CAPITOLO IX
QUALCHE PUNTO DI RIFERIMENTO PER LA LETTURA DEL
PENTATEUCO
Non sarà possibile, nel quadro ristretto di questa
introduzione, proporre una teoria completa sulle origini e la formazione del
Pentateuco. Forse una tale impresa non è ancora possibile oggi. Proporrò solo
alcuni elementi più importanti per poter orientare una lettura critica del
Pentateuco e aiutare a distinguere nelle teorie attuali elementi più solidi da
quelli che lo sono meno.
Questo capitolo sarà forse il più problematico di tutto
il libro. Non sarà possibile fornire un'argomentazione completa per ogni punto.
Anche la bibliografia non potrà essere esaustiva. Sarebbe impossibile e in
realtà poco utile. Chi conosce la materia ritroverà facilmente le opere da
consultare e chi non la conosce non dovrà percorrere lunghi elenchi di nomi
sconosciuti.
Le tesi principali di questo capitolo sono tre.
- Il Pentateuco attuale è un'opera postesilica. La
composizione attuale e la disposizione delle varie parti risalgono all'epoca
persiana. Per cogliere l'intenzione dell'opera come tale, occorre quindi studiare
questo periodo.
- L'opera attuale è composita e contiene pertanto
delle parti più antiche. Una prima domanda importante sorge a questo punto: esisteva
un documento preesilico completo? La mia risposta è negativa e proverò a dare
le mie ragioni in merito.
- Ciò non significa tuttavia che non esistessero
materiali preesilici, sotto forma di racconti brevi o di cicli narrativi più
ampi, e di raccolte di leggi. Al contrario, è possibile mostrare che
nell'edificio del Pentateuco che conosciamo appaiono ancora i mattoni più
antichi. Non è sempre possibile tratteggiare le loro dimensioni con esattezza,
non è neanche sempre possibile datarli con precisione. Però sono stati
riutilizzati e provengono pertanto da un'epoca anteriore. Questa è l'idea più
importante che voglio difendere in queste pagine.
Qual è il punto di partenza di una teoria ragionevole
sul Pentateuco che possa aiutare a capirlo meglio? Come visto nei capitoli sulla
storia della ricerca, la scoperta di de Wette ha fornito un punto di
riferimento storico all'elaborazione delle varie ipotesi che si sono susseguite
durante quasi due secoli.
Senza un'altra scoperta di questo tipo, gli studi
dovranno accontentarsi di «rimescolare le carte». Le teorie potranno affinare,
sfumare, correggere e addirittura invertire i risultati ottenuti, ma non
aggiungeranno gran che di nuovo. Gli stessi elementi riappariranno, sotto
un'altra forma o in un altro ordine. Senza un nuovo de Wette, sarà difficile
elaborare una «nuova teoria documentaria» o qualsiasi altra teoria sul
Pentateuco (1).
Gli elementi nuovi, tuttavia, non mancano. Provengono
soprattutto da due campi di studio.
Primo, le scoperte archeologi che hanno messo a
disposizione degli esegeti materiali di notevole importanza: documenti scritti
e iconografici, testi narrativi e legislativi, diplomatici e amministrativi.
Il confronto con il Pentateuco deve seguire certe regole, perché tutto deve
essere interpretato, anche i dati archeologici. Il paragone con l'epopea di
Gilgamesh, condotto da Tigay, apre la strada ad altri paragoni dello stesso
tipo che dovrebbero portare frutto.
Secondo, le riflessioni metodologiche che provengono
da vari orizzonti hanno fornito degli strumenti nuovi alla ricerca. Inoltre,
l'uso di diverse metodologie può rivelarsi fruttuoso. Per esempio, il dialogo
fra letture sincroniche e letture diacroniche ha dato buoni risultati in parecchi
casi (2). Su questa base sarà possibile costruire una teoria non troppo
speculativa che possa davvero contribuire alla nostra comprensione del
Pentateuco.
A. il
pentateuco E LA RICOSTRUZIONE D'ISRAELE DOPO L'ESILIO
Per utilizzare un'immagine semplice, il Pentateuco
assomiglia a una città ricostruita dopo due terremoti successivi. Il primo
terremoto ebbe luogo nel 721 avanti Cristo, quando l'esercito assiro s'impadronì
di Samaria e la distrusse, travolgendo insieme tutte le sue istituzioni
politiche e religiose.
Non possiamo sapere con certezza quanto sia
sopravvissuto delle tradizioni del regno del Nord. Quello che possiamo sapere
proviene dal Sud ed è influenzato dalle polemiche fra i due regni nemici. È
ragionevole pensare che parte di queste tradizioni sia stata trasferita a
Gerusalemme, ove un secondo violento terremoto sconvolse la città nel 586
avanti Cristo, dopo una forte scossa premonitoria nel 596 avanti Cristo.
Nel 586, l'esercito di Nabucodonosor, dopo un lungo
assedio, prese la città che fu incendiata e saccheggiata. Sarà sempre
difficile raffigurarsi il trauma vissuto dagli abitanti della città in questo
momento. Significava la fine di tutto quello che avevano di più prezioso: la
fine della monarchia, garante dell'indipendenza, e la fine del tempio, che
rappresentava il simbolo più importante per l'anima religiosa nel regno del
Sud.
Dopo l'esilio, quando Ciro permise agli esiliati di
tornare in patria, la situazione era molto complessa (3). L'intesa fra quelli
che tornarono dalla Mesopotamia e quelli che erano rimasti nel paese fu lungi
dall'essere facile (4).
Dopo molte vicissitudini, gli esuli ebbero il
sopravvento e si fecero carico della ricostruzione di Gerusalemme: il gruppo
della góla, parola ebraica che significa esilio, prese la direzione
delle operazioni. Non soltanto la città e il tempio, ma anche la comunità come
tale fu ricostruita secondo i principi e le esigenze della góla.
La ricostruzione doveva obbedire a due imperativi.
Primo, era indispensabile che la comunità ritrovasse le sue radici nel
passato. Questo punto non richiede una lunga dimostrazione. Si ricostruiva
Gerusalemme, la città antica, e non una città nuova (Is 54), per mostrare la
continuità con il passato.
Lo stesso popolo stava per rinascere, nello stesso
paese, sotto la guida dello stesso Dio. L'opera della comunità postesilica di
Gerusalemme è fondamentalmente un'opera di restaurazione. Il popolo ri-na-sce,
non nasce un altro popolo con altri ideali e altre istituzioni. Occorreva
pertanto tornare alle antiche tradizioni e ristabilire un ponte con il passato
preesilico.
Secondo, era ugualmente indispensabile mostrare
l'attualità delle antiche tradizioni e convincere tutti i mèmbri del popolo che
era possibile ricostruire sulle vecchie fondamenta. Le due esigenze sembrano,
di primo acchito, contraddittorie. Era compito del popolo e dei suoi
responsabili trovare la via giusta per risolvere il dilemma.
Per tornare alla nostra immagine, possiamo
identificare, nell'opera di ricostruzione, almeno tre tipi diversi di edifìci.
Alcuni sono sopravvissuti, per intero o parzialmente, ai due terremoti. Lo
stato di conservazione può variare molto. Accanto alle macerie e ai ruderi, vi
sono alcune case quasi intatte.
Poi, sono sorti palazzi completamente nuovi, che hanno
preso il posto di quelli antichi spariti. Infine, esiste tutta una gamma di costruzioni
miste nelle quali si riconoscono alcuni elementi antichi che sono stati
riutilizzati e completati da parti nuove, aggiunte in varie epoche.
In alcuni casi, diventa molto difficile distinguere
con esattezza le parti antiche da quelle recenti. La proporzione fra materiale
antico e moderno non è mai la stessa. Ci vuole quindi un occhio esercitato per
leggere la storia della città nei suoi vari quartieri. Però, tutti gli edifici,
antichi, moderni o misti, hanno lo stesso scopo, quello di accogliere una
popolazione e di rispondere alle sue varie richieste. La città non è un museo,
il suo scopo non è di preservare il passato, ma di creare le condizioni
indispensabili che permetteranno a un popolo di sopravvivere in una situazione
precaria.
Come questa città, il Pentateuco contiene materiali
antichi, che vogliono stabilire un legame con il passato, materiali nuovi che
rispondono alle domande del presente. Alcune zone sono state ritoccate o
restaurate parecchie volte. In tutta la città, però, batte il cuore della
comunità postesilica. Ogni parte, antica, più recente o molto recente, offre
un riparo alla sua fede. Tutto, dunque, va interpretato nel contesto
postesilico e secondo gli interessi e le preoccupazioni di questa epoca.
Anche i testi più antichi, che sono sorti in epoche
remote, in ambienti ben diversi e per rispondere a esigenze differenti, si
ritrovano nel Pentateuco perché hanno un valore particolare per la comunità
postesilica. Fanno parte del suo patrimonio e hanno un «uso» nella sua vita di
fede.
In queste pagine, il mio proposito è di dare al
visitatore odierno di questa «città» ricostruita che è il Pentateuco una sorta
di «mappa»
o di «guida», che gli permetterà, per quanto
possibile, di riconoscere i vari edifici che incontrerà e di distinguere i vari
stili, vale a dire gli edifici o parti di edifici più antichi dai più recenti.
B. I PUNTI SALDI PER L'INTERPRETAZIONE: TRE CODICI;
TRE TEOLOGIE; L'ULTIMA REDAZIONE
1; I tre codici del Pentateuco
Come spiegare la formazione del Pentateuco attuale?
Quali sono i punti saldi per l'interpretazione dopo le tempeste che hanno
scosso l'esegesi a partire dagli anni '70? Per poter orientarsi nel Pentateuco
attuale, bisogna ripartire dalle intuizioni di de Wette e di Reuss, Graf,
Kuenen e Welihausen.
Malgrado tutte le discussioni, i tre codici rimangono
il punto di partenza più sicuro dell'esegesi del Pentateuco (5). Il codice
dell'alleanza precede il codice deuteronomico che, a sua volta, precede la Legge
di santità (Lv 17-26) (6). Il codice dell'alleanza suppone una società dove i
capi delle «famiglie estese» potevano regolare i conflitti più importanti al
livello locale, vale a dire la piccola città o il villaggio.
Nel codice del Deuteronomio, la centralizzazione del
culto va di pari passo con la centralizzazione della giustizia. La famiglia
estesa perde gran parte del suo potere a vantaggio del potere centrale di Gerusalemme.
Il Dt «unifica», affermando che Israele forma un popolo unico, con un solo Dio
e un solo tempio. Questa centralizzazione è conseguenza delle invasioni assire
che hanno devastato e distrutto il regno del Nord, nel 721 avanti Cristo e il
regno del Sud, nel 701 avanti Cristo. Solo Gerusalemme non fu conquistata,
sebbene dovette pagare un prezzo molto alto.
La riforma amministrativa e giuridica era stata resa
necessaria perché le invasioni avevano sconvolto, se non distrutto le
strutture locali e familiari. Sotto Giosia (640-609 avanti Cristo), la riforma
divenne anche religiosa e politica, approfittando della debolezza dell'impero
assiro.
La volontà di centralizzazione religiosa, politica e
amministrativa trasse vantaggio da una situazione favorevole e la tradusse in
termini giuridici. Dietro il codice deuteronomico ritroviamo le forze vive all'opera
nella riforma: gli ufficiali della corte (l'aristocrazia di Gerusalemme), i
grandi proprietari terrieri di Giuda, il sacerdozio e la mo-narchia.
Dopo l'esilio, la Legge di santità insisterà sull'idea
di un popolo «santo» e «separato» dalle altre nazioni. Siccome Israele non
esiste più come nazione indipendente, l'identità del popolo verrà principalmente
dalle sue istituzioni religiose, vale a dire la legge e il tempio. Le
preoccupazioni principali del codice si capiscono meglio in questo contesto.
Il culto prende un posto importante nel codice. L'insistenza sulle leggi di
purezza, sulla separazione dalle «nazioni», le regole particolari nel campo
della sessualità hanno come primo scopo di preservare l'identità di un popolo
che si sente minacciato nella sua esistenza. Bisognava stabilire nuove
frontiere, specialmente nel comportamento quotidiano.
Il paragone fra questi tre codici fornisce una prima
serie di criteri validi per la lettura dei testi narrativi e un quadro per
situarli. In poche parole: le narrazioni che non presuppongono la
centralizzazione del culto devono, in linea di massima, precedere la riforma
deuteronomica; i testi che la richiedono sono contemporanei con la riforma; i
testi che la presuppongono devono essere posteriori alla riforma. Come ogni criterio,
tuttavia, esso deve essere usato con la dovuta cautela.
