LA CROCE   E   IL   CROCIFISSO

 

La croce è per molti «scandalo» e «follia», ma proprio la ragione del suo scandalo - l'amore gratuito, misericordioso e onnipotente di Dio per gli uomini - è per i credenti la ragione della sua potenza e della sua verità. La croce ha due facce, l'apparente sconfitta e la vittoria, il Crocifisso e il Risorto. Mostra tutta la malvagità e la miseria dell'uomo che non esita a condannare il Figlio di Dio innocente; ma anche tutta la profondità e l'efficacia del perdono di Dio. L'ultima parola non è il peccato, ma l'amore! Qui, e non altrove, va cercata la vera ragione della speranza cristiana, la lieta notizia che dà senso e spessore alla vita e alla storia, nonostante i fallimenti.

Ma è una lieta notizia che esige conversione. Le folle - dice l'evangelista Luca narrando la passione - accorrono, guardano e ritornano «battendosi il petto» (23,48). Lo «spettacolo» della croce capovolge la vita. Fa contemplare la profondità inaudita dell'amore di Dio, e fa comprendere che la nostra vita deve assomigliare alla vita di quel Crocifisso che si dona senza riserve, che, rifiutato, ama e perdona, e non rompe la solidarietà con chi lo rifiuta.[1]

L'evento della Redenzione operata da Cristo con la sua morte e risurrezione occupa il posto centrale in tutta la storia della salvezza. Invitati a fare una speciale memoria della Redenzione affinché essa penetri più a fondo nel nostro pensiero e nella nostra azione, cercheremo di approfondire il significato di Croce e di Crocifisso dal momento che Cristo, venuto nel mondo dal seno del Padre, per redimerci ha offerto se stesso sulla Croce in un atto di amore supremo per l'umanità.

 

1.      LA CROCE

Già nell'antichità precristiana, la croce, contraddistinta dal numero quattro, è simbolo dell'unione dei contrari (sopra-sotto, destra-sinistra).

Era un simbolo molto diffuso per indicare la vita e quindi la divinità nelle varie forme che si svilupparono poi anche nella cristianità (ansata o egiziana , commissa o greca T; immissa o capitata o aperta o latina , a forma di X [Chi], gammata o uncinata G e la croce svastica      o le 4 gamma simbolo del movimento rotatorio e quindi della vita).[2]

Come segno cosmico - relativo al sole e al suo corso o ai quattro punti cardinali - si incontra nella forma della croce a ruota o della croce uncinata: cosi presso i sumeri, nell'India antica e nella zona danubiana del neolitico. Come segno di salvezza o di protezione esso si presenta su numerosi sigilli e amuleti antichi. Su una stele vediamo il re assiro Shamshi-Adad (824-810) portare una croce appesa al collo con una funicella, nella forma della crux quadrata.

La parola “croce” deriva probabilmente dal sanscrito krugga che significa “bastone”; i Greci la chiamarono stauròs, “palo”; gli Ebrei 'es “albero”. Tutti questi nomi indicano l'origine primitiva della croce come supplizio: un albero o un palo al quale i condannati venivano confitti con chiodi, o legati con funi, oppure impalati

Nell'Antico Testamento la croce era quasi sconosciuta; però i cadaveri dei giustiziati venivano appesi, ad accrescimento della loro ignominia. Dopo la lapidazione di un malfattore condannato a morte, lo si appendeva ad un albero.[3] Il serpente fissato a un'asta per ordine del Signore divenne in epoca neotestamentaria il “tipo”, cioè la prefigurazione di Gesù crocifisso: “Chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Nm 21,8; cf Gv 3,14-15; 19,37).

Presso i cristiani ebbe molto sviluppo la croce monogrammatica (nella Ep. Barnaba 9,8 si ha l'abbreviazione di Iesus in IH) nelle composizioni di X (Chi Jota), XP (Chi Rho)[4] e il monogramma a forma di croce _.

La letteratura patristica e le testimonianze archeologiche hanno un loro punto di riferimento sulla croce nella festa della inventio crucis nata dalla dedicazione delle basiliche costantiniane del Santo Sepolcro e del Calvario (325). Da allora si sviluppò il culto della croce dando luogo a tutta una serie omiletica ed iconografica ben individuabile.

Prima di tale data, la croce era nell'ambiente ellenistico-romano solo un servile supplicium e come tale la si ha nel NT. Quanto alle testimonianze cristiane, se si eccettuano alcuni elementi in Ignazio di Antiochia,[5] essa è assente nei Padri Apostolici e ha un posto secondario negli Apologisti. In Giustino, i suoi riferimenti sono in relazione alla croce anima mundi, di estrazione platonico-stoica, rappresentata graficamente da un X (Chi)[6]; e ai testimonia ligni dell'AT in polemica col giudaismo.[7]

Particolare attenzione alla croce viene riservata negli ambienti cristiani dell'Asia Minore, giudeo-cristiani di tradizione pasquale quartodecimana. In tale contesto la croce non è l'umile legno di supplizio ma la croce in senso di vita, è il Signore medesimo indicato come la Vita appesa. Le comunità quartodecimane, celebrando la Pasqua non nella tradizione sinottica dell'ultima cena ma in quella giovannea della morte del Signore, compresero la passione come il compimento della Pasqua degli ebrei e quindi dell'affermarsi della vita sulla morte. Nelle loro omelie pasquali, si ha perciò l'encomio della croce come encomio della Pasqua vita-luce (da qui nacque il monogramma della croce fvs zvh (phos-zoé), diffusasi nell'universo intero per cui il venerdì di passione (14 nisan) non era un giorno di lutto ma “si doveva assolutamente porre termine al digiuno”.[8] Scomparsa la tradizione della celebrazione pasquale quartodecimana (gli asiatici si adeguarono al costume romano di celebrarla la domenica), la comprensione della croce luce-vita cedette il suo significato ad altre considerazioni teologiche (come soteriologia e riconciliazione), ascetiche (come accettazione del dolore e perseveranza), liturgiche (il filone dei carmi de veneranda cruce e del sermo de adoratione pretiosae crucis).

L'inventio Crucis (325) diede poi sviluppo alla croce come signum victoriae, alla crux invicta, tanto presente nell'iconografia antica, rapportata non più al crocifisso ma alla venuta gloriosa del Signore (croce gemmata). Un particolare sviluppo ebbe la terminologia della croce, di contesto quartodecimano, nell'applicazione alla ecclesiologia. Fu rilevante anche, nell'antichità, il signum crucis, usato prima di ogni azione,[9] ed assurto a valore rituale di efficacia sacramentale[10] e di appartenenza al cristianesimo (si diventava cristiani da quando si veniva segnati sulla fronte).


2.      LA CROCIFISSIONE.

La pena della crocifissione, di origine orientale - in particolare persiana - venne adottata da cartaginesi e romani. Nella letteratura romana è descritta come punizione crudele e temuta; non era inflitta ai cittadini romani, ma riservata agli schiavi e ai non romani che avessero commesso atroci delitti, come assassini, gravi furti, tradimenti e ribellioni. Giuseppe narra che Antioco Epifane crocifisse gli ebrei che si erano rifiutati di obbedire ai suoi decreti sulla ellenizzazione, e che Alessandro Ianneo aveva crocifisso i suoi avversari farisei. La forma a X - croce di S. Andrea - non si usava nell'antichità.

La croce sulla quale fu crocifisso Gesù era o la crux commissa, a forma di T, o la crux immissa o capitata, a forma di daga o pugnale . Il fatto che il titolo della condanna fosse posto al di sopra della testa (Mt 27,37) fa pensare alla seconda forma di croce. Dato che l'esecuzione di Gesù era stata affidata ai soldati romani, è probabile che si seguisse la maniera di esecuzione romana.

Il procedimento romano della crocifissione doveva essere pressappoco così: avvenuta la condanna legale, il condannato stesso portava la trave trasversale (il patibulum) sul luogo fissato, per lo più fuori le mura cittadine. Da qui il detto “portare la croce”, tipica espressione per indicare la punizione di uno schiavo. Giunti sul luogo dell'esecuzione il condannato veniva spogliato e flagellato. Il condannato veniva legato a braccia tese alla trave che poggiava sulle sue spalle (in casi più rari si parla anche di inchiodatura) e quindi innalzato sul palo verticale già preparato. La morte subentrava lentamente e tra sofferenze indicibili a causa dei crampi tetanici e per soffocamento, poiché il sangue del crocifisso non poteva circolare nelle membra violentemente tese; per lo stesso motivo i polmoni e il cuore si sentivano soffocare pur mantenendo il condannato la piena conoscenza.

Talvolta la morte veniva accelerata per mezzo della rottura delle gambe o con un colpo di lancia al cuore. Quando i familiari lo richiedevano, veniva concesso il cadavere.

La croce portata da Gesù fino al luogo dell'esecuzione non doveva essere, secondo la procedura comune, l'intera croce ma soltanto il palo trasversale. Di regola, il palo verticale veniva lasciato sul luogo dell'esecuzione, mentre quello trasversale veniva attaccato di volta in volta. Le braccia del condannato venivano prima attaccate al palo trasversale mentre egli era disteso al suolo; poi il condannato veniva innalzato, insieme con il palo trasversale, su quello verticale, al quale venivano legati i suoi piedi. Lo si attaccava con corde o con chiodi, che eventualmente erano quattro. Il criminale veniva sempre legato con corde intorno alle braccia, alle gambe, alla vita:  i soli chiodi non avrebbero potuto reggere tutto il peso del corpo e le corde impedivano al condannato di scivolare giù. La maggior parte del peso del corpo era sorretta da una specie di sostegno (sedile) sporgente sul palo verticale e sul quale si poneva la vittima a cavalcioni: tale sedile non è menzionato nel NT ma ne parlano moltissimi antichi scrittori romani. Il sostegno per i piedi (suppedaneum), spesso rappresentato nell'arte cristiana, è invece sconosciuto all'antichità. La vittima non era innalzata dal terreno più di mezzo metro: i presenti potevano facilmente raggiungere la bocca mettendo una spugna in cima a una canna (Mt 27,48; Mc 15,36). I romani crocifiggevano criminali interamente nudi e non vi è motivo di pensare che si facesse un'eccezione per Gesù.

Questo tipo di esecuzione, tanto ignominioso e crudele, era conosciuto (anche se non praticato) in Israele: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu lo avrai messo a morte e appeso a un palo, il suo cadavere non potrà rimanere tutta la notte al palo, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è maledetto da Dio” (Dt 21, 22-23; cf Gs 8,29; 10,26-27). Sappiamo che il principe giudeo Alessandro Ianneo (103-176 a. C.) fece appendere degli uomini ancora vivi ad un palo durante una esecuzione capitale di massa. Resta tuttavia confermato che la crocifissione era un procedimento straordinario di condanna, abominevole e inusitato per il giudaismo; non invece per i romani ed altri popoli del vicino Oriente (cf 1 Sam 31,10).

Le vesti dell'ucciso andavano in dono ai soldati (Mt 27,35). Un titolo con il nome del criminale e con il suo delitto veniva scritto su una tavoletta che si portava legata al collo fino al luogo dell'esecuzione; questa tavoletta con il titolo fu poi affissa al di sopra del capo di Gesù sulla croce. Per l'ironia di Pilato, il titolo di Gesù non esprimeva un delitto ma l'espressione “re dei giudei” (Mt 27,37; Mc 15,26; Lc 23,38; Gv 19,19-22). Il titolo era scritto in tre lingue: aramaico, il dialetto del paese; greco, la lingua del mondo romano; e latino, la lingua ufficiale dell'amministrazione romana. Nella crocifissione la vittima si lasciava morire di fame e di sete. Se necessario, la morte veniva affrettata spezzando le gambe della vittima con delle clavi, come si fece coi criminali crocifissi insieme a Gesù (Gv 19,32ss). I soldati furono sorpresi del fatto che Gesù morisse così presto, dato che la morte per crocifissione in genere avveniva solo dopo qualche giorno. Era un'abitudine giudaica, non romana, quella di somministrare al condannato una bevanda narcotica prima dell'esecuzione per attutirne la sensibilità (Mt 27,34; Mc 15,23). Anche a Gesù venne offerta questa bevanda, ma egli la rifiutò. Secondo la prassi romana, gli insulti precedevano spesso la crocifissione, come accadde per Gesù. Per la legge romana, l'accusa per cui la pena della crocifissione fu inflitta a Gesù era quella di tradimento e di ribellione, delitti dei quali i Giudei lo avevano accusato (Lc 23,2-5; Gv 19,12).

La crocifissione come pena giudiziaria fu soppressa dal primo Imperatore cristiano, Costantino (306-337). Fu così possibile passare ad una raffigurazione della croce nell'arte dal momento che non suscitava più associazioni negative.


3.      IL SIGNIFICATO DELLA CROCE.

Il simbolismo teologico della croce appare nel NT in una parola di Gesù stesso riferita dai Sinottici e negli scritti di Paolo e di Giovanni. Gesù disse che coloro che lo seguono devono prendere la propria croce (Mt 10,38; 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23; 14,27); così perderanno la loro vita, per acquistarla (Mt 10,39; 16,25; Mc 8,34; Lc 9,24).[11] Non si tratta soltanto di un'allusione alla propria morte, ma anche dell'affermazione che la sequela di lui esige il rinnegamento di sé (Mc 8,34), il totale disprezzo della propria vita, del benessere, dei beni personali, ai quali si deve rinunciare se si vuole seguire Gesù.

La croce di Cristo è pensata da Paolo come evento salvifico che trasforma radicalmente il mondo e ne determina in maniera del tutto nuova il volere e l'agire.

Il vangelo, per Paolo, è nel suo centro e nella sua totalità logos tou stauroú, cioè annuncio salvifico che ha per contenuto la croce di Cristo (l Cor 1, 17s; cf. 2, 1s; Gal 3, 1). Con queste parole  Paolo vuol dire che la croce non dev'essere intesa come un puro fatto immanente alla storia, bensì come intervento di Dio; tale intervento si realizza in questo, che la croce di Cristo si presenta agli uomini come «parola» di Dio, come il suo messaggio liberatore e nello stesso tempo vincolante.

Il messaggio della croce porta la  sotería, la salvezza (l Cor 1, 18b; 1, 21b). La porta però ai credenti, cioè a coloro che nell'ubbidienza si sottomettono al giudizio che Dio pronuncia nella croce di Cristo (1, 19ss) contro la sapienza del mondo autosufficiente, la quale ricerca esclusivamente se stessa e mira ad accrescersi anche attraverso esperienze religiose; la porta a coloro che lasciano mortificare il proprio io dalla parola della croce (Gal 6, 14; cf. 2, 19). Questo messaggio salvifico, che giudica e libera a un tempo, apparirà altrettanto «scandaloso» a greci e giudei quanto anche a una cristianità aberrante, sia essa innamorata delle proprie esperienze religiose (1Cor) oppure caduta in un legalismo rinnegatore della croce di Cristo (Gal).

Il vangelo si concentra dunque tutto sulla croce di Cristo, e ben lo dimostrano le parole di Fil 2, 8: l'inno che Paolo ha ripreso dalla tradizione (2, 6-11) e parla della rinuncia di colui che è uguale a Dio per umiliarsi nell'ubbidienza fino alla morte. Ma Paolo non si contenta di parlare della morte, e completa: fino alla morte di croce (thanátou de stauroú).

Quando la Chiesa percorre vie aberranti, non basta parlare del «Cristo»; questi potrebbe sempre essere equivocato come un Cristo che è estraneo al mondo e che aliena dal mondo (cf. 1/2 Cor). Al Christós Paolo aggiunge con tutta evidenza estaurômenos, in quanto crocifisso, per non dar luogo ad equivoci (1Cor 1, 23; Gal 3, 1). Di più: sulla base di un giudizio teologico riflesso, Paolo, nella sua attività missionaria a Corinto, non lo ha voluto conoscere e predicare se non  crocifisso (1Cor 2, 2). Oggetto del gloriarsi e della fiducia non è altro che  la croce di Cristo (Gal 6, 14). Concretamente, questo significa che Paolo ama gloriarsi soprattutto delle proprie debolezze (2Cor 12, 9s).

E la risurrezione? In tutto questo è compreso appunto anche il suo significato concreto. Essa fa sentire la sua presenza nel fatto che Paolo possa annunciare il Cristo crocifisso come l'evento salvifico decisivo. Il Risorto non ha affatto eliminato il Crocifisso. No, la sua autoumiliazione e la sua ubbidienza nella vergogna della morte di croce non sono cancellate, bensì poste in vigore dall'elevazione come segno di salvezza (Fil 2, 8ss). Cristo, che si è fatto carico di questa debolezza e per questo è stato crocifisso, vive ora per la forza di Dio che ricrea le cose e fa risorgere i morti (2Cor 13, 4). I credenti, che ora partecipano di questo nuovo modo di esistenza determinato dalla croce di Cristo, vivono con la fondata speranza che Dio agirà con loro come ha fatto con Cristo. Anzi, già fin d'ora questa vita di resurrezione capace di vincere la morte, vita che viene da Dio, si manifesta nell'esistenza della fede segnata dalla croce e si comunica agli altri (2Cor 4, 7-12). Se la forza di Dio non si fosse manifestata e resa efficace sul fondamento della morte di Cristo, la vita crocifissa dell'apostolo (1Cor 15, 30-32) sarebbe la più compassionevole delle illusioni (15, 19).

«Nemici della croce di Cristo»: questo il nome che Paolo dà ai cristiani che aspirano alle cose terrene, la cui esistenza non è animata dal messaggio salvifico della croce di Cristo e ispirata all'esempio dell'apostolo che lo incarna (Fil 3, 17-19). Sono coloro che non si lasciano alle spalle come immondizia il modo di vivere ispirato alla legge per essere nella sfera salvifica del Cristo crocifisso, che rifiutano quindi di avere dimestichezza come Paolo con le sofferenze di Cristo e non si uniformano alla sua morte (3,7ss).

Paolo predicava dunque Cristo, e Cristo crocifisso, benché fosse scandalo per gli Ebrei e follia per i gentili (1 Cor 1,23; 2,2). Non voleva predicare il vangelo della croce in un linguaggio raffinato, per non privare la croce del suo valore (1 Cor 1,17). Benché la stoltezza della croce sia un assurdo per coloro che senza di essa si perdono, è invece potenza di Dio per i salvati (1 Cor 1,18). Se Paolo avesse predicato la circoncisione, lo scandalo della croce non ci sarebbe stato (Gal 5,11): Paolo vuol dire che la croce, che è uno scandalo per gli ebrei, perde il suo valore redentivo se la circoncisione è ancora necessaria. L'unico motivo di gloria per Paolo è la croce di Gesù Cristo (Gal 6,14). Nella croce Gesù ha unito giudei e greci (Ef 2,16). Alcuni falsi apostoli sono nemici della croce di Cristo (Fil 3,18); questa espressione indica probabilmente quei giudeo-cristiani che insistevano sull'efficacia della circoncisione. Dio ha annullato il debito dell'umanità verso di sé inchiodando Cristo alla croce, facendolo cioè vittima di quel debito (Col 2,14).[12] Coloro che appartengono a Cristo hanno “crocifisso la carne”, cioè hanno dominato efficacemente le passioni sensuali della natura e hanno accettato la rinuncia cristiana. Per mezzo della croce di Gesù Cristo, Paolo è crocifisso al mondo e il mondo a lui (Gal 6, 14); questa metafora significa la completa rinuncia: il mondo è la croce sulla quale la vita di Paolo viene sacrificata.

Fra le interpretazioni simboliche della croce va messa in particolare evidenza quella della lettera agli Efesini: per mezzo della croce vengono riconciliate due parti contrapposte, il che in definitiva non vale soltanto per due epoche o due indirizzi della fede, ma anche per cielo e terra (Ef 2,16).

In Giovanni troviamo un riferimento “tipologico” alla croce nel dialogo di Gesù con Nicodemo: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, cosi bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14). In riferimento al modo con cui Gesù compirà questo mistero di salvezza universale, lui stesso dice: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

Dalla tradizione biblica emergono dunque i seguenti principali significati della Croce:

a.          la croce è segno di morte: Gesù “è morto per tutti” (2Cor 5,14), ovvero con la sua morte “il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui” (Rm 6,6);

b.         la croce è simbolo di redenzione, e quindi della vita: “Con il sangue della sua croce” Cristo rappacifica e riconcilia tutte le cose “che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1,20). “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,8);

c.          la croce è segno della “potenza di Dio” mediante la quale noi siamo salvati (1Cor 1,18); essa è l'ultimo e supremo segno di vittoria: “Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14);

d.         la croce è immagine della rinuncia al proprio io: “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia del Vangelo, la salverà” (Mc 8,35);

e.          è il segno escatologico della fine dei tempi, quando “comparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo” (Mt 24,30);

Presso i Padri la croce è descritta con numerose altre immagini, per lo più tratte dalla tradizione biblica veterotestamentaria:

·        è l'albero della vita di Gen 2,9 (da leggere con Ap 2,7: al vincitore darò da mangiare l'albero della vita). Ciò che era proibito ad Adamo ed Eva è ora dono della nuova creazione: vita, salvezza, gloria (Ap 22,2.14.19). La croce è il luogo in cui Dio si fa carico della sofferenza e della morte, per dare la vita ad un mondo caduto preda della morte (Ap 22,14). commenta S. Ambrogio: “La croce di Cristo ci ha restituito il Paradiso. Essa è l'albero, che il Signore aveva indicato ad Adamo come albero della vita” e S. Agostino, commentando Prov 3,18, scrive: “La sapienza è Cristo stesso, l'albero della vita di quel paradiso spirituale, nel quale ha inviato, dalla croce, anche un ladrone”. La liturgia chiama la croce arbor una nobilis, arbor decora et fulgida; “nell'albero della croce tu hai stabilito la salvezza dell'uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall'albero traeva vittoria, dall'albero venisse sconfitto” (Prefazio per l'Esaltazione della Santa Croce).

