice formulazione nella dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano n: «Nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza ne sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa»[14]. Come gli altri diritti umani, anche questo non deriva da leggi statali, ma scaturisce dalla dignità di ogni persona umana, e allo Stato compete solo il dovere di riconoscerlo, rispettarlo e farlo rispettare.

Del problema si sono occupati specialmente teologi, giuristi e studiosi di bioetica. Quanto al Magistero, sono state soprattutto le Conferenze Episcopali ad occuparsene nei loro documenti sull'aborto e la sua legalizzazione. Particolarmente ampio è lo sviluppo dell'argomento in uno dei documenti in proposito della CEI, l'istruzione su La comunità cristiana e l'accoglienza della vita umana nascente (18 dicembre 1978)[15].

Nei documenti del Magistero universale della Santa Sede, c'era-stato finora solo qualche breve accenno. Nella Dichiarazione sull'aborto procurato[16], del 1974, non compare la terminologia «obiezione di coscienza», ma un breve paragrafo, il n. 22, richiama il dovere di «non ubbidire ad una legge intrinsecamente immorale», e di «non collaborare alla sua applicazione». Ancora più breve è l'accenno che troviamo nella successiva istruzione Donum Vitae[17], del 1987, alla fine della terza parte «Morale e legge civile»: vi compare il termine «obiezione di coscienza», nei confronti di tutte le «leggi civili moralmente inaccettabili», con la semplice afferma­zione che essa «deve essere sollevata e riconosciuta». È dunque decisamente nuova l'ampiezza con cui l'argomento è trattato nella Evangelium Vitae. Lo troviamo svolto principalmente nei paragrafi 73 e 74, cioè subito dopo la valutazione morale della legalizzazione dell'aborto, una breve ripresa dell'argomento si ha poi nel capitolo successivo, il quarto, all'interno delle indicazioni circa i modi concreti di «servire il Vangelo della vita», nel paragrafo 89. Nei para­grafi 73 e 74 il problema dell'obiezione di coscienza viene intrec­ciato con quello della collaborazione, e questo a duplice livello, cioè quello legislativo (EV 73) e quello esecutivo (EV 74). L'in­treccio è nella realtà stessa, dato che l'obiezione di coscienza non è, in sostanza, che il rifiuto di aver parte, di collaborare, all'aborto. Ma didatticamente, per maggior chiarezza, conviene trattare distin­tamente le due questioni.

Circa V obiezione di coscienza come dovere, l'enciclica è cate­gorica nell'affermare che si tratta di un «grave e preciso obbligo». Non siamo più davanti a un'opinione di teologi, ma ad un chiaro insegnamento del Magistero pontificio. Opinioni opposte non pos­sono perciò essere adottate per le proprie scelte in materia, da quanti, appartenenti alla comunità ecclesiale, svolgono professioni nel cui esercizio si da la possibilità di essere coinvolti nell'esecu­zione di aborti. Professionisti e altri operatori cattolici però hanno solo un motivo in più per questo, rispetto agli altri. Ma per tutti vale, come esigenza di etica puramente razionale, il principio gene­ralissimo: bonum faciendum, malum vitandum. Quanti perciò, su­perando la cortina fumogena creata nelle nostre società attorno all'aborto, ne percepiscono con la luce della ragione la grave e assoluta illiceità, e la conseguente illegittimità di ogni legge che ne autorizza l'esecuzione, non possono non percepire chiaramente e convintamente l'esigenza etica di sollevare obiezione di coscienza, se svolgono qualcuna di quelle attività che possono comportare anche la partecipazione all'esecuzione di aborti.