2. Le
tre teologie del Pentateuco
Dopo i tre codici vengono le due teologie principali
del Pentateuco, la teologica deuteronomica e quella sacerdotale. Il Dt e il
racconto sacerdotale contengono due teologie, due visioni della storia e due
progetti di società. Il Deuteronomio sviluppa una teologia dell'alleanza con
JHWH che interpreta il legame fra Dio e il suo popolo secondo lo schema dei
trattati di vassallaggio del Medio Oriente antico. L'alleanza è bilaterale e
condizionata. Le benedizioni, e soprattutto l'esistenza d'Israele, sono legate
all'ubbidienza d'Israele alla legge. Come si sa, la storia deuteronomistica
interpreta la caduta di Gerusalemme e l'esilio come una conseguenza dell'infedeltà
d'Israele.
A questo punto si pone una domanda cruciale: esiste
ancora una speranza per Israele? Su quale base teologica si potrà ricostruire
l'avvenire del popolo?
Il racconto sacerdotale risponde in gran parte a
questa domanda. Se l'alleanza del Sinai/Oreb è fallita, bisogna sostituirla con
un'altra ancora valida. Per P, prima del Sinai, JHWH ha concluso un'alleanza
con Abramo (Gn 17) (7).
Secondo il principio ormai ben conosciuto, questa
alleanza più antica è superiore. Inoltre, l'alleanza con Abramo è unilaterale.
Le promesse non dipendono quindi dalla fedeltà del popolo.
Per il racconto sacerdotale, il popolo che deve fare a
meno dell'indipendenza politica e della regalità diventa un'«assemblea» cultuale
attorno alla presenza divina, la «gloria». La «santità», qualità che definisce
i luoghi o le persone che sono in una relazione privilegiata con la presenza
divina (la «gloria»), viene conferita al sacerdozio, alla tenda e all'altare
(Es 29,44).
Infine, la Legge di santità (H) corregge P su alcuni
punti per offrire una sintesi parziale della teologia deuteronomica e della
teologia - sacerdotale.
- L'alleanza è di nuovo bilaterale e condizionata (Lv
26,3-4.14-16), come nel Deuteronomio, ma rimane sempre valida l'«alleanza» o
promessa unilaterale con i patriarchi (Lv 26,41-42.44), come in P: se sono
infedeli «[...] li condurrò nella terra dei loro nemici. Forse allora si
umilierà il loro cuore incirconciso e allora espieranno le loro colpe. Ed io
ricorderò la mia alleanza con Giacobbe, e la mia alleanza con Isacco, e la mia
alleanza con Abramo davvero ricorderò e ricorderò la terra [...]».
- La santità è richiesta a tutto il popolo («Siate
santi come io sono santo»; Lv 11,44-45; 19,2; 20,7.26; 21,8; 22,31-33), come
nel Dt tutto il popolo è santo. Ma essa è anche una qualità particolare del sacerdozio
(Lv 21), come nella teologia di P (Es 29,44). Nel Deuteronomio, la santità del
popolo era una conseguenza della sua elezione (Dt 7,6; 14,2; 26,19).
In H, Israele è santo a causa dell'esperienza
dell'esodo, perché in questo momento, Dio ha separato il suo popolo dalle
nazioni (Lv 11,45; 18,1-5; 22,33). D'altronde, il popolo rimane santo se
osserva le leggi di purità e compie fedelmente gli atti del culto (22,31-33). H
unisce pertanto gli aspetti di «grazia» e di «legge», poiché la santità data
al momento dell'esodo dipende ora dalla fedeltà del popolo alla legge divina.
- La liturgia dell'espiazione (Lv 16) è un altro
cardine della teologia proposta dalla legge di santità che permette al popolo
di riconciliarsi regolarmente con JHWH e in questo modo di superare le crisi
della sua storia causate dalla sua infedeltà (8).
Anche su questo punto, H tenta di risolvere i problemi
che provengono dalle teologie anteriori. Dt non aveva previsto niente di concreto
in caso di infedeltà. Su questo punto, anche P rimane abbastanza laconico. H
contiene una riflessione molto approfondita sul «peccato» e P«espiazione»,
frutto dell'amara esperienza dell'esilio e delle-de-lusioni del ritorno.
Spesso, si trascura nella ricerca l'importanza della
teologia del Le-vitico. L'ombra di Welihausen e della sua generazione si
estende ancora sul mondo esegetico che vede in questo periodo un momento di
decadenza spirituale e di sclerosi religiosa (9). Gran parte dell'organizzazione
ultima del Pentateuco, tuttavia, risale a questo periodo e proviene dalla
scuola teologica che ha redatto la Legge di santità (10). Anche questo momento
della storia d'Israele deve essere studiato secondo gli imperativi del tempo e
non secondo criteri assoluti e atemporali o, peggio ancora, secondo criteri
odierni.
Queste tre teologie: Dt, P e H, accanto ai tre codici
legislativi, formano i cardini della struttura del Pentateuco. Se vogliamo
situare le cose in ordine cronologico, abbiamo: codice dell'alleanza
(preesili-co); codice deuteronomico (fine della monarchia); teologia deuteronomica
(fine della monarchia ed esilio); racconto sacerdotale (prima generazione del
ritorno); Legge di Santità e teologia postsacerdotale e postedeuteronomistica
(secondo tempio).
C. esisteva UNA
«PONTE» PREESILICA SULL'ORIGINE D'ISRAELE?
Il modello che appare più ragionevole oggi è quello
che combina elementi dei vari modelli proposti nel secolo passato, vale a dire
l'ipotesi dei frammenti, l'ipotesi dei complementi e l'ipotesi dei documenti.
All'inizio del processo di redazione del Pentateuco,
esistevano piuttosto racconti isolati o brevi cicli narrativi, come proponeva a
suo tempo l'ipotesi dei frammenti (11). Le «fonti» sono nate più tardi, con la
teologia deuteronomica e soprattutto con il racconto sacerdotale. Infine, dopo
l'esilio, il Pentateuco attuale è sorto da un lavoro di compilazione e di
revisione, con aggiunte in punti strategici, come nell'ipotesi dei complementi
(12).
Nei paragrafi seguenti, parlerò solo delle prime tappe
di questa evoluzione, dunque dei testi antichi e non sacerdotali.
1. Una «fonte
preesilica»?
11 problema più acuto e più dibattuto oggi verte
sull'esistenza di una «fonte» preesilica. Sulla scia di molti lavori recenti,
penso che non esistesse una vera «fonte» prima dell'esilio e forse prima del
documento sacerdotale. Precisiamo che vi sono buone ragioni di pensare che
esistessero dei «cicli narrativi» e dei «codici legislativi» preesilici. Ma non
formavano ancora un'opera organica.
Quattro serie di motivi conducono a questa conclusione
che può sembrare drastica, benché lo sia solo in apparenza.
— Anzitutto, i primi testi che ci assicurano
dell'esistenza in Israele di una «storia della salvezza», o almeno di una
narrazione che copre diversi periodi della storia delle origini e li struttura
secondo una idea precisa sono abbastanza tardivi. Si tratta dei famosi «piccoli
credo storici» di von Rad (Dt 6,20-23; 26,5b-9) e di un testo sacerdotale (Es
6,2-8). Quest'ultimo testo, più chiaramente degli altri, collega storia
patriarcale ed esodo. JHWH compie nell'esodo la promessa (b'rìt) fatta
ai patriarchi (Es 6,4.5.8). Dt 6,20 inizia con l'esodo e Dt 26,5b menziona
Giacobbe (PArameo errante), ma il solo legame con gli eventi successivi è di
tipo cronologico. Un unico «sommario» o «piccolo credo» potrebbe essere più
antico: Nm 20,14-16, testo difficile da datare con precisione. Per alcuni,
risale all'epoca di Eze-chia (13).
Altri studi, più recenti, preferiscono una data più
bassa, esilica o postesilica, perché il testo sarebbe posteriore a Dt 26,3-8
(14). La seconda soluzione è preferibile per buone ragioni. Il testo di Nm 20
spiega e interpreta Dt 26,3.7: il «padre» di 26,3 diventa «i padri» in Nm
20,15. Il «grido» di Dt 26,7 è più sviluppato in Nm 20,15-16, che parla anche
di «maltrattamenti». Il paragone con altri testi, per esempio Gdc 11,16-18, va
nello stesso senso (15).
L'argomento più forte in favore di una data
esilica/postesilica è, a mio parere, la presenza dell'«angelo» (Nm 20,16), che
troviamo solo in aggiunte tardive o in testi recenti, come Es 14,19a; Es
23,20-23; 32,34; 33,2-3; Gdc 2,1-5; cf. Gn 24,7 (16). Questo angelo che prende
il posto di JHWH, e non si identifica più con lui, rispecchia una teologia più
consapevole della trascendenza divina e più restia ad usare antropomorfismi
(17). Comunque, per quanto riguarda i «padri», il testo usa dei termini molto
generici e descrive una mera sequenza cronologica. Non stabilisce alcun legame
logico fra «promesse ai padri» ed «esodo».
- Secondo, i testi che collegano le piccole unità
all'interno del Pentateuco sono tardivi. Queste aggiunte redazionali non sono
perfettamente integrate nel loro contesto e, secondo la regola enunciata
s; da Greenberg, ciò è segno della
loro origine secondaria. Il fenomeno I
è particolarmente palese nel libro della Genesi, ma anche nel complesso
Es-Nm (18).
Questo vale soprattutto per i legami fra le tradizioni
patriarcali e l'esodo. Se esodo e tradizioni patriarcali fossero già unite in
epoca antica, perché Es 3-4, la vocazione di Mosè - testo piuttosto recente
-non parla della «terra promessa ai patriarchi»? Questo testo contiene il
«programma narrativo» di tutta la sezione Es-Nm ed è strano che non facesse il
legame con il libro della Genesi (cf. Rendtorff).
- Terzo, bisogna spiegare il «silenzio» dei profeti
preesilici. Certo, l'argomento del silenzio non è sempre conclusivo e,
talvolta, anche fragile. Esso vale solo se si può provare che i profeti
preesilici avrebbero dovuto parlare delle tradizioni del Pentateuco se le
avessero conosciute (19).
Per la nostra argomentazione, tuttavia, un punto
merita una maggiore attenzione. Vi sono delle allusioni, più o meno velate,
nei profeti preesilici, ma sono allusioni a delle tradizioni isolate. Non
esistono testi dove vengono collegati, per esempio, i patriarchi con l'esodo.
Per i profeti preesilici, l'esodo non è ancora il
compimento delle promesse fatte ai patriarchi, come lo sarà per P (Es 6,2-8).
Osea oppone Giacobbe a Mosè, non li unisce in una storia della salvezza (Os
12,3-5.13 e 12,10.14). Lo stesso Osea menziona l'uscita dall'Egitto (2,17;
11,1; 12,14; 13,4; cf. Am 9,7) e alcuni episodi della vita nel deserto
(2,16-17; 9,10; 13,5) (20).
Quando si passa al Deutero-Isaia o a Ezechiele, la
situazione non cambia molto. Negli ultimi vent'anni, si è molto discusso su
questi due profeti, soprattutto sul Deutero-Isaia, per appoggiare una datazione
tardiva, postesilica, di molte tradizioni del Pentateuco. Siccome il Deutero-Isaia
è il primo o uno dei primi profeti a parlare di Noè (Is 54,9; cf. Ez 14,14), di
Abramo e Sarà (Is 51,2; cf. Ez 33,24) o dell'esodo (43,16-21 e passim; cf. Ez
20), alcuni autori hanno affermato su questa base che le tradizioni in
questione siano postesiliche (21).
Il Deutero-Isaia, però, si riferisce a delle
tradizioni ben conosciute, e non le inventa. Quando si conosce la mentalità
antica, sarebbe poco appropriato escogitare una tradizione nuova per
convincere. Si può argomentare solo a partire da tradizioni che fanno parte, da
tempo, della «memoria collettiva» del popolo (22). Orbene, il Deutero-Isaia è
chiarissimo su questo punto quando parla dell'esodo (43,18):
«Non ricordatevi dei primi avvenimenti non riflettete
più alle cose antiche».
Se il profeta invita a «non ricordare», significa
implicitamente che il popolo si ricordava di questi avvenimenti passati e ci
pensava sopra. Il testo fa indubbiamente appello alla «memoria collettiva» dei
suoi destinatari. Pertanto il Deutero-Isaia non introduce nella discussione '
elementi non conosciuti. La tradizione dell'esodo è più antica del Deutero-Isaia
e della sua epoca. D'altra parte, però, bisogna aggiungere che anche nel
Deutero-Isaia, le tradizioni sono giustapposte senza formare un tutto
organico.
Perciò sarebbe poco prudente voler costruire una
teoria sull'esistenza di una «storia d'Israele» solo a partire dai dati
forniti dal Deutero-Isaia. Manca il cemento per unire i vari blocchi della
costruzione. Ezechiele non permette di andare oltre. Il capitolo 20, che tratta
per lo più dell'esodo e della permanenza d'Israele nel deserto, non menziona
affatto le promesse patriarcali (23). Quando parla di Abramo, non menziona
l'esodo (Ez 33,24) (24).