·        è la mazza per le anime aride (Melitone di Sardi; cf Ger 23,29);

·        è l'aratro, ottimo mezzo che purifica l'anima (Melitone di Sardi);

·        è la buona radice della vita rinnovata (cf Os 14,6);

·        è la spada del castigo, che colpisce il Nemico di Adamo e riapre le porte delle delizie che erano chiuse a causa del peccato commesso allora da Adamo nel paradiso (Gen 3,24);

·        è il pungolo (Sal 22 [23] 4) che guida verso la vita i peccatori che la riconoscono;

·        è il crivello per vagliare con precisione sull'aia le scorie destinate al fuoco, e il frutto da riporre nel granaio (Mt 3,12; Lc 3,17);

·        è il giogo che Dio spezza dalle spalle del suo popolo (Lev 26,13); è soprattutto il giogo leggero che dà sollievo alle anime e assimila a Gesù, mite e umile di cuore (Mt 11,29.30);

·        è la barca della santa Chiesa, che è in Cristo;[13]

·        è il remo divino che guida i giusti e i pii direttamente nel paradiso;

·        è il carro trionfale su cui sale Cristo per sconfiggere il diavolo padrone della morte e liberare il genere umano dalla schiavitù di questo tiranno; come valoroso combattente viene ferito in battaglia alle mani, ai piedi e al divino costato: ma con quel sangue guarisce le nostre lividure, cioè la nostra natura ferita dal serpente velenoso;

·        è il legno, l'arca della potenza di Dio, che permette a Cristo di salvare l'umanità dal diluvio del peccato (cf Gn 6,14; Sal 132,8);[14]

·        è la verga di Mosè che cambiò l'acqua in sangue, divorò i serpenti fittizi dei maghi (Es 4,2-4), percosse il mare e lo divise in due parti, salvò il popolo che Dio si era scelto;

·        è l'argano per sollevare le pietre viventi che edificano la Chiesa: “Voi siete le pietre del tempio del Padre che vi eleva sul suo cantiere con gli attrezzi di Cristo, cioè la sua croce, e con la fune dello Spirito Santo” (S. Ignazio di Antiochia);

·        è la “bilancia del nostro riscatto” (stadera facta corporis); in alcune rappresentazioni, oltre all'asse trasversale dove sono appese le braccia, viene raffigurato anche un altro asse, sotto i piedi del Signore, leggermente inclinato. E' lo sgabello dei suoi piedi (At 2,35; Sal 110,1), ma è anche la bilancia che indica il destino dei due ladroni: verso l'alto per il buon ladrone di destra,[15] verso il basso per il ladrone di sinistra;

·        è la scala di Giacobbe (cf Gen 28,12-15): “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo” (Gv 1,51); per questa scala il Signore Risorto sale alla gloria del Regno, ma anche scende verso gli inferi per portare la salvezza ai Giusti che attendevano la redenzione (Fil 2,10; 1 Pt 3,19). «Ma che vuol dire “Cristo è asceso”, se non che egli è pure disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso è quel medesimo che è pure asceso al di sopra di tutti i cieli, per riempire l'universo» (Ef 4,9-10). In molte raffigurazioni il piede della croce s'interna in una caverna nera dove riposa il teschio di Adamo, poiché il Golgota è il “luogo del teschio” (Gv 19,17); «“Ascoltatelo”, lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi prepara la scalinata per salire al Regno» (S. Leone Magno);

·        è un ponte, ottenuto con le porte divelte degli inferi, che permette al Signore Risorto di attraversare l'Ade. “Ascendendo in alto, condusse schiavi una folla di prigionieri” (Ef 4,8) “Tu sei disceso sulla terra per salvare Adamo, e non trovandolo sulla terra, o Signore, sei andato a cercarlo fino agli inferi” (Liturgia bizantina);

·        è il talamo nuziale dove la Chiesa Sposa si unisce allo Sposo nel sonno della sua morte e nella potenza della sua Risurrezione.

Efrem Siro raccomandò la croce come segno di vittoria sugli spiriti malvagi. In Gregorio di Nissa e Agostino si trova già un'interpretazione cosmologica della forma della croce. L'uomo con le braccia aperte - uno dei più antichi gesti di preghiera (cfr. Es 17,11) - divenne, in prospettiva simbolica, immagine della croce e del crocifisso.

Melitone di Sardi fu il primo a scorgere nel sacrificio del figlio Isacco richiesto ad Abramo (Gen 22) un “tipo” del sacrificio di Cristo sulla croce. “Anche Abramo prefigurò la croce quando legò il figlio sulla catasta di legna” (Teodoro Studita).[16]

Già molto presto durante il battesimo veniva apposto il sigillo del nome di Cristo mediante una croce tracciata sulla fronte; secondo Apocalisse 7,3 questo segno di croce è propriamente il sigillo dei servi di Dio.


4.      LO SCANDALO DELLA CROCE.

Quando san Paolo scrive che “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1, 23) si fa portavoce di una mentalità ben chiara presso Giudei e Greci circa l'ignominioso supplizio della croce.

Tenuto conto delle modalità e del significato della crocifissione nelle culture influenzate dalla presenza dei Romani, è facile dedurre come la morte di Gesù sulla croce abbia costituito un tormentoso problema per la primitiva comunità prevalentemente giudaica.

Per i Romani l'esecuzione di Gesù fu l'eliminazione di un vero o presunto agitatore. Per i capi ebrei fu una punizione legittima e maledizione di Dio per un bestemmiatore (Dt 21, 23; Gal 3, 13: maledetto chi pende dal legno). Per i Greci, desiderosi di dottrine che soddisfino l'intelligenza avida di conoscenza, la croce fu una stoltezza. Per i seguaci di Gesù la sua morte ignominiosa, da volgare malfattore, significava la fine catastrofica delle loro speranze messianiche. La vita di Gesù andava a concludersi “fuori dell'accampamento” (Eb 13, 12), tra gli empi (Lc 22, 37) suscitando così nelle coscienze tormentate il dubbio se quel Gesù crocifisso fosse davvero il Messia tanto sperato.

A dare una risposta inequivocabile a questi dubbi è stato Dio stesso risuscitando il Figlio suo Gesù e costituendolo Kyrios-Signore con potenza “secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti” (Rm 1, 4).

Pietro si fa interprete di questa predicazione che vuol superare lo “scandalo della croce” (cf 1 Cor 1,18; Gal 3,13; 5,11; 1 Pt 3,13-18) e nel giorno di Pentecoste grida alla folla dei Giudei:

Gesu di Nazaret... dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dal laccio della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere... Questo Gesù Dio l'ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire.. Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2, 22-36).

Alla base della primitiva predicazione cristiana sta dunque una serie di certezze capaci di superare il terribile scandalo della croce:

a. “Dio l'ha risuscitato e tutti noi ne siamo testimoni” (At 2,32). Per questo Paolo può affermare che “se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede” (1 Cor 15, 14). Cristo dunque è veramente risorto: la tomba è vuota (Mt 28,1-8; Mc 16,1-8; Lc 24,1-10; Gv 20,1-2), non è un fantasma (Lc 24,37), molti testimoni lo hanno visto (1 Cor 15,5-8), ha mangiato persino con loro (Lc 24,41-42; Gv 21,9-10.13).

b. “Egli portò i nostri peccati sul suo corpo sul legno della croce”  (1 Pt 2, 24). Non è dunque un “maledetto”, ma piuttosto il nostro “Redentore”, colui che ha pagato di persona il prezzo del nostro riscatto (1 Pt 1,18), al nostro posto e per noi ha preso su di sé il potere di maledizione racchiuso nella legge e nel peccato annientandolo con la propria morte (cfr 2 Cor 5,21).[17]

c. “Perché si adempissero le Scritture”. San Paolo si fa portavoce di una “tradizione” sicura che legge ormai tutta la vita di Gesù “secondo le Scritture”: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor 15, 3.5).

Perché, dunque, scandalizzarsi di Gesù crocifisso dal momento che le stesse Scritture ne avevano predetto la morte, la crocifissione e la risurrezione? Tutto è avvenuto “secondo il prestabilito disegno e la prescieza di Dio” (At 2, 23; cf Mc 8,31; Gv11,51; 12,33; 18,4.32; 20;9; At 1,16; 17,3; 26,22-23).

A questo punto, per inserirci nel discorso delle Scritture e comprendere più a fondo chi sia veramente il “Crocifisso” dobbiamo ripercorrere la stessa strada della primitiva predicazione apostolica. Alla luce della Risurrezione, guidati dallo Spirito che “insegna ogni cosa e tutto fa ricordare” (Gv 15, 26), come i discepoli di Emmaus, cominciando da Mosè e dai profeti, dobbiamo ricercare nelle Scritture tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno e come “bisognava che il Cristo (Messia) sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria” (Lc 24, 26).

Dovremo dunque rispondere a questa domanda: chi è il Crocifisso?


5.      CHI È IL CROCIFISSO?

Noi sappiamo che il Crocifisso è Gesù.[18] Sappiamo e crediamo che il Crocifisso è anche e inseparabilmente il Risorto (Gv 2,22; 2 Tm 2,8). Ma perché  bisognava” che soffrisse prima di entrare nella gloria (Mc 8,31)? Gesù stesso dà risposta a queste domande: perché tutto si doveva compiere (Mt 5, 17; Gv 19, 30).[19] Ricercheremo allora nelle Scritture queste  “figure” e queste profezie che si adempiono. Sarà così più facile comprendere “il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (At 2,23).

Facendo riferimento alle profezie e alle figure attraverso le quali la divina economia ha preparato la pienezza di una “storia di salvezza” è possibile individuare quel “compimento”, quella “ricapitolazione” che Cristo ha attuato con la sua Pasqua di morte-risurrezione. Possiamo allora dire che il Crocifisso è l'Agnello pasquale che viene immolato per noi; è il nuovo Tempio da cui sgorga l'acqua-Spirito fonte di ogni rigenerazione; è il nuovo Adamo che nel sonno della morte genera la nuova Eva, la Chiesa-Sposa, madre fedele dei nuovi figli che rinascono dall'acqua e dallo Spirito; è il Servo di Jahvé che si fa obbediente fino alla morte e alla morte di croce; è il Sommo sacerdote che offre se stesso in sacrificio sull'altare della croce; è Giuseppe venduto dai fratelli al fine di ottenere un grande popolo; è l'Uomo levato in alto che attira tutti a sé in un atto universale di redenzione; è il Re della gloria che regna sul legno della croce.


5.1.      L'Agnello pasquale.

“Non gli spezzarono le gambe” (Gv 19,33.36)

“Non gli sarà spezzato alcun osso” (Es 12,46)

 

L'evangelista Giovanni citando la Scrittura che dice “Non gli sarà spezzato alcun osso” (Gv 19, 36) intende applicare al Crocifisso la tipologia dell'Agnello pasquale.

Secondo la narrazione di Esodo 12,1-14, nella notte della Pasqua di liberazione ogni famiglia doveva immolare un agnello di un anno, senza difetti, e consumarne le carni arrostite al fuoco. Per essere arrostito l'agnello veniva attraversato verticalmente da un bastone di melograno. San Giustino ci informa che un secondo bastone passava orizzontalmente attraverso le spalle per mantenere aperte le zampe anteriori. Dunque i due bastoni che sostenevano la vittima pasquale presentavano la figura di una croce. Santa Caterina da Siena così scrive a Pietro di Giovanni Ventura: “Ivi troverai il cibo, perché vedi bene che egli ti ha dato la carne in cibo, arrostita in su la croce, al fuoco della carità” (Lettera 47).

Con il sangue di questa vittima sacrificale si dovevano segnare le case dove erano riuniti gli ebrei: nella sua pasqua-passaggio il Signore vedrà quel sangue e risparmierà il suo popolo liberandolo dalla schiavitù di Egitto (Es 12, 13).

Poiché è una vittima sacra offerta al Signore, dovrà essere pura, senza macchia e integra: la parte che avanza la si dovrà bruciare (Es 12, 10) e non gli si dovrà spezzare alcun osso (Es 12, 46; cf Num 9, 12).[20]

Può essere che Giovanni 19,36, oltre che al rito dell'agnello pasquale, faccia anche riferimento al Salmo 34, 20: “Molte sono le sventure del giusto, ma lo libera da tutte il Signore. Preserva tutte le sue ossa, neppure una sarà spezzato”. In questo caso il Crocifisso è paragonato al Giusto sofferente, al Servo di Jahvè che, nella sofferenza, si abbandona nelle mani del Signore che provvederà a salvarlo.

Isaia 53, 7-12, nel 4° Carme del Servo di Jahvè, descrive le sofferenze del Servo con le immagini di un agnello: “come agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi accusatori non aprì bocca... portò il peccato di malti ed intercedette per i peccatori”.

Il Battista, dando testimonianza a Gesù al Giordano, lo saluta applicando a lui le immagini bibliche dell'agnello: “Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo”. (Gv 1, 29).

Nell'Apocalisse 5, 9.10 si parla ancora di un “Agnello, come immolato” che però sta ritto in mezzo al trono poiché non è morto ma Vivente: “E' stato immolato e ha riscattato per Dio con il suo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e li ha costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti”.

Per Giovanni, dunque, non v'è dubbio: il Crocifisso è l'Agnello di Dio, senza macchia-peccato (Gv 19,33.36;cf anche Gv 1,29; At 8, 32; 1 Pt 1, 19), che riscatta gli uomini a prezzo del suo sangue (1 Pt 1,18; Ap 5,9-10; Eb 9,12-15). Nessuna offerta sacrificale da parte dell'uomo era in grado di eliminare il peccato del mondo. Dio stesso allora presenta questa offerta: dà il suo unico Figlio in sacrificio (Gv 3,16), non lo risparmia (cf Rm 8, 31-32). Non è più sufficiente l'agnello del gregge per far fare la pasqua al popolo di Dio; era necessario non l'argento e l'oro, ma il “sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1 Pt 1, 19) a liberarci dalla nostra vuota condotta, dalla vera schiavitù ben più grave che quella d'Egitto. “Lo mangerete... senza rompergli alcun osso” (Es 12, 46; Num 9,12): Gesù è stato preparato come alimento di coloro che si uniscono al suo esodo. Farà parte del suo popolo colui che mangerà la carne di questo Agnello e berrà il suo sangue, cioè chi si identificherà col suo amore espresso in una vita di donazione e culminato nella sua morte (cf Gv 15,13).

Stando alla cronologia giovannea, l'evento stesso della morte di Gesù avrebbe fornito il fondamento di questa tradizione. Gesù fu messo a morte la vigilia della festa degli azimi, la parasceve della Pasqua, (Gv 18,28; 19,14.31), nel pomeriggio (Gv 19,33), nell'ora stessa in cui, secondo le prescrizioni della legge, si immolavano nel tempio gli agnelli.

La letteratura patristica ha abbondantemente commentato la tipologia del Crocifisso alla luce dell'agnello pasquale. Citiamo questa pagina di Romano il Melode:

«Molte cose sono state predette dai profeti riguardanti il mistero della Pasqua, che è Cristo “al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen”  (Gal 1, 5). Egli scese dai cieli sulla terra per la umanità sofferente; si rivestì della nostra umanità nel grembo della Vergine e nacque come uomo. Prese su di sé le sofferenze dell'uomo sofferente attraverso il corpo soggetto alla sofferenza, e distrusse la morte omicida.

Egli infatti fu condotto e ucciso dai suoi carnefici come un agnello, ci liberò dal modo di vivere del mando come dall'Egitto, e ci salvò dalla schiavitù del demonio come dalla mano del Faraone. Contrassegnò le nostre anime con il proprio Spirito e le membra del nostro corpo con il suo sangue.

Egli è colui che coprì di confusione la morte e gettò nel pianto il diavolo, come Mosè il faraone. Egli è colui che percosse l'iniquità e l'ingiustizia, come Mosè condannò alla sterilità l'Egitto.

Egli è colui che ci trasse dalla schiavitù alla libertà, dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita, dalla tirannia al regno eterno.

Ha fatto di noi un sacerdozio nuovo e un popolo eletto per sempre. Egli è la Pasqua della nostra salvezza.

Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe, e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato.

Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato.

Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnella senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione.

Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro»

(ROMANO IL MELODE, L'agnello immolato ci strappò dalla morte, in Ufficio delle letture, giovedì santo).

5.2. Il nuovo tempio.

“Uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia

e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv 19, 34).

 

Conoscendo il Vangelo secondo Giovanni come il “Vangelo dei segni”, è difficile pensare che l'attenzione dell'Evangelista al sangue e all'acqua che escono dalla fenditura aperta dalla lancia nel costato di Cristo sia un puro riferimento biologico o di semplice cronaca. E' possibile invece scorgervi l'adempimento delle profezie circa il “nuovo tempio” che il Signore stesso avrebbe edificato nei tempi messianici.

Le profezie.

* Ezechiele 47, 1-12: “L'acqua usciva di sotto al lato destro del tempio... quest'acqua risanerà il mare... e porterà vita dovunque arriverà... sulle sponde del torrente crescerà ogni albero da frutto, le sue foglie non avvizziranno né si esauriranno i suoi frutti”.

* Zaccaria 12, 10:  Effonderò sulla casa di David e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di pietà e d'implorazione; essi si volgeranno a colui che hanno trafitto e piangeranno su di lui come si piange su un figlio unico”.

* Zaccaria 13, 1: “In quel giorno vi sarà una fontana zampillante per lavare il peccato e l'iniquità”.

* Zaccaria 14, 8: “In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme... sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra....”.

L'adempimento delle profezie.

Gesù stesso aveva paragonato il suo corpo ad un tempio quando aveva detto “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farà risorgere” (Gv 2, 19.21). Ecco dunque il tempio nuovo e definitivo, che non è fatto dalla mano dell'uomo, quello in cui il Verbo di Dio stabilisce la sua dimora tra gli uomini (Gv 1,14). Tuttavia, affinché il tempio di pietra sia decaduto, bisogna che Gesù stesso muoia e risorga: il tempio del suo corpo sarà distrutto e ricostruito, tale è la volontà del Padre (Gv 10,17; 17,4).

Trovandosi un giorno alla festa dei Tabernacoli, Gesù disse queste parole profetiche: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui:  infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato”  (Gv 7, 37-39).

Già nell'AT l'acqua era simbolo della vita che Dio dà, soprattutto nei tempi messianici (Is 12,3; 55,1; Ez 47,1; Sal 36,9-10). Anche nel dialogo con la Samaritana Gesù aveva preannunciato il dono dello Spirito nel segno dell'acqua (Gv 4,14-15).

Con queste parole, dunque, Gesù promette il dono dello Spirito simboleggiato dall'acqua. Citando le Scritture (Zac 14, 8; Ez 47, 1s) che preannunciavano una sorgente che avrebbe rigenerato tutte le genti, Gesù fa capire che l'effusione dell'acqua-Spirito avverrà al momento della sua esaltazione-glorificazione.

Per Giovanni il momento della esaltazione-glorificazione di Gesù coincide con il suo “innalzamento” sulla croce (cf Gv 12,32: quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me). Qui avvengono le mistiche nozze tra lo Sposo e la Sposa; i doni nuziali sono l'acqua, il sangue, lo Spirito: «Questi è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che rendono testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi» (1 Gv 5,5-8).

Il sangue che esce dal costato di Gesù è figura della morte che egli accetta per salvare l'umanità. E' l'espressione della sua gloria, del suo amore fino all'estremo (Gv 13, 1), quello del pastore che si dona per le pecore (Gv 10, 11), dell'amico che dà la vita per i suoi amici (Gv 15, 13). E' dinanzi al Crocifisso che la Chiesa può ripetere: “abbiamo contemplato la sua gloria”  (Gv 1, 14).

L'acqua che sgorga rappresenta, a sua volta, lo Spirito, principio di vita che tutti avrebbero potuto ricevere quando egli avesse manifestato la sua gloria (cf Gv 7,37-39). E' il momento della croce, “l'ultimo giorno” preannunciato da Gesù, nel quale i credenti in lui si sarebbero dovuti avvicinare a lui per bere l'acqua-Spirito che sarebbe sgorgata dal suo intimo. Da questo nuovo tempio, il Crocifisso, sgorgano i fiumi dello Spirito (Gv 7,38; Ez 47, 1.12), l'acqua che si trasformerà nell'uomo in una sorgente che zampilla dando vita senza termine (Gv 4, 14).[21]

Lo Spirito è il dono annunciato per gli ultimi tempi (At 2,17-21.33), quando sarà diffuso nei cuori (Rm 5,5), creando la condizione dei figli di Dio (Rm 8,15-16; Gal 4,6). Ma è anche lo Spirito delle nozze messianiche (Ap 21,2.9-10; 22,17).

Con il dono dell'acqua, del sangue, dello Spirito, il progetto divino si completa in Gesù (Gv 19,28-30); ora deve completarsi negli uomini. Lo Spirito che sgorga dal Crocifisso sarà quello che trasformerà l'uomo dandogli la capacità d'amare e di diventare figlio di Dio (Gv 1, 12). Con questi uomini nuovi, simboleggiati da Giovanni e dei quali Maria è la Madre, si formerà la nuova comunità messianica, quella della nuova alleanza nello Spirito.