Quanto all'obiezione di coscienza come diritto, l'enciclica (EV 74), oltre ad affermare l'esigenza che esso sia «previsto e protetto dalla stessa legge civile», mostra di tener conto di elementi che l'esperienza di questi anni ha evidenziato nei vari Paesi che hanno legalizzato l'aborto. Di qui certe precisazioni particolareggiate:

anzitutto l'estensione dell'obiezione, e del suo riconoscimento giu­ridico, anche nei confronti di quegli atti che costituiscono la «fase consultiva» nell'iter che conduce all'aborto. Sono molti, infatti, i Paesi, tra cui l'Italia, in cui la legge stabilisce una serie di adempi­menti, o procedure, tra il momento in cui una madre presenta la richiesta di abortire il figlio che porta in grembo e il momento in cui l'aborto potrà essere eseguito. Sono note le discussioni che ci sono state circa la liceità della partecipazione o meno dell'obiettore di coscienza a quelle procedure che l'enciclica indica come «fase consultiva»[18]. Implicitamente, ma chiaramente, la tesi qui accolta dal Magistero è quella della illiceità.

Altro particolare in materia, nell'enciclica, è l'affermazione dell'esigenza che il diritto all'obiezione di coscienza venga real­mente protetto, in modo che chi lo esercita non venga in alcun modo penalizzato per conseguenze dannose a cui rischia di andare incontro, quali, ad esempio: l'esclusione dall'accesso ad alcuni posti nelle strutture sanitarie, la perdita del posto già occupato, ed altre discriminazioni.

Un altro aspetto dell'obiezione di coscienza da sollevare in forma legale, è quello che riguarda i soggetti, cioè: a chi deve essere dalla legge riconosciuto il diritto a sollevare obiezione di coscienza. Nella Evangelium Vitae si trovano indicati: «medici», «operatori sanitari», «responsabili delle istituzioni ospedaliere, del­le cliniche e delle case di cura» (EV 74); ci si limita, dunque, a quelli che in misura evidentemente più prossima e diretta possono essere chiamati a cooperare nell'esecuzione di aborti. Mi si consen­ta di lamentare l'assenza di un criterio generale, suscettibile di includere tutte quelle professioni il cui esercizio può comportare, e di fatto ogni tanto effettivamente comporta, il compimento di atti che costituiscono una qualche partecipazione e cooperazione ad aborti. In altre parole: un criterio che affermi che il diritto di sollevare l'obiezione di coscienza deve essere riconosciuto dalla legge a tutti quelli che ne hanno il dovere. Saranno certo in primo piano le tré categorie di professionisti indicati nell'enciclica, ma accanto ad essi dovranno porsi anche altri, che varieranno nei diversi Paesi, col variare delle disposizioni contenute nelle rispetti­ve leggi. Si pensi, ad esempio, con riferimento alla situazione italiana, ad operatori nei consultori familiari, a giudici tutelari a cui è riservata l'autorizzazione ad abortire quando la richiedente è una minorenne, ed altri ancora.

 

La cooperazione all'aborto

 

La comparsa della legalizzazione dell'aborto ha comportato, fra l'altro, il configurarsi di forme nuove di cooperazione, e questo a un duplice livello: a livello legislativo, nella preparazione, discus­sione e approvazione di una legge, e a livello esecutivo nella effettuazione di aborti. La distinzione dei due livelli si trova di fatto, già nella Dichiarazione sull'aborto procurato. Si afferma, infatti, che nessuno «può ne partecipare ad una campagna di opi­nione in favore di una legge siffatta, ne dare ad essa il suffragio del suo voto. Non potrà neppure collaborare alla sua applicazione»[19]. L'enciclica, a sua volta riconosce che: «L'introduzione di legisla­zioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione» (EV 74).

Per la soluzione di molti di tali problemi è importante, e spesso sufficiente, «richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni cattive» (EV 74), principi con una consolidata tradizione nella teologia morale. In base ad essi, però, non si era giunti a trovare soluzioni pacificamente condivise ad alcuni tra i problemi nuovi, più direttamente connessi con il fatto nuovo della legalizza­zione dell'aborto. Un caso del genere lo abbiamo già incontrato in tema di obiezione di coscienza.