Quando il Trito-Isaia parla di Abramo,
Israele/Giacobbe e di Mosè, le figure rimangono giustapposte. Si potrebbe dire
che fanno parte di una storia unica poiché il profeta li conosce tutti e tre.
Ma si può anche molto bene ribattere che egli accenna a varie tradizioni separate
che fanno tutte parte del passato d'Israele in una sorta di «parafassi
narrativa» dove i legami sono possibili ma non espliciti. Comunque,
Il Trito-Isaia sembra piuttosto opporre Mosè ad Abramo
e Israele, come Osea opponeva Mosè a Giacobbe (25).
- Quarto, gli studi recenti sulla storia delle
religioni e sulla storiografia nel Medio Oriente antico rendono difficile
ammettere l'idea che in Israele sia stato possibile ideare in un'epoca antica
una storia del popolo di ampio respiro con una teologia ben articolata che vede
in JHWH il vero e solo Dio dell'universo.
Una storia di questo tipo suppone una coscienza
limpida dell'unità di tutto il popolo e del suo destino comune, e una teologia
abbastanza sviluppata per affermare l'unicità di JHWH (26).
L'affermazione chiara di un «monoteismo» si trova nel
Deutero-Isaia, con qualche preparazione in Geremia. D'altronde, le grandi sintesi
storiche nel Medio Oriente antico come in Grecia non sono nate prima del sesto
secolo avanti Cristo. Infine, si può difficilmente parlare di una vera
«nazione» chiamata «Israele» al tempo della monar-chia davidica (27).
In conclusione, non è possibile pensare a una «storia
delle origini d'Israele» prima di un'epoca tardiva. Con la riforma
deuteronomi-ca si fa strada l'idea di «un solo Dio, un solo popolo, un solo
tempio» e in quest'epoca si sono realizzate le condizioni che permettono di
pensare a una prima sintesi storica e teologica in Israele. Infatti, fu anche
necessario creare una nuova mentalità dopo la caduta del regno del Nord nel 721
avanti Cristo.
La riforma di Giosia nel 622 avanti Cristo aveva
bisogno di un solido fondamento teologico che troviamo nel Deuteronomio primitivo.
La questione è di sapere se, prima del Deuteronomio o accanto ad esso, si è
sentita la necessità di scrivere una «storia d'Israele», o almeno qualche
«frammento» di questa storia.
Alcuni, come J. Van Seters o Ch. Levin, parlano
piuttosto di uno Jahwista esilico o persino postesilico, comunque
postdeuteronomico. E. Zenger, invece, postula l'esistenza di una «storia
gerosolimitana» all'epoca di Manasse (dopo 700/690 avanti Cristo) (28).
A mio parere, è difficile dimostrare l'esistenza di
una tale «storia». Essa non ha un profilo chiaro, al contrario del
Deuteronomio o del racconto sacerdotale. Persino E. Zenger deve ammettere che
la «storia gerosolimitana» non è ben unificata (29). Bisogna quindi riesaminare
P argomentazione.
2. Esisteva
un legame letterario tra patriarchi ed esodo prima del Deuteronomio?
Dopo la caduta di Samaria si produsse una situazione
difficile ed E. Zenger vede in queste circostanze il contesto storico nel quale
si è formato la «storia gerosolimitana», per rispondere alle domande sull'avvenire
d'Israele minacciato nella sua esistenza dalla potenza assira. Tutto questo è
possibile, ma non dimostra ancora l'esistenza di un tale scritto.
L'argomento più forte viene dal Deuteronomio. Se, come
pensa E. Zenger, sulla scia di N. Lohfìnk, il Deuteronomio, nel suo nucleo
primitivo e nelle sue parti preesiliche, suppone l'esistenza non solo di cicli
narrativi, ma anche di una storia che unisca patriarchi ed esodo, allora non vi
è alcun dubbio che dobbiamo sottoscrivere alla tesi di una «storia
gerosolimitana» preesilica. Tuttavia, la dimostrazione non mi pare completa ed
interamente soddisfacente.
- Il Deuteronomio
Una delle idee centrali del Deuteronomio è l'alleanza.
Perciò, la tradizione storica sulla quale poggia quasi esclusivamente il
Deuteronomio primitivo è la tradizione dell'Oreb. Come dice N. Lohfink, l'Israele
del Deuteronomio è un Horeb-Israel (30). Israele è nato all'Oreb
e potrà sopravvivere se rimane fedele all'Oreb, vale a dire all'alleanza con il
solo JHWH. Il resto è «portico e vestibolo», come aggiunge N. Lohfink (31). In
questo «resto» si trovano le promesse patriarcali e l'esodo.
Per poter stabilire con più precisione la natura di
questo «portico e vestibolo», occorre rispondere a parecchie domande
complesse. Il Deuteronomio crea o suppone un legame fra promesse patriarcali ed
esodo? Chi sono i «padri» di cui parla il Deuteronomio? Recentemente, Th.
Rómer ha sostenuto che questi «padri» nel Deuteronomio primitivo non sono i
patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), bensì gli antenati d'Israele in Egitto.
Solo in uno stadio tardivo sarebbero stati equiparati con le grandi figure
della Genesi (32).
La risposta alla prima domanda non è facile. Certo, il
Deuteronomio si riferisce spesso alle promesse fatte ai patriarchi, parlando
della terra che JHWH ha giurato di dare ai padri o di un «giuramento» ai padri
(radice sb') (33). Il vero problema non è di sapere se questi testi
deuteronomici si riferiscono o meno a delle tradizioni o a dei testi più
antichi, concretamente ad alcuni testi della Genesi.
La teoria dei «frammenti» o dei «blocchi narrativi»
basterebbe ampiamente per spiegare il fenomeno. Per dimostrare l'esistenza di
un «documento», per esempio della «storia gerosolimitana» di E. Zenger, bisogna
provare che il Deuteronomio suppone un'opera previa organica, e non solo dei
cicli narrativi isolati e che i testi antichi sono davvero integrati in
quest'opera unificata. Il punto più delicato della dimostrazione, come
riconosce lo stesso E. Zenger, è il legame fra promesse patriarcali e
tradizioni sull'esodo (34).
La domanda è quindi: il Deuteronomio ha creato il
legame fra i «padri» e Mosè, fra le promesse agli antenati ed esperienza
dell'esodo? Oppure ha ripreso l'idea da un documento più antico per il quale
l'esodo è il compimento delle promesse fatte ai padri, documento che possiamo
ritrovare fra i testi del Pentateuco?
Per il momento, prescindo dal dibattito recente
sull'identità dei «padri» (35). Lo stesso E. Zenger adotta l'opinione di N.
Lohfìnk secondo cui il Deuteronomio identifica i «padri» con i patriarchi
(vedi Dt 1,8; 6,10; 9,5.27; 29,12; 30,20; 34,4). È questa tesi che voglio esaminare.
Sarebbe infatti molto più semplice dire che i «padri» del Deuteronomio non
sono i patriarchi, perché in quel caso, il legame fra Dt e Gn sarebbe
inesistente e potrei fare a meno di questa discussione.
Posso anche prescindere dalle questioni delicate che
toccano i vari strati del Deuteronomio. Nell'ipotesi da esaminare, il
Deuteronomio, con tutta la sua storia redazionale, è più recente del documento
preesilico e predeuteronomico chiamato jahwista da alcuni e «storia
gerosolimitana» da E. Zenger.
- La pericopè del Sinai - Es 19 - Nm IO (36)
Siccome la tradizione centrale del Deuteronomio è
quella dell'Oreb, è opportuno vedere quali sono le tradizioni che il Dt
connette con questa tradizione. Vi sono parecchi testi che, in un modo o nell'altro,
collegano il giuramento fatto ai padri e l'alleanza dell'Oreb o la legge. Il
testo più esplicito è Dt 29,9-12:
«'Voi siete tutti presenti oggi al cospetto di JHWH,
vostro Dio, [...] "per passare nell'alleanza di JHWH, tuo Dio, suggellata
dalla sua maledizione, che JHWH, tuo Dio, conclude oggi con tè, "per fare
di tè oggi un popolo che gli appartenga e per diventare per tè Dio, come ti ha
detto, e come ha giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe».
L'alleanza conclusa in Dt 29 - che riprende quella
dell'Oreb (37) -è il compimento del giuramento fatto da JHWH ai patriarchi.
Altri testi fanno invece dell'osservanza della legge, proclamata sull'Oreb, la
condizione del possesso della terra che JHWH ha giurato di dare ai padri (Dt
6,10-13; 6,17-19; 8,1.17-18; 11,8-9.18-21; 19,8-9; 30,19-20; cf. 28,11). Dt 7,8
è l'unico testo che presenta l'esodo come conseguenza di un giuramento fatto
ai padri:
«È a causa dell'amore di JHWH per voi e per rispettare
il giuramento fatto ai vostri padri che JHWH vi ha fatti uscire con mano forte
e vi ha riscattati dalla casa di servitù, dalla mano del Faraone, rè
dell'Egitto».
Per questi testi del Deuteronomio che appartengono con
ogni probabilità a diversi strati, esiste una correlazione stretta fra il
giuramento fatto ai padri e due eventi centrali delle tradizioni mosaiche:
l'esodo e l'alleanza dell'Oreb.
In un secondo passo, bisogna ora verificare se si
possa stabilire lo stesso legame nelle tradizioni più antiche,
predeuteronomiche. La conclusione di questa indagine è negativa: i testi non
sacerdotali più antichi non conoscono il legame fra patriarchi ed esodo o fra
patriarchi e Sinai. Il legame pertanto è stato creato dal Deuteronomio. Basta
un breve percorso dei testi per convincersene.
La sezione del Sinai (Es 19 - Nm 10), in tutta la sua
complessità, contiene pochissimi riferimenti ai patriarchi. Il decalogo, che si
considera comunque oggi come un'opera di origine deuteronomica, parla della
terra in riferimento al rispetto dei genitori, ma non allude alle promesse
patriarcali:
«Onora tuo padre e tua madre affinchè si prolunghino i
tuoi giorni sulla terra che JHWH, tuo Dio, ti da» (Es 20,12).
Il passo di Es 23,20-33 parla della conquista della
terra, ma non del giuramento fatto ai padri. Era il posto più adatto per
inserire la frase classica: «La terra che ho giurato di dare ai tuoi padri». Ma
non se ne trova alcuna traccia.
I soli testi che accennano ai patriarchi nella
pericopè del Sinai sono Es 32,13 e 33,1. Generalmente, questi testi sono
giudicati tardivi. La cosa è chiara per Es 32,13, che fa parte
dell'intercessione di Mo-sè, un testo con forte colorazione deuteronomistica
(32,11-14). Ad ogni modo, questi due testi suggeriscono un'idea che non è
esattamente quella del Deuteronomio.
Mosè chiede a JHWH di non sterminare il suo popolo
dopo l'episodio del vitello d'oro per non rendere vane le promesse fatte ai patriarchi.
Non dice che JHWH abbia agito sinora a causa di queste promesse antiche e
quindi deve continuare ad agire in favore del suo popolo. Es 33,1 è forse più
chiaro ed implica un nesso più stretto fra esodo, marcia nel deserto e promesse
patriarcali:
«JHWH disse a Mosè: Va', sali da qui, tu e il popolo
che tu hai fatto salire dalla terra d'Egitto, verso la terra a proposito della
quale ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe dicendo: la darò ai tuoi
discendenti».
Questo testo, tuttavia, non può essere molto antico.
Si ritrovano in esso frasi, formule e tematiche che provengono da Es 32 e da
altri testi, spesso deuteronomici (38). Perciò è molto probabile che sia più recente
dei testi di diversa provenienza che ha congiunto. Il testo è stato creato per
fungere da cerniera fra Es 32 e il resto del racconto ove si stabiliscono nuovi
rapporti fra JHWH e il suo popolo dopo il fatto del vitello d'oro. La domanda
cruciale è di sapere se JHWH continuerà a guidare il popolo verso la terra
promessa e in che modo.
In conclusione, nessun testo antico della pericope del
Sinai menziona i patriarchi. Certamente, da nessuna parte si dice, come in Dt
29,12, che JHWH abbia concluso un'alleanza con Israele per essere fedele a una
promessa fatta ai patriarchi.
- L'uscita dall'Egitto (Es 1-15*)
Un'indagine simile sui testi dell'uscita dall'Egitto
(Es 1-15*) arriva alla medesima conclusione. Nessun testo presacerdotale (e
predeu-teronomico) presenta l'uscita dall'Egitto come l'adempimento di una
promessa previa. Solo il testo di Es 6,2-8, testo sacerdotale, fa questo
collegamento. Vi sono anche due accenni al giuramento fatto ai patriarchi in
Es 13,5 e 11. Tuttavia, questi due versetti non mettono in relazione l'uscita
dall'Egitto con questo «giuramento». Indicano solo il momento nel quale le
leggi di Es 13 entreranno in vigore.