La letteratura patristica ha abbondantemente commentato la tipologia del Crocifisso dal quale, come dal nuovo tempio, sgorgano l' acqua e il sangue, dono della vita nello Spirito. Citiamo questa pagina di S. Giovanni Crisostomo:

«Vuoi conoscere la forza del sangue di Cristo? Richiamiamone la figura, scorrendo le pagine dell'Antico Testamento.

“Immolate, dice Mosè, un agnello di un anno e col suo sangue segnate le porte” (Es 12,5). Cosa dici, Mosè? Quando mai il sangue di un agnello ha salvato l'uomo ragionevole? Certamente, sembra rispondere, non perché è sangue, ma perché è immagine del sangue del Signore. Molto più di allora il nemico passerà senza nuocere se vedrà sui battenti non Il sangue dell'antico simbolo, ma quello della nuova realtà, vivo e splendente sulle labbra dei fedeli, sulla porta del tempio di Cristo.

Se vuoi comprendere ancor più profondamente la forza di questo sangue, considera da dove cominciò a scorrere e da quale sorgente scaturì. Fu versato sulla croce e sgorgò dal costato del Signore. A Gesù morto e ancora appeso alla croce, racconta il vangelo, s'avvicinò un soldato che gli apri con un colpo di lancia il costato: ne usci acqua e sangue. L'una simbolo del battesimo, l'altro dell'Eucaristia. Il soldato aprì il costato: dischiuse il tempio sacro, dove ho scoperto un tesoro e dove ho la gioia di trovare splendide ricchezze. La stessa cosa accadde per l'Agnello: i Giudei sgozzarono la vittima ed io godo la salvezza, frutto di quel sacrificio.

“E usci dal fianco sangue ed acqua” (Gv 19, 34). Carissimo, non passare troppo facilmente sopra a questo mistero. Ho ancora un altro significato mistico da spiegarti. Ho detto che quell'acqua e quel sangue sano simbolo del battesimo e dell'Eucaristia. Ora la Chiesa è nata da questi due sacramenti, da questo bagno di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito santo per mezzo del battesimo e dell'Eucaristia. E i simboli del battesimo e dell'Eucaristia sono usciti dal costato. Quindi è dal suo costato che Cristo ha formato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu formata Eva.

Per questo Mosè, parlando del primo uomo, usa l'espressione: “ossa delle mie ossa, carne della mia carne”  (Gen 2, 23), per indicarci il costato del Signore. Similmente come Dio formò la donna dal fianco di Adamo, così Cristo ci ha donato l'acqua e il sangue dal suo costato per formare la Chiesa. E come il fianco di Adamo fu toccato da Dio durante il sonno, così Cristo ci ha dato il sangue e l'acqua durante il sonno della sua morte.

Vedete in che modo Cristo unì a sé la sua Sposa, vedete con quale cibo ci nutre. Per il suo sangue nasciamo, con il suo sangue alimentiamo la nostra vita. Come la donna nutre il figlio col proprio latte, casi il Cristo nutre costantemente col suo sangue coloro che ha rigenerato»

(Dalle Catechesi di san Giovanni Crisostomo, vescovo: Catech. 3, 13-19; Ufficio delle Letture, venerdì santo).

 


5.3. Il nuovo Adamo.

“E, chinato il capo, rese lo Spirito” (Gv 19,30)

“Allora il Signore Dio fece scendere un sonno sull’uomo, che si addormentò” (Gen 2,21)

La tipologia del “nuovo Adamo” applicata al Crocifisso trova riferimento nei testi dell'Antico Testamento là dove si parla del primo Adamo.

Del primo Adamo si dice che “il Signore Dio fece scendere un sonno sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e plasmò con la costola... una donna..” (Gen 2,21.22).

Nel giardino, presso l'albero della vita, mentre l'Adamo-Sposo dorme, il Signore trae dal suo fianco la Donna-Sposa. A causa del peccato, però, quel giardino fu chiuso, quell'albero produsse morte, dal primo Uomo-Donna nascono i figli per la morte e il peccato. Dio promette un Redentore (Gen 3, 15).

Secondo 1 Cor 15,45-49, il primo Adamo è stato fatto anima vivente, terrestre, psichico. Dio aveva ritirato il suo Spirito dall'uomo a causa del peccato (Gen 6,3). Era necessario che «l'ultimo Adamo» fosse uno Spirito vivificante. Adamo era la figura di colui che doveva venire (Rm 5,12-21).

Nella pienezza del tempo, a Cana di Galilea, cambiando l'acqua in vino e dando inizio ai suoi segni in vista dello sua ora (Gv 2, 11), Gesù si manifesta come lo Sposo atteso per le nozze messianiche tra Dio e il suo popolo. L'ora tanto desiderata è il momento della Croce. E' giunta l'ora in cui Gesù darà il vino-sangue-Spirito del suo amore. E' il momento delle nozze definitive nel quale Dio stesso darà al nuovo Adamo una Sposa fedele.

Dal costato di Gesù, Colui che tutto porta a compimento (Gv 19, 30), proprio nel momento di sonno-morte (Gv 19,30: reclinato il capo), sgorga l'acqua dello Spirito, che trasformerà l'uomo carnale in uomo spirituale (1 Cor 2,15; 15,44). Da questa sorgente dell'acqua-Spirito sarebbe dovuto “rinascere” l'uomo nuovo (Gv 3,5), dal corpo non più psichico-carnale, ma «pneumatico», spirituale, incorruttibile, immortale (1 Cor 15,53), glorioso (1 Cor 15,43).

Lo stesso dicasi della prima donna che era “carne della mia carne e osso delle mie ossa” (Gen 2,23); la nuova Sposa che Dio trae dal costato del nuovo Adamo sarà spirito dello Spirito di Gesù. «Nel primo plasmato Adamo è stata prefigurata la Risurrezione di Cristo, poiché come quello dopo il sonno si alzò e riconobbe Eva fabbricata dal suo fianco (ad opera di Dio), così Cristo risorto dalla morte dalla piaga del suo costato fabbricò la Chiesa» (S. Massimo di Torino). Il costato di Cristo è dunque la Rupe che, come da divina Cava, estrae da sé la Chiesa. Dice il martire S. Giustino: Come già Israele fu estratto da Abramo, quasi da una cava, così «noi siamo estratti dal seno di Cristo come da una cava». Questa è la pienezza dalla quale tutti possiamo attingere (Gv 1, 16).

In sintesi: nello stesso giorno in cui Dio aveva creato il primo Adamo (l'ultimo giorno della creazione, il giorno prima del riposo sabbatico), crea anche il nuovo Adamo. Su un albero di morte, che si trasforma però in albero di vita, mentre lo Sposo dorme il sonno della morte, il Padre trae dal suo fianco la nuova Sposa fedele, la Chiesa (di cui Maria è l'immagine). Il giardino si può così riaprire  e vi viene deposto l'Adamo nuovo (Gv 19,41); da questo amore fedele dello Sposo e della Sposa (cf Ef 5,25: Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei), nascono ormai i nuovi figli (At 17,26), non più per il peccato ma per la grazia, non più per la morte ma per la vita. Giovanni è il prototipo di questi nuovi figli che Gesù ama ed ai quali dona per madre Maria, la nuova Eva.

Dicevamo che i Padri della Chiesa hanno abbondantemente sviluppato la tipologia del Crocifisso come nuovo Adamo. Citiamo alcuni testi anche come necessario completamento delle riflessioni fin qui fatte. Vedremo così che nell'acqua-sangue i Padri hanno visto i “segni” del Battesimo e dell'Eucaristia aiutandoci così a comprendere meglio l'origine “sacramentale” della Chiesa e come ogni realtà di salvezza scaturisca necessariamente dalla Pasqua di morte-risurrezione del Signore nel quale il Padre ha voluto “ricapitolare” ogni realtà.

La letteratura patristica ha abbondantemente commentato la tipologia del Crocifisso alla luce del nuovo Adamo. Citiamo questa pagina di S. Agostino:

«“Vennero, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, poi all'altro che era crocifisso insieme con lui. Giunti a Gesù, vedendolo già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli aprì il costato con la lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua (Gv 19, 32-34)”. L'evangelista ha usato un verbo significativo. Non ha detto: colpì, ferì il suo costato, o qualcosa di simile. Ha detto: aprì, per indicare che nel costato di Cristo fu come aperta la porta della vita, onde fluirono i sacramenti della Chiesa, senza dei quali non si entra a quella vita che è la vera vita. Quel sangue è stato versato per la remissione dei peccati; quell'acqua tempera il calice della salvezza, ed è insieme bevanda e lavacro. Questo mistero era stato preannunciato da quella porta che Noè ebbe ordine di aprire nel fianco dell'arca (Gen 6, 16), perché entrassero gli esseri viventi che dovevano scampare al diluvio, con che era prefigurata la Chiesa. Sempre per preannunciare questo mistero, la prima donna fu formata dal fianco dell'uomo che dormiva (cf Gen 3, 20). Indubbiamente era l'annuncio di un grande bene, prima del grande male della prevaricazione. Qui il secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, perché così, con il sangue e l'acqua che sgorgano dal suo fianco, fosse formata la sua sposa. O morte, per cui i morti riprendono vita! Che cosa c'è di più puro di questo sangue? Che cosa c'è di più salutare di questa ferita?»

(S. Agostino, Commento al Vangelo di S. Giovanni, 120, 2).

 


5.4. Il Re della gloria

Pilato scrisse inoltre un cartello e lo fissò sulla croce; stava scritto: Gesù il Nazareno, il re dei giudei” (Gv 19, 19)

“Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria” (1 Cor 2,8).

 

Il cartello posto sulla croce indicava la causa della condanna. Contraddicendo le affermazioni dei sommi sacerdoti (Gv 19, 15: “non abbiamo altro re che Cesare”) Pilato scrive: il re dei Giudei non è Cesare, ma Gesù (cfr Gv 19, 14-15).

Il cartello della condanna indica dunque che Gesù è il “Nazareno”, il germoglio di Davide, il pastore modello che si prenderà cura del suo gregge maltrattato (cf Gv 10, 11). Giovanni ci dice che il Crocifisso è il Re dei Giudei, il Messia promesso, colui che difenderà gli umili del popolo (Sal 72,4); non lo farà però come re potente, acclamato dalle moltitudini, ma come l'Uomo levato in alto, segno di vita e punto di attrazione (Gv 12,32: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”).

La sua non è la morte di un malfattore, ma la intronizzazione del Sovrano che è signore di se stesso e dispone della propria vita. Per questo è stato consacrato dallo Spirito (Gv 1, 32; 10, 36): per essere il Re-Messia, il Giudice giusto, il Re dei re e il Signore dei signori (Ap 17,14; 19,14), il più potente della morte (1 Cor 15,54-56). Coloro che, facendo professione di fede dinanzi al Crocifisso lo riconosceranno come Re-Messia, riceveranno anch'essi lo Spirito della regalità e della filiazione divina.

Giovanni traduce questa regalità di Gesù con alcune espressioni che meritano un'attenzione particolare:

a. “questo cartello era scritto... in ebraico, latino e greco” (Gv 19, 20).

Il cartello era scritto in tre lingue: quella degli Ebrei e le due lingue principali del mondo conosciuto, il latino e il greco. Con questa notazione di universalità linguistica, Giovanni ci vuoi dire che il Crocifisso è il Messia non solo dei Giudei, ma il Re-Salvatore del mondo intero (cfr Gv 4, 29.42). La sua missione universale, tradotta nelle lingue principali, deve essere conosciuta non solo dalle pecore del gregge di Israele, ma anche da altre pecore che non appartengono a questo popolo (Gv 10, 16). La nuova comunità di cui il Crocifisso diventa Re non dovrà avere limiti di razza (Gv 4, 12.20.21) dal momento che “quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32).

Le tre lingue in cui è scritto il cartello indicano dunque che il Crocifisso è il Re-Messia di tutte le genti.

I sommi sacerdoti, leggendo quella scritta, si accorgono che essa è una chiara accusa contro di essi e vorrebbero che Pilato la cambiasse; ma la risposta del rappresentante di Roma è: “Ciò che ho scritto, scritto lo lascio” (Gv 19, 22). La frase di Pilato ha un tono di profezia: lo scritto è definitivo, rimane e non si può cambiare; è indelebile, come indelebili erano le Scritture. Sta dunque a significare che Gesù è il Crocifisso per amore dell'uomo; un amore proclamato in tutte le lingue; un amore incancellabile, compimento delle promesse messianiche; egli è la Scrittura definitiva. Non più dunque una Scrittura che gli rende testimonianza, ma lui stesso è la nuova Scrittura, il nuovo Codice dell'alleanza che Dio stesso scrive e propone al nuovo popolo che intende acquistarsi. In questa nuova alleanza stipulata nel sangue del Figlio, le clausole che dovranno legare Dio e il suo popolo non sono più scritte sulla pietra o sulla carta, ma diventano una Persona: Gesù Crocifisso. Questa è d'ora in poi l'unica clausola: imitare, attuare, essere fedeli a questa Scrittura-Persona che il Padre stabilisce come Codice della nuova alleanza: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono nel Signore Gesù” (Fil 2,...).

b. “I soldati, quando crocifissero Gesù, presero il suo mantello e ne fecero quattro parti, una parte per ciascun soldato” (Gv 19, 23).

Era costume che gli esecutori della sentenza si spartissero le vesti del condannato. Giovanni, con questa spartizione in quattro parti del “mantello”  di Gesù, fa notare che a ricevere l'eredità di Gesù sono quattro soldati romani.

Nell'Antico Testamento il mantello possedeva vari simbolismi:

* 1 Re 11,30-31: il profeta Achia, per indicare la divisione del regno alla morte di Salomone e la sua spartizione fra due eredi, divide il suo mantello in dodici parti: due al regno di Giuda, dieci a quello di Israele.

* 1 Re 19, 20:  Elia indica ad Eliseo la sua vocazione profetica gettandogli addosso il suo mantello; quando viene portato in cielo, Elia gli trasmette il suo Spirito lasciandogli in eredità il mantello; portare il mantello di Elia sarà il segno che Eliseo è rivestito dello stesso Spirito e che continua la sua stessa missione (2 Re 2, 1-4).

* 1 Sam 15, 27: la rottura del mantello del profeta, che Saul vuole trattenere, simboleggia che quest'ultimo sarà spogliato del regno.

Giovanni sembra raccogliere questi simbolismi. Il mantello di Gesù, Re dei Giudei (Gv 19, 19.21), raffigura il suo regno. I soldati prendono il mantello e lo dividono in quattro parti, di cui si appropriano. L'antico regno, quello dei Giudei, passa ora ad essere quello dei pagani: poiché essi hanno tradito l'alleanza alleandosi con Cesare e riconoscendolo loro re, Dio toglierà ad essi il Re-Messia e lo darà ai pagani. I soldati compiono dunque un gesto profetico: esprimono la volontà di Dio di trasmettere ad altri il regno. Le quattro parti in cui dividono il mantello alludono ai quattro punti cardinali e significano la terra intera: Gesù non sarà più il Re dei Giudei, ma il Re-Messia universale (Gv 3, 16). I cittadini di questo regno si riconosceranno perché avranno la veste di un Crocifisso; portando il suo mantello ne riceveranno anche lo stesso Spirito (cfr Eliseo) che permetterà loro di continuare la missione di colui che diede la sua vita per amore dei fratelli. Il discepolo che non porti invece la veste del Crocifisso, che cioè non si comporti come Gesù, sarà nudo (cfr Pietro in Gv 21,7: non aveva ancora accettato la morte di Gesù come espressione suprema dell'amore, né l'aveva presa come norma; non aveva accolto l'eredità dello Spirito che l'avrebbe portato a identificarsi con Gesù).

Riassumendo questa nuova “figura” possiamo dire che il Crocifisso è anche il Re-Messia, il realizzatore delle promesse messianiche, il Salvatore universale. In lui si realizza la nuova alleanza di Dio con l'umanità, il cui codice è Cristo stesso. Egli è la Scrittura nuova che contiene la proposta definitiva del Dio-Amore e definisce allo stesso tempo la risposta dell'uomo. Il rapporto dell'uomo con Dio ormai non si stabilisce attraverso testi scritti, ma attraverso l'amore personale dell'Uomo-Dio crocifisso. Questa Scrittura può così diventare patrimonio comune dell'umanità intera, al di sopra di ogni particolarismo. Ogni uomo la potrà leggere: parla infatti il linguaggio dell'amore universale.

L'eredità del Crocifisso è come un “mantello”: occorre rivestirsene se si vuol ricevere il suo stesso Spirito. Il mondo riconoscerà i discepoli come eredi del Crocifisso se anch'essi assumeranno la sua veste, praticando cioè il suo stesso servizio fino al dono della vita.

Un'attenzione particolare va data anche al testo di S. Paolo che dice: “Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l'avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria”[Ho Basiléus tês Dôxes] (1 Cor 2,8). Qui S. Paolo cita, unica volta, il Salmo 23,7.8.9.10. E' il Salmo «liturgia» che celebra l'Arca dell'alleanza che viene, in processione festosa, per entrare nel Santuario. Sull'Arca troneggia l'invisibile Dio, fattosi presente al suo popolo nella storia. Davanti a lui si aprono le porte, appena è acclamato il Dio Vivente come «il Dio delle Sabaot - il Re della Gloria» (v.10). Le Sabaot sono i turni del popolo di Dio che adorano ininterrottamente il loro Signore. E' anche l'acclamazione di Cristo Risorto quando ascende al Padre, e si apre il Santuario celeste dove si svolge ormai la liturgia perenne di lode ed azione di grazie al Padre nello Spirito.

 


5.5. Il Servo di Jahvè

«Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7)

«Ecco il mio servo» (Is 52,13)

 

Fin dal battesimo al Giordano la voce del Padre indica Gesù come “il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”  (Mt 3, 17 che cita Is 42, 1: il primo “carme” del Servo di Jahvè). Quando poi Gesù farà la triplice profezia della sua morte-risurrezione (cfr Mc 8,31-32; 9,31; 10,33-34) applicherà a sé stesso la figura del Servo sofferente di Jahvé predetto da Isaia 52,13 - 53,12. Per Matteo, Gesù è il Servo che annuncia la giustizia alle nazioni ed il cui nome è la loro speranza (Mt 12,18-21 che fa riferimento a Is 42,1-4). In occasione dell'ultima Cena, nel riferire le parole dell'istituzione sul calice, dice “Questo calice è il patto nuovo nel mio sangue, che per voi sarà versato” (Lc 22, 20): proprio come il Servo di Jahvè che “versa” la sua vita in sacrificio “per i peccati dei molti” (cfr Is 53, 12). La predicazione apostolica applicò subito a Cristo il titolo di Servo per annunciare il mistero della sua morte (At 3,13.18; 4,27), fonte di benedizione e luce per le nazioni (At 3,25; 26,23). D'ora in poi il Nome del santo Servo di Dio, Gesù Crocifisso e Risorto, è la sola fonte di salvezza (At 4,12). «Nel Nome del santo servo Gesù» anche i suoi servi potranno annunciare con tutta franchezza la sua parola, compiendo guarigioni, miracoli e prodigi (At 4,29).

Nel riferire la crocifissione di Gesù, Marco dice: “Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra” (Mc 15, 27). Alcuni codici, probabilmente in assonanza con Is 53, 12, aggiungono un v. 28 che dice “E si compì la scrittura che dice: è stato messo tra i malfattori” (cfr Lc 22, 37).

Il Crocifisso, dunque, viene annunciato come colui che adempie le profezie del Servo di Jahvè. Se ne fa interprete lo stesso Pietro che, nello spiegare la guarigione dello storpio, dice: “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato...” (At 3.13).

Pietro usa questo tema del Servo per spiegare la presenza del Crocifisso-Risorto in mezzo alla comunità: “Dio, dopo aver risuscitato il sua Servo, l'ha mandato prima di tutto a voi...” (At 3, 26). Anche la catechesi di Filippo al ministro etiope consiste nell'annunciare “la buona novella di Gesù” (At 8, 35) riferendo a Lui quanto il profeta Isaia aveva detto circa il Servo di Jahvè che “come una pecora fu condotto al macello...” (Is 52,7-8).

Anche le prime comunità cristiane, come ci riferisce Paolo nella lettera ai Filippesi, nei loro canti liturgici, inneggiavano al Cristo morto ed esaltato come a colui che “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo... facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-11).

Portando a compimento le Scritture circa il Servo di Jahvè, il Crocifisso “ricapitolava” tutta una economia di salvezza che il profeta Isaia aveva appunto espressa attraverso questa “figura” così misteriosa del “Servo - 'ebed Jahvè”: paziente (Is 50,6), umile (Is 53,7), capace di offrire la propria vita compiendo, mediante la sofferenza, il disegno di Iahvé (Is 54,4.10); egli giustificherà i peccatori di tutte le nazioni (Is 53,8.1).

Applicando l'economia salvifica del Servo al Cristo, possiamo dire che il Crocifisso è colui che “fu trafitto a causa dei nostri peccati, fu schiacciato a causa delle nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace fu su di Lui e per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53, 5; cf 2 Cor 5,21; Gal 3,13; Rm 4,25).

Il Crocifisso, pertanto, è colui che intercede presso Dio in favore dei peccatori, per ottenere loro il perdono dei peccati, il favore divino. Egli intercede offrendo a Dio la sua stessa vita innocente quale “sacrificio di propiziazione” per i peccati (Rm 3,25; 1 Gv 2,2; 4,10). Nel grande giorno dell`espiazione (Lv 16,1), il propiziatorio era asperso di sangue (Lv 16,15). Il sangue del Cristo ha compiuto realmente la purificazione dal peccato che questo rito poteva soltanto significare. Dio accetta, si lascia propiziare: Egli vuole e gradisce la morte propiziatrice del Servo; la dispone lui stesso: per questo l'accetta e la esaudisce.