Un problema davvero recentissimo si è posto, nell'ambito dell'attività legislativa: in alcuni dei Paesi che avevano da anni legalizzato l'aborto «si vanno manifestando segni di ripensamento» (EV 73), anche in forze politiche a suo tempo promotrici di una legislazione ampiamente permissiva. L'obiettivo che si delinea non è, tuttavia, quello di un'abrogazione della legge, ma solo quello di renderla più restrittiva. In altri Paesi che non hanno ancora legaliz­zato l'aborto, si da il caso della discussione in Parlamento di due progetti di legge, uno più permissivo e l'altro meno. Assommando le due situazioni, l'enciclica nota che «simili casi non sono rari» (EV 73). Il problema etico che si pone è se sia lecito a mèmbri del Parlamento dare il voto favorevole alle proposte di modifiche re­strittive di una legge che, pur così emendata, rimane sempre una legge iniqua, oppure alla legge meno permissiva, anch'essa ingiu­sta. La soluzione proposta nell'enciclica è quella di liceità, ma a precise condizioni, che possono essere così schematizzate:

1) im­possibilità reale dell'alternativa di abrogare la legge esistente, op­pure di impedire l'introduzione di una legge favorevole all'aborto;

2) peso determinante dei voti in questione per l'approvazione della legge meno permissiva, oppure delle modifiche in senso restrittivo della legge vigente;

3) riaffermazione chiara e pubblica della con­trarietà ad ogni legge che autorizzi l'aborto. La motivazione del giudizio di liceità di voti favorevoli in presenza di tutte le accennate condizioni, è formulata nei termini seguenti: «Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piutto­sto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui» (EV 73). Non sarà superfluo notare che la traduzione italiana ha indebitamente trasformato in obbligatorio, «doveroso», quello che invece nel testo originale latino è detto «opportuno»:

aequus opportunusque. Non è una differenza di poco conto dire di una scelta che è «opportuna» oppure che è «doverosa». Una scelta «doverosa» è per ciò stesso obbligatoria, non farla è perciò illecito. Se invece è solo «opportuna», rimane un margine di discrezionalità alle persone che, in base ad una valutazione attenta della situazione concreta, possono anche lecitamente maturare una scelta diversa. E questo in politica può verificarsi con particolare frequenza.

 

Elementi nuovi nell'enciclica anche sull'aborto considerato in se stesso

 

Parlando di «elementi nuovi» non intendiamo novità in assoluto, cioè nel senso di cose mai dette da nessuno nella riflessione etica sull'aborto, ma piuttosto nel senso di cose che non si trovano in precedenti documenti del Magistero pontificio, oltre quelle già rilevate all'inizio, circa l'impostazione, la metodologia teologica adottata, la singolare solennità nel confermare la condanna morale, e, poco sopra, alcuni aspetti riguardanti la cooperazione.

Una prima novità, anche se non particolarmente importante, è la denuncia dell'ambiguità della terminologia invalsa per indicare l'aborto: «interruzione della gravidanza», «che tende a nasconderla vera natura e ad attenuarne la gravita nell'opinione pubblica» EV 58). E infatti quella terminologia getta una specie di cortina fumogena sulla realtà di violenza omicida che è costitutiva all'aborto: parlando di «gravidanza», l'attenzione si porta più alla donna che sul bambino, perché la gravidanza è una particolare indizione della donna; e parlando di «interruzione», si cancella ogni richiamo alla tragicità dell'aborto, si interrompe una conversa­cene, una trasmissione televisiva, che riprenderà presto. Il Pontefi­ce non esita, perciò, a presentare come un dovere dell'ora presente quello di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compro­messi di comodo o alla tentazione dell'autoinganno» (EV 58). In in cesta pagina dell'enciclica si sentono riecheggiare alcune delle indicazioni che lo stesso Pontefice da nel suo secondo Messaggio per la Giornata della Pace, quella del 1980, sotto il titolo La verità, forza della pace. Dopo la denuncia delle molteplici forme di «non-y^rità» nel nostro tempo, e quindi l'urgenza di operare una «restaurazione della verità», Giovanni Paolo n scrive: «Restaurare la verità significa, innanzitutto, chiamare con il loro nome gli atti di violenza, quali che siano le forme che assumono. Bisogna chiamare l'omicidio con il suo nome: l'omicidio è un omicidio»[20].