Inoltre, la maggioranza degli esegeti elenca Es 13 fra
i testi tardivi di Es 1-15. Sorprende, però, di non trovare alcun nesso fra
patriarchi ed esodo nel racconto della vocazione di Mosè (Es 3-4). Il testo
identifica il Dio che appare a Mosè come il Dio dei patriarchi (3,5) e non va
oltre. Non indica in nessuna maniera che la terra nella quale JHWH condurrà il
suo popolo è la terra giurata ai padri (Es 3,8.17). Benché Es 3,1-4,18 sia più
recente del contesto nel quale è stato inserito (Es 2,23 a e 4,19), il legame
fra i padri e la missione di Mosè non vi ha trovato il suo posto.
- La permanenza nel deserto
Fra i pochi testi chfe menzionano altre tradizioni,
bisogna annoverare Nm 11,12, un testo nel quale Mosè dice a JHWH:
«Ho io concepito questo popolo, l'ho io partorito
perché tu mi dica: Portalo sul tuo petto, come la balia porta il bimbo, al
paese che tu hai giurato di dare ai suoi padri?».
Il versetto allude ai «padri» e alla terra promessa.
Tuttavia, il vocabolario è prettamente deuteronomico e il passo è pertanto
tardivo. Il verbo «giurare» è tipico del Deuteronomio e della letteratura apparentata.
La sintassi della frase rimane difficile. Sarebbe più naturale dire: «Portalo
[...] al paese che io ho giurato di dare ai loro padri», come propongono alcuni
manoscritti del Samaritano e della LXX (39).
Queste sono le principale ragioni che fanno pensare a
un'aggiunta tardiva.
- Il libro della Genesi
Lo stesso vale per il libro della Genesi. Pochi sono i
testi che parlano esplicitamente dell'esodo e questi pochi testi sono tardivi.
Il primo è Gn 15,13-16. Gn 15 è un testo molto discusso e ben pochi esegeti
pensano oggi che sia molto antico, almeno nella sua stesura attuale (40). Per
di più, i w. 13-16 sono stati aggiunti e sono quindi fra gli strati recenti del
testo.
La «ripresa» del v. 12: «quando il sole stava per
tramontare», nel v. 17: «quando il sole fu tramontato», ne è un primo indizio.
I w. 13-16, d'altronde, interrompono l'azione iniziata in 15,7-12 e che si conclude
in 15,17-18, vale a dire la conclusione dell'alleanza. Gn 15,13-16 è un testo
recente, di origine redazionale, e non può servire a dimostrare la tesi di un
antico legame fra Abramo e l'esodo.
Si potrebbe, con alcuni esegeti, pensare che Gn
15,7-12.17-18 faccia allusione in qualche modo alla teofania del Sinai.
Esisterebbe pertanto un «ponte» fra Abramo e la pericope del Sinai. Il
vocabolario di Gn 15,17 contiene alcuni elementi che potrebbero accennare alla
teofania di Es 19,10-19, per esempio la «fornace» (fannùr. Gn 15,17;
kibsan: Es
19,18), il «fumo» Csn: Es 19,18; Gn 15,17) e «la fiamma di fuoco» (laptd:
Gn 15,17; Es 20,18). Mancano altri elementi, come il tuono.
Comunque, il vocabolario dell'alleanza («tagliare»
l'alleanza - krt b'rìt), si ritrova non in Es 19, ma in Es 24,8, testo
tardivo. Inoltre, l'alleanza con Abramo è un testo isolato, che ha il suo
corrispondente solo in Gn 17, testo sacerdotale. Queste possibili allusioni
alla teofania del Sinai, però, non significano ancora che un antico ciclo di
Abramo e un antico racconto della teofania sinaitica abbiano fatto parte di un
solo racconto. Gli accenni permettono solo di affermare che l'autore di un
testo conosceva l'altro. Niente in Gn 1.5 dice, per esempio, che bisogna
aspettare un'altra alleanza. Non è escluso, ma non è neanche provato. Bisogna
aggiungere altri elementi e altre indicazioni.
Solo Gn 46,1-5 a accenna al ritorno della famiglia di
Giacobbe dall'Egitto nella terra di Canaan, ma il testo è anch'esso secondario
ed eterogeneo al suo contesto (41). Per diversi aspetti, si distingue dal resto
della storia di Giuseppe. Anzitutto, il brano contiene l'unico discorso divino
di Gn 37-50, l'unica visione e l'unico atto cultuale.
Inoltre, è una sorte di «toppa» cucita sul racconto
primitivo. In 45,27, i figli mostrano al padre i carri inviati da Giuseppe per
facilitare il viaggio verso l'Egitto. Nel versetto seguente, Giacobbe/Israele,
finalmente convinto da questo argomento, decide di partire. Il lettore ritrova
la continuazione del racconto in 46,5b, quando i figli d'Israe-le/Giacobbe
fanno salire il padre e tutta la famiglia sui carri per poi scendere in Egitto
(42). Quest'ultima azione non ha molto senso dopo una prima partenza e un primo
scalo a Beersheva (46,1).
Infine, l'ordine di Dio in 46,3-4 arriva quando il
patriarca ha già deciso di partire (45,28). Normalmente, l'oracolo dovrebbe
precedere la decisione. Si noti che nel racconto primitivo come nell'aggiunta
di 46,1-5 a, i nomi Giacobbe e Israele si alternino in modo chiastico:
Giacobbe: 45,25
Israele: 45,28; 46,1.2 Giacobbe: 46,5a e 5b Gn 50,24 è
l'altro testo non sacerdotale che allaccia la storia dei patriarchi con
l'esodo. Giuseppe promette che JHWH visiterà il suo popolo e lo farà «salire»
verso la terra giurata ad Abramo, Isacco e Giacobbe. Anche in quest'ultimo
caso, si tratta di un testo tardivo, aggiunto alla conclusione della storia di
Giuseppe. Gli indicatori lasciati dal redattore sono ancora visibili. Gn
50,22-23.26 contiene un breve resoconto della morte di Giuseppe. Fra le due
parti di questo brano è stato inserito il suo «testamento», i w. 24-25.
La menzione dell'età di Giuseppe, cento dieci anni, in
50,22, è «ripresa» all'inizio di 50,26a. La parola-gancio che unisce i due
brani è il verbo mwt, «morire» (50,24a.26a).
Il vocabolario e le tematiche di 50,24-25 si ritrovano
in Es 13,19 e Gs 24,32. Secondo Es 13,19, Mosè ha preso con sé le ossa di Giuseppe,
secondo la volontà espressa da quest'ultimo in Gn 50,25 e, in Gs 24,32, le ossa
vengono finalmente sepolte a Sichem. L'argomento più forte in favore del
carattere secondario di Gn 50,24-25, però, è il fatto strano che mai, nella
storia di Giuseppe, si parla di un «giuramento» fatto ai tre patriarchi. Il
tema appare all'improvviso e senza alcuna preparazione. Giuseppe non ne parla,
per esempio, quando invita i suoi fratelli a venire a stabilirsi in Egitto con
il loro padre (Gn 45,9-11). Neanche Giacobbe ne parla quando i fratelli tornano
e lo invitano a scendere con loro in Egitto (45,28). Egli non obietta che Dio
ha promesso la terra di Canaan ai suoi antenati (43).
Dopo questa indagine, risulta più verosimile che il
legame fra tradizioni patriarcali e tradizioni dell'esodo sia una creazione
deutero-nomica e non possa risalire al periodo precedente. Quindi, non esisteva
prima del Deuteronomio un «documento» completo che avesse già unito i due
«blocchi» narrativi. Le tradizioni erano giustapposte e ogni tanto opposte. Per
esempio, in Osea 12 Giacobbe viene opposto a Mosè, in Ez 33,23-29 Abramo viene
opposto alla legge, e in Is 63 Abramo viene opposto a Mosè.
D. I MATERIALI PKEESILICI DEL pentateuco
Nei paragrafi seguenti, cercherò di dare alcune
indicazioni sui materiali più antichi nei diversi libri del Pentateuco. Non
sarà possibile offrire un'argomentazione completa e rigorosa per ogni proposta.
Ho scelto, fra le ipotesi elaborate negli ultimi tempi quelle che hanno un più
elevato grado di verosimiglianza, che sono più facilmente verificabili e che
permettono di capire meglio il testo del Pentateuco attuale in tutta la sua
complessità.
1. il
libro della Genesi
Nel libro della Genesi, varie tradizioni sono esistite
separatamente prima di essere unite. Bisogna distinguere, sempre in un
Pentateuco predeuteronomico e presacerdotale, una storia delle origini (2-11);
il ciclo di Abramo (12-25); il ciclo di Giacobbe
(25-35) e la storia di Giuseppe (37-50).
— La storia delle origini
La storia delle origini pone dei problemi particolari
(44). Molti brani appaiono come postdeuteronomici e postsacerdotali. Non è
facile distinguere gli elementi più antichi dalle rielaborazioni tardive. Per
il racconto del diluvio, penso di aver dimostrato in modo convincente che il cosiddetto
racconto jahwista sia in realtà formato da una serie di aggiunte
postsacerdotali (45).
Comunque sia, Gn 2-11 ha una propria storia e gli
agganci con il resto del Pentateuco sono pressoché inesistenti (46).
L'universo di Gn 2-11 è un universo di comunità
sedentarie: per lo più agricoltori e cittadini. I problemi trattati sono quelli
che riguardano i rapporti fra JHWH, l'umanità nel suo insieme e la terra ('adama),
diremmo oggi: «l'ambiente». In nessuna parte, Gn 2-11 prepara una vera
«continuazione». L'unità narrativa è chiusa in se stessa. D'altronde, i
problemi che appaiono dopo Gn 11 sono ben diversi: la ricerca della terra, le
migrazioni, la discendenza, oppressione e libertà, e costituzione giuridica di
un popolo senza terra.
Solo in uno stadio tardivo Gn 2-11 è stato collocato
nel suo posto attuale per formare un prologo universalistico a tutta la storia
della salvezza. Fra i riassunti di questa storia, solo testi molto tardivi
come la preghiera di Neemia (Ne 9) iniziano con un accenno alla creazione (9,6)
prima di menzionare i patriarchi (9,7). Lo stesso vale per il Sai 136.
Per un lungo tempo, gli esegeti hanno visto in Gn
12,1-3 «l'aggancio» che univa storia delle origini e storia della salvezza. La
benedizione universale promessa ad Abramo veniva come la grazia offerta a un
mondo sotto «la collera divina» (Rm 1,18). Il testo riprenderebbe anche alcuni
elementi di Gn 11,1-9, come il «grande nome» (11,4; cf. 12,2).
Lo studio accurato di Gn 12,1-3 non conferma questa
visione. Gn 12,1-3 è un inserto tardivo, postesilico, e contiene l'atto di
nascita d'Israele, non la promessa di una salvezza universale. E rivolto verso
il futuro, non verso il passato. Il testo non parla di benedizione universale,
ma della fama universale che Abramo acquisterà (47).
- Le storie degli antenati (Gn 12-50)
Nelle storie patriarcali si distinguono facilmente
alcuni complessi narrativi con caratteristiche proprie: il ciclo di Abramo
(12-25); qualche tradizione su Isacco (26); il ciclo di Giacobbe (25.27-35) e
la storia di Giuseppe (37-50). Una breve descrizione dei testi induce a pensare
che i legami fra i diversi complessi siano tardivi.
Abramo.
Abramo vive in un'area vicina al Sud della terra di Ca-naan, ha dei contatti
con l'Egitto (Gn 12,10-20) o con i Filistei (Gn 20-21), e vive soprattutto a
Hebron o a Beersheva, non lontano dal deserto. Giacobbe, invece, è piuttosto in
contatto con gli Aramei della regione di Charan e vive nei pressi di Sichem e
Betel. I cicli di Abramo e Giacobbe sono assai diversi: la trama, l'atmosfera,
il quadro geografico e tanti dettagli separano i due patriarchi.
Isacco rimane anch'egli isolato, e non è necessario
insistere sulle caratteristiche individuali della storia di Giuseppe dalla
quale sono assenti molti motivi importanti dei racconti precedenti.
Soprattutto, la storia di Giuseppe ha uno stile che la distingue dal resto
della Genesi (48). La storia è molto più unificata, più centrata sulla sorte
di un personaggio e Dio non interviene se non indirettamente nelle vicende dell'eroe.
L'impronta «egiziana» di molti episodi in Gn 37-50, è
un'altra delle sue particolarità. Le qualità letterarie e artistiche sono note
e obbligano a classificare la storia di Giuseppe in una categoria a parte
(49).
Il ciclo di Abramo è stato formato a partire da alcuni
racconti isolati e brevi cicli narrativi (50). Fra questi testi più antichi,
possiamo con una relativa certezza annoverare il ciclo Abramo-Lot (Gn
13.18-19); il racconto del soggiorno in Egitto (12,10-20); le due versioni
dell'espulsione di Agar (16,1-14* e 21,8-20*); qualche tradizione sulla permanenza
di Abramo a Gerar (20,1-18*; 21,22-34) (51).