Il Servo sa che non basta offrire a Dio dei sacrifici ordinari: egli offre al Padre il sacrificio della propria vita “senza peccato”, spesa tutta al suo servizio, fino alla morte, ingiusta e violenta. L'intercessione del Crocifisso in favore “dei molti” (cioè “di tutti”) gli costa, e caro: la vita spesa in sofferenze, rifiuti, morte... Tutto ciò a causa dei nostri peccati; per ottenere dal Padre il perdono dei nostri peccati. Vedendo la nostra incapacità, Egli che è “senza peccato” si sostituisce a noi per renderci Dio di nuovo propizio. La espiazione ha come scopo primario la propiziazione, la pace, la salvezza.

Il Crocifisso, in questa sua qualità di Servo-intercessore per i suoi fratelli e per tutta l'umanità, ottiene dal Padre il dono della riconciliazione, della pace, della salvezza e lo fonda sopra di sé, sul suo sacrificio, sulla sua morte propiziatrice. Il Crocifisso diventa alleanza tra Dio e l'umanità: “Perciò gli assegnerò come conquista i molti... perché nella morte versò sé stesso, con i peccatori fu computato” (Is 53, 12).

Per il suo servizio fino alla morte, il Cristo merita dal Padre un premio e una ricompensa. Questo premio di conquista consiste nell'ottenere dal Padre non solo la salvezza “dei molti”, ma “i molti” medesimi.

Questi “molti”, convertiti e purificati dai loro peccati, aderiscono a lui e divengono partecipi del suo regno e della sua alleanza, dal momento che il giusto Servo del Signore viene esaltato e glorificato oltre la morte.

Sui molti il Padre effonderà l'acqua-Spirito (cfr Is 44,3-5) quale comunicazione della vita gloriosa e immortale che ormai scaturisce dal Crocifisso-Risorto. Come nella persona dei progenitori l'umanità intera è passata dallo stato di vita e benedizione divina, allo stato di morte e di colpa che si riversa su tutto e su tutti, così, nella persona del Servo-Crocifisso, tutta l'umanità fa ritorno dallo stato di peccato a quello di vita e di benedizione divina.

Il Servo, dunque, muore in forza dell'antica maledizione, retaggio del primo peccato, ma subito risorge, ritorna alla vita, acquisendo così con la sua intercessione-propiziazione la divina benedizione per tutti.

Il Padre, accettando l'intercessione del Cristo suo Servo e gradendo il suo sacrificio come dono di propiziazione per i peccati, manifesta la sua riconciliazione con l'umanità effondendo il dono dello Spirito, tramite il suo Servo, alla “posterità” di quest'ultimo: dono perpetuo, inalienabile:

“...verserò il mio Spirito sulla tua posterità,

la mia benedizione sulla tua discendenza”  (Is 43, 3).

Lo Spirito di Dio che ha costituito Kyrios Gesù Cristo mediante la risurrezione dai morti (cfr Rm 1,4), viene ora comunicato, partecipato, tramite suo, al suo popolo. E' così possibile una rigenerazione interiore, una vita nuova che costituisce il vero popolo del Signore. Il peccato è perdonato, Dio si è riconciliato con i peccatori, si ristabilisce l'ordine e la giustizia.

Il Crocifisso, in quanto Servo di Jahvè, è dunque la fonte dell'acqua-Spirito che genera vita e felicità vera. E' colui che rende possibile il ripristino dei rapporti di favore tra Dio e l'umanità così come lo erano prima del peccato.

Su di Lui, sui suoi meriti, sul suo sacrificio di propiziazione è costituita, eternamente, la grande Riconciliazione tra Dio e l'umanità; ed è ancora per mezzo suo che si attueranno, esclusivamente, i frutti e il contenuto positivo di questa Riconciliazione.

Il Crocifisso, in quanto Servo di Jahvè, diventa anche il modello da seguire e da imitare per giungere presso il Padre: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”  (Fil 2,5).

E' l'esortazione di san Paolo che spinge tutti i cristiani a farsi servi di Cristo secondo la novità e la libertà che ci vengono dallo Spirito: “Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, Padre”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”  (Rm 8, 14-17).

Anche noi, come i discepoli di Emmaus, siamo incamminati verso una sera che non conoscerà tramonto. Questa certezza alimentata dalla fede non esclude affatto che il pellegrinaggio della vita sia a volte triste, pieno di scoraggiamenti, influenzato più dalla croce che dalla risurrezione. Per alleggerire questo nostro cammino, si fa allora incontro il Misericordioso, colui che era Crocifisso ed ora è Risorto. Benevolmente ci rimprovera per la nostra sciocchezza e soprattutto per la nostra durezza di cuore “nel credere alla parola dei profeti. Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria?” (Lc 24, 26). E poiché «un servo non è più grande del suo padrone» (Gv 15,20), anche i suoi servi dovranno passare per la stessa via della sofferenza prima di entrare nella gloria del Regno (Ap 7,14).

 

«La forza di Cristo ti ha creato, la debolezza di Cristo ti ha rigenerato. La forza di Cristo fece che ciò che prima non era fosse; la debolezza di Cristo fece che ciò che era non perisse. Con la sua forza ci ha creati, con la sua debolezza ci ha cercati. […]

Gesù è debole nella carne, ma non volerlo essere tu; nella debolezza di lui tu devi essere forte, perché il debole di Dio è più forte di tutta la potenza umana (cf. 1Cor 1,25)»

(S. Agostino, Commento al Vangelo di S. Giovanni 15, 6-7).

 

«“Ascoltatelo”, lui che i misteri della Legge hanno annunciato, che la voce dei profeti ha cantato. "Ascoltatelo", lui che ha riscattato il mondo con il suo sangue, che ha incatenato il diavolo e gli ha rapito le spoglie (cf. Mt 12,29), che ha lacerato il chirografo del debito (cf. Col 2,14) e il patto della prevaricazione. "Ascoltatelo", lui che apre la via del cielo e, con il supplizio della croce, vi prepara la scalinata per salire al Regno»

(S. Leone Magno, Discorso 38, 4-8)

 

5.6. Il nuovo sommo Sacerdote.

“ Perciò dissero tra loro: non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca” (Gv 19,24);

“non dovrà stracciarsi le vesti” (Lev 21, 10)

Abbiamo già detto, parlando del Crocifisso in quanto Agnello pasquale e nuovo Tempio, che l'evangelista Giovanni è solito attribuire valore di “segno” a tutto quanto Gesù ha detto e fatto. In questo senso abbiamo riferito un possibile significato attribuito dall'evangelista alla spartizione delle vesti. Riprendiamo qui un particolare esclusivo di Giovanni, quello della “tunica senza cuciture”:

Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempì la Scrittura: Si son divise tra loro la mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte” (Gv 19,23-24).

Il significato primo di questo tirare a sorte la tunica di Gesù è, come dice lo stesso Giovanni, quello di adempiere la Scrittura. Si legge infatti nel Salmo 22, 19: “La mie vesti si dividono tra loro, sui miei abiti gettano la sorte”. E' il Salmo col quale Gesù prega sulla croce (cf Mt 27,46 che cita il Salmo 22, 1: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”) esprimendo così la sua angoscia e la sua speranza in mezzo alle sofferenze.

Al seguito dell'interpretazione data dai Padri a questo testo, possiamo individuare nell'attenzione di Giovanni alla “tunica senza cuciture” anche altre simbologie:  Il Crocifisso come sommo Sacerdote.

Giuseppe Flavio ci informa che anche l'abito del sommo Sacerdote era di un'unica orditura e anche la tradizione rabbinica attribuisce tuniche inconsutili ad Adamo e Mosè.

A proposito della veste del sommo sacerdote il libro del Levitico ci dice che “non dovrà stracciarsi le vesti” (Lev 21, 10). E' dunque possibile che Giovanni, riferendo il particolare della “tunica senza cuciture” che, contrariamente al mantello, non viene divisa, intenda insinuare il carattere sacerdotale di Cristo nella crocifissione. Offrendo la sua vita senza peccato come dono al Padre e come sacrificio di propiziazione per il peccato “dei molti”, Gesù non funge tanto da profeta, ma è un Sacerdote che offre a Dio un sacrificio di propiziazione per i peccati, sé stesso cioè, la sua vita. Il Crocifisso è dunque allo stesso tempo Sacerdote e Vittima. Su questo suo Sacerdozio sommo, su questo suo sacrificio, sorge l'alleanza nuova di Riconciliazione e di pace tra Dio e l'umanità mediante il perdono dei peccati e il dono dello Spirito nei cuori.

La lettera agli Ebrei esprime con chiara evidenza il ruolo sacerdotale di Cristo nella sua passione:

“Proprio per questo nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Eb 5, 7-10).

Per Giovanni, dunque, la morte di Cristo è una esaltazione di gloria (cf Gv 12, 27 s; 13, 31s). Il Crocifisso, al quale non si strappa la tunica, è il sommo Sacerdote: santo, innocente, senza macchia, che offre se stesso al Padre “con uno Spirito eterno” per purificare la nostra coscienza dalle opere morte e permettere così anche a noi di servire il Dio vivente (cf Eb 7, 26; 9, 14).


5.7. Il nuovo Giuseppe

“Ma i patriarchi, gelosi di Giuseppe, lo vendettero schiavo in Egitto” (At 7,9)

“Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli... e gli fece una tunica con le maniche lunghe” (Gen 37,3)

E' pure possibile che Giovanni, riferendo il particolare della “tunica senza cuciture”, faccia un riferimento alla tunica di Giuseppe secondo quanto si legge in Genesi 37, 3:  “Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli... e gli fece una tunica con le maniche lunghe”. Contrariamente ai fratelli che portavano tuniche corte e senza maniche, segno di coloro che lavorano nei campi, Giuseppe portava un abito signorile, lungo fino a terra e con maniche lunghe. Questa preferenza da parte del padre e questo suo non occuparsi del lavoro dei campi, suscitò l'invidia dei fratelli che vendettero Giuseppe ai Madianiti per venti sicli d'argento. Per giustificare la sua scomparsa, i fratelli presero la sua tunica, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue facendola poi pervenire al loro padre Giacobbe (cf Gen 37,31-32). Giuseppe venduto dai fratelli viene però eletto da Dio quale strumento di salvezza per gli stessi fratelli omicidi: “Se voi avete ordito del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: salvare la vita ad un popolo numeroso” (Gen 50,20).

Che Giuseppe venduto dai fratelli fosse “tipo” di Cristo ci viene confermato anche dalla primissima catechesi apostolica. Nel discorso di Stefano prima della sua morte, si fa proprio riferimento a Giuseppe venduto per gelosia; “Dio però era con lui e lo liberò da tutte le sue afflizioni” (At 7, 9). Nel discorso di Stefano è evidente la lettura del caso di Giuseppe in rapporto all'identico trattamento tenuto dai Giudei verso Gesù, consegnato per invidia nelle mani dei nemici. Dio però sa trarre un valore di salvezza anche dagli avvenimenti sbagliati degli uomini: dal Risorto scaturirà la vera discendenza promessa ad Abramo.

E' dunque più che probabile che Giovanni abbia voluto “completare” anche la figura di Giuseppe attribuendola al Crocifisso: consegnato dai propri fratelli in mano dei nemici, non viene abbandonato da Dio; anzi il Signore è con lui, lo libera dalla morte mediante lo Spirito della risurrezione e lo costituisce Kyrios, cioè Signore e Salvatore di tutti coloro che crederanno in lui. Ben più che Giuseppe, Gesù è costituito dal Padre “salvatore” di un popolo senza numero.

Concludendo anche la lettura del “segno” della “tunica senza cuciture”, riferita dal solo Giovanni, possiamo dire che egli abbia voluto richiamare questi possibili significati: nel Crocifisso si adempiono le Scritture del Giusto perseguitato che prega e si affida al Signore; il Crocifisso è il vero sommo Sacerdote che offre se stesso per purificarci dalle nostre opere morte e renderci capaci di adorare il Dio vivente; il Crocifisso è il nuovo Giuseppe. venduto per invidia dai fratelli e dalla cui sofferenza Dio trae motivo di salvezza per un popolo senza numero.

Per completezza dobbiamo però dire che i Padri hanno visto nella “tunica senza cuciture” non divisa dai soldati il “segno” dell’unità della Chiesa. Giovanni concepisce la comunità cristiana come una partecipazione dello Spirito e dell'amore di Gesù, che forma gruppi che si estendono per il mondo intero. Malgrado la pluralità di razze e di culture, permane un elemento indivisibile nella Chiesa: l'unità che realizza lo Spirito, che ha quindi la sua origine “dall'alto”[22]: “la tunica non aveva cuciture, era tessuta tutta intera dall'alto” (Gv 19, 23b).


5.8. L'Uomo levato in alto

«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo» (Gv 3,14);

«Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32);

“Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta: chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Num 21,8).

 

Questa “figura” del Crocifisso non si trova nel racconto della passione, ma nel dialogo di Gesù con Nicodemo riferito da Giovanni 3,1-21. Nicodemo, membro del gran Consiglio e uomo della Legge, vede in Gesù il Maestro inviato da Dio per stabilire il suo regno attraverso la stretta osservanza della Legge mosaica. Gesù respinge questa interpretazione del Messia e ne presenta piuttosto la vera figura come di un Uomo levato in alto, il Figlio unico di Dio, dono di Dio all'umanità per salvarla. Egli diventa così la fonte della vita (Gv 3, 13-18) e la norma di condotta: funzioni che la scuola farisaica attribuiva alla Legge. Dio ha dunque stabilito che la salvezza non venga più dalla Legge, ma unicamente dal Figlio di Dio, l'Uomo innalzato, manifestazione suprema dell'amore divino. Dio ha anche stabilito che il suo regno non si inaugurerà con una manifestazione di potere, ma con quella dell'amore di Dio manifestato nella croce, negazione del potere.

La funzione del vero Messia è dunque quella di conferire all'uomo l'amore e la verità (Gv 1, 17); pertanto, il suo trionfo è la croce, dimostrazione suprema dell'amore cui conduce il dinamismo dello Spirito. Salire al cielo e salire sulla croce sono ormai due movimenti inseparabili nella missione di Gesù. “Il cielo” è situato nella croce, in cui il Padre è presente in Gesù e manifesta il suo amore. Ne consegue che “essere innalzato” indica allo stesso tempo la morte e l'esaltazione di Gesù, la manifestazione della sua gloria, che è quella stessa del Padre (Gv 17,1). La morte di Cristo in croce non è pertanto la sconfitta del suo ruolo messianico, ma piuttosto la “epifania” della sua gloria e del suo trionfo sulla morte, sul peccato, sulla legge.

Per spiegare questa apparente contraddizione, Gesù richiama un episodio verificatosi nel deserto al tempo dell'Esodo:

Num 21,4-9: il popolo mormora contro Dio e contro Mosè; il Signore allora inviò al popolo serpenti velenosi che mordevano il popolo e lo facevano morire; il popolo supplica Mosè perché interceda presso Dio affinché allontani i serpenti. Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un'asta: chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita” (Num 21,8).

Prendendo a testimonianza un episodio della Scrittura, Gesù vuol condurre Nicodemo a non aver dubbi circa l'apparente “contraddizione” che comporta l'essere innalzato sulla croce e allo stesso tempo l'essere glorificato sulla croce. Non fu forse contraddizione che proprio un serpente, portatore di morte, fosse costituito da Dio sorgente di vita? Dio può dunque trarre da uno strumento di morte una fonte di vita.

Nella nuova economia Dio ha dunque stabilito che l'Uomo levato in alto sia la presenza salvifica di Dio, il punto di confluenza di tutti quelli che guardano, il luogo da cui sgorga la vita divina. La vita e la rinascita vengono dunque “dall'alto”: chiunque aderisce all'Uomo innalzato, il Crocifisso, accettando il suo amore e il dono del suo amore, lo Spirito, otterrà vita definitiva, cioè nascerà da Dio stesso, mediante lo Spirito che sgorga dal costato del nuovo Adamo, costituito da Dio “spirito datore di vita” (1 Cor 15,45).

Il Crocifisso è, nel disegno di Dio, il “segno” supremo da cui scaturisce la vita essendo l'espressione dell'amore di Dio per l'umanità: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare (sacrificare) il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna  (Gv 3, 16).

Abbiamo dunque trovato, nell'episodio del “serpente di bronzo” innalzato su un palo per dare la vita a coloro che lo guardavano, una ulteriore “figura” che ci aiuta a comprendere con maggiore ampiezza il significato del Crocifisso. Il Crocifisso, l'Uomo levato in alto, è la fonte della vita definitiva, significata dall'acqua-Spirito che scaturisce dal suo fianco squarciato. Il Crocifisso, mostrando il suo amore nel dono della propria vita, diventa anche la “norma” che l'uomo deve seguire per raggiungere la pienezza della vita. Solo con uomini disposti ad amare fino al dono della propria vita si può costruire la vera società umana secondo il disegno di Dio: sono gli uomini liberi che fanno della propria vita la pratica dell'amore, il dono di se stessi.

Ogni impresa di costruire una vita che non abbia i sentimenti dell'Uomo levato in alto, cioè del Crocifisso, sarà necessariamente un'impresa incompiuta perché priva di amore e quindi condannata al fallimento. E' pur vero che il mondo stenta a capire questa logica che scaturisce dalla sapienza divina; ma Dio ha stabilito che per avere la vita bisogna aderire all'Uomo levato in alto, il Crocifisso, colui che hanno trafitto.

 

«Vi è un solo antidoto contro le cattive infezioni ed è la purezza trasmessa alle nostre anime dal mistero della fede. Ora, l'elemento principale contenuto nel mistero della fede è appunto il guardare verso la Passione di colui che ha accettato di soffrire per noi. E Passione vuol dire croce. Così, chi guarda verso di lei, come indica la Scrittura, resta illeso dal veleno del desiderio. Rivolgersi verso la croce vuol dire rendere tutta la propria vita morta al mondo e crocifissa (cf. Gal 6,14), tanto da essere invulnerabile ad ogni peccato; vuol dire, come afferma il Profeta, inchiodare la propria carne con il timore di Dio (cf. Sal 118,120). […] Infatti, coloro che guardano alla Croce non sono più soggetti alla morte nefasta dei peccati […] L'uomo che guarda a colui che è stato elevato sul legno, respinge la passione, dissolvendo il veleno con il timore del comandamento, quasi si trattasse di una medicina.

Che il simbolo del serpente innalzato nel deserto sia simbolo del mistero della croce, la parola stessa del Signore lo insegna chiaramente, quando dice: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell`uomo" (Gv 3,14).

( S. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè, nn. 269-277)

 


6.      IL SEGNO DELLA CROCE.

 

Il segno della croce è prevalentemente legato alla liturgia catecumenale-battesimale, ma si trova anche nel Rito della Confermazione, nell'Ordine, nell'Unzione dei malati.

Nel Rito di ammissione al catecumenato i candidati ricevono il segno della croce sulla fronte e sui sensi: la croce è il segno della loro nuova condizione; Cristo stesso li protegge con questo segno del suo amore e della sua vittoria. Il segno della croce sugli orecchi, per ascoltare la voce del Signore; sugli occhi per vedere lo splendore del volto di Dio sulla bocca, per rispondere alla parola di Dio; sul petto, perché Cristo abiti per mezzo della fede nei loro cuori; sulle spalle, per sostenere il giogo soave di Cristo.[23]

Nella tradizione patristica il segno della croce è chiamato con il termine greco sphragìs: anticamente designava sia l'oggetto che serviva per imprimere un segno-sigillo, sia il segno prodotto dall'oggetto stesso. Basta ricordare i sigilli per imprimere un marchio nella cera o in un documento ufficiale.

Lo sphragìs era anche il marchio con cui i pastori contrassegnavano, col ferro rovente, il loro gregge onde poterlo riconoscere. Anche nell'esercito i generali contrassegnavano le proprie reclute con un signaculum (tatuaggio) per evitare defezioni e quale segno di identificazione.

Tutta questa simbologia è stata utilizzata dalla tradizione biblico-liturgica e dai Padri per spiegare i vari significati del segno della croce. Nella lettera ai Romani, parlando di Abramo giustificato dalla fede indipendentemente dalla circoncisione, san Paolo dice che egli ricevette il segno della circoncisione quale sigillo (sphragìs) della giustizia derivante dalla fede. Questa stessa parola sphragìs servì ben presto a designare per analogia il battesimo cristiano, sacramento della fede (2Cor 1,22: E' Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori;; Ef 4,30; cf. Gv 6,27, Ap 7,2-8, Ap 9,4)

a.   segno di appartenenza. Il segno di croce, con cui si suggella la fronte del candidato al battesimo, ne sottolinea l'appartenenza a Cristo, al suo gregge: “Accostatevi al sigillo (sphragìs) sacramentale cosicché il padrone vi riconosca. Siate annoverati nel santo ed intelligibile gregge di Cristo, onde possiate essere disposti alla sua destra”. Esso inoltre consente a Cristo di riconoscere i suoi, come il pastore le sue pecore. Nel battesimo siamo stati segnati dallo Spirito Santo con un marchio salutare e restituiti alla primitiva “immagine e somiglianza” donata da Dio creatore (Gn 1,26.27). Lo sphragìs battesimale imprime nell'anima un legame con l'eikôn, immagine-somiglianza con Dio, facendoci «conformi all'immagine del Figlio» (Rm 8,29) mediante il dono irreversibile dello Spirito.

b.   segno di protezione. Il segno della croce è per il cristiano uno strumento di protezione contro il demonio: ormai, contrassegnato con il sigillo della Trinità, il cristiano non gli appartiene più; gli basterà d'ora in poi fare questo segno per respingere gli attacchi del maligno e porlo in fuga ricordandogli lo strumento salutare, la croce, col quale è stato sconfitto.

