Dal dono al Vangelo della vita: per una
lettura teologica dell'enciclica Evangelium Vitae
Appena
otto anni dopo la pubblicazione dell'istruzione sul rispetto della vita umana
nascente e la dignità della procreazione (Donum Vitae), della
Congregazione per la Dottrina della Fede, Giovanni Paolo n ha ripreso di nuovo
il filo del discorso con un secondo e più ampio documento - questa volta
un'enciclica, l'Evangelium Vitae -incentrato sul valore e
l'inviolabilità della vita umana. Tutte e due i documenti pontifici toccano
questioni di grande attualità e portata per l'etica medica, in una linea che si
ricollega sia alla razionalità ippocratica che, naturalmente, alla tradizione
cristiana. I due testi però si differenziano in modo estremamente
significativo, non solo per quanto riguarda lo scopo che intendono raggiungere,
ma anche per la prospettiva adottata nell'esaminare il tema ad essi comune: la
vita umana. Per questo motivo mi è parso opportuno sviluppare le presenti
riflessioni a partire dal raffronto tra i due documenti.
Dalla Donum Vitae alla
Evangelium Vitae
Come
si ricorderà, l'istruzione Donum Vitae espone, in modo dialogico,
conciso, la risposta della Chiesa ad alcuni interrogativi morali sollevati
dalle tecniche di riproduzione artificiale, dalla ricerca genetica, dalla
medicina prenatale ecc. L'istruzione spiega se, in quale misura e perché, le
nuove procedure biomediche siano conformi o meno ai principi della morale
cattolica. Il suo campo pertanto rimane circoscritto alla fase iniziale
dell'esistenza umana, e in fondo si riconduce a due sole questioni essenziali:
da una parte, quale sia il giusto atteggiamento etica da tenere nei confronti
dell'embrione umano nelle differenti fasi della crescita intrauterina;
dall'altra, quali regole deve osservare l'intervento medico sulla generazione
umana che voglia essere rispettoso della dignità della persona.
A
questi due quesiti, l'istruzione da una risposta precisa. In primo luogo,
l'embrione deve essere trattato come persona già dal momento stesso del concepimento,
e gli devono essere riconosciuti i diritti fondamentali che sono patrimonio
della specie umana. In secondo luogo, il solo contesto degno per la
procreazione di un essere umano è l'atto di amore coniugale mediante il quale
gli sposi esprimono la loro mutua donazione e pongono le condizioni per il
concepimento del figlio; di conseguenza, l'intervento medico non può
sostituirsi all'unione sponsale ma deve aiutarla affinché raggiunga il suo
fine naturale.
A
otto anni di distanza, la problematica esaminata dalla Donimi Vitae è
rimasta pressoché immutata, semmai acutizzata da alcune stravaganti esperienze
(come la cosiddetta «clonazione») e dal moltiplicarsi di procedure che mancano
delle condizioni per essere alternative accettabili per la cura della sterilità.
Nel frattempo, la ricerca di laboratorio non ha offerto novità tali da
modificare il giudizio etico, mentre il dibattito intorno all'identità
dell'embrione umano sembra stagnare intorno ai tentativi di autorizzare la
sperimentazione di base durante le prime due settimane dello sviluppo
embrionale; tentativi che l'Istruzione della Congregazione per la Dottrina
della Fede respinge nel modo più assoluto.
Per quali ragioni, allora, un nuovo documento pontificio in difesa
della vita?
Due
sembrano i motivi: uno strettamente collegato all'etica medica; l'altro,
dipendente da circostanze sociali e culturali. Il primo è costituito del
ritorno strisciante dell'eutanasia. Il diritto al suicidio assistito ha avuto
già un primo riconoscimento referendario nello Stato dell'Oregon (USA), la cui
applicazione è rimasta per ora sospesa, mentre la possibilità di anticipare la
fine dei malati inguaribili o degli anziani non-autonomi è diventata reale in
Olanda dopo l'approvazione di una procedura amministrativa che lascia un ampio
margine d'immunità legale al dottore che decida di somministrare un'iniezione
letale a un paziente. Tutto questo avviene in un momento molto delicato per la
professione medica, dal momento che è in corso un dibattito a livello mondiale sulla
riduzione e razionalizzazione delle spese sanitarie. Ormai è risaputo che, tra
misure in studio, da più parti si parla di escludere alcuni malati, soprattutto
anziani, dall'accesso alle terapie più costose, il che è puntualmente avvenuto
già in alcuni Paesi industrializzati.