Gli altri episodi sono più recenti, come i diversi
testi che collegano la storia di Abramo con il resto delle tradizioni
patriarcali, vale a dire le promesse e gli itinerari (52).
Gn 22,1-19, la prova di Abramo, e Gn 24, il matrimonio
di Isacco, sono racconti giudicati oggi tardivi, vale a dire postesilici (53).
Testi difficili come Gn 14 e 15 appartengono a un
altro tipo di racconti. Benché possano contenere alcuni elementi antichi, la
loro stesura attuale porta le tracce di un lungo processo redazionale e sono
dunque recenti (54).
Isacco. Gn
26, il solo capitolo dedicato al personaggio di Isacco, si discosta dal suo
contesto (55). Il capitolo si colloca fra i due principali episodi della
rivalità fra Esaù e Giacobbe, Gn 25,27-34, l'episodio del piatto di lenticchie,
e Gn 27, «la benedizione rubata». Si tratta di una «interruzione» o
«digressione».
I due figli sono stranamente assenti da Gn 26 (56). Il
capitolo descrive una serie di conflitti che hanno come quadro la regione di
Gerar dove interviene il rè Abimelek. Questi tratti particolari distinguono il
capitolo da quelli che lo circondano.
Giacobbe. Il
ciclo di Giacobbe ha caratteristiche proprie. Anch'esso ha conosciuto una
storia indipendente prima di far parte del libro della Genesi (57). Questa
ipotesi si basa su solide ragioni. Nel suo nucleo primitivo, la storia di
Giacobbe non contiene nessun legame con la storia di Abramo. D'altra parte,
quando la storia si conclude in Gn 33 e 35, nessun elemento prepara la storia
di Giuseppe. Il racconto come tale non richiede una continuazione.
La storia di Giacobbe è più unificata di quella di
Abramo. Si può individuare senza molte esitazioni il complesso narrativo che
descrive i conflitti di Giacobbe con Esaù e con Labano (58). Questo complesso
comprende i due episodi della rivalità fra Esaù e Giacobbe, Gn 25,27-34;
27,1-45; la visione di Betel, 28,10-12.16-19*; i conflitti fra Giacobbe e il
suo zio/suocero Labano 29,1 - 32,1; il ritorno in terra di Canaan, 32-33*;
35,1-8.16-20 (59).
In questi testi, è ancora possibile, ma con meno
certezza, percepire la presenza di alcuni racconti individuali, in relazione
con certi luoghi o santuari, che possono essere più antichi ed aver avuto una
esistenza indipendente prima della loro integrazione nel «ciclo di Giacobbe»:
la «leggenda sacra» di Betel (28,10-12.16-19*); l'episodio di Penuel
(32,23-33*); il passaggio da Sichem a Betel (35,1-5*.16-20*) (60).
Gn 34, la storia di Dina e Sichem, è una «digressione»
che ha una storia propria. E stata inserita al posto attuale a causa della
menzione di Sichem e di Hamor in Gn 33,19. Il filo narrativo di Gn 33,19-20 si
ritrova in 35,1-5 e il racconto di Gn 34 potrebbe spiegare, nella composizione
attuale di Gn 33-35, perché Dio chiede a Giacobbe di lasciare Sichem per andare
a Betel.
La storia di Giacobbe è sorta nel Nord. È legata a
luoghi carateristici del Nord come Betel, Sichem o Penuel (cf. 1 Rè 12,25.29).
Giuseppe. Le
caratteristiche letterarie e teologiche della storia di Giuseppe sono ben
conosciute (61). Ogni commentario ne da un buon riassunto. Questa storia, più
di tutte le altre nel libro della Genesi, ha una sua coerenza intern (62).
All'inizio, il lettore deve solo sapere qualche cosa sulla famiglia di
Giacobbe e dei suoi figli. Almeno nel racconto attuale, questi elementi non
fanno parte dell'esposizione.
Il Giacobbe di Gn 37-50 è ben diverso, ad ogni modo,
dal patriarca scaltro e intrepido di Gn 25-35. E diventato un anziano debole
e prigioniero delle sue preferenze affettive. Esaù e Labano scompaiono dal
racconto.
Il nucleo del racconto comprende la vicenda del
conflitto e della «vendita» di Giuseppe (37); la salita di Giuseppe al potere
(40-41); i viaggi dei fratelli in Egitto e la riconciliazione (42-45) (63). Gn
38, la storia di Giuda e Tamar, non appartiene alla storia di Giuseppe. Interrompe
il racconto e introduce temi e personaggi estranei alle vicende di 37-50. Gn
39, più che probabilmente, è un'aggiunta o un «intermezzo» fra Gn 37 e Gn 40.
Gn 39 si discosta dal resto della storia di Giuseppe
sotto parecchi aspetti. JHWH interviene solo in questo capitolo. Giuseppe finisce
in carcere dove acquista una posizione di riguardo, mentre all'inizio di Gn 40,
è incaricato di due prigionieri e il suo «padrone» - se è lo stesso Potifar di
Gn 39 - ha dimenticato quello che è accaduto nel capitolo precedente. La
finale di Gn 39 non è del tutto soddisfacente dal punto di vista narrativo. Il
reato di Giuseppe richiede di per sé la pena di morte, non il carcere. D'altra
parte, il delitto della moglie di Potifar non viene scoperto ed essa rimane
impunita.
Gn 39 è anche l'unico brano ad avere un parallelo
egiziano nella «storia dei due fratelli». Tutto questo fa pensare che un
redattore abbia inserito questo capitolo, con qualche lieve ritocco, in un racconto
già esistente. In effetti, Giuseppe si trova alla fine dove era all'inizio,
cioè al servizio di un ufficiale egiziano (37,36; 39,1; 40,3-4).
Gn 37 richiede una spiegazione particolare. La parte
più antica del capitolo racconta come Giuseppe venne «rubato» dai Madianiti,
mentre Ruben voleva salvarlo. La versione Giuda, che racconta come Giuseppe è
stato venduto agli Ismaeliti, è più recente ed è stata aggiunta alla
precedente. In Gn 42-45, invece, la figura di Giuda non è secondaria. Al
contrario, il personaggio è centrale e non si può fare a meno dei suoi
interventi senza sfigurare e distruggere la trama del racconto.
Senza aver su questo punto una certezza assoluta,
penso che la soluzione più verosimile di questi problemi è da cercare nel
passaggio della storia di Giuseppe dal Nord al Sud. Solo nel Sud si spiega perché
Giuda possa espletare un ruolo chiave in una storia su Giuseppe, un personaggio
sicuramente ambientato nel regno del Nord. Gn 37 sarebbe il nucleo più antico
della storia, di origine settentrionale.
L'autore/redattore del Sud che ha rielaborato la
storia, ha aggiunto l'intervento di Giuda in 37, poi ha riscritto quasi
interamente i capitoli 42-45, ove Giuda fa parte del tessuto connettivo del
racconto. In effetti, la figura di Giuda è sempre decisiva nel racconto
attuale: Giuda convince i fratelli a vendere Giuseppe (37,26-27); Giuda
convince Giacobbe a lasciar partire Beniamino (43,3-14); Giuda, con la sua arringa
in favore di Beniamino, capovolge la situazione in quanto induce Giuseppe a
farsi riconoscere e a riconciliarsi con i fratelli (44,18-34).
In questi tre interventi, la posizione e il carattere
di Giuda cambia: quando Giuseppe crea una situazione simile a quella iniziale,
offrendo ai fratelli la possibilità di sbarazzarsi di un altro figlio preferito
dal padre, colui che lo aveva venduto, vale a dire Giuda (37,26-28), si offre
per prendere il posto della vittima potenziale (Beniamino). Questa «trasformazione»
di Giuda si capisce meglio come frutto di una revisione «meridionale»
dell'antico racconto. Giuda diventa lo strumento di riconciliazione in una
famiglia lacerata dalla discordia. Questo atteggiamento corrisponde bene al
ruolo di Giuda dopo la caduta di Samaria.
La storia di Giuseppe è dunque più probabilmente sorta
nel Nord per poi trasferirsi nel Sud (64). In uno stadio ulteriore, essa è
diventata la continuazione della storia di Giacobbe. Poi, questo complesso è
stato unito al ciclo di Abramo per formare una sola narrazione sugli- antenati
d'Israele.
Penso che quest'ultimo lavoro redazionale sia
post-esilico, come i principali testi di questo strato redazionale
(specialmente Gn 12,1-4a; 13,14-17; 28,13-15; 26,2-5; 31,3; 46,l-5a; 50,24-25).
2. L'esodo, il Sinai e la permanenza nel deserto
II grande complesso narrativo dell'esodo e della
permanenza nel deserto è irto di difficoltà. Posso solo proporre una ipotesi
ragionevole, basata sui lavori più affidabili degli ultimi anni. In un primo
passo, con un margine di sicurezza sufficiente, si possono distinguere una
storia dell'uscita dall'Egitto (Es 1-2*.5.7-12*.14-15*), la pericope del Sinai
(19.24.32-34), il decalogo (20,1-19*), il «codice dell'alleanza» (Es 21-23*),
le tradizioni sulla permanenza d'Israele nel deserto (Es 15*.17-18*, Nm 11*;
12*; 13-14*; 20-21*.25*) e la storia di Balaam (Nm 22-24*).
Queste tradizioni sono relativamente indipendenti.
Anche all'interno di alcuni blocchi si possono verificare delle «faglie» che
permettono, con un sufficiente grado di probabilità, di ipotizzare un'origine
propria per alcune «sequenze narrative».
- L'oppressione in Egitto e i primi anni di Mosè
Es 1 descrive in poche scene le prime misure
vessatorie del faraone contro Israele. Poi, in Es 2, introduce Mosè, il futuro
salvatore. Lo stile di questi capitoli è stato studiato da molti autori negli
anni recenti (65). È molto vicino allo stile dei racconti popolari di Gn 12-35,
lo stile della Sage studiato da Gunkel con grande accuratezza.
Questi racconti formano adesso un ciclo narrativo che
precede e prepara la vocazione di Mosè (Es 3,1 - 4,18). Una lettura attenta,
tuttavia, mostra facilmente che i diversi brani non sono stati tutti concepiti
per il loro contesto attuale. Rimangono delle tensioni o incoerenze che si
spiegano solo se gran parte dei racconti è esistita prima di essere integrata
in una narrazione più ampia sull'oppressione d'Israele in Egitto e il suo lieto
fine.
Già l'inizio del racconto rivela qualche tensione con
il contesto più ampio (66). Il motivo della moltiplicazione rapida del popolo è
limitato a Es 1, come quello della costruzione delle città-magazzino. Dopo Es
1-2 non si paria più neanche della volontà del faraone di eliminare i figli
maschi per impedire l'aumento del popolo. Vi è anche una certa tensione fra la
causa dell'oppressione e le misure adottate. I lavori forzati faranno diminuire
la popolazione? Non pare del tutto certo. E se il faraone vuoi utilizzare gli
Ebrei come mano d'opera servile, perché cerca di eliminare i figli maschi? Il
fatto che gli Egiziani non possano sopportare gli Ebrei non quadra bene con il
loro timore di vederli lasciare il paese (1,10).
Vi sono anche problemi nel passo seguente (1,15-22).
Se il popolo è diventato molto numeroso, sembra difficile che due sole levatrici
possano bastare per assistere tutte le partorienti. Tuttavia, gli ordini dati
alle levatrici di eliminare tutti i figli maschi sono abbastanza consoni al
tema dell'aumento straordinario del popolo ebreo. Questo racconto (1,1.5-22)
forma d'altronde una eccellente preparazione alla nascita di Mosè e ai pericoli
che la circondano. Sembra che il racconto attuale abbia unito diversi motivi
come l'aumento della popolazione, la schiavitù, e alcuni racconti popolari come
quello sull'intervento delle levatrici.
Le diverse narrazioni sull'inizio della carriera di
Mosè appartengono allo stesso tipo di racconton (67). Es 2,1-10, la storia
della nascita di Mosè, ha un parallelo nella storia della nascita di Sargon di
Accad. Il tema fa parte del folclore di tutti i tempi. Questo racconto, però,
suppone la narrazione precedente e l'ordine del faraone di buttare nel Nilo
tutti i figli maschi degli Ebrei. L'episodio dell'incontro presso il pozzo (Es
2,15-22) ha almeno due paralleli nella Genesi (Gn 24 e 29,1-14). Si tratta di
un motivo o di una «scena tipica» del folclore.
Il tema sarà appena sviluppato in seguito. Nei
capitoli seguenti, solo Es 3,1; 4,18 e 18,1-3 (cf. Nm 10,29; Gdc 1,16; 4,11)
accennano al soggiorno di Mosè dal suo suocero nella terra di Madian. Fra la nascita
(2,1-10) e il matrimonio (2,15-22) si collocano due brevi episodi: Mosè uccide
un egiziano per difendere un suo fratello ebreo; Mosè viene contestato da un
ebreo che litiga con un altro ebreo e deve fuggire perché faraone è venuto a
sapere dell'omicidio di un egiziano. Questo brano è forse di origine
secondaria. Il suo primo scopo è di creare un legame fra la scena della nascita
e quella del matrimonio nella terra di Madian.