Se ti sarai premunito dello sphragìs, segnando la tua anima e il tuo corpo con l'unzione e con lo Spirito, che mai potrà accaderti? Ciò ti offre in questa stessa vita la maggiore sicurezza possibile. Non è facile impadronirsi con l'astuzia della pecora marcata, mentre quella che non reca alcun marchio rappresenta per i ladri una facile preda.

Questa tipologia la si può riscontrare in Genesi 4,15 (Caino è segnato da Dio perché nessuno lo uccida); Ezechiele 9,4 (Dio segna con una T [tau: è la ventitreesima e ultima lettera dell'alfabeto ebraico] i membri del futuro Israele; Apocalisse 7,4 (i santi sono segnati col segno dell'agnello).

c.   sigillo dello Spirito della promessa. “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso” (Ef 1,13); “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione” (Ef 4,30). A questo proposito commenta Cirillo di Gerusalemme: “Dopo la fede ed essendo stati circoncisi nel battesimo ad opera dello Spirito Santo, ci è imposto, come ad Abramo, lo sphragìs spirituale”.

 

Il commento dei Padri al “segno della croce”:

La croce, nostra gloria e nostra forza. “Nessuno, dunque, si vergogni dei segni sacri e venerabili della nostra salvezza, della croce che è la somma e il vertice dei nostri beni, per la quale noi viviamo e siamo ciò che siamo. Portiamo ovunque la croce di Cristo, come una corona. Tutto ciò che ci riguarda si compie e si consuma attraverso di essa. Quando noi dobbiamo essere rigenerati dal battesimo, la croce è presente; se ci alimentiamo di quel mistico cibo che è il corpo di Cristo, se ci vengono imposte le mani per essere consacrati ministri del Signore, e qualsiasi altra cosa facciamo, sempre e ovunque ci sta accanto e ci assiste questo simbolo di vittoria. Di qui il fervore con cui noi lo conserviamo nelle nostre case, lo dipingiamo sulle nostre pareti, lo incidiamo sulle porte, lo imprimiamo sulla nostra fronte e nella nostra mente, lo portiamo sempre nel cuore. La croce è infatti il segno della nostra salvezza e della comune libertà del genere umano, è il segno della misericordia del Signore che per amor nostro si è lasciato condurre come pecora al macello (Is 53,7; cf. At 8,32). Quando, dunque, ti fai questo segno, ricorda tutto il mistero della croce e spegni in te l'ira e tutte le altre passioni. E ancora, quando ti segni in fronte, riempiti di grande ardimento e rida' alla tua anima la sua libertà. Conosci bene infatti quali sono i mezzi che ci procurano la libertà. Anche Paolo per elevarci alla libertà che ci conviene ricorda la croce e il sangue del Signore: A caro prezzo siete stati comprati. Non fatevi schiavi degli uomini (1Cor 7,23). Considerate, egli sembra dire, quale prezzo è stato pagato per il vostro riscatto e non sarete più schiavi di nessun uomo; e chiama la croce “prezzo” del riscatto.

Non devi quindi tracciare semplicemente il segno della croce con la punta delle dita, ma prima devi inciderlo nel tuo cuore con fede ardente. Se lo imprimerai in questo modo sulla tua fronte, nessuno dei demoni impuri potrà restare accanto a te, in quanto vedrà l'arma con cui è stato ferito, la spada da cui ha ricevuto il colpo mortale. Se la sola vista del luogo dove avviene l'esecuzione dei criminali fa fremere d'orrore, immagina che cosa proveranno il diavolo e i suoi demoni vedendo l'arma con cui Cristo sgominò completamente il loro potere e tagliò la testa del dragone (cf. Ap 12,1ss; Ap 20,1ss).

Non vergognarti, dunque, di così grande bene se non vuoi che anche Cristo si vergogni di te quando verrà nella sua gloria e il segno della croce apparirà più luminoso dei raggi stessi del sole. La croce avanzerà allora e il suo apparire sarà come una voce che difenderà la causa del Signore di fronte a tutti gli uomini e dimostrerà che nulla egli tralasciò di fare - di quanto era necessario da parte sua - per assicurare la nostra salvezza. Questo segno, sia ai tempi dei nostri padri come oggi, apre le porte che erano chiuse, neutralizza l'effetto mortale dei veleni, annulla il potere letale della cicuta, cura i morsi dei serpenti velenosi. Infatti, se questa croce ha dischiuso le porte dell'oltretomba, ha disteso nuovamente le volte del cielo, ha rinnovato l'ingresso del paradiso, ha distrutto il dominio del diavolo, c'è da stupirsi se essa ha anche vinto la forza dei veleni, delle belve e di altri simili mortali pericoli?

Imprimi, dunque, questo segno nel tuo cuore e abbraccia questa croce, cui dobbiamo la salvezza delle nostre anime. E' la croce infatti che ha salvato e convertito tutto il mondo, ha bandito l'errore, ha ristabilito la verità, ha fatto della terra cielo, e degli uomini angeli. Grazie a lei i demoni hanno cessato di essere temibili e sono divenuti disprezzabili; la morte non è più morte, ma sonno” (Giovanni Crisostomo, Commento al Vangelo di san Matteo, 54,4-5)

La croce come contrassegno dei credenti. “Il legno della vita è stato piantato nella terra perché questa, dapprima esecrata, ottenesse la benedizione e i morti venissero liberati. Non vergogniamoci allora di confessare il Crocifisso. In qualsiasi occasione, con fede, tracciamo con le dita un segno di croce: quando mangiamo il pane o beviamo, quando entriamo o usciamo, prima di addormentarci, quando siamo coricati e quando ci alziamo, sia che siamo in movimento o rimaniamo al nostro posto. E' un aiuto efficace: gratuito, per i poveri e, per chi è debole, non richiede alcuno sforzo. Si tratta infatti d'una grazia di Dio: contrassegno dei fedeli e terrore dei demoni. Con questo segno, infatti, il Signore ha trionfato su di essi, esponendoli alla pubblica derisione (cf. Col 2,15). Allorché, dunque, vedranno la croce, essi si ricorderanno del Crocifisso e avranno timore di colui che ha abbattuto le teste del dragone. Non disprezzare, perciò, quel segno, soltanto perché è un dono; al contrario, onora per questo ancor di più il tuo benefattore” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi battesimali, 13,35-36).

 

Fondazione dell'uso del segno della croce. “Non vergogniamoci della croce del Cristo, ma, anche se un altro lo fa di nascosto, tu segnati in fronte davanti a tutti, di maniera che i demoni, vedendo quel regal simbolo, fuggano via tremando. Fa' il segno della croce quando mangi e bevi, quando stai seduto o coricato, quando ti alzi, quando parli, quando cammini: in qualsiasi circostanza, insomma. Colui il quale, infatti, è stato quaggiù crocifisso, si trova adesso nell'alto dei cieli. Se, certo, dopo esser stato crocifisso e sepolto, egli fosse rimasto nel sepolcro, allora sì che avremmo ragione di arrossire! Chi è stato crocifisso su questo Golgota, invece, dal Monte degli Ulivi, situato ad oriente (cf. Zc 14,4), ascese al cielo (cf. Lc 24,50). Egli infatti, dopo esser disceso dalla terra negli inferi e, di laggiù, tornato nuovamente presso di noi, risalì ancora una volta dal nostro mondo al cielo, mentre il Padre, acclamandolo, si rivolgeva a lui dicendo: Siedi alla mia destra, finché avrò posto i tuoi nemici a scanno dei tuoi piedi (Sal 109,1)” (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi battesimali, 4,14).

 


7.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: ICONOGRAFIA, ICONOLOGIA, ICONOSOFIA.

Da sempre la Croce e il Crocifisso rivestono un ruolo importante nell'arte cristiana. Il più antico monumento con croce cristiana è ritenuta la iscrizione di Palmira del 136; seguono le iscrizioni di Dura Europos e di Medula in Siria (232 e 197-98). Nei cimiteri cristiani occidentali, nessuna croce precostantiniana è datata; l'iscrizione di s. Rufina a s. Callisto la si data non oltre la fine del II sec. Dopo il ritrovamento della croce a Gerusalemme, essa appare sui sarcofagi come crux invicta, che assume nell'iconografia le modulazioni di simbolo o trofeo (tropaion) di vittoria, sia portata come il labarum romano sia come sostitutiva ad es. del sepolcro (come anastasis), così come appare nei sarcofagi postcostantiniani detti della “passione”.

La raffigurazione umana del crocifisso, se si eccettua il graffito del Palatino del secolo II (un crocifisso con la testa d'asino), non la si riscontra sino alla prima metà del secolo V. La più antica (Cristo nudo sulla croce) finora nota è conservata al British Museum di Londra (420-430) e, di poco più tardi, dovrebbe essere la raffigurazione del pannello della porta lignea di s. Sabina (il primo in alto a sinistra).

Nella seconda metà del secolo VI, si sviluppò in Oriente una raffigurazione drammatica della crocifissione con Cristo in croce vestito di colobium che abbiamo, nella fase matura, nell'Evangelario di Rabbula (586). Un tipo similare ma più simbolico, che si affermò molto nell'arte cristiana posteriore, è il tipo che si ha sulle ampolle di Monza e di Bobbio. E' il Christus victor con lo scettro crucigero che celebra la vittoria sulla morte (il dittico dei Barberini al Louvre, della prima metà del secolo VI) oppure vestito da imperatore con la croce che troneggia al centro (l'avorio del museo delle Belle Arti di Lione, anch'esso del secolo VI); è il Christus cosmocrator che ha attorno a sé la partecipazione della natura alla sua crocifissione (generalmente il sole e la luna).

Il primo esempio cimiteriale di raffigurazione umana del crocifisso si ha nel cimitero di s. Valentino (sec. VII).

Al di là di questi esempi, va ricordato che l'immagine di Cristo in croce è entrata tardi nella iconografia. I primi tentativi furono quelli di porre un agnello al centro della croce. L'uso di questo simbolismo iniziò in Oriente e ben presto giunse in Occidente, come per esempio nei mosaici di Ravenna e in S. Marco a Venezia.

Questa  formula  iconografica, certo involontariamente, prestava il fianco alla tesi dell'eresia monofisita che riconoscendo in Cristo la sola natura divina, considerava il sacrificio della croce in chiave puramente simbolica. Le sette monofisite si rifiutavano di rappresentare il Cristo inchiodato alla croce, pur accettando di mettervi l'agnello.

I Padri del Concilio Trullano (692) avvertirono questo pericolo che incontrava la rappresentazione simbolica della crocifissione di Cristo e dichiararono: “Dopo aver accolto dapprima queste figure e queste ombre come segni ed emblemi, noi oggi preferiamo ad essi la grazia e la verità vale a dire la pienezza della fede. In conseguenza, e perché la perfezione sia esposta a tutti gli sguardi anche per mezzo delle pitture, noi decretiamo che in futuro nelle immagini si dovrà rappresentare il Cristo nostro Dio sotto la forma umana al posto dell'agnello. E' necessario che il pittore ci conduca per mano al ricordo di Gesù vivente nella carne, sofferente, che muore per la nostra salute e opera così la redenzione del mondo “.

L'anno 692 segnò la data di approvazione ecclesiastica di tutti quei Crocifissi realistici, il cui numero, a partire da quest'epoca, andrà continuamente crescendo, a partire dall'Oriente; l'Occidente sarà assai più lento ad abbandonare il simbolismo dell'agnello. Così l'arte greca o bizantina ebbe la sua influenza in Occidente e particolarmente in Italia, ove, nell'epoca carolingia, come in quella precedente, abbondano le opere bizantine.

Il Cristo dei Crocifissi bizantini appare come il “padrone di tutto” (cosmocrator), che può quel che vuole, un Dio trionfatore pur nell'umanità umiliata e dolorante. I suoi occhi sono aperti, quasi spalancati, con lo sguardo fisso innanzi a sé. Il suo corpo resta diritto e spesso vestito da una tunica, il colobion, che cade fino ai piedi. E' la più antica iconografia del “Christus triumphans”. S. Giovanni Crisostomo può esclamare: “Io lo vedo crocifisso e lo chiamo Re”.

Verso il sec. VIII la rappresentazione del Crocifisso, e delle immagini in genere, attraversò un periodo di forte crisi che va sotto il nome di iconoclastìa.[24] L'argomento più forte contro l'iconoclastia, formulato dal padre della Chiesa siriano Giovanni Damasceno, è che essa nega uno dei principi fondamentali della fede cristiana, la dottrina dell'Incarnazione. Secondo i difensori delle immagini, la nascita umana di Cristo ne aveva reso possibile le rappresentazioni, che in qualche misura condividono la divinità del loro prototipo; il rifiuto di questa immagine comportava automaticamente, quindi, il rifiuto del loro modello. «Quando vedrai Colui che non ha corpo diventare uomo a causa di te, allora puoi eseguire la rappresentazione del suo aspetto umano. Quando l'Invisibile, rivestitosi di carne, diviene visibile, allora rappresenta Colui che è apparso. Quando Colui che è l'immagine consustanziale del Padre si è spogliato assumendo l'immagine del servo (Fil 2,6-7), divenendo così limitato nella quantità e nella qualità per aver rivestito l'immagine carnale, allora dipingi… ed esponi alla vista di tutti Colui che ha voluto manifestarsi».[25]

La lotta iconoclasta sviluppò in Oriente la teologia dell'icona, che poi è la teologia della bellezza. Secondo i Padri il primo iconoclasta è stato l'assassino Caino, tenuto conto che il primo iconografo è Dio stesso che crea l'uomo «kat'eikòna hemetèran kai kath'homoìosin: ad immagine e somiglianza nostra» (Gen 1,26). Il «creatore» è visto come il poitès, la «creazione» come poiesis, il «creato» come poiema.

Nella pienezza dei tempi, Cristo, il nuovo Adamo, è la vera immagine (eikon)del Dio invisibile (Col 1,15; 2 Cor 4,4) e noi, per la potenza dello Spirito del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria (2 Cor 3,18). Pertanto si può dire: il Padre, poietès, è il primo e principale «iconografo»; il Figlio, Logos-Verbum, è il principale «iconologo», cioè l'interprete, il rivelatore; lo Spirito Santo è il principale «iconosofo», la sophìa-sapienza, colui che dà sapore-significato alle realtà create.[26]

Ne consegue che tutta la vita cristiana è una iconografìa, iniziata con il Battesimo; è una iconologìa, in forza dell'illuminazione evangelica; è una iconosofìa, a motivo della santità vissuta nello Spirito che riproduce la bellezza nell'uomo definitivamente compiuto-perfetto in Cristo (téleios en Christò: Col 1,28).

Questa teologia dell'icona applicata alla Croce e al Crocifisso, si protrae sino alla fine del sec. XII e nel primo trentennio del secolo seguente quando subentra, in Occidente, un tipo iconografico di transizione che modifica i canoni della pittura bizantina. E' il Christus patiens stilizzato nella tensione dolorosa del volto sofferente e piagato, contorto, gli occhi chiusi, con il capo lievemente inclinato a destra.. Furono gli ordini mendicanti con la loro mistica del dolore che mutarono radicalmente l'iconografia del Cristo trionfante in una visione sofferente, il cui apice fu raggiunto nel periodo gotico e prolungato con altri canoni stilistici per tutto il Quattrocento. Si potrebbe quasi parlare di un monofisismo all'incontrario: lentamente scompare la divinità nel Crocifisso («Padre, tutto è compiuto… nelle tue mani consegno il mio spirito») e si fa preponderante la sua umanità sofferente («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!»).

Per citare qualche esemplare. Al tipo del Christus triumphans appartengono la Croce del duomo di Sarzana dipinta da un certo Guglielmo nel 1138 e quella del duomo di Spoleto dipinta da Alberto Sotio. Al tipo del Christus patiens appartengono invece i Crocifissi di Giunta Pisano, Cimabue e dello stesso Giotto.

Tutta la letteratura e l'arte del medioevo dimostrano che nella fede cristiana la croce storica continua ad agire in senso soteriologico, in quanto segno dell'attualità della salvezza, e in senso escatologico, in quanto segno della speranza di salvezza. La croce, segno rappresentativo del Cristo quale Signore risorto e innalzato, a partire dal secolo XI si trova sempre sopra l'altare delle chiese.

Il processo evolutivo dalla mortificazione mistica medievale alla mistica esaltazione barocca avviene nel Rinascimento, quando la figura del Crocifisso viene umanizzata con lo studio naturalistico del nudo.

Con Michelangelo (1475-1564) si ha la riscoperta del Crocifisso vivente, erculeo, con gli occhi aperti, quasi ribelle al supplizio. Si vuol esprimere con grande forza drammatica il binomio umano-divino, disperazione-speranza.

Il Crocifisso di Michelangelo ebbe grande successo e fu ripreso, in ambiente fiorentino, da altri scultori come il Giambologna che verso il 1578 ripropone il Crocifisso vivente, ma in atteggiamento più disteso e composto. Ciò si deve, probabilmente, ad alcune disposizioni del Concilio di Trento che, parlando della devozione al Cristo Redentore, vuole che si evidenzi la vittoria e il trionfo sulla morte. I Crocifissi di questa epoca (Sei-Settecento) sono rappresentati con lo splendore del volto che fuga le tenebre (la verità che fuga l'eresia?). Il volto del Cristo è vivo e circondato da una aureola radiosa e da lampi di luce su sfondo tenebroso. Questa rappresentazione nell'ambito veneto si enuclea essenzialmente nel Crocifissi del Tintoretto (Chiesa dei Gesuati a Venezia, 1562 circa) e del Veronese (verso il 1588) in Palazzo Bianco a Genova.

Drammatiche riprese del modello Michelangiolesco sono invece i Crocifissi dipinti da El Greco (1541-1614). Buona sorte ebbe il Crocifisso di Guido Reni (1575-1642), col viso estatico, il corpo privo di sofferenza, rilassato, con gli occhi aperti in atteggiamento orante verso l'alto; questo modello influenzò tutto il Seicento ed artisti come il Guercino, l'Algardi.

Ci fermiamo qui per sottolineare che, al di là delle varie espressioni artistiche del Cristo crocifisso, la Croce è stata sempre l'immagine vitale e gioiosa della speranza nella vittoria sulla morte. Il Crocifisso, non meno che il Cristo trasfigurato sul Tabor, appare come Colui che si fa carico dei peccati dell'umanità e, superato il dolore fisico, lancia al credente un messaggio di speranza nella vita eterna, senso ultimo dell'umana esistenza.


 

8.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: RIFLESSIONI DAL MAGISTERO E DALLA TEOLOGIA CONTEMPORANEA.

 

Non solo ai tempi di S. Paolo, ma ancor più oggi, la croce è per molti «scandalo» e «follia»; ma proprio la ragione del suo scandalo - l'amore gratuito, misericordioso e onnipotente di Dio per gli uomini - è per i credenti la ragione della sua potenza e della sua verità. La croce ha due facce, l'apparente sconfitta e la vittoria, il Crocifisso e il Risorto. Mostra tutta la malvagità e la miseria dell'uomo che non esita a condannare il Figlio di Dio innocente; ma anche tutta la profondità e l'efficacia del perdono di Dio. L'ultima parola non è il peccato, ma l'amore! Qui, e non altrove, va cercata la vera ragione della speranza cristiana, la lieta notizia che dà senso e spessore alla vita e alla storia, nonostante i fallimenti.

Dopo la testimonianza dei Padri e delle Liturgie, sarà utile rileggere alcune tra le pagine più significative del Magistero e della Teologia contemporanea sull'Evangelo della Croce.

 

8.1.            Il Mistero Pasquale. Misericordia rivelata nella croce e nella risurrezione

[…]

7. Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell'enciclica Redemptor hominis. Se, infatti, la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana svela la grandezza inaudita dell'uomo, che meritò di avere un così grande redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e "storico", di svelare la profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fin dal "principio" scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.

 

Gli eventi del venerdì santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono in tutto il corso della rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che "passò beneficando e risanando" e "curando ogni malattia e infermità" sembra ora egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti.E' allora che merita particolarmente la misericordia dagli uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia, pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: "Per le sue piaghe noi siamo stati guariti".

Cristo, come uomo che soffre realmente e in modo terribile nell'Orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al Padre, a quel Padre, il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata - proprio a lui - la tremenda sofferenza della morte in croce: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore", scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo - nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma "lo trattò da peccato in nostro favore" - si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una "sovrabbondanza" della giustizia, perché i peccati dell'uomo vengono "compensati" dal sacrificio dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia "su misura" di Dio, nasce tutta dall'amore: dall'amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore. Proprio per questo la giustizia divina, rivelata nella croce di Cristo, è "su misura" di Dio, perché nasce dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità, che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sè la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.

 

Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione e attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell'ordine salvifico, che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e, mediante l'uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell'amore, di cui l'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è stato gratificato secondo l'eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. E' l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito santo. Infatti, colui che ama desidera donare se stesso.