II
secondo motivo appare molto più complesso. Esso prende spunto dalla
constatazione che certi comportamenti aggressivi contro la vita si accaniscono
selettivamente sui soggetti più indifesi, come il bambino e il malato terminale.
Inoltre, tali gesti violenti hanno perso nella coscienza dei cittadini il loro
carattere delittuoso, sino al punto che ormai sono considerati diritti che la
legge civile dovrebbe proteggere, mentre spetterebbe allo Stato garantire la
loro applicazione mediante strutture e servizi gratuiti. Le leggi contro la
vita non sono state promulgate ne da tiranni ne da regimi totalitari. Al
contrario, esse godono molte volte del consenso di buona parte dei cittadini,
che evidentemente non si rendono conto di quanto siano ingiuste. Tenendo
presente questo problema, ma anche molte altre manifestazioni violente che
affliggono il mondo - guerre spieiate, terrorismo, sanguinosi conflitti etnici,
droga, sfruttamento ecc. -, VEvangelium Vitae arriva a dire che «il
ventesimo secolo verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la
vita, un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane
innocenti»[1].
Se
la Donum Vitae si è occupata dei dilemmi sollevati dalle biotecnologie, l’Evangelium
Vitae si è preoccupata della minaccia incombente di un paradigma - una
guerra disumana e disuguale dei potenti contro i deboli - che mette in pericolo
la sopravvivenza della stessa civiltà contemporanea. Per questo motivo
l'Enciclica r trascende il contesto dottrinale tipico dei documenti di
bioetica, sino ad acquistare la profondità e l'ampiezza di vedute
caratteristica delle grandi encicliche sociali. Ormai non si tratta di offrire
solo un giudizio etico su problemi puntuali: costumi, atteggiamenti, leggi
ecc., bensì di mettere in azione; risorse morali e spirituali che portino ad un
ribaltamento della situazione e al recupero sociale e culturale della
centralità della persona umana e della sua innata dignità.
L'enciclica
accenna pure ad una «congiura contro la vita», nel senso che l'attuale
situazione non può essere spiegata semplicisticamente, ma piuttosto attraverso
il riconoscimento di tutta una serie di elementi che sembrano avere fatto causa
comune contro la vita. Fra questi fattori di fondo, il Papa cita l'oscuramento
del valore positivo della vita umana, come conseguenza dello scetticismo
predominante nella mentalità contemporanea; certe strutture di peccato o
condizioni che rendono pesanti e difficili le scelte per la vita; il
ribaltamento di alcuni valori tradizionali, come per esempio quello che ha
trasformato l'indigente in un soggetto minaccioso dal quale è necessario
difendersi e che conviene persino eliminare; un concetto d'individualità
contrapposto alla comunità e un esercizio della libertà svincolato dalla verità
ecc. Ma, soprattutto, quello che il Papa chiama il «cuore del dramma vissuto
dall'uomo contemporaneo: l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica
del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo»[2].
Come conseguenza, «la coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi
sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti della comunicazione
sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione
tra il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla
vita»[3].
A
questo punto, posto il problema della causa fontale del fenomeno delle minacce
contro l'uomo in termini d'eclissi, d'oscuramento, di confusione ecc.,
l'enciclica si propone di recuperare e di proclamare il valore della vita. Questo
è essenzialmente l'aspetto di annunzio che ha dato origine al titolo
dell'enciclica e che la rende un documento unico. Il Vangelo della vita
comprende due parti: la prima prende spunto dalla spiegazione del quinto
comandamento;
la
seconda proclama la chiamata in Cristo dell'uomo alla vera Vita.
La
proibizione del decalogo - «non uccidere» - è stata in tutti i popoli e culture
il principale argine morale contro le violenze individuali e collettive. Non
sembra, pertanto, ingiustificato supporre che l'attuale diffusione di
comportamenti aggressivi possa corrispondere ad un affievolimento della
percezione di un divieto che peraltro appartiene alla legge naturale, cioè è
profondamente radicato nella stessa natura razionale dell'uomo.