La «vocazione di Mosè» (Es 3,1 - 4,18) è un racconto
tardivo che si inserisce fra Es 2,23a e 4,19 come notato da B.D. Eerdmans e M.
Noth (68). Chiari segni permettono di separare Es 3,1
- 4,18 dal suo contesto immediato.
Dopo la notizia della morte del faraone (2,23 a), JHWH
dice a Mosè di tornare in Egitto perché i suoi persecutori sono deceduti
(4,19). Ora, in 4,18, Mosè ha già discusso di questo ritorno con il suo suocero
letro.
Nell'ordine di Es 4,19, JHWH non menziona nessun
elemento presente nel racconto di Es 3,1 - 4,18, per esempio le obiezioni di Mosè
o la missione affidata in precedenza.
D'altronde, il racconto della vocazione non allude al
fatto che il faraone volesse uccidere Mosè. Questo elemento avrebbe potuto essere
utilizzato dall'uomo di Dio come obiezione, ma non è il caso.
È possibile passare senza alcuna difficoltà da 2,23 a
4,19. La morte del faraone (2,23 a) è il motivo allegato per convincere Mosè a
tornare in Egitto (4,19).
In 4,20 riappaiono la sposa e i figli di Mosè che sono
presenti in 2,21-22, ma non vengono menzionati in 3,1 - 4,18.
Il nome del suocero di Mosè è letro in 3,1 o leter in
4,18, mentre si chiama Reuel in 2,18. Chiaramente, il filo narrativo presente
in Es 2,23 a e 4,19 viene interrotto per integrare un racconto che spiega con
dovizia di particolari quale sarà la missione di Mosè (3,1 - 4,18). Forse
questo racconto della vocazione riutilizza qualche materiale più antico,
specialmente nella scena del roveto ardente (3,1-6).
Es 5 presenta alcuni tratti individuali che lo distinguono
dal suo contesto. Si riallaccia a Es 1,8-12, l'inizio dell'oppressione e dei
lavori forzati, sebbene non menzioni la ragione dell'oppressione, vale a dire
la paura degli Egiziani davanti all'aumento del popolo ebreo. I mattoni
fabbricati dagli Ebrei possono benissimo servire alla costruzione delle città
magazzino menzionate in 1,11, ma Es 5 non si riferisce esplicitamente a queste
città. Il racconto è stato rielaborato e ampliato per introdurre la figura di
Aronne (5,1.20) (69).
- Le piaghe d'Egitto
Anche nel racconto delle piaghe (Es 7-11*) appaiono
delle «fratture» (70). Per esempio, il racconto della piaghe non menziona mai
con chiarezza il problema dell'oppressione in Egitto. Gli Israeliti vivono
nella terra di Goshen, separati dagli Egiziani (8,18; 9,4.6-7.26; 10,23), e non
sembrano dover lavorare alla costruzione di città-magazzino (Es 1,11).
Il tema della schiavitù, specialmente della
fabbricazione dei mattoni, sparisce dopo il e. 5 e riappare in modo abbastanza
chiaro solo in Es 14,5 (cf. 14,11-12). Forse si tratta di un caso di economia
narrativa, perché il racconto delle piaghe si concentra sulla lotta fra JHWH e
il faraone e pertanto non si interessa della sorte degli Ebrei. Si può
aggiungere che il verbo «lasciar partire» (Slh, pi.) significa anche
«liberare», «affrancare».
Infine, il racconto suppone un contesto nel quale la
situazione degli Ebrei in Egitto non è da invidiare. Comunque, Mosè non chiede
mai esplicitamente al faraone di porre fine ai lavori forzati degli Ebrei. Chiede
piuttosto il permesso di poter andare a celebrare una festa nel deserto (3,18;
5,1; 7,16.26; 8,16.21-24; 9,1.13; 10,3.7.8-11.24-26). Sebbene l'uno non
escluda l'altro, gli accenti sono diversi.
L'inizio del racconto delle piaghe, in Es 7,14, non si
riallaccia bene ai capitoli precedenti. In questo versetto, JHWH informa Mosè
del rifiuto del faraone, mentre, in 5,22-23, è Mosè che informa JHWH. Es 7,14
introduce inoltre un tema nuovo, quello dell'indurimento del cuore (cf. 4,21),
assente da Es 5 (71).
Il racconto delle piaghe potrebbe dunque avere una
origine diversa dal resto del testo nel quale si inserisce.
Il testo di Es 7-11* contiene alcune somiglianze con
la letteratura profetica (72), come per esempio la presenza della «formula del
messaggero»: «così dice JHWH» (Es 7,17.26; 8,16; 9,1.13; 10,3; 11,4) e della
«formula di riconoscimento»: «affinchè si sappia che io sono JHWH»; «affinchè
tu sappia che io sono JHWH» (Es 7,17; 8,18; 9,14.29; 10,2; 11,7). Anche
l'efficacia dell'intercessione di Mosè può essere un motivo profetico (Es
8,4-9.25-27; 9,27-33; 10,16-19). L'indurimento del cuore è una tematica
presente in alcuni profeti (Is 6,10; Ger5,21; Ez 2,4; 3,7).
Si può vedere qualche analogia con le visioni di Amos
(Am 7-9), dove si osserva una progressione simile a quella delle piaghe, con lo
stesso risultato negativo: il giudizio finale è sempre più vicino. In Am 7-9,
si parla anche dell'intercessione del profeta (Am 7,2.5; cf. 7,8). Am 4,6-12 è
un altro testo che si può paragonare con il racconto delle piaghe: JHWH invia
una serie di castighi, ma il popolo non si converte, come faraone non si
lascia convincere dalle piaghe. I contatti testuali fra Amos e il racconto
delle piaghe rimangono tenui e pertanto è possibile trovare solo qualche punto
di appoggio per individuare l'ambiente nel quale Es 7-11* potrebbe essere
nato.
I tratti «profetici», però, sono caratteristici di
questo racconto e lo distinguono abbastanza nettamente dalle altre parti di Es
1-15 (73). Per la datazione, esiste un testo importante, 1 Sam 6,6, che
menziona le piaghe nel quadro della guerra fra Israele e i Filistei (74).
Quest'ultimo testo è con ogni probabilità preesilico e di origine nordica. Su
questa base, si può ipotizzare che esistesse nel regno del Nord una tradizione
sulle piaghe.
Il racconto attuale, tuttavia, non è stato
necessariamente redatto nel regno del Nord. Mancano gli elementi sicuri per
proporre una soluzione più precisa. Al massimo, si potrebbe vedere un legame -
implicito - fra la propaganda anti-egiziana di Isaia e il racconto delle
piaghe (Is 18,1-7; 19,11-15; 20,1-6; 30,1-7; 31,1-3; cf. 36,9). Saremmo di
nuovo in un ambiente profetico.
Il racconto attuale delle piaghe viene strutturato in
due modi diversi. Il racconto sacerdotale ne fa una serie di «segni e prodigi»
che preparano, annunziano e prefigurano il giudizio finale. I testi che strutturano
P sono Es 7,1-5 e 11,9-10. Il giudizio finale viene menzionato in Es 12,12 e il
passaggio del mare (Es 14*) (75). Il secondo modo di strutturare il racconto di
Es 7-11 appare in Es 3,16-22; 6,1; 11,1-3. In questi testi, il piano divino si
divide in due tappe opposte: al fallimento della prima tappa si contrappone il
successo della tappa finale.
Le piaghe sono «meraviglie» operate da JHWH (3,20)
che, però non riescono a convincere il faraone. Solo dopo un ulteriore intervento
- la morte dei primogeniti - egli lascerà partire Israele (3,20-21;
6,1; 11,1) (76). Alcuni elementi sono molto tardivi,
come la presenza di Aronne e del suo bastone.
- Il miracolo del mare (Es 14*)
II racconto non sacerdotale di Es 14* non sembra
conoscere il racconto delle piaghe. Ne il faraone ne i suoi ministri le
menzionano all'inizio del racconto. Israele è «fuggito» (Es 14,5), e nessuno
sembra ricordarsi degli avvenimenti tragici di Es 12*, quando il faraone pregò
con insistenza Mosè di lasciare l'Egitto con il suo popolo in piena notte.
Spariscono alcuni motivi importanti della storia delle
piaghe, come la festa da celebrare nel deserto, dopo tre giorni. Riappare
invece il motivo della schiavitù (14,5) (77).
Il vocabolario profetico, presente nelle piaghe, è
assente da Es 14*. Vi sono indizi abbastanza validi per vedere in Es 14* sia
una tradizione propria, all'origine relativamente indipendente dal racconto
delle piaghe.
Sulla base di Os 2,17; 11,1; 12,10.14, e di
alcuni testi di Amos (2,10; 3,1; 9,7), forse meno sicuri, si può parlare di
un'origine nordica del racconto.
- La pericope del Sinai
II legame più esplicito fra l'uscita dall'Egitto e il
Sinai si trova in Es 19,4-6, testo postesilico, che connette cronologicamente e
logicamente i due eventi:
«Avete visto voi stessi che cosa ho fatto all'Egitto e
come vi ho portato su delle ali d'aquila per condurvi fino a me. Ora, se
ascoltate la mia voce e rispettate la mia alleanza, sarete il mio appannaggio
fra tutti i popoli - perché tutta la terra mi appartiene - e sarete per me un
regno sacerdotale e una nazione santa».
Tranne questo testo, le allusioni all'uscita
dall'Egitto in Es 19-24 sono piuttosto rare e probabilmente tardive. Una è
presente all'inizio del decalogo, testo che è, con grande probabilità, di
origine deutero-nomica (78). Nel codice dell'alleanza, vi sono alcune allusioni
all'uscita dall'Egitto in testi che appartengono alla seconda parte del codice
dell'alleanza e che sono spesso giudicati più recenti (Es 22,20; 23,9.15).
Ma anche se fossero antichi, non vi si trova alcun
nesso stretto fra l'esperienza dell'esodo e la pericope del Sinai come tale, ma
piuttosto un riferimento a una tradizione conosciuta.
La pericope del Sinai è una delle più complicate di
tutto il Pentateuco. E. Otto limita il nucleo più antico di questa pericope a
Es 19,2b.3a.l0-20*; 34,(lla).18-23.25-27 (79). Per E. Zenger, invece, è più
esteso: 19,3a.l0-12aa.l4-18; 20,18.20; 24,4ag.b.5; 32*; 34,6-7.14.18-23.25-26
(80).
Vi sono molte altre opinioni. Comunque, le parti più
antiche sono da cercare nella teofania di Es 19,10-19 e nella legislazione di
Es 34 (81).
Oltre alla delimitazione delle parti originali, tema
aspramente dibattuto, la provenienza della pericope pone problemi particolari.
Tuttavia, molti ipotizzano oggi un'origine cultuale, oppure in associazione
con le liturgie della guerra (82), oppure con il culto di Gerusalemme (83).
Non è possibile dare una risposta sicura a questa domanda
(84). Mi pare che la teofania del Sinai sia un testo molto rielaborato, perché
contiene l'esperienza sulla quale Israele impernia la sua esistenza come
popolo.
Nella sua stesura attuale, il testo è certamente
postesilico, postsa-cerdotale e postdeuteronomistico. Sarà sempre molto
difficile trovare il metodo giusto e sicuro per poter reperire, con un
ragionevole grado di sicurezza, gli elementi più antichi e, a fortiori,
la loro origine.
- Il codice dell'alleanza.
Per il codice dell'alleanza, bisogna distinguere due
problemi: quello dell'origine delle diverse leggi o piccole raccolte di leggi
da una parte, e dall'altra quello della redazione del codice come tale. La
prima redazione del codice può diffìcilmente risalire a un'epoca anteriore al
settimo o ottavo secolo avanti Cristo, perché richiede una cultura giuridica e
letteraria abbastanza sviluppata che, secondo gli studi recenti, non esisteva
prima.
Taluni propongono come data approssimativa l'epoca di
Ezechia (85). Perché scegliere questa epoca relativamente recente? Le ragioni
addotte da Crùsemann, in particolare, provengono da riflessioni di tipo
storico e sociologico. Il codice dell'alleanza dimostra una preoccupazione
particolare per gli schiavi, gli stranieri, le transazioni finanziarie e il
commercio che suppone una società nella quale esistono grosse differenze
sociali.
Secondo la testimonianza dei profeti Amos, Osea, Isaia
e Michea, una tale situazione si è verificata nell'8° e il 7° secolo avanti
Cristo, e non prima. Gli studi recenti sulla storia e la cultura d'Israele
suffragano questa opinione.