 

La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quel meraviglioso scambio, di quel mirabile comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all'uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sè tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, e affinché come figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell'amore, che è in Dio e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell'eterna elezione dell'uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come "luce da luce, Dio vero da Dio vero", è venuto a dare l'ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo, con ogni uomo. Questa alleanza, antica come l'uomo - risale al mistero stesso della creazione - e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l'alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno.

 

Che cosa, dunque, ci dice la croce di Cristo, che è, in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e della sua missione messianica? Eppure, questa non è ancora l'ultima parola del Dio dell'alleanza: essa sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta l'annuncio: "E' risorto". Essi lo ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del Figlio di Dio continua ad essere presente la croce, la quale - attraverso tutta la testimonianza messianica dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subìto la morte - parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, poiché "ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna". Credere nel Figlio crocifisso significa "vedere il Padre", significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male, in cui l'uomo, l'umanità, il mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa, infatti, è la dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione e attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo "perire nella Geenna".

 

Amore più potente della morte e del peccato

8. La croce di Cristo sul Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza "fino alla morte". Colui, che era senza peccato, "Dio lo trattò da peccato in nostro favore". Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della storia dell'uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva - mediante la propria morte - infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio, consostanziale al Padre, rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell'amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e alla morte.

 

La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripetè poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male, di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo, infatti, ci fa comprendere le più profonde radici del male, che affondano nel peccato e nella morte, e così diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo "è risuscitato il terzo giorno" costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno, che preannuncia "un nuovo cielo e una nuova terra", quando Dio "tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, nè lutto, nè lamento, nè affanno, perché le cose di prima sono passate".

 

Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia e anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo - programma di misericordia - diviene il programma del suo popolo, il programma della chiesa. Al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che "le cose di prima" non passeranno, la croce rimarrà quel "luogo", al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di Giovanni: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me". In modo particolare, Dio rivela anche la sua misericordia, quando sollecita l'uomo alla "misericordia" verso il suo proprio Figlio, verso il Crocifisso.

 

Cristo, appunto come Crocifisso, è il Verbo che non passa, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo, senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà l'amore, che non è soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell'uomo, ma anche, in certo modo, "misericordia" manifestata da ognuno di noi al Figlio dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui che contemporaneamente "manifesta la misericordia"?

 

In definitiva, Cristo non prende forse tale posizione nei riguardi dell'uomo, quando dice: "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me"? Le parole del discorso della montagna: "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia", non costituiscono, in un certo senso, una sintesi di tutta la buona novella, di tutto il "mirabile scambio" ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte e insieme "dolce" dell'economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del cuore umano ("essere misericordiosi"), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, in cui l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che, a sua volta, rivela la perfezione della giustizia?

 

Il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell'inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: "Chi ha visto me, ha visto il Padre". Infatti Cristo, che il Padre "non ha risparmiato" in favore dell'uomo e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. "Non è un Dio dei morti, ma dei viventi". Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla risurrezione. Ed è per questo che - quando ricordiamo la croce di Cristo, la sua passione e morte - la nostra fede e la nostra speranza s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo, che "la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato... si fermò in mezzo loro" nel cenacolo, "dove si trovavano i discepoli,... alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi".

 

Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sè la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine - e, in certo senso, già oltre il termine - della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico e insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del salmo: "Canterò in eterno le misericordie del Signore".

[GIOVANNI PAOLO II, Littera enciclica Dives in misericordia ai Vescovi, sacerdoti e fedeli di tutta la Chiesa cattolica sulla divina misericordia, 30 novembris 1980: AAS 72 (1980) 117-1232; OR 3 dic. 1980; EV 7, 857-956]

 

8.2.             Partecipi alle sofferenze di Cristo

[…]

19. Il medesimo carme del Servo sofferente nel libro di Isaia ci conduce, attraverso i versetti successivi, proprio nella direzione di questo interrogativo e di questa risposta:

"Quando offrirà se stesso in espiazione,

vedrà una discendenza, vivrà a lungo,

si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.

Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce

e si sazierà della sua conoscenza,

il giusto mio servo giustificherà molti,

egli si addosserà la loro iniquità.

Perciò io gli darò in premio le moltitudini,

dei potenti egli farà bottino,

perché ha consegnato se stesso alla morte

ed è stato annoverato fra gli empi

mentre egli portava il peccato di molti

e intercedeva per i peccatori".

 

Si può dire che insieme con la passione di Cristo ogni sofferenza umana si è trovata in una nuova situazione. Ed è come se Giobbe l’avesse presentita, quando diceva: "Io so infatti che il mio Redentore vive...", e come se avesse indirizzato verso di essa la propria sofferenza, la quale senza la redenzione non avrebbe potuto rivelargli la pienezza del suo significato. Nella croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo - senza nessuna colpa propria - si è addossato "il male totale del peccato".

L’esperienza di questo male determinò l’incomparabile misura della sofferenza di Cristo, che diventò il prezzo della redenzione. Di questo parla il carme del Servo sofferente di Isaia. A loro tempo, di questo parleranno i testimoni della nuova alleanza, stipulata nel sangue di Cristo. Ecco le parole dell’apostolo Pietro dalla sua prima lettera: "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma col sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia". E l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati dirà: "Ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso", e nella prima lettera ai Corinzi: "Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!".

 

Con queste ed altre simili parole i testimoni della nuova alleanza parlano della grandezza della redenzione, che si è compiuta mediante la sofferenza di Cristo. Il Redentore ha sofferto al posto dell’uomo e per l’uomo. Ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione. Ognuno è anche chiamato a partecipare a quella sofferenza, mediante la quale si è compiuta la redenzione. È chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata anche redenta. Operando la redenzione mediante la sofferenza, Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo.

 

20. I testi del Nuovo Testamento esprimono in molti punti questo concetto. Nella seconda lettera ai Corinzi l'Apostolo scrive: "Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale..., convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù".

 San Paolo parla delle diverse sofferenze e, in particolare, di quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani "a causa di Gesù". Queste sofferenze permettono ai destinatari di quella lettera di partecipare all'opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Redentore. L'eloquenza della croce e della morte viene tuttavia completata con l'eloquenza della risurrezione.

L'uomo trova nella risurrezione una luce completamente nuova, che lo aiuta a farsi strada attraverso il fitto buio delle umiliazioni, dei dubbi, della disperazione e della persecuzione. Perciò, l'Apostolo scriverà anche nella seconda lettera ai Corinzi: "Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione". Altrove egli si rivolge ai suoi destinatari con parole d'incoraggiamento: "Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e nella pazienza di Cristo". E nella lettera ai Romani scrive: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio: è questo il vostro culto spirituale".

 

La partecipazione stessa alla sofferenza di Cristo trova, in queste espressioni apostoliche, quasi una duplice dimensione. Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all'uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato.

 Questa scoperta dettò a san Paolo parole particolarmente forti nella lettera ai Galati: "Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita, che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me". La fede permette all'autore di queste parole di conoscere quell'amore, che condusse Cristo sulla croce. E se amò così, soffrendo e morendo, allora con questa sua sofferenza e morte egli vive in colui che amò così, egli vive nell'uomo: in Paolo. E vivendo in lui - man mano che Paolo, consapevole di ciò mediante la fede, risponde con l'amore al suo amore - Cristo diventa anche in modo particolare unito all'uomo, a Paolo, mediante la croce.

Quest'unione ha dettato a Paolo, nella stessa lettera ai Galati, ancora altre parole, non meno forti: "Quanto a me invece, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo".

 

21. La croce di Cristo getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell'uomo e, in particolare, sulla sua sofferenza, perché mediante la fede lo raggiunge insieme con la risurrezione: il mistero della passione è racchiuso nel mistero pasquale. I testimoni della passione di Cristo sono contemporaneamente testimoni della sua risurrezione. Scrive Paolo: "Perché io possa conoscere lui (Cristo), la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti". Veramente, l'Apostolo prima sperimentò "la potenza della risurrezione" di Cristo sulla via di Damasco, e solo in seguito, in questa luce pasquale, giunse a quella "partecipazione alle sue sofferenze", della quale parla, ad esempio, nella lettera ai Galati.

La via di Paolo è chiaramente pasquale: la partecipazione alla croce di Cristo avviene attraverso l'esperienza del Risorto, dunque mediante una speciale partecipazione alla risurrezione. Perciò, anche nelle espressioni dell'Apostolo sul tema della sofferenza appare così spesso il motivo della gloria, alla quale la croce di Cristo dà inizio.

 

I testimoni della croce e della risurrezione erano convinti che "è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio". E Paolo, scrivendo ai Tessalonicesi, dice così: "Possiamo gloriarci di voi... per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale ora soffrite". Così dunque la partecipazione alle sofferenze di Cristo è, al tempo stesso, sofferenza per il Regno di Dio. Agli occhi del Dio giusto, di fronte al suo giudizio, quanti partecipano alle sofferenze di Cristo diventano degni di questo Regno. Mediante le loro sofferenze essi, in un certo senso, restituiscono l'infinito prezzo della passione e della morte di Cristo, che divenne il prezzo della nostra redenzione: a questo prezzo il regno di Dio è stato nuovamente consolidato nella storia dell'uomo, divenendo la prospettiva definitiva della sua esistenza terrena. Cristo ci ha introdotti in questo Regno mediante la sua sofferenza. E anche mediante la sofferenza maturano per esso gli uomini avvolti dal mistero della redenzione di Cristo.

 

22. Alla prospettiva del regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella croce di Cristo. La risurrezione ha rivelato questa gloria - la gloria escatologica - che nella croce di Cristo era completamente offuscata dall'immensità della sofferenza. Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo sono anche chiamati, mediante le loro proprie sofferenze, a prender parte alla gloria. Paolo esprime questo in diversi punti. Scrive ai Romani: "Siamo ...coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria. Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura, che dovrà essere rivelata in noi". Nella seconda lettera ai Corinzi leggiamo: "Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili". L'apostolo Pietro esprimerà questa verità nelle seguenti parole della sua prima lettera: "Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare".

 

Il motivo della sofferenza e della gloria ha la sua caratteristica strettamente evangelica, che si chiarisce mediante il riferimento alla croce e alla risurrezione. La risurrezione è diventata prima di tutto la manifestazione della gloria, che corrisponde all'elevazione di Cristo per mezzo della croce. Se, infatti, la croce è stata agli occhi degli uomini lo spogliamento di Cristo, nello stesso tempo essa è stata agli occhi di Dio la sua elevazione. Sulla croce Cristo ha raggiunto e realizzato in tutta pienezza la sua missione: compiendo la volontà del Padre, realizzò insieme se stesso. Nella debolezza manifestò la sua potenza, e nell'umiliazione tutta la sua grandezza messianica. Non sono forse una prova di questa grandezza tutte le parole pronunciate durante l'agonia sul Golgota e, specialmente, quelle riguardanti gli autori della crocifissione: "Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno"? A coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo queste parole si impongono con la forza di un supremo esempio. La sofferenza è anche una chiamata a manifestare la grandezza morale dell'uomo, la sua maturità spirituale. Di ciò hanno dato la prova, nelle diverse generazioni, i martiri e i confessori di Cristo, fedeli alle parole: "E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima".

 La risurrezione di Cristo ha rivelato "la gloria del secolo futuro" e, contemporaneamente, ha confermato "il vanto della croce": quella gloria che è contenuta nella sofferenza stessa di Cristo, e quale molte volte si è rispecchiata e si rispecchia nella sofferenza dell'uomo, come espressione della sua spirituale grandezza. Bisogna dare testimonianza di questa gloria non solo ai martiri della fede, ma anche a numerosi altri uomini, che a volte, pur senza la fede in Cristo, soffrono e dànno la vita per la verità e per una giusta causa. Nelle sofferenze di tutti costoro viene confermata in modo particolare la grande dignità dell'uomo.

 

23. La sofferenza, infatti, è sempre una prova - a volte una prova alquanto dura -, alla quale viene sottoposta l'umanità. Dalle pagine delle lettere di san Paolo più volte parla a noi quel paradosso evangelico della debolezza e della forza, sperimentato in modo particolare dall'Apostolo stesso e che insieme con lui provano tutti coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo. Egli scrive nella seconda lettera ai Corinzi: "Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo". Nella seconda lettera a Timoteo leggiamo: "E' questa la causa dei mali che soffro, ma non me ne vergogno: so infatti a chi ho creduto". E nella lettera ai Filippesi dirà addirittura: "Tutto posso in colui che mi dà la forza".

 Coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo hanno davanti agli occhi il mistero pasquale della croce e della risurrezione, nel quale Cristo discende, in una prima fase, sino agli ultimi confini della debolezza e dell'impotenza umana: egli, infatti, muore inchiodato sulla croce. Ma se al tempo stesso in questa debolezza si compie la sua elevazione, confermata con la forza della risurrezione, ciò significa che le debolezze di tutte le sofferenze umane possono essere permeate dalla stessa potenza di Dio, quale si è manifestata nella croce di Cristo. In questa concezione soffrire significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente aperti all'opera delle forze salvifiche di Dio, offerte all'umanità in Cristo. In lui Dio ha confermato di voler agire specialmente per mezzo della sofferenza, che è la debolezza e lo spogliamento dell'uomo, e di voler proprio in questa debolezza e in questo spogliamento manifestare la sua potenza. Con ciò si può anche spiegare la raccomandazione della prima lettera di Pietro: "Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome".

 

Nella lettera ai Romani l'apostolo Paolo si pronuncia ancora più ampiamente sul tema di questo "nascere della forza nella debolezza", di questo ritemprarsi spirituale dell'uomo in mezzo alle prove e alle tribolazioni, che è la speciale vocazione di coloro che sono partecipi delle sofferenze di Cristo: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo, che ci è stato dato".Nella sofferenza è come contenuta una particolare chiamata alla virtù, che l'uomo deve esercitare da parte sua. E questa è la virtù della perseveranza nel sopportare ciò che disturba e fa male. L'uomo, così facendo, sprigiona la speranza, che mantiene in lui la convinzione che la sofferenza non prevarrà sopra di lui, non lo priverà della dignità propria dell'uomo unita alla consapevolezza del senso della vita. Ed ecco, questo senso si manifesta insieme con l'opera dell'amore di Dio, che è il dono supremo dello Spirito santo. Man mano che partecipa a questo amore, l'uomo si ritrova fino in fondo nella sofferenza: ritrova "l'anima", che gli sembrava di aver "perduto" a causa della sofferenza.

 

24. Tuttavia, le esperienze dell'Apostolo, partecipe delle sofferenze di Cristo, vanno ancora oltre. Nella lettera ai Colossesi leggiamo le parole, che costituiscono quasi l'ultima tappa dell'itinerario spirituale in relazione alla sofferenza. San Paolo scrive: "Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa". Ed egli in un'altra lettera interroga i suoi destinatari: "Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?".

 Nel mistero pasquale Cristo ha dato inizio all'unione con l'uomo nella comunità della Chiesa. Il mistero della Chiesa si esprime in questo: che già all'atto del battesimo, che configura a Cristo, e poi mediante il suo sacrificio - sacramentalmente mediante l'eucaristia - la Chiesa di continuo si edifica spiritualmente come corpo di Cristo. In questo corpo Cristo vuole essere unito con tutti gli uomini, ed in modo particolare egli è unito con coloro che soffrono. Le citate parole della lettera ai Colossesi attestano l'eccezionale carattere di questa unione. Ecco, infatti, colui che soffre in unione con Cristo - come in unione con Cristo sopporta le sue "tribolazioni" l'apostolo Paolo - non solo attinge da Cristo quella forza, della quale si è parlato precedentemente, ma anche "completa" con la sua sofferenza "quello che manca ai patimenti di Cristo". In questo quadro evangelico è messa in risalto, in modo particolare, la verità sul carattere creativo della sofferenza. La sofferenza di Cristo ha creato il bene della redenzione del mondo. Questo bene in se stesso è inesauribile ed infinito. Nessun uomo può aggiungervi qualcosa. Allo stesso tempo, però, nel mistero della Chiesa come suo corpo, Cristo in un certo senso ha aperto la propria sofferenza redentiva ad ogni sofferenza dell'uomo. In quanto l'uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo - in qualsiasi luogo del mondo e tempo della storia -, in tanto egli completa a suo modo quella sofferenza, mediante la quale Cristo ha operato la redenzione del mondo.

 

Questo vuol dire, forse, che la redenzione compiuta da Cristo non è completa? No. Questo significa solo che la redenzione, operata in forza dell'amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell'umana sofferenza. In questa dimensione - nella dimensione dell'amore - la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costantemente. Cristo ha operato la redenzione completamente e sino alla fine; al tempo stesso, però, non l'ha chiusa: in questa sofferenza redentiva, mediante la quale si è operata la redenzione del mondo, Cristo si è aperto sin dall'inizio, e costantemente si apre, ad ogni umana sofferenza. Sì, sembra far parte dell'essenza stessa della sofferenza redentiva di Cristo il fatto che essa richieda di essere incessantemente completata.

 

In questo modo, con una tale apertura ad ogni umana sofferenza, Cristo ha operato con la propria sofferenza la redenzione del mondo.

Infatti, al tempo stesso, questa redenzione, anche se compiuta in tutta la pienezza con la sofferenza di Cristo, vive e si sviluppa a suo modo nella storia dell'uomo. Vive e si sviluppa come corpo di Cristo, che è la Chiesa, ed in questa dimensione ogni umana sofferenza, in forza dell'unione nell'amore con Cristo, completa la sofferenza di Cristo. La completa così come la Chiesa completa l'opera redentrice di Cristo. Il mistero della Chiesa - di quel corpo che completa in sè anche il corpo crocifisso e risorto di Cristo - indica contemporaneamente quello spazio, nel quale le sofferenze umane completano le sofferenze di Cristo. Solo in questo raggio e in questa dimensione della Chiesa-corpo di Cristo, che continuamente si sviluppa nello spazio e nel tempo, si può pensare e parlare di "ciò che manca" ai patimenti di Cristo. L'Apostolo, del resto, lo mette chiaramente in rilievo, quando scrive del completamento di "quello che manca ai patimenti di Cristo in favore del suo corpo, che è la Chiesa".

 Proprio la Chiesa, che attinge incessantemente alle infinite risorse della redenzione, introducendola nella vita dell'umanità, è la dimensione nella quale la sofferenza redentrice di Cristo può essere costantemente completata dalla sofferenza dell'uomo. In ciò vien messa in risalto anche la natura divino umana della Chiesa. La sofferenza sembra partecipare in un qualche modo alle caratteristiche di questa natura. E perciò essa ha pure un valore speciale davanti alla Chiesa. Essa è un bene, dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione, in tutta la profondità della sua fede nella redenzione. Si inchina, insieme, in tutta la profondità di quella fede, con la quale essa abbraccia in se stessa l'inesprimibile mistero del corpo di Cristo.

[GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Salvifici doloris a tutti i Vescovi, sacerdoti, famiglie religiose e fedeli della Chiesa cattolica sul significato cristiano del dolore umano, 11 februarii 1984: AAS 76 (1984) 201-250; OR 11.02.1984; EV 9, 620-685]

 

8.3.             Beata colei che ha creduto.

[…]

18. Tale benedizione [beata colei che ha creduto] raggiunge la pienezza del suo significato, quando Maria sta sotto la croce di suo Figlio (cf. Gv 19,25). Il concilio afferma che ciò avvenne "non senza un disegno divino": "Soffrendo profondamente col suo unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata", in questo modo Maria "serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce": l’unione mediante la fede, la stessa fede con la quale aveva accolto la rivelazione dell’angelo al momento dell’annunciazione. Allora si era anche sentita dire: "Sarà grande ..., il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre ..., regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine" (Lc 1,32-33).

 

Ed ecco, stando ai piedi della croce, Maria è testimone, umanamente parlando, della completa smentita di queste parole. Il suo Figlio agonizza su quel legno come un condannato. "Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori ...; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima": quasi distrutto (cf. Is 53,3-5). Quanto grande, quanto eroica è allora l’obbedienza della fede dimostrata da Maria di fronte agli "imperscrutabili giudizi" di Dio (cf. Rm 11,33)! Come "si abbandona a Dio" senza riserve, "prestando il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà" a colui, le cui "vie sono inaccessibili" (cf. Rm 11,35)! Ed insieme quanto potente è l’azione della grazia nella sua anima, come penetrante è l’influsso dello Spirito santo, della sua luce e della sua virtù!

 

Mediante questa fede Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione. Infatti, "Gesù Cristo, ... pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini": proprio sul Golgota "umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce" (cf. Fil 2,6-8). Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. E' questa forse la più profonda "kenosi" della fede nella storia dell'umanità. Mediante la fede la madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice; ma, a differenza di quella dei discepoli che fuggivano, era una fede ben più illuminata. Sul Golgota Gesù mediante la croce ha confermato definitivamente di essere il "segno di contraddizione", predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: "E anche a te una spada trafiggerà l'anima" (Lc 2,35).

 

19. Sì, veramente "beata colei che ha creduto"! Queste parole, pronunciate da Elisabetta dopo l'annunciazione, qui, ai piedi della croce, sembrano echeggiare con suprema eloquenza, e la potenza in esse racchiusa diventa penetrante. Dalla croce, come a dire dal cuore stesso del mistero della redenzione, si estende il raggio e si dilata la prospettiva di quella benedizione di fede. Essa risale "fino all'inizio" e, come partecipazione al sacrificio di Cristo, nuovo Adamo, diventa, in certo senso, il contrappeso della disobbedienza e dell'incredulità, presenti nel peccato dei progenitori. Così insegnano i padri della chiesa e specialmente sant'Ireneo, citato dalla costituzione Lumen gentium: "Il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l'obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la fede". Alla luce di questo paragone con Eva, i padri - come ricorda ancora il concilio - chiamano Maria "madre dei viventi" e affermano spesso: "La morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria".