La
parte dottrinalmente più impegnativa dell'enciclica è proprio il terzo
capitolo, dedicato all'esposizione dettagliata del contenuto, fondazione
biblica e giustificazione razionale del comandamento «non uccidere». Tutto il
testo è chiaramente ordinato a riaffermare il valore della vita e la sua
inviolabilità, attraverso la solenne definizione di tre principi etici. Il
primo, di carattere più generale, dichiara che «l'uccisione diretta e
volontaria di un essere umano innocente è sèmpre gravemente immorale»[4].
Gli altri due applicano questa norma ai due comportamenti che costituiscono la
più grave infrazione all'inizio e alla fine della vita, asserendo che «l'aborto
diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine
morale grave»[5], e che,
ugualmente, «l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio»[6].
Mi
sembra evidente che il capitolo tiene conto del dibattito sul valore assoluto
di alcuni principi della legge morale naturale che ha dominato la teologia
morale in questi ultimi anni. Secondo la tesi sostenuta da alcuni moralisti,
non si potrebbe parlare propriamente di norme di valore assoluto poiché esse o
hanno un carattere indeterminato e in questo caso servirebbero solo come
indicatori di beni umani senza imporre però precise obbligazioni etiche, oppure
hanno una formulazione determinata e allora sarebbero valide soltanto per
alcune situazione concrete. In altre parole, le norme della legge naturale non
sarebbero valide semper et prò sempre cioè, per tutti gli uomini, in
ogni caso e circostanza -, ma soltanto ut in pluribus, cioè nella
maggior parte dei casi. Ciò significa riconoscere l'esistenza di eccezioni più
o meno consistenti a seconda del precetto concreto di cui si parla[7].
Per illustrare tale tesi è stato citato molto spesso il quinto comandamento.
L'espressione «non uccidere» rappresenterebbe soprattutto un'affermazione del
fatto che la vita ordinariamente è un bene per l'uomo, senza escludere però il
contrario, almeno in alcune situazioni limite. In ogni caso, tale espressione
non dovrebbe essere presa come un divieto assoluto, poiché ci sono circostanze
in cui è lecito uccidere. Secondo questa tesi, la legittima difesa, la pena di
morte e la guerra giusta rappresentano eccezioni alla norma che vieta
l'omicidio.
Il
problema è certamente complesso, e l'enciclica non ha voluto affrontarlo nei
suoi termini teorici, anche perché di questo argomento si è occupata
recentemente un'altra enciclica, la Veritatis Splender. Invece l’Evangelium
Vitae, proponendo con grande autorità i tre principi prima citati, vuole
asserire tre norme morali determinate, che da una parte risultano evidenti nel
loro preciso contenuto morale - non hanno, infatti, bisogno di ulteriori spiegazioni
- e dall'altra sono affermate come valide sempre e in tutte le circostanze. I
principi citati non sono altro che determinazioni concrete, e in se stesse
ovvie, del quinto precetto del decalogo. Tutti e tre esprimono divieti
assoluti, che non ammettono eccezioni: nessun motivo, per quanto grave o
drammatico possa apparire, può giustificare la soppressione di un uomo o di una
donna innocente[8]. Lo stesso
giudizio si applica ai momenti iniziale e finale dell'esistenza umana, che sono
quelli maggiormente in pericolo, come è stato già detto più volte.
È
stato detto che lo scopo principale dell'Evangelium Vitae è quello di
proporre indicazioni pastorali da ribadire con particolare insistenza per
contrastare le spinte di una cultura di morte. Oppure che non pretende altro
che esprimere, con un linguaggio particolarmente consono con la natura della
Chiesa, le linee che devono ispirare l'azione dei cristiani nella società
contemporanea. Tuttavia, indipendentemente dalle evidenti ragioni di
opportunità, si tratta di principi che vanno al di là dei segni dei tempi e che
devono essere recepiti come verità immutabili che formano parte essenziale del
messaggio cristiano sulla vita. L'enciclica esclude qualsiasi perplessità circa
le intenzioni del Santo Padre di proporre tre principi definitivi e
irriformabili, la cui certezza è garantita dal carisma dell'infallibilità che
corrisponde al Magistero ordinario della Chiesa, diretta espressione del munus
accendi che Cristo conferì a Pietro e agli altri Apostoli e ai loro
legittimi successori.