- La permanenza d'Israele nel deserto
La permanenza d'Israele nel deserto richiede uno
studio particolare. La figura di Mosè permette di collegare e unificare
racconti e tradizioni di diversa provenienza. Comunque, le tradizioni sulla
permanenza nel deserto contengono pochi ricordi dell'oppressione, delle piaghe
d'Egitto (Es 7-12*) o del miracolo del mare (Es 14*). I testi si riferiscono in
genere alla permanenza in Egitto (Es 14,11-12;
16,3; Nm 11,4-6; 14,1-4; 16,13-14; 20,2-5; 21,5).
Di rado, un racconto allude all'uscita dall'Egitto e,
quando lo fa, non entra nei particolari (Es 18,1.8-11; Nm 20,15-16) (86). Nm
20,15-16 è comunque il testo che più chiaramente unisce in una sequenza narrativa
la permanenza in Egitto e la permanenza nel deserto. Esiste qui un nesso logico
fra i due momenti della storia: JHWH ha fatto uscire Israele perché gli
Egiziani lo maltrattavano.
Il testo, come visto prima, è di epoca tardiva, vale a
dire posteriore a testi deuteronomici come Dt 26,3-8. Con il testo sacerdotale
di Es 6,2-8 e il testo recente di Gn 15,13-16, si tratta di uno dei pochi
testi del Tetrateuco che colleghi in un riassunto narrativo i «padri», la
permanenza in Egitto e la permanenza nel deserto e testimonia dell'attività
teologica e letteraria dell'epoca postesilica. Avremmo qui una delle «pietre
angolari» del Pentateuco attuale.
Vi sono anche pochissimi richiami alla teofania o alla
legislazione del Sinai. Come in altri casi, non si deve insistere troppo
sull'argomento del silenzio. Se le narrazioni descrivono piuttosto le
ribellioni del popolo e il suo desiderio di tornare in Egitto, non si può nello
stesso tempo parlare della schiavitù. Nondimeno, Mosè non usa mai l'oppressione
passata come argomento per scoraggiare coloro che vogliono tornare nella terra
del faraone.
Bisogna aggiungere che vi sono diversi tratti
particolari, come la struttura, lo stile e l'ambientazione in luoghi specifici
del deserto che danno a questi racconti una fisionomia distinta.
Il ricordo della permanenza nel deserto è vivo nei
libri profetici, come in Os 2,16-17; 12,10; Am 2,10; Ger 2,2-3; Ez 20, anche se
si discute ogni tanto della datazione o dell'interpretazione di questi testi
(87). Molti di questi racconti sono delle tradizioni locali, riutilizzate in un
contesto diverso, quello dei conflitti che oppongono il popolo a Mosè.
È possibile percepire in questi testi un'eco
dell'opposizione alla riforma di Ezechia o a quella di Giosia? Oppure si tratta
anche dell'opposizione ai profeti? Ad ogni modo, l'atmosfera di molti di questi
testi è tesa e suppone un contesto conflittuale aspro nel quale fede e autorità
politica sono strettamente legate.
Con più probabilità si deve cercare nel Sud l'ambiente
nel quale questi testi sono stati redatti e trasmessi, per le ragioni esposte
sopra e anche perché il regno del Sud è più vicino al deserto. Le tradizioni su
Balaam (Nm 22-24) hanno una storia diversa, attestata nei documenti
extra-biblici di Deir la (88).
In conclusione,
esistono materiali che, con un grado ragionevole di plausibilità, possiamo
considerare come preesilici. Tuttavia, rimane molto difficile, se non
impossibile, poter evidenziare l'esistenza di grandi complessi narrativi prima
dell'esilio.
I primi testi che possiamo individuare sono testi o
«cicli» brevi, isolati e indipendenti che fanno parte della «memoria
collettiva» del popolo e delle sue autorità civili e religiose. I legami
espliciti e lette-rari fra le diverse tradizioni e i vari cicli o blocchi narrativi
sono in grande maggioranza tardivi, vale a dire postesilici.
RIFERIMENTI
(1) E LOPEZ garcìa, «La nueva critica del
Pentateuco», 17, n. 27, che riprende una riflessione di E. Otto.
(2) Per esempio, i lavori di E. Blum sulla Genesi e su
Es-Nm riprendono molti elementi degli studi sincronici. Vedi anche D. Carr,
che va in questo senso, nel suo studio sulla Genesi.
(3) Per una breve descrizione di questo periodo, vedi
H.M. barstad, Thè Myth of thè
Empty Lana (Symbolae Osloenses Fase. Suppl. 28; Oslo 1996).
(4) Cf. P. sacchi,
Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C.
(Torino 1994) 92-104; B. schramm, Thè
Opponents ofThirdIsaiah, 53-80.
(5) A questi tre codici, E. otto, «Die nachpriesterschriftliche Pentateuchre-daktion»,
64, propone di aggiungere un quarto elemento, il decalogo, una composizione
esilica e deuteronomica. Colloca il decalogo fra Dt (preesilico) e la Legge di
santità.
(6) J. VAN seters,
«Cultic Laws», 319-346; id., «Thè
Law of thè Hebrew Slave», ZAW 108 (1996) 534-546, vuoi dimostrare che il
codice dell'alleanza è più recente del Dt; per esempio, la legge di Es 21 è più
recente di quella di Dt 15. A mio parere, non è del tutto convincente. Fra
l'altro, deve correggere il testo di Es 20,24, la «legge dell'altare», per
farlo quadrare con la sua tesi. Traduce; «In every piace where you invoke my name, I
will come to you and bless you» («Cultic Laws», 325-326). Il testo ebraico dice: «Dove farò invocare il mio
nome», «dove rivelerò il mio nome» (prima persona). J. Van Seters preferisce
la lettura del Siriaco, più intelligibile e conclude che il testo non allude a
vari altari, ma ai vari luoghi dove il pio Israelita può invocare il nome di
JHWH. Non vi è dunque alcuna contraddizione fra questa legge e la centralizzazione
del culto voluta da Dt 12. Dunque, Es 20 può essere posteriore a Dt 12. Questa
interpretazione s'imbatte in almeno quattro grosse difficoltà. Perché scegliere
il testo siriaco e non la lecito difficilior del TM? Se si ammette con
Van Seters che il testo originale portasse la seconda persona, come spiegare
il cambiamento dalla seconda alla prima persona? Non è vero che «Since thè
clear and usuai meaning of thè verb hzkyr is «to invoke», it makes no
sense for thè deity to say: «I will invoke my name» and scholars bave been
ingenious in trying to invent other suitable meanings» («Cultic Laws», 325). Un semplice sguardo in un dizionario mostra che non è
affatto il caso. 2 Sam 18,18 fornisce un bei parallelo. Assalonne fa costruire
un monumento perché, disse: «Non ho nessun figlio ba'abùr hatkìr s'mì -
per ricordare il mio nome». Assalonne vuole che il suo nome sia ricordato, per
questo erige un monumento che lo «fa ricordare». Il significato di Es 20,24b è
analogo: come il ricordo del nome di Assalonne è legato a un monumento, quello
del nome di JHWH è legato all'altare o agli altari. Dove si erige un altare, lì
JHWH farà ricordare o invocare il suo nome. In questo modo, si dice dove sarà
istituito un culto legittimo di JHWH. Vedi J.J. stamm,
«Zum Altargesetz im Bundesbuch», TZ 1 (1945) 304-306. Pertanto,
non si può affermare in modo apodittico: «It is certain that thè verb shouid
be second person singu-lar» (ibid.}. L'invocazione
del nome in Es 20,24-26 si trova in un contesto cultuale. In ogni versetto si
parla dell'altare. Pertanto, anche se si traduce: «tu invocherai il mio nome»,
si presuppone che l'invocazione abbia luogo in un santuario, presso un altare.
Il versetto non esclude dunque la pluralità dei luoghi di culto e il problema
del rapporto con Dt 12 rimane. Dt 12,13-14 contiene un'allusione abbastanza
palese a Es 20,24b: «Guardati bene di offrire i tuoi olocausti in ogni luogo (b'kol-maqòm)
che vedrai, ma solo nel luogo (kì ' im-bammaqòm) che JHWH sceglierà in
una delle tue tribù, lì li offrirai...». L'espressione b'kol-maqòm di Dt
12,13 riprende la formula b'kol-hammaqòm di Es 20,24b per correggerla.
Alcuni manoscritti, il Samaritano e alcuni Targumim hanno anche b'kol-hammaqòm
in Dt 12,13, per sottolineare il collegamento con Es 20,24b.
Inoltre, Van Seters non tiene molto conto del contesto
generale dei due codici. Il mondo del codice dell'alleanza è quasi
esclusivamente un mondo agricolo e pastorale, il mondo della famiglia estesa e
della piccola borgata. Il codice deuteronomico suppone un mondo più
centralizzato e più urbanizzato, dove la famiglia perde la sua importanza
mentre aumenta quella delle istituzioni centrali. Lo studio del retroterra
giuridico, sociale e storico dei due codici non suffraga la tesi di J. Van
Seters che si basa piuttosto su una serie di osservazioni puntuali.
(7) Vedi W. zimmerli, «Sinaibund und Abrahambund.
Eìn Beitrag zum Verstand-nis der Priesterschrift», TZ 16 (1960) 268-280
= Gottesoffenbarung. Gesammelte Auf-satze wm Alteri Testament (TBu 19;
Munchen 1969) 205-216.
(8) Vedi B. janowski, Sùhne und Heiisgeschehen,
272-276.
(9) Vedi E. blum,
Studien, 356, n. 85: «L'immagine secondo cui il «popolo d'Israele»
è diventato la «comunità/chiesa/confessione del Giudaismo», dopo l'esilio, è
uno dei falsi concetti più tenaci e più cari dell'esegesi veterotestamentaria»
(traduzione nostra).
(10) Vi sono alcune eccezioni. Vedi N. lohfink, «Die Abanderung der Theologie der priesterlichen
Geschichtswerks im Segen des Heiligkeitsgesetzes. Zu Lev. 26,9.11-13», Wort
und Geschichte. FS. K. Elliger (AOAT 18; Keveiaer - Neukirchen-VIuyn 1973)
129-136 = Studien wm Pentateuch, 157-168; id., «"Ich bin Jahwe, dein Arzt" (Ex 15,26). Gott,
Gesellschaft und menschiiche Gesundheit in der Theologie einer nachexilischen
Pentateuchbearbeitung (Ex 15,25b.26)», «Ich will eurer Gott werden».
Beispiele biblischen Redens von Gott (Hrsg. H. merklein - E. zenger) (SBS
100; Stuttgart 1981) 11-73 = Studien wm Pentateuch, 91-155. Vedi anche
E. otto, specialmente i suoi
articoli «Genesis 2-3: eine nachpriesterschriftliche Lehrerzahiung» e «Die
nachpriesterschriftliche Pentateuchredaktion im Buch Exodus». Nella stessa linea, vedi l'introduzione di J.
Blenkinsopp, il commentario alla Genesi di G.J. Wenham e i nostri studi su Gn
6-9, Gn 12,l-4a e Es 19,3-6.
(11) Ritroviamo H. Gutikel, nel suo studio della
Genesi, R. Rendtorff, E. Blum, e persino, in qualche modo, Ch. Levin, J.
Blenkinsopp e R.N. Whybray.
(12) Questo modello viene anche preferito nello studio
recente di D. carr, Frac-tures,
per il libro della Genesi. Vedi soprattutto il riassunto, pp. 290-293. A mio
parere, D. Carr non lascia abbastanza spazio a una redazione
postdeuteronomistica e post-sacerdotale.
(13) Vedi S. kreutzer, Die Frùhgeschichte
Israels, 119-140, specialmente 138; cf. S. mittmann, «Num 20,14-21 - eine redaktionelle Kompilation», Wort
und Geschichte. FS. K. Elliger (Hrsg. H. gese
- H.P. ROGER) (AOAT 18; Keveiaer - Neukirchen-VIuyn 1973) 143-149. Entrambi gli autori lavorano nell'ambito dell'ipotesi
documentaria classica.
(14) Vedi E. blum, Studien, 118-120; th. rómer, Và'ter, 551-552; J.
VAN seters, Moses,
386-393.
(15) Vedi J. VAN
SETERS, Moses, 389-390.
(16) Vedi E. blum,
Studien, 365-366.
(17) Questo «angelo» è diverso dall'angelo di Gn
16,7-14; Es 3,2; Gdc 6,11-12.21-22; 13,3-18, che, nel corso della narrazione,
viene identificato con JHWH.
(18) Cf. l'argomentazione di D. carr, Tractures, passim
(sommario, pp. 290-293), nella scia di R. Rendtorff e E. Blum.
(19) Vedi E. blum,
Studien, 218.
(20) Per Osea, vedi H.-D.
neef, Die Heilstraditionen
Israels in der Verkundigung des Propheten Rosea (BZAW 169; Berlin - New
York 1987). Vedi per esempio la tabella
delle pp. 248-249. Secondo Neef, Osea conosce la tradizione di Giacobbe, quella
dell'esodo, del Sinai e della permanenza nel deserto.