 

A ragione, dunque, nell'espressione "Beata colei che ha creduto" possiamo trovare quasi una chiave che ci schiude l'intima realtà di Maria: di colei che l'angelo ha salutato come "piena di grazia". Se come "piena di grazia" ella è stata eternamente presente nel mistero di Cristo, mediante la fede ne divenne partecipe in tutta l'estensione del suo itinerario terreno: "avanzò nella peregrinazione della fede", ed al tempo stesso, in modo discreto ma diretto ed efficace, rendeva presente agli uomini il mistero di Cristo. E ancora continua a farlo. E mediante il mistero di Cristo anch'ella è presente tra gli uomini. Così mediante il mistero del Figlio si chiarisce anche il mistero della Madre.

[GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris mater sulla beata Vergine Maria nella vita della Chiesa pellegrina [25.3.1987]: AAS 79 (1987) 361-433; OR 26.3.1987; EV 10, 1272-1421]

 

8.4.             La croce, prova del più grande amore

[…]

 29. Questo per dire a qual grado di rinuncia impegni la pratica della vita religiosa. Dovete dunque sperimentare qualcosa del peso che attirava il Signore verso la sua croce, questo "battesimo con cui doveva essere battezzato", ove si sarebbe acceso quel fuoco che infiamma anche voi; qualcosa di quella "follia" che san Paolo desidera per tutti noi, perché solo essa ci rende sapienti. La croce sia per voi, come è stata per il Cristo, la prova dell'amore più grande. Non esiste forse un rapporto misterioso tra la rinuncia e la gioia, tra il sacrificio e la dilatazione del cuore, tra la disciplina e la libertà spirituale?

[PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelica testificatio sul rinnovamento della vita religiosa, 29.06.1971: AAS 63 (1971) 497-526; EV 4, 1030]

 

 

8.5.             La croce alla luce della carità trinitaria.

[…]

14. Il Cristo crocifisso, «sapienza di Dio» (1Cor 1,24), è la Parola creatrice che dà esistenza e significato all'universo intero e che è venuta ad abitare in mezzo a noi (cf. Gv 1,1-4.14), la Verità fatta persona (cf. Gv 14,6) che rende libero (cf. Gv 8,32.36), illumina e salva ogni uomo (cf. Gv 1,4.9).

Per annunciare e testimoniare la grande e lieta notizia della carità di Dio per l'uomo occorre dunque annunciare e testimoniare tutt'intero il vangelo di Cristo: la sua parola, la sua esistenza, la sua croce e la sua risurrezione, la sua figliolanza divina. La verità che è Cristo non resta consegnata alla memoria del passato ma vive nella Chiesa (cf. 1Tm 3,15; Ef 3,10). Lo Spirito del Signore, che è «lo Spirito della verità», dimora infatti nei discepoli di Gesù e li guida alla verità tutta intera (cf. Gv 14,16-17; 16,13).

 E' una parola di verità che la Chiesa sa di dover vivere, annunciare e testimoniare nella carità, perché il suo contenuto centrale è tutto e solo carità. Perciò l'apostolo Giovanni può riassumere il «comandamento» di Dio per la Chiesa in questa duplice e inscindibile esigenza: «che crediamo nel nome del Figlio suo, Gesù Cristo, e ci amiamo gli uni gli altri» (1Gv 3,23).

 

15. Mostrandoci l'amore di Dio per noi, l'evento della croce di Gesù ci rivela dunque chi è Dio. E' il Padre che non «risparmia» il proprio Figlio unigenito (Rm 8,32) ma lo «consegna» per noi (Gv 3,16; 1Gv 4,10); è il Figlio che liberamente si consegna alla morte per amore nostro (Gal 2,20); è lo Spirito Santo, donato dal Figlio sulla croce a Maria e Giovanni, il nuovo Israele (Gv 19,25-30).

Credere che «Dio è carità» è confessare che egli, nella croce, si rivela a noi come infinito, gratuito e totale dono di sé: comunione libera e infinita dell'Amante, dell'Amato e del loro reciproco Amore (s. Agostino, De Trinitate , 8, 10, 14; 6, 5, 7). Questa carità, che è la vita di Dio, «viene riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Essa diventa, nei credenti, la partecipazione al dialogo di amore fra il Padre e il Figlio nella gioia dello Spirito. E' questa l'opera per cui Cristo è venuto fra noi: «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore col quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26).

[CEI, Documento pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per gli anni '90, Roma 8 dicembre 1990: ECEI 4/2718-2792.]

 

 

8.6.             L'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo o il problema della «sofferenza di Dio»

[…]

Nella teologia di oggi capita spesso, per motivi d'ordine storico o sistematico, che si pongano in dubbio l'immutabilità e l'impassibilità di Dio, soprattutto nel contesto d'una teologia della croce. Così sono sorte diverse concezioni teologiche della "sofferenza di Dio". Bisogna saper discernere le idee false dagli elementi conformi alla rivelazione biblica. Poiché la discussione su tale problema è ancora in corso, ci limitiamo a un primo cenno, che tuttavia vuole aprire la via alla soluzione della questione.

 

1. I sostenitori di questa teologia asseriscono che le loro idee si ritrovano nell'antico e nuovo testamento e presso alcuni padri. Ma l'influsso della filosofia moderna ha certo un peso maggiore, almeno nella sistematizzazione di questa teoria.

 

1.1. Hegel è il primo a postulare che, per ottenere il suo pieno contenuto, l'idea di Dio deve includere la "sofferenza del negativo", cioè la "durezza dell'abbandono" (die Haerte der Gottlosigkeit). In lui sussiste un'ambiguità fondamentale: Dio ha, o no, veramente bisogno del travaglio dell'evoluzione del mondo? Dopo Hegel, i teologi protestanti cosiddetti della kenosis e parecchi anglicani hanno sviluppato sistemi "staurocentrici", secondo cui la passione del Figlio tocca in modo diverso tutta la Trinità, e manifesta soprattutto la sofferenza del Padre che abbandona il Figlio, "poiché non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti" (Rm 8,32; cf. Gv 3,16); mostra inoltre la sofferenza dello Spirito santo che nella passione prende su di sè la "distanza" tra il Padre e il Figlio.

 

1.2. Secondo parecchi nostri contemporanei, questa sofferenza trinitaria ha il suo fondamento nell'essenza divina stessa; secondo altri, si fonda in una certa kenosis di Dio che crea, legandosi in qualche modo alla libertà della creatura o, infine, nel patto che Dio ha stipulato e col quale si obbliga liberamente a consegnare suo Figlio. I sostenitori di tale opinione ritengono che quest'atto di "consegnare il proprio Figlio" causa a Dio Padre una sofferenza più profonda di qualsiasi sofferenza dell'ordine creato.

 In questi ultimi anni, parecchi autori cattolici hanno fatto proprie simili proposizioni, ritenendo che il compito principale del crocifisso consistesse nel manifestare la passione del Padre.

 

2. L'Antico Testamento lascia spesso intendere - nonostante la trascendenza divina (cf. Ger 7,16-19) - che Dio è afflitto dai peccati degli uomini. Forse tutte queste espressioni non si possono spiegare come semplici antropomorfismi (cf. per esempio, Gn 6,6: "Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo"; Dt 4,25; Sal 78,41; Is 7,13; 63,10; Ger 12,7; 31,20; Os 4,6; 6,4; 11,8s). La teologia rabbinica è più forte ancora su questo argomento e parla, per esempio, di Dio che si abbandona a un lamento a motivo dell'alleanza che ha concluso e che lo vincola, o a causa della distruzione del tempio; e, nello stesso tempo, afferma la debolezza di Dio di fronte alle potenze del male (vedi i testi in P. Kuhn, "Gottes Trauer und Klage in der rabbinischen Uberlieferung", Leiden 1978, 170ss, 275ss).

 Nel Nuovo Testamento, le lacrime di Gesù Cristo (cf. Lc 19,41), la sua collera (cf. Mc 3,5) e la tristezza che prova (cf. Mt 17,17) sono esse pure manifestazioni d'un certo modo di comportarsi di Dio; altrove si afferma esplicitamente che Dio si adira (cf. Rm 1,18; 3,5; 9,22; Gv 3,36; Ap 15,1).

 

3. Senza dubbio, i padri sottolineano (contro le mitologie pagane) l'apatheia di Dio, senza negare per questo la sua compassione per la sofferenza del mondo. Per essi il termine apatheia indica il contrario di pathos, parola che designa una passione involontaria, imposta dall'esterno, o anche come conseguenza della natura decaduta.

Quando ammettono passioni naturali e innocenti (come la fame o il sogno), le attribuiscono a Gesù Cristo o a Dio in quanto egli sente compassione per le sofferenze umane (cf. Origene, Hom. in Ez. VI, 6; Comm. in Matth. XVII, 20; Sel. in Ez. 16; Comm. in Rom. VII, 9; De princ. IV, 4, 4). Talora si esprimono pure in forma dialettica: Dio in Gesù Cristo ha sofferto in un modo impassibile, perché lo ha fatto in virtù d'una libera scelta (Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum IV-VIII).

 

Secondo il concilio di Efeso (cf. la lettera di san Cirillo a Nestorio: COD 42), il Figlio s'appropria i dolori inflitti alla sua natura umana (oikeiosis); e i tentativi di ricondurre questa proposizione (e altre simili che figurano nella tradizione) alla semplice "comunicazione degli idiomi", non ne rendono a sufficienza il senso profondo. Ma la cristologia della chiesa non consente d'affermare formalmente che Gesù Cristo sia passibile secondo la sua divinità (cf. DS 16, 166, 196s, 284, 293s, 300, 318, 358, 504, 635, 801, 852).

 

4. Nonostante le cose dette or ora, i padri sopracitati affermano chiaramente l'immutabilità e l'impassibilità di Dio (per esempio, Origene, "Contra Celsum", IV, 14). Così, escludono assolutamente dall'essenza divina la mutabilità e quella passività che permetterebbe un passaggio dalla potenza all'atto (cf. Tommaso d'Aquino, Summa Theol. I, q. 9, a. 1, c). Nella tradizione della fede della chiesa, infine, per chiarire questo problema, s'è fatto ricorso alle considerazioni seguenti:

 

4.1. Riguardo all'immutabilità di Dio, occorre dire che la vita divina è inesauribile e senza limiti, cosicché Dio non ha in alcun modo bisogno delle creature (cf. DS 3002). Nessun evento creato potrebbe arrecargli alcunché di nuovo o attuare in lui una potenzialità qualsiasi. Dio non potrebbe dunque subire alcun cambiamento, nè per diminuzione nè per progresso. "Dunque, poiché Dio non è suscettibile di mutamento in nessuna di queste differenti maniere, è sua proprietà essere assolutamente immutabile" (Tommaso d'Aquino, Summa theol. I, q. 9, a. 2, c.). La stessa affermazione si trova nella sacra Scrittura riguardo a Dio Padre, "nel quale non c'è variazione nè ombra di cambiamento" (Gc 1,17). Ma quest'immutabilità del Dio vivente non s'oppone alla sua suprema libertà, come dimostra chiaramente l'evento dell'incarnazione.

 

4.2. L'affermazione dell'impassibilità di Dio presuppone e implica tale modo di comprendere l'immutabilità, ma essa non va concepita come se Dio rimanesse indifferente agli eventi umani. Dio ci ama d'un amore d'amicizia, vuole essere riamato. Quando il suo amore viene offeso, la sacra Scrittura parla di sofferenza di Dio; parla invece della sua gioia, quando un peccatore si converte (cf. Lc 15,7). "La reazione sana della sofferenza è più vicina all'immortalità del torpore d'un soggetto insensibile" (Agostino, En. in Ps. 55,6).

 I due aspetti si completano reciprocamente; trascurando l'uno o l'altro, non si rispetta il concetto di Dio quale egli si rivela.

 

5. La tradizione della teologia medievale e dei tempi moderni ha posto in maggior luce il primo di tali aspetti (cf. sopra 4.1). In realtà, la fede cattolica anche oggi difende così l'essenza e la libertà di Dio (opponendosi a teorie esagerate, cf. sopra B, 1); ma anche l'altro aspetto (cf. sopra 4.2) merita una maggiore attenzione.

 

5.1. Ai nostri giorni, l'uomo desidera e ricerca una divinità che sia onnipotente, certo, ma che non appaia indifferente; anzi, che sia piena di compassione per le miserie degli uomini e, in questo senso, che "compatisca" con loro. La pietà cristiana ha sempre scartata l'idea d'una divinità indifferente alle vicissitudini della sua creatura; è persino incline ad ammettere che, come la "compassione" è una perfezione tra le più nobili dell'uomo, così si dia pure in Dio, senza alcuna imperfezione e in grado eminente, una compassione simile, cioè "l'inclinazione della commiserazione... non la mancanza della potestà" (Leone I: DS 293), e che tale compassione possa coesistere con la beatitudine eterna stessa. I padri chiamano questa misericordia totale per le pene e le sofferenze umane "passione dell'amore", amore che, nella passione di Gesù Cristo, ha superato le passioni e le ha rese perfette (cf. Gregorio Taumaturgo, Ad Theopompum; Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 7: EV VII, 898-903).

 

5.2. V'è indubbiamente qualcosa da ritenere nelle espressioni della sacra Scrittura e dei padri, come pure nei tentativi recenti, sebbene richiedano un chiarimento nel senso sopra esposto. Ciò forse va detto anche per quanto riguarda l'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo. Secondo la sacra Scrittura, il mondo è stato creato liberamente conoscendo nell'eterno presente - in modo non meno attuale della stessa generazione del Figlio - che Gesù Cristo, agnello immacolato, avrebbe versato il suo sangue prezioso (cf. 1 Pt 1,19s; Ef 1,7). In questo senso, vi è una stretta corrispondenza tra il dono che il Padre fa al Figlio della divinità e il dono mediante il quale il Padre consegna suo Figlio all'abbandono della croce.

 Siccome però la risurrezione è essa pure presente nel piano eterno di Dio, la sofferenza della "separazione" (cf. B, 1.1) è sempre superata dalla gioia dell'unione; la compassione del Dio trinitario nella passione del Verbo viene compresa propriamente come l'opera dell'amore più perfetto, che è normalmente fonte di gioia.

Il concetto hegeliano di "negatività", va escluso radicalmente dalla nostra idea di Dio.

 Nel tentativo e nell'esperienza di questa riflessione, la ragione umana e teologica affronta indubbiamente problematiche tra le più ardue (per esempio, quella dell'"antropomorfismo"); ma incontra pure in modo singolare il mistero ineffabile del Dio vivente, e sente i limiti dei propri concetti.

[COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, DocumentO Desiderium et cognitio Dei. Teologia-Cristologia-Antropologia. QuestionI scelte, octobris 1982: Gregorianum 64 (1983) 5-24; CivCatt 1.1.1983 (con adattamenti); EV 8, 404-461]

 


 

9.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: I PADRI DELLA CHIESA.

 

9.1.             Dagli Inni di Romano il Melode

O Figlio della Vergine, Dio della Vergine e Creatore del mondo! Tua è la passione, tua la profondità della sapienza. Sai ciò che eri e ciò che sei divenuto. Sei tu che, accettando la sofferenza, ti sei degnato di venire a salvare l'uomo. Sei tu che hai preso su di te le nostre colpe come Agnello. Sei tu che, mettendo le colpe a morte a mezzo della tua stessa immolazione, Salvatore, tutti hai salvato. Tu sei lo stesso nel patire e nel non patire. Quando muori sei tu, e sei tu quando salvi. Hai dato tu alla Santa quella certezza che le consente di gridare: “Figlio mio e Dio”!

Canta, tu creatura terrestre, canta in onore di Colui che ha sofferto, che è morto per te, e, quando fra non molto lo contemplerai vivo, accoglilo nella tua anima. Cristo difatti deve rialzarsi dal sepolcro e rinnovare te, uomo. Prepara dunque per lui un'anima pura, affinché, abitandola, il tuo Re ne faccia un cielo. Ancora un poco, ed egli verrà, e colmerà di gioia gli afflitti affinché esulti Adamo.

Altissimo, Dio glorioso dei padri e dei figli, hai fatto, del tuo volontario oltraggio subìto, il nostro onore. Perché vincendo tu, noi possiamo rallegrarci tutti nella croce. Inchiodiamo ad essa i nostri sentimenti, appendiamo ad essa anche la nostra arpa per cantare a te, Maestro dell'universo, uno dei cantici di Sion. Un tempo antico, la nave di Tarsis trasportava oro a Salomone, in tempo determinato, come sta scritto. Oggi, invece, il tuo legno oro procura a noi, anzi in tutti i giorni, in ogni tempo, ricchezza inestimabile, perché riporta nuovamente tutti gli uomini al paradiso.

Sei divenuto figlio di Maria, o Figlio di Dio, nostro Salvatore, e ti sei lasciato inchiodare sulla croce tu, il Dio incarnato, per salvare gli afflitti e prendere in pietà i peccatori, tu, Potente e Buono. Dona il pentimento a tutti quelli che sperano in te, affinché di gran cuore ti servano con i salmi e con le preghiere. Uniti al Ladrone noi ti gridiamo come lui: “Ricordati di noi nel tuo regno”. Degnati di unirci al coro dei santi, o Cristo, poiché abbiamo avuto il sigillo della croce per esserne un tutt'uno nel paradiso.

 

9.2.             Dai Discorsi  di san Pietro Crisologo, vescovo:

Ma forse vi copre di confusione la gravità della passione che mi avete inflitto. Non abbiate timore. Questa croce non è un pungiglione per me, ma per la morte. Questi chiodi non mi procurano tanto dolore, quanto imprimono più profondamente in me l'amore verso di voi. Queste ferite non mi fanno gemere, ma piuttosto introducono voi nel mio interno. Il mio corpo disteso anziché accrescere la pena, allarga gli spazi del cuore per accogliervi. Il sangue non è perduto per me, ma è donato in riscatto per voi.

Venite, dunque, ritornate. Sperimentate almeno la mia tenerezza paterna, che cambia il male col bene, le ingiurie con l'amore, ferite tanto grandi con una carità così immensa.

 

9.3.             Dai Discorsi di sant'Efrem, diacono:

Il nostro Signore fu schiacciato dalla morte, ma a sua volta egli la calpestò come una strada battuta Si sottomise spontaneamente alla morte, accettò volontariamente la morte, per distruggere quella morte, che non voleva morire. Nostro Signore infatti uscì reggendo la croce perché così volle la morte. Ma sulla croce col suo grido trasse i morti fuori dagli inferi, nonostante che la morte cercasse di opporsi.

La morte lo ha ucciso nel corpo, che egli aveva assunto. Ma con le stesse armi egli trionfò sulla morte. La divinità si nascose sotto l'umanità e si avvicinò alla morte, la quale uccise e a sua volta fu uccisa. La morte uccise la vita naturale, ma venne uccisa dalla vita soprannaturale. Siccome la morte non poteva inghiottire il Verbo senza il corpo, né l'inferno accoglierlo senza la carne, egli nacque dalla Vergine, per poter scendere mediante il corpo agli inferi. Ma una volta giunto colà col corpo che aveva assunto, distrusse e disperse tutte le ricchezze e tutti i tesori infernali.

Cristo venne da Eva, genitrice di tutti i viventi. Ella è la vigna, la cui siepe fu aperta proprio dalla morte per le mani di quella stessa Eva che doveva, per questo, gustare i frutti della morte.

Eva, madre di tutti i viventi, divenne anche causa di morte per tutti i viventi.

Fiorì poi Maria, nuova vite rispetto all'antica Eva, ed in lei prese dimora la nuova vita, Cristo. Avvenne allora che la morte si avvicinasse a lui per divorarlo con la sua abituale sicurezza e ineluttabilità. Non si accorse, però, che nel frutto mortale, che mangiava, era nascosta la Vita. Fu questa che causò la fine della inconsapevole e incauta divoratrice. La morte lo inghiottì senza alcun timore ed egli liberò la vita e con essa la moltitudine degli uomini.

Fu ben potente il figlio del falegname, che portò la sua croce sopra gli inferi che ingoiavano tutto e trasferì il genere umano nella casa della vita. Siccome poi a causa del legno il genere umano era sprofondato in questi luoghi sotterranei, sopra un legno entrò nell'abitazione della vita. Perciò in quel legno in cui era stato innestato il ramoscello amaro, venne innestato un ramoscello dolce, perché riconosciamo colui al quale nessuna creatura è in grado di resistere.

Gloria a te che della tua croce hai fatto un ponte sulla morte. Attraverso questo ponte le anime si possono trasferire dalla regione della morte a quella della vita. Gloria a te che ti sei rivestito del corpo dell'uomo mortale e lo hai trasformato in sorgente di vita per tutti i mortali.

Tu ora certo vivi. Coloro che ti hanno ucciso hanno agito verso la tua vita come gli agricoltori. La seminarono come frumento nel solco profondo. Ma di là rifiorì e fece risorgere con sé tutti.

Venite, offriamo il nostro amore come sacrificio grande e universale, eleviamo cantici solenni e rivolgiamo preghiere a colui che offrì la sua croce in sacrificio a Dio, per rendere ricchi tutti noi del suo inestimabile tesoro.