Ad
una tale conclusione si arriva sia esaminando la storia del documento papale,
sia considerando il linguaggio e il contesto in cui vengono proposti i tre
principi citati.
Per
quanto riguarda la storia, è lo stesso Giovanni Paolo n a ricordare le tappe principali:
la convocazione, nei primi giorni del mese di, aprile del 1991, di un
Concistoro straordinario con la partecipazione di 112 Cardinali di tutto il
mondo. I lavori dei porporati si chiusero con la richiesta al Papa di una
solenne riaffermazione «dell'insegnamento costante della Chiesa sul valore
della vita umana e sull'intangibilità, alla luce delle attuali circostanze e
degli attentati che oggi la minacciano»[9].
Per
venire incontro alla richiesta dei Cardinali, che il Santo Padre dimostrò
subito di voler accogliere, le possibilità erano fondamentalmente due: o
proporre una definizione ex cathedra (Magistero straordinario), oppure
rendere esplicito e inequivocabile il consenso di tutti i Vescovi
nell'insegnamento di un principio morale concreto (Magistero ordinario).
La
prima soluzione non presentava particolari difficoltà, pur tenendo presente il
dibattito di queste ultime decadi, e soprattutto dopo la pubblicazione
dell'enciclica Humanae Vitae di Paolo vi, sull'opportunità di una
definizione ex cathedra in materia morale. Il Cardinale Ratzinger
dissipò le incertezze al riguardo ricordando, nella conferenza di apertura dei
lavori del Concistoro, la validità dottrinale del principio «l'uccisione
diretta di un essere umano innocente è sempre materia di colpa grave»[10].
La
seconda soluzione trovava un solido precedente nella dichiarazione del
Concilio Vaticano II (che riprende un principio stabilito un secolo prima dal
precedente Concilio Vaticano)[11]
secondo la quale i Vescovi in comunione con i loro colleghi e con il successore
di Pietro «quando, nel loro insegnamento autentico circa materie di fede e di
morale convengono su una sentenza da ritenersi come definitiva, enunciano
infallibilmente la dottrina di Cristo»[12].
Il Papa può insegnare in modo infallibile una dottrina mediante un atto
straordinario e solenne, come è per l'appunto una dichiarazione dogmatica;
tuttavia, con altrettanta autorità può proporre una sentenza ritenuta
immutabile unanimemente da tutti i Vescovi della Chiesa in comunione con il
successore di Pietro. Il problema più che altro sta nel modo di rendere
visibile l'unanimità del collegio episcopale.
Giovanni
Paolo il scelse questa seconda strada. Due mesi dopo la fine del Concistoro,
inviò una lettera a tutti i Vescovi sollecitando la loro collaborazione. In
questo modo apriva un dialogo che doveva mettere in chiaro la convergenza di
più di quattromila Vescovi sparsi per tutto il mondo. Effettivamente le
risposte dei presuli resero palese - come sottolinea la stessa enciclica - «la loro
unanime e convinta partecipazione alla missione dottrinale e pastorale della
Chiesa circa il Vangelo della vita»[13].
Il
linguaggio e la sintassi impiegata nella formulazione dei tre principi conferma
puntualmente quanto abbiamo rilevato. Da una parte, la precisione tecnica dei
termini usati. Dall'altra, lo stile enfatico, poco frequente[14],
che viene a sottolineare quella «solennità» che era stata sollecitata dai
Cardinali. Ma sono soprattutto le parole che precedono e accompagnano ciascuna
delle tre dichiarazioni[15]
a dare la misura del valore teologico. Esse seguono uno schema molto preciso:
invocazione della propria suprema autorità magisteriale come successore di
Pietro, dichiarazione di comunione con il collegio episcopale, proposizione del
principio, e infine indicazione dei fondamenti dottrinali: legge naturale,
Parola di Dio scritta. Tradizione viva della Chiesa e Magistero ordinario
costante e universale. È ovvio che non si vuole lasciare alcun dubbio sull'infallibilità
dell'insegnamento proposto.
L'enciclica
Evangelium Vitae vuole dissipare gli atteggiamenti dubitativi[16],
irrobustire le certezze dei credenti e di tutti coloro nei , quali la cultura di morte possa avere
debilitato il convincimento dell'assoluta inviolabilità della vita umana innocente.