E attuando subito per primo lui stesso il dovere di chiamare aborto con il suo nome vero, il Papa da una definizione veritiera aborto, ed è anche questo un elemento nuovo, scostandosi notevolmente da quella consueta e tradizionale («espulsione del feto vivo ma non vitale»): «l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita» (EV 58).

Vediamo inoltre l'enciclica attardarsi, subito dopo (altra novità) nel mettere in evidenza la particolare gravita morale di questo omicidio, in base a «le circostanze specifiche che lo qualificano»: l’ucciso è un essere umano «innocente in assoluto» «debole, iner­me» all'estremo, «totalmente affidato» alla madre, e proprio questa e y, volte la responsabile prima dell'uccisione di uno che è suo figlio (cfr. EV 58). Appare così pienamente giustificata la pesante condanna dell'aborto da parte del Concilio Vaticano n che lo qualifica, insieme all'infanticidio, come «delitto abominevole»[21].

La chiamata in causa della madre è seguita da un quadro ampio e diversificato di altre responsabilità e complicità, sia personali (a cominciare dal padre), sia sociali e culturali, «fino a comprendere istituzioni intemazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto li nel mondo», configurando così, una «struttura di peccato» contro la vita umana non ancora nata (EV 59). La più recente e clamorosa conferma di questa grave denuncia si è avuta in occasione della preparazione e svolgimento della Conferenza Intemazionale indet­ta dall'ONU su «Popolazione e sviluppo», e tenutasi al Cairo nel settembre 1994. È in causa la stessa ONU, e tutta una serie di organismi, pubblici e privati, da tempo documentatamente denun­ciati da studiosi di indubbio valore[22]. E l'obiettivo a cui si mirava era addirittura quello di «un riconoscimento generalizzato, su scala mondiale/del diritto all'aborto senza restrizione alcuna»[23].

L'aver concentrato l'attenzione sui problemi etici in tema di aborto trattati nella Evangelium Vitae, può lasciare l'impressione di essere davanti a un testo scritto da chi si atteggia a freddo giudice che pronuncia severe condanne contro persone che tante volte hanno vissuto e vivono l'aborto tra acute e laceranti angustie. Nulla di più falso. Giudizi e condanne morali, in etica, riguardano sempre e solo i comportamenti in se stessi, nel nostro caso l'aborto, mai le persone.

E la chiarezza nel formularli è un servizio alle persone, special­mente quando si tratta di verità morali sulle quali si sono addensate fitte nebbie di errori e confusioni socialmente diffusi. Come affermava Paolo vi, «non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente forma di carità»[24].

Ma c'è da aggiungere che tutta l'enciclica Evangelium Vitae traspira quell'amore appassionato per l'uomo concreto del nostro tempo, che tutti riconoscono come una delle caratteristiche più evidenti di Giovanni Paolo n.

Tra i vari passi in cui quell'amore brilla con particolare splendo­re, ne scelgo uno e lo pongo a conclusione di questo studio. Verso la fine dell'Enciclica, tra le indicazioni operative c'è anche quella di una specie di mobilitazione generale per promuovere una cultura della vita. In questo pacifico esercito il Pontefice riserva un posto particolare alle donne che hanno abortito. E lo fa rivolgendosi direttamente a loro: «Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti condi­zionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubi­ta che in molti casi s'è trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s'è anco­ra rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profon­damente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggia-mento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piut­tosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimen­to: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdo­no e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorge­rete che nulla è perduto e potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo» (EV 99).

 

LINO CICCONE



[1] G. caprile (a cura di), Non uccidere. Il Magistero della Chiesa sull'aborto. Ed. «La Civiltà Cattolica», Roma 1973, p. 9 s.

 

[2] id., Giovanni Paolo II. Dieci anni per la vita. Centro Documentazione e Solidarietà, Firenze 1988.

 

[3] Cfr. E. cavallaro (a cura di), / Vescovi italiani e il diritto a nascere. La Parola, Roma 1982.

 

[4] segreteria generale della conferenza episcopale italiana (CEI), Lettera ai mèmbri della conference episcopale italiana (19 dicembre 1978), «Notiziario CEI», 10 (1978), p. 172.