(21) Vedi, soprattutto, J. VAN seters, Abraham, 275-276; id., «Thè Religion of thè Patriarchs in Genesis», Bib
61 (1980) 220-233.
(22) Vedi E. blum,
Studien, 218, n. 44.
(23) L'oracolo menziona «la casa di Giacobbe». È poco
per poter vedere un legame stretto fra tradizioni patriarcali ed esodo.
(24) Cf. th, RÒMER, Vater, 513-517.
(25) Vedi th. RÓMER, Vater, 537.
(26) Per lo sviluppo della religione d'Israele, vedi
O. keel - ch. uehlingek, Gòt-tinnen, Gótter und Gottessymbole.
Neue Erkenntnisse wr Religionsgeschichte Kanaans und Israels aufgrund bislang
unerschlossener ikonographischer Quellen (QD 134- Frei-burg 1992).
(27) Vedi J.W. flanagan, David's Social Drama. A
Hologram of Israel's Early Iron Age (JSOTS 73 - SW 7; Sheffield 1988); H.M.
niemann, Herrschafi, Kónigtum
und Staat.
(28) E. zenger, Einleitung, 73; 112-119.
(29) Ibid., 119.
(30) N. lohfink, Vater, 104-105.
(31) Ibid.,
105.
(32) th. RÓMER, Vater.
(33) Vedi th. RÓMER, Vater, 11: Dt
1,8.35; 4,31; 6,10.18.23; 7,8.12-13; 8,1.18; 9,5; 10,11; 11,9.21; 13,18; 19,8;
26,3.15; 28,11; 29,12; 30,20; 31,7.20-21; 34,4.
(34) Einleitung,
116-117.
(35) Vedi la discussione fra th. romer, Vater, e N, lohpink, Vater. A
mio parere, sarà difficile mantenere posizioni estreme del tipo: «i padri del
Deuteronomio non sono mai equiparati con i patriarchi», oppure: «i padri del
Deuteronomio sono sempre i patriarchi menzionati nella Genesi». La parola
«padri» nel Deuteronomio ha più di un significato e pertanto occorre studiare
ogni contesto prima di stabilire qual è il suo significato in un dato testo.
(36) Per questi testi, vedi E. blum, Studien, 81-82, che li attribuisce alla sua KD
(composizione deuteronomistica).
(37) Vedi N. lohfìnk, «Bund als Vertrag im
Deuteronomium», ZAW 107 (1995) 215-239.
(38) «II popolo che tu hai fatto salire dall'Egitto»:
Es 32,7; 33,1; «[il paese] che ho giurato ad Abramo, Isacco e Giacobbe»: Gn
50,24; Es 33,1; Nm 32,11; Dt 34,4; «invio davanti a tè un angelo [...]»: Es
23,20; 32,34; la lista dei popoli di Es 33,2 si ritrova, con una leggera
variante, in 23,23 (in 33,2, i Cananei sono in testa); «la terra dove scorre
latte e miele»: Es 3,8.17; 13,5; Lv 20,24; Nm 16,13.14; Dt 6,3; 11,9; 26,9.15;
27,3; Gs 5,6; Ger 11,5; 32,22; la formula è accompagnata da una lista di popoli
in Es 3,8.17; 13,5 e 33,2-3; «popolo dalla dura cervice»: Es 32,9; 33,3.5;
34,9; Dt 9,6.13.
(39) Vedi M. noth, Dos vierte Buch Muse. Numeri (ATD 7; Gòttingen
1966) 77-78; th. RÒMER, Vater, 558;
E. blum, Studien, 81
(bibliografia n. 160), 103.
(40) Vedi E. blum, Komposition, 367-372; M.
KÓCKERT, Vatergott, 198-247; D. cakr,
fractures, 165; specialmente M. anbar,
«Genesis 15: A Conflation of Two Deuteronomio Narratives», }BL
101 (1982) 39-55.
(41) Per la discussione e la bibliografia, vedi E. blum, Komposition, 246-249;
297-301; D. carr, Fracfures,
211, n. 70.
(42) Vedi le somiglianze nel vocabolario: «[Giacobbe]
vide i carri che Giuseppe aveva mandato per il suo trasporto» (45,27b); «e
caricarono Giacobbe, loro padre, [...] sui carri che il faraone aveva inviato
per il suo trasporto».
(43) Per la discussione e la bibliografia, vedi D. cakr, Fractures, 166-167.
(44) Vedi D. carr, Fractures, 234-248.
(45) J.L. ska, «El relato del diluvio. Un relato
sacerdotal y algunos fragmentos re-daccionales posteriores», EstBi'b 52
(1994) 37-62. È anche l'opinione di B.D.
Eerd-mans, J. Blenkinsopp, J.G. Wenham e B. Gosse.
(46) Vedi soprattutto E crusemann, «Die Eigenstandigkeit der
Urgeschichte»; M. KÓCKERT, Vatergott, 264-265; D. carr, Fractures, 241.
(47) J.L. ska, «L'appel d'Abraham et l'acte de
naissance d'Israel (Gn 12,l-4a)». Per
un'accurata analisi del testo e della sua interpretazione, vedi E. blum, Komposition, 349-359; M.
KÓCKERT, Vatergott, 276-297; D. carr,
Fractures, 179-194.
(48) Sulle caratteristiche letterarie delle varie
parti della Genesi, vedi l'eccellente articolo di R.L. cohn, «Narrative Structure and Canonical Perspective in
Genesis», 3-16 = Thè Pentateuch. A Sheffield Render, 89-102.
(49) Per più particolari, vedi W.L. humphkeys, Joseph, 135-214,
spéc. 194-214;
D. carr, Fractures,
271-289.
(50) E. blum, Komposition, 273-289 (cf.
289-297); I. fischer, Erzeltern,
333-343.
(51) Si può affermare con buone ragioni che Gn 20 sia
più recente di Gn 12,10-20. Vedi I. fischer, Erzeltern,
223-228.
(52) Vedi E. zenger, Einleitung, 119, che
segue I. fischer, Erzeltern,
333-343; D. carr, Fractures,
202.
(53) Vedi T. veijola, «Das Opfer des Abraham»,
129-164; A. rofé, «An Inquiry
in-to thè Betrothai of Rebekah», Die Hebraische Bibel und ihre iweifache
Nachgeschichte (F.?. R. Rendtorff; [Hrsg. E. blum - C. macholz -
E.W. stegemann] Neukirchen -Viuyn
1990) 27-40.
(54) Vedi D. cakr,
Fractures, 163-166, con bibliografia.
(55) E. blum, Komposition, 301-307.
(56) Per più particolari, vedi D. cakr, Fractures, 205.
(57) E. blum, Komposition,
66-203 (conclusione: 202-203).
(58) Vedi l'analisi di D. cakr, Fractures, 258-261, che riprende il meglio dei
lavori di E. Blum e R. Kessier.
(59) Vedi E. zenger,
Einleitung, 119; D. carr, Fractures,
256-257, che si appoggia molto sui lavori di E. Blum.
(60) D. carr, Fractures, 268.
(61) E. blum, Komposition, 229-257.
(62) Vedi, fra gli altri, C. westermann, Genesis 3, 8-16; W.L. humphreys, Joseph, 15-131;
195-196; D. carr, Fractures,
271-289.
(63) Per questo capoverso, vedi W.L. humphreys, Joseph, 194-207.
(64) Vedi E. zenger, Einleitung, 119, nella
scia di W. Dietrich, H. Donner, H.-Ch. Schmitt e H. Schweizer. Vedi anche D. cakr,
Fractures, 277-283.
(65) Per la bibliografia, vedi fra gli altri G. davies, Israel in Egypt: Reading
Exodus 1-2 (JSOTS 135; Sheffield 1992).
(66) Per una discussione più approfondita, vedi W.H. schmidt, Exodus 1-6, 16-26.
(67) Vedi W.H. schmidt,
Exodus 1-6, 51-62; 79-88.
(68) Vedi B.D. eekdmans, Alttestamentliche Studien
III. Das Buch Exodus (Giefien 1910) 16; M. noth, Uberlieferungsgeschichte, 32, n. 103. Per una dimostrazione più completa, vedi adesso E. blum, Studien, 20-22; J.L. ska, «Récit et récit métadiégéti-que en
Ex 1-15», 156.
(69) Per più particolari, vedi W.H. schmidt, Exodus 1-6, 247-250.
(70) Per Es 1-15*, vedi m
particolare P. weimar - E. zenger, Exodus; W.H. schmidt, «Die Intention der beiden
Plagenerzahiungen (Exodus 7-10) in ihrem Kontext», Studies in thè Book
ofExodus (ed. M. vekvenne) (BETL 126;
Leuven 1996) 225-243. L'analisi proposta
qui non esclude che il testo finale sia un capolavoro letterario, come viene
riconosciuto da diversi autori, come per esempio W.H, Schmidt a varie riprese,
o da un rappresentante di una scuola diversa, G. fischer, «Exodus 1-15. Eine Erzahiung», Studies in
thè Book of Exodus (ed. M. vervenne) (BETL
126; Leuven 1996) 149-178.
(71) J.L. ska, «Récit et récit métadiégique»,
158.
(72) B.S. chieds, Exodus, 144-149.
(73) Per altre proposte, meno convincenti, vedi B.S. childs, Exodus, 142-144; J. VAN seters, Moses, 80-86, che parla
di profetismo esilico/postesilico.
(74) In questo racconto, la decima piaga, la morte dei
primogeniti, occupa un posto a parte. La struttura e il vocabolario sono
diversi da quelli di Es 7-11.
(75) Vedi J.L. ska,
«Les plaies d'Égypte dans le récit sacerdotal (Pg)», Bib 60
(1979) 23-35; id., «La sortie
d'Égypte (Ex 7-14) dans le récit sacerdotal (Pg) et la tradition prophétique», Bib
60 (1979) 191 215; E. blum, Studien,
242-256; L. schmidt, Be-obachtungen
w der Plagenenablung in Exodus vii 14 - xi 10 (Studia Biblica 4; Leiden
1990). Per
Es 14, vedi J.L. ska, Passage,
97-99.
(76) E. blum, Studien, 20-22; J.L. ska, «Récit et récit métadiégétique»,
150-165.
(77) Vedi anche l'accenno alla Schiavitù in Egitto in
14,11-12, un'aggiunta tardiva.
(78) Vedi F.-L. hossfeld, Der Dekalog; ch. dohmen, «Der Dekaloganfang und sein
Ursprung», Bib 74 (1993) 175-195.
(79) E. otto, «Pentateuchredaktion», 99.
(80) E. zenger, «Wie und Wozu die Torà zum
Sinai kam. Literarische und theo-logische Beobachtungen zu Exodus 19-34», Studies
in thè Book ofExodus (ed. M. ver-VENNE) (BETL 126; Leuven 1996)
265-288.
(81) Sul legame fra teofania e legge, vedi ch. LÉVIN, «Der Dekalog am Sinai», VT
35 (1985) 165-191.
(82) Sulla base dello studio di J. jeremias, Theòphame. Die Geschichte eirter
altte-stamentlichen Gattung (WMANT 10; Neukirchen-VIuyn 1965). Vedi J. VAN seters, Moses, 254-270.
(83) F.M. cross, Canaanite Myth, 163-169;
R.J. clifford, Thè Cosmic
Mountain in Canaan and thè Olà Testament (HSM 4; Cambridge, MA 1972) 155;
J. levenson, Sinai and Zion:
An Entry into thè Jewish Bible (San Francisco, CA 1985).
(84) Vedi, fra gli altri lavori recenti, th.b. dozeman, God on thè Mountain.
A Study ofRedaction, Theology and Canon in Exodus 19-24 (SBLMS 37; Atlanta,
GA 1989); B. renaud, La
théophanie du Sina'tEx 19-24: Exégèse et théologie (CRB 30; Paris 1991).
(85) E crùsemann, «Das Bundesbuch. Historischer On und institutioneller Hin-tergrund», Congress
Volume ] erusalem 1986 (ed.J.A. emerton)
(VTS 40; Leiden 1988) 27-41 (28-35; 41; Crùsemann parla della monarchia
del settimo e ottavo secolo avanti Cristo in modo generico); R. albertz, Religionsgeschichte Israels
I, 283-285, che parla esplicitamente dell'epoca di Ezechia. Per una
discussione delle teorie recenti in merito, vedi G. lasserre, «Quelques études récentes sur le Code de
l'Alliance», RTP 125 (1993) 267-276 (soprattutto E Crùsemann, L.
Schwienhorst Schónberger, Y. Osu-mi, E. Otto).
(86) Su questi testi, vedi soprattutto lo studio di A.
schart, Mosè und Israel im
Kon-flikt. Eine redaktionsgeschichtiiche Studio w den Wùstenerzahiungen (OBO 98; Frei-burg
Schweiz - Góttingen 1990).
(87) Cf. S. talmon, «Thè "Desert Motif"»,
31-63.
(88) Vedi J.A. hackett, Thè Balaam Text from Deir
'Alla (HSM 31; Chico, CA 1984).