Essa punta verso il superamento di una sensibilità morale incerta e verso il
riscatto del ruolo della coscienza nella presa di decisioni libere e autonome
conformi alla dignità della persona umana, contro il relativismo etico, inteso
come l'utopica pretesa di affermare la libertà svincolandola da qualsiasi
verità.
L'enciclica
mette in guardia contro il pericolo del «fondamentalismo», riconoscendo che
nella storia non sono mancati episodi in cui sono stati commessi dei crimini in
nome di una «verità» manipolata secondo interessi di parte. Ma altrettanto
chiaramente avverte che la stessa storia è testimone di altri crimini non meno
gravi, significativamente legati a negazioni radicali della libertà, che sono
stati commessi, e continuano ancora oggi ad essere commessi, perché si rifiuta
la verità morale. Laddove non c'è una norma che vincoli la libertà di tutti,
incombe più che mai il rischio che il più debole rimanga alla mercé del più
forte. Un sistema stabile ed equo di garanzie per tutti, senza discriminazioni,
è solo possibile sulla base del riconoscimento dell'«esistenza di valori umani
e morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere
umano ed esprimono e tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che
nessun individuo, nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare,
modificare o distruggere»[17].
Tra questi valori si trovano, appunto, l'inviolabilità e la sacralità della
vita umana innocente, inclusa sia quella del bambino non nato che quella del
malato o dell'anziano nella tappa finale della loro esistenza.
Sarebbe
un errore concludere, da quanto è stato detto finora, che la principale
giustificazione della nuova enciclica di Giovanni Paolo n va ricercata nei tre
principi citati. Per lo meno, personalmente non sono di questo parere. Quando
si pretende di recuperare o sviluppare una maggiore sensibilità morale nei
confronti della vita umana, è necessario fare memoria di quei limiti che devono
essere rispettati da tutti. Ciò però è soltanto la premessa, o la parte che
possiamo considerare difensiva. Tuttavia, se il problema consiste
veramente in un indebolimento della percezione del valore della vita, il semplice
ricordare la serie di divieti che ne tutelano l'integrità non porterà
necessariamente a fare della vita un qualcosa di più desiderabile o
allettante. Rispettiamo molte cose che non ci piacciono. Anzi, proprio questo
costituisce una non piccola difficoltà per capire le ragioni che esigono un
atteggiamento rispettoso di fronte a cose che ci sembrano poco attraenti.
Il
quinto comandamento, proibendo l'omicidio e il suicidio, indica una barriera
etica che nessuno può valicare, tuttavia non dice molto a prima vista sul
problema se vale la pena vivere e lasciare vivere, e perché. Il precetto «non
uccidere» esprime una volontà di Dio. Da qui, però, non segue che uno non possa
non desiderare di morire o non possa interrogarsi se qualche volta la morte non
sia un'alternativa preferibile alla vita. L'uomo ha bisogno di qualcosa di più
della proibizione. Un veto gli dice che qualcosa è illecito e, pertanto,
cattivo. Tuttavia, quando certi comportamenti indubbiamente delittuosi - si
pensi all'eutanasia perinatale, alla sperimentazione su embrioni umani ecc. -
sono giustificati con argomenti pretestuosi, che negano alle vittime sia la
dignità che lo stesso diritto a difendersi e a essere difesi, è chiaro che
stiamo davanti a qualcosa di molto più serio di una «deprecabile» violazione
del decalogo. Solo una gravissima patologia della coscienza può presentare
tali ingiustizie come un male minore, eticamente utile o preferibile. Con
questa logica malata ci vuole poco per finire di giudicarle oneste e onorabili,
e finalmente per concludere che sono obbligatorie.
Nella
Familiaris Consortio[18]
Giovanni Paolo n denominò questo fenomeno antilife mentality.
L'enciclica Evangelium Vitae riprende le riflessioni lì iniziate e le
porta alle sue estreme conseguenze, soprattutto nel secondo capitolo, dove
espone il messaggio cristiano sulla vita. Secondo me qui si trova la
principale novità dell'enciclica. Il Papa mette da parte deliberatamente le
considerazioni filosofiche, scientifiche e tecnologiche a favore della vita –
alle quali giustamente ha dato notevole risalto in altri documenti -, per rispondere,
sulla base quasi esclusiva della dottrina cristiana, a interrogativi come: la
vita non è in qualche caso un peso insopportabile? Vale la pena vivere sempre
e comunque? La vita dell'uomo è davvero preziosa in ogni momento della sua
parabola terrena? E così via.