 

[5] I documenti delle Conferenze Episcopali, e anche di singoli Vescovi, si possono trovare nella monumentale raccolta Lettere Pastorali, Ed. Magistero Episcopale, Verona.

 

[6] giovanni paolo n. Lettera enciclica «Evangelium Vitae» (23. 5. 1995), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995. Da ora in poi si citerà EV.

 

[7] II testo della Lettera del Papa ai Vescovi (19 maggio 1991) si trova in Insegnamenti di Giovanni Paolo n, XIV, 1 (1991), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 1293-1296.

 

[8] concilio vaticano n. Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Lumen Gentium», nn. 12 e 25, in «Enchiridion Vaticanum» (EV), 1, Dehoniane, Bologna 1981, pp. 120-257.

 

[9] Si veda, ad esempio: AA.VV., Ordine morale e ordine giuridico, Dehoniane, Bologna 1985; A. caprioli - L. vaccaro (a cura di), Diritto, morale e consenso sociale, Morcelliana, Brescia 1989.

 

[10] giovanni xxm, Lettera enciclica «Pacem in Terris», il (citata in EV 72).

 

[11] H.T. engelhardt Jr., Manuale di bioetica, Il-Saggiatore, Milano 1991, pp. 126 ss.

 

[12] Ibi, p. 133. Le posizioni di Hartshorne si possono trovare esposte in: ch. hartshorne, Aspetti scientifici e religiosi della bioetica, in E.E. shelp (a cura di). Teologia e bioetica, Ed. Dehoniane, Bologna 1989, pp. 73-98.

 

[13] organizzazione delle nazioni unite, Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, 1948.

 

[14] concilio vaticano il. Dichiarazione sulla libertà religiosa «Dignitatis Humanae», n. 2, in EV, l,pp. 578-605.

 

[15] II testo in «Notiziario CEI», 10 (1978), pp. 149-170, o anche in Enchiridion CEI, 2, Dehoniane, Bologna 1985, pp. 1174-1199.

 

[16] congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull'aborto procurato (18.11.1974), n. 22, in EV, 5 (1974), pp. 418-443.

 

[17] id., Istruzione su «II rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (Donum Vitae) (22.2.1987), m, ibi, 10 (1988), pp. 818-893.

 

[18] Si veda, ad esempio: D. tettamanzi, Problemi morali circa la coopcrazione all'aborto, «Medicina e Morale» 28 (1978), pp. 396-427; AA.VV., Interruzione volontaria della gravidanza e intervento di consulenza familiare, ucipem - Istituto «La Casa», Milano 1983; L. ciccone, Non uccidere, Ares, Milano 1984, pp. 204-220.

 

[19] congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, n. 22.

 

[20] giovanni paolo il, Messaggio per la XIII Giornata Mondiale della Pace «La verità, forza capace» (18.12.1979): Insegnamenti di Giovanni Paolo n, n, 2, 1979, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1980, p. 1446.

 

[21] concilio vaticano n, Costituzione pastorale sulla Chiesa «Gaudium et Spes», n. 51, in £V,l,pp. 770-965.

 

[22] Si vedano in particolare gli studi di M. schooyans, L'avortement, problème politique, «Nouvelle revue théologique», 106 (1974), pp. 1031-1053; 107, 1975, pp. 25-50 (i due articoli sono riuniti in un volumetto, in traduzione il italiano L'aborto problema politico, Elle Di Ci, Leumann (To) 1975); id., L'avortemente enujeux politiques, Editions du Préambule, Québec 1990 (trad. it. Aborto e politica. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991). Al termine di quest'ultimo volume, vi è un'ampia bibliografia.

 

[23] giovanni paolo il. Lettera ai Capi di Stato di tutto il mondo e al Segretario Generale dell'ONU (19 mano 1994), «L'Osservatore Romano», 15.4.1994.

 

[24] paolo vi. Lettera enciclica «Humanae Vitae» (25.7.1968), n. 29, in EV, 3 (1982), pp. 280-319.