Giovanni
Paolo n riconosce la molteplicità dì situazioni, di esperienze e di storie
personali, anche quelle più amiate e dolorose. Ma proprio per questo invita a
riscoprire la preziosità dell'esistenza dell'uomo in tutta la sua grandiosità
alla luce di quanto Dio stesso ha voluto rivelare. La vita umana appare di
fatto fragile, contingente, esposta a mille pericoli e inganni. Se non fosse
presentata nei testi sacri come un bene così prezioso agli occhi del Creatore e
del Redentore dell'uomo, la vita dell'uomo si proporrebbe come un enigma
indecifrabile. Tuttavia, il cristiano annunzia l'evento incredibile che la
creatura umana è l'oggetto di un tenero e forte amore da parte di Dio[19],
che la vita è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura[20],
che essa è chiamata a raggiungere il suo compimento nella vita promessa dal
Cristo, che consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla
pienezza del suo amore[21]
ecc.
Sono affermazioni forti, che riecheggiano la concezione teologale della persona umana come immagine divina. Affermazioni che sollecitano una lettura attenta e meditata di un'enciclica scritta alle porte di un nuovo millennio, nella speranza di essere il lievito per una trasformazione epocale dell'umanità.
[1] giovanni paolo n, Lettera enciclica «Evangelium Vitae» (25.3.1995), n. 17, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1995. Da qui in avanti si citerà EV.
[2] EV 21.
[3] EV 24.
[4] EV 57.
[5] EV 62.
[6] EV 66.
[7] La questione è stata già affrontata dall'enciclica Veritatis Splender, che ha qualificato tale tesi incompatibile con la tradizione morale cattolica.
[8] Cfr. EV 55. La difesa della vita autorizza, in un caso estremo dove non rimanga altra alternativa, a porre in atto un'azione che abbia come effetto la morte dell'aggressore ingiusto. Anche in questo caso, però, l'intenzione non deve essere la morte del prossimo, bensì la tutela della vita in pericolo. L'odio - volere il male di qualcuno - non è mai lecito.
[9] «L'Osservatore Romano», 8/9.4.1991.
[10] «L'Osservatore Romano», 5.4.1991. Il moralista americano G. grisez pubblicò nel 1987 un interessante lavoro con il titolo: Thè definability of thè proposition: «thè intentional killing ofan innocent human being is aiways grave matter», in AA.VV., Persona, Verità e Morale, Citta Nuova, Roma 1987, pp. 291-314.
[11] concilio vaticano i, Costituzione dogmatica sulla Chiesa «Dei Filius», n. 3, in H. denzinger - A. schonmetzer (a cura di), Enchiridion Symbolorum Definitionum et Declarationum de rebus fidei et inorum, Herder, Barcellona 1965, pp. 589-590.
[12] concilio vaticano il, Costituzione dogmatica «Lumen Gentium», n. 25, in «Enchiridion Vaticanum» (EV), 1, Dehoniane, Bologna 1981, pp. 172-177.
[13] EV 5.
[14] Giovanni Paolo n ha usato questa formula lo scorso anno nella lettera in cui confermava che il sacerdozio è riservato agli uomini: v. giovanni paolo n, Littera «De ordinatione sacerdotale» (22.5.1994).
[15] Ecco le espressioni usate: per l'inviolabilità dell'innocente: «Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cfr. Rm 2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale» (EV 57).
Per l'aborto: «Con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi - che a varie riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente Sconsentito circa questa dottrina - dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale» (ibi, 62).
Per l'eutanasia: «In conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale» (ibi, 65).
[16] Per esempio, nel documento sull'ordinazione sacerdotale, Giovanni Paolo n spiega expressis verbis che è stata sua intenzione nello scrivere la lettera ut omne dubium auferatur (eliminare una volta per tutte qualsiasi tipo di dubbio).
[17] EV 71.
[18] giovanni paolo il, Esortazione apostolica «Familiaris Consertici» (22.11.1981), n. 30, in EV, 1 (1985), pp. 1454-1459.
[19] EV 31.
[20] EV 34.
[21] EV 37.