 

9.4.             Dai Discorsi  di sant'Agostino, vescovo:

Egli non aveva nulla in se stesso per cui potesse morire per noi, se non avesse preso da noi una carne mortale. In tal modo egli immortale poté morire, volendo dare la vita per i mortali. Rese partecipi della sua vita quelli di cui aveva condiviso la morte. Noi infatti non avevamo di nostro nulla da cui aver la vita, come lui nulla aveva da cui ricevere la morte. Donde lo stupe facente scambio: fece sua la nostra morte e nostra la sua vita. Dunque non vergogna, ma fiducia sconfinata e vanto immenso nella morte del Cristo.

Prese su di sé la morte che trovò in noi e così assicurò quella vita che da noi non può venire. Ciò che noi peccatori avevamo meritato per il peccato, lo scontò colui che era senza peccato. E allora non ci darà ora quanto meritiamo per giustizia, lui che è l'artefice della giustificazione? Come non darà il premio dei santi, lui fedeltà personificata, che senza colpa sopportò la pena dei cattivi?

Confessiamo perciò, o fratelli, senza timore, anzi proclamiamo che Cristo fu crocifisso per noi. Diciamolo, non già con timore, ma con gioia, non con rossore, ma con fierezza

 

9.5.             Dai Discorsi di san Leone Magno, papa:

O ammirabile potenza della Croce! O ineffabile gloria della passione, in cui troviamo riuniti insieme il tribunale del Signore, il giudizio del mondo e il potere del Crocifisso. Sì, o Signore, tu hai attirato a te tutte le cose, perché ciò che si svolgeva nell'unico tempio della Giudea, sotto il velo di arcane figure, fosse celebrato in ogni luogo e da ogni popolo con religiosità sincera e culto solenne e pubblico.

 

9.6.             Dall' Omelia di Giovanni Crisostomo “sulla croce e sul ladrone”.

“Il paradiso era chiuso da migliaia d'anni: oggi la croce ce lo ha aperto. In questo giorno infatti e in quest'ora Dio vi ha fatto entrare il ladrone, compiendo così due cose meravigliose: ha aperto il paradiso e vi ha introdotto un ladro. Oggi Dio ci ha restituito la nostra patria d'origine, oggi ci ha ricondotti alla città del Padre e ha offerto in dono a tutta l'umanità la sua stessa dimora. Dice infatti: Oggi tu sarai con me in paradiso (Lc 23,43). Ma che cosa dici, Signore? Sei lì appeso in croce, confitto con chiodi, e prometti il paradiso? Sì - mi rispondi - perché tu conosca qual è la mia potenza perfino sulla croce.

Lo spettacolo era molto triste. E perché non ti arrestassi all'aspetto esteriore della croce, ma giungessi invece a conoscere la potenza del crocifisso, Gesù compie sulla croce questo miracolo che, più di ogni altro, mette in evidenza tutta la sua forza. Si dimostra infatti capace di cambiare l'animo malvagio del ladrone, non già risuscitando i morti o rimproverando il mare e i venti, non mettendo in fuga i demoni, ma proprio stando lì crocifisso, inchiodato, oltraggiato, sputacchiato, fatto oggetto di scherno e di riso, perché tu potessi vedere i due aspetti della sua potenza. Ha sconvolto infatti tutta la creazione, ha squarciato le rocce e attratto a sé l'anima del ladrone, più insensibile delle rocce stesse. Facendogli dono della sua stima, gli ha detto: “Oggi tu sarai con me in paradiso”. E' vero, ci sono dei cherubini a custodia del paradiso, ma egli è padrone anche dei cherubini. E se là è posta a difesa una spada infuocata e roteante, egli ha potere sul fuoco e sulla geenna, sulla vita e sulla morte.

Nessun re potrebbe certo tollerare che un ladro o qualcuno dei suoi servi facesse con lui il suo ingresso in città, seduto al suo fianco. Ma Cristo ha fatto proprio questo: entrando nella sua patria santa, vi ha introdotto con sé il ladrone. Facendo così non ha disonorato il paradiso con la presenza di un ladro, né lo ha profanato: piuttosto gli ha reso onore, perché è una gloria per il paradiso avere un Signore, che è capace di rendere degno della beatitudine del cielo perfino un ladro. Così pure quando Cristo introduce pubblicani e meretrici nel regno dei cieli, non lo fa per disonorare questo luogo, ma anzi per la sua gloria, dimostrando così che il Signore del regno dei cieli è abbastanza potente da rendere le meretrici e i pubblicani tanto degni di stima da apparire meritevoli di quell'onore e di quel dono.

Un medico viene tanto più ammirato quanto più lo si vede capace di liberare dal male persone affette da malattie incurabili, rendendo loro la salute. Allo stesso modo è giusto ammirare Cristo quando guarisce le gravi ferite di pubblicani e meretrici, riportandoli a un tale stato di salute spirituale da farli apparire degni del cielo”

 

9.7.             Dall'Epitome delle Divine Istituzioni di Lattanzio: efficacia e potenza della croce.

Parlerò ora del mistero della croce, che nessuno dica: “Se fu necessario che Cristo subisse la morte, essa non doveva essere così infame e turpe, ma conservare un po' di dignità”. So che molti, aborrendo dal nome stesso della croce, si allontanano dalla verità; eppure vi è in essa un significato profondo e una grande potenza: Egli fu mandato per spalancare la via della salvezza agli uomini più umili; perciò si fece umile per liberarli. Accettò il genere di morte riservato di solito ai più umili, perché a tutti fosse dato di imitarlo; inoltre, dovendo poi egli risorgere, non sarebbe stato conveniente spezzargli le ossa o amputargli parte del corpo, come succede per chi viene decapitato; fu più opportuna la croce, che preservò il suo corpo con tutte le ossa intatte, per la risurrezione.

A ciò si aggiunga che, accettando la passione e la morte, doveva essere innalzato. E la croce lo innalzò realmente e simbolicamente, perché con la sua passione a tutti si rivelasse chiara la sua potenza e la sua maestà. Estendendo sul patibolo le mani, dilatò anche le ali verso Oriente e verso Occidente, affinché sotto di esse si raccogliessero tutte le genti da ogni parte del mondo a trovar pace. Quale virtù e quale potere abbia questo segno, appare chiaro quando per esso ogni schiera di demoni viene cacciata e fugata. Come lui prima della passione atterriva i demoni con la sua parola e la sua maestà, così ora nel suo nome e col segno della passione gli stessi spiriti immondi, che già irruppero nel corpo degli uomini, vengono cacciati e così, tormentati e torturati, confessano di essere demoni e cedono a Dio che li fustiga.

 

9.8.             Dalla Grande Catechesi di Gregorio di Nissa: il significato misterioso della croce.

Che la croce nasconda un significato assai profondo, se ne sono accorti coloro che hanno conosciuto gli arcani misteri. La tradizione ci insegna questo: nel Vangelo ogni cosa è detta o fatta in funzione di una vita più elevata e divina, mentre in ogni occasione si manifesta chiaramente una mescolanza di umanità e divinità, giacché la voce e l'azione pratica appartengono alla sfera umana, mentre il significato recondito inerisce alla dimensione divina; ora, stando così le cose, non sarebbe giusto soffermarsi unicamente su di un aspetto, trascurando l'altro, ma occorre invece considerare l'elemento mortale in quello immortale, esaminando accuratamente, peraltro, anche la componente più propriamente divina presente nell'uomo. E' proprio della sostanza divina, infatti, permeare di sé ogni cosa, raggiungendo, in ogni direzione, tutto ciò che esiste... Del che siamo resi edotti proprio in virtù della croce: questa, infatti, è divisa in quattro parti, in maniera che, a partire dal suo punto centrale, si contano quattro bracci ad esso congiunti; ora, colui che fu disteso sulla croce perché ci facesse dono della sua morte, nell'attirare a sé e nel plasmare tutte le cose, le unifica, nonostante le loro diverse nature, nel segno di un accordo e di un'armonia universali. Ogni cosa, infatti, può esser considerata nella sua parte superiore come in quella inferiore come anche da un punto di vista trasversale.

Se, dunque, ti soffermi a riflettere sulla struttura del cielo o su quella della terra ovvero su ciò che entrambe le trascende, il tuo pensiero s'incontrerà ogni volta con la divinità, l'unica ad esser contemplata in tutto ciò che esiste e a contenere, nella sua essenza, ogni cosa. Se, poi, questa divinità debba esser chiamata natura o ragione o virtù e potenza o sapienza o con qualcun'altra di queste sublimi definizioni che possa mostrare con maggior eloquenza le qualità di colui che è sommo ed eminentissimo, la nostra fede non suscita alcun problema a questo riguardo, né per l'espressione né per il nome né per il significato dei termini. Giacché allora l'intera creazione guarda a lui, dispiegandoglisi intorno, e, in virtù del suo tramite, perviene alla propria intrinseca unità, mentre ciò che si trova al di sopra si salda con ciò che sta al di sotto e le cose che si trovano di traverso si congiungono, grazie a lui, le une con le altre; stando così le cose, dicevo, occorreva che noi non fossimo indotti soltanto per sentito dire alla considerazione della divinità, ma che la nostra stessa vista divenisse maestra di più sublimi pensieri.

In seguito a un'esperienza del genere, il grande Paolo si sentì spinto a istruire nei misteri la comunità di Efeso, conferendo ad essa, attraverso la propria dottrina, la capacità di conoscere che cosa siano la profondità, la larghezza, la lunghezza e l'altezza (cf. Ef 3,18). Ebbene, l'Apostolo, così facendo, chiama con il nome che lo compete ciascuno dei bracci della croce. L'altezza, infatti, è la parte che va al di sopra; la profondità, quella che si protende verso il basso; per larghezza e lunghezza, infine, sono da intendersi i bracci trasversali. Altrove, rivolgendosi ai Filippesi, Paolo rende conto con maggior chiarezza, credo, di questo significato, allorché dice: Nel nome di Gesù Cristo ogni ginocchio si pieghi, nel cielo, sulla terra e negli inferi (Fil 2,10). Qui egli comprende sotto un'unica denominazione il braccio trasversale, dal momento che considera terrestre tutto ciò che si trova fra il cielo e gl'inferi.

 

9.9.             Dal Commento al Salmo 95 di S. Girolamo: la croce nell'anima.

Quando parlo della croce, non penso al legno, ma al dolore. In effetti questa croce si trova nella Britannia, in India e su tutta la terra. Cosa dice il Vangelo? Se non portate la mia croce e non mi seguite ogni giorno... (Lc 14,27). Notate cosa dice! Se un animo non è affezionato alla croce, come io alla mia per amor vostro, non può essere mio discepolo. Felice colui che porta nel suo intimo la croce, la risurrezione, il luogo della nascita e dell'ascensione di Cristo! Felice chi ha Betlemme nel suo cuore, nel cui cuore, cioè, Cristo nasce ogni giorno! Che significa del resto “Betlemme”? Casa del pane. Siamo anche noi una casa del pane, di quel pane che è disceso dal cielo. Ogni giorno Cristo viene per noi affisso alla croce. Noi siamo crocifissi al mondo e Cristo è crocifisso in noi. Felice colui nel cui cuore Cristo risuscita ogni giorno, quando egli fa penitenza per i suoi peccati anche i più lievi. Felice chi ascende ogni giorno dal monte degli ulivi al regno dei cieli, ove crescono gli ulivi rigogliosi del Signore, ove si eleva la luce di Cristo, ove si trovano gli oliveti del Signore. Sono come un olivo fecondo nella casa di Dio (Sal 51,10). Accendiamo anche la nostra lampada con l'olio di quell'olivo e subito entreremo con Cristo nel regno dei cieli.

 

9.10.         Dall'Esposizione della fede ortodossa di S. Giovanni Damasceno: e' in virtu' della croce che si riconoscono i credenti dagli increduli.

Il linguaggio della croce è follia per quelli che si perdono; per noi che ci salviamo, invece, è potenza di Dio (1Cor 1,18). Infatti, l'uomo spirituale giudica ogni cosa (1Cor 2,15), mentre quello animale non accetta le cose dello Spirito (1Cor 2,14). Follia è, infatti, quella di coloro che si rifiutano di credere e di riflettere sulla bontà e l'onnipotenza di Dio, indagando sulle realtà divine con le loro categorie umane e naturali, senza rendersi conto che tutto ciò che riguarda la divinità trascende la natura, la razionalità e la conoscenza. Se ci si domanda, infatti, il come e il perché Iddio abbia creato dal nulla tutte le cose, e si cerca di scoprirlo con le sole facoltà razionali che la natura ci mette a disposizione, non si approda a nulla, giacché una scienza come questa è terrestre e diabolica. Tutto è semplice e lineare, invece, e il cammino è spedito per chi, condotto per mano, per così dire, dalla fede, va alla ricerca del Dio buono, onnipotente, vero, sapiente e giusto. Senza la fede, infatti, nessuno può salvarsi (cf. Eb 11,6): è in virtù della fede che tutte le cose, sia le umane che le trascendenti, acquistano significato e valore. Senza l'intervento della fede il contadino non ara il suo campo, il mercante non mette a repentaglio la sua vita, su di una piccola nave, fra le onde tempestose del mare; senza fede non si contraggono matrimoni né si porta a termine alcun'altra attività della vita. E' la fede a farci comprendere come tutto sia stato creato dal nulla grazie alla potenza divina. Con la fede intendiamo correttamente ogni cosa, umana o divina che sia. La fede, insomma, è il consenso formulato senza riserve [cf. l'Omelia sul salmo CXV di Basilio il Grande].

Tutte le opere e i miracoli compiuti dal Cristo, dunque, appaiono manifestazioni grandiose, divine, straordinarie; la più strepitosa di tutte, però, è la sua venerabile croce. E' grazie a questa infatti, e non ad altro, che la morte fu sconfitta, il peccato del progenitore ricevette la sua espiazione, l'inferno venne spogliato, fu elargita la risurrezione; è stata la croce a guadagnarci la forza di disprezzare i beni del mondo e persino la morte, a prepararci il ritorno all'antica beatitudine, a spalancarci le porte del cielo; soltanto la croce del Signore nostro Gesù Cristo, infine, ha elevato l'umanità alla destra di Dio, promuovendoci alla dignità di suoi figli ed eredi [cf. la Prima catechesi di Cirillo di Gerusalemme]. Tutto questo ci ha procurato la croce! Tutti noi, infatti, ricorda l'Apostolo, che siamo stati battezzati in Cristo, siamo stati battezzati nella sua morte (Rm 6,3). Tutti noi, battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo (Gal 3,27). E Cristo, poi, è potenza e sapienza di Dio (1Cor 1,24). Ecco, la morte di Cristo, cioè la croce, ci ha rivestito dell'autentica potenza e sapienza di Dio. La potenza di Dio, da parte sua, si manifesta nella croce, sia perché la forza divina, cioè la vittoria sulla morte, ci si è mostrata attraverso la croce; sia in quanto, allo stesso modo come i quattro bracci della croce si uniscono fra loro nel punto centrale, così pure, attraverso la potenza di Dio, si assimilano l'una con l'altra l'altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza: in altre parole, tutta la creazione, nella sua dimensione materiale come in quella invisibile [cf. Commento a Isaia, cap. XI, di Basilio il Grande].

La croce è stata impressa sulla nostra fronte come un segno, non diversamente dalla circoncisione per Israele. In virtù di questo segno, noi fedeli siamo riconosciuti e distinti dagli increduli. La croce è per noi lo scudo, la corazza e il trofeo contro il demonio. E' il sigillo grazie al quale l'angelo sterminatore ci risparmierà, come afferma la Scrittura (cf. Eb 11,28). E' lo strumento per risollevare coloro che giacciono, il puntello a cui si appoggia chi sta in piedi, il bastone degli infermi, la verga per condurre il gregge, la guida per quanti si volgono altrove, il progresso dei principianti, la salute dell'anima e del corpo, il rimedio di tutti i mali, la fonte d'ogni bene, la morte del peccato, la pianta della risurrezione, l'albero della vita eterna.

Questo legno davvero prezioso e degno di venerazione, perciò, sul quale Cristo si sacrificò per noi, deve giustamente divenire oggetto della nostra adorazione, giacché fu come santificato dal contatto con il santissimo corpo e sangue del Signore. Come pure si dovrà rivolgere la nostra devozione ai chiodi, alla lancia, agli indumenti e ai santi luoghi nei quali il Signore si è trovato: la mangiatoia, la grotta, il Golgota che ci ha recato la salvezza, il sepolcro che ci ha donato la vita, Sion, roccaforte delle chiese, e tutti gli altri... Se, infatti, ricordiamo con affetto, fra gli oggetti che sono stati nominati, la casa e il letto e la veste del Signore, quanto più dovranno esserci care, tra le cose di Dio e del Salvatore, quelle che ci hanno procurato anche la salvezza?

Adoriamo l'immagine stessa della preziosa e vivificante croce, di qualunque materia sia composta! Non intendiamo onorare, infatti, l'oggetto materiale (non sia mai!), bensì il significato ch'esso rappresenta, il simbolo, per così dire, di Cristo. Egli stesso d'altronde, istruendo i suoi discepoli, ebbe a dire: Apparirà allora nel cielo il segno del figlio dell'uomo (Mt 24,30), cioè la croce. E anche l'angelo che annunciò alle donne la risurrezione di Cristo disse: Voi cercate Gesù di Nazaret, il crocifisso (Mc 16,6). E l'Apostolo, da parte sua avverte: Noi predichiamo il Cristo crocifisso (1Cor 1,23). Vi sono, infatti, molti Cristi e Gesù; uno solo, però, è il crocifisso. L'Apostolo, poi, non dice: “colui che è stato trafitto dalla lancia”, bensì “il crocifisso”. Dobbiamo perciò adorare il simbolo del Cristo: ovunque infatti si troverà quel segno, lì sarà presente il Signore stesso. La materia di cui è composta l'immagine della croce, invece, anche se fosse d'oro o di pietre preziose, non è più degna di alcuna venerazione, una volta scomparsa, per qualsiasi motivo, la figura originaria. Tutti gli oggetti consacrati a Dio, perciò, noi li veneriamo in modo tale, da riferire alla persona divina il culto che osserviamo per essi.

 

9.11.         Dalle Catechesi battesimali di Cirillo di Gerusalemme: la croce nostra somma gloria.

Ogni atto compiuto dal Cristo è una gloria della Chiesa cattolica: gloria delle glorie è, però, la croce. Questo, appunto, intendeva Paolo nell'affermare: A me non avvenga mai di menar vanto, se non nella croce di Cristo (Gal 6,14). Suscita la nostra ammirazione, certo, anche il miracolo in seguito al quale il cieco dalla nascita riacquistò, a Siloe, la vista (cf. Gv 9,7ss): ma cosa è un cieco di fronte ai ciechi di tutto il mondo? Straordinaria, e soprannaturale, la risurrezione di Lazzaro, morto già da quattro giorni (cf. Gv 11,39). Una grazia del genere, tuttavia, è toccata ad uno soltanto: che beneficio ne avrebbero tratto quanti, nel mondo intero, erano morti per i loro peccati? (cf. Ef 2,1). Strepitoso il fatto che cinque pani riuscirono a sfamare cinquemila persone (cf. Mt 14,21): ma a che cosa sarebbe servito, se pensiamo a coloro che, su tutta la terra, erano tormentati dalla fame dell'ignoranza? (cf. Am 8,11). Stupefacente ancora la liberazione della donna, in preda a Satana da diciotto anni (cf. Lc 13,11-17): che importanza avrebbe avuto, però, per tutti noi, imprigionati dalle catene dei nostri peccati? (cf. Pr 5,22).

La gloria della croce, invece, ha illuminato chi era accecato dall'ignoranza, liberando tutti coloro che erano prigionieri del peccato e portando la redenzione all'intera umanità.

Non devi meravigliarti, poi, del fatto che l'universo sia stato redento nella sua totalità: non era invero un uomo come tutti gli altri colui che morì per esso, ma si trattò del Figlio unigenito di Dio (benché fosse bastato il peccato di un solo uomo, Adamo, ad introdurre la morte nel mondo). Ebbene, dal momento che la morte ha preso a regnare sul mondo in seguito alla colpa d'uno solo (cf. Rm 5,17), perché, a più forte ragione, non dovrebbe regnare la vita, in virtù della giustizia di un'unica persona? E se allora, a causa del legno del quale si cibarono, vennero scacciati dal paradiso (cf. Gen 3,22-23), tanto più adesso, grazie al legno di Gesù, non vi faranno forse il loro ingresso i credenti? Se il primo uomo, che era fatto di terra, fu la causa della morte universale, colui che lo plasmò dalla terra (cf. Gen 2,7), essendo egli stesso la vita (cf. Gv 14,6), non potrà forse esser fonte di vita eterna? Se Finees, sospinto dal proprio zelo, placò l'ira divina uccidendo l'autore dell'atto oltraggioso (cf. Nm 25, 8-11), Gesù, senza uccidere nessun altro, ma offrendo se stesso come riscatto (cf. 1Tm 2,6), non farà forse sparire la collera verso gli uomini?

Non vergogniamoci, dunque, della croce del Salvatore, ma anzi vantiamocene! Il linguaggio della croce, infatti, è scandalo per i giudei e follia per i gentili (1Cor 1,18.23): per noi, invece, significa salvezza. E' stoltezza per coloro che si perdono; per noi, al contrario, che ci salviamo, è potenza di Dio (1Cor 1,18). Infatti, come abbiamo già detto, non toccava a un uomo come gli altri di morire per noi, bensì al Figlio di Dio, Dio egli stesso fattosi uomo. Un tempo l'agnello ucciso per ordine di Mosè tenne lontano lo sterminatore (cf. Es 12,23); l'Agnello di Dio, che cancella i peccati del mondo (cf. Gv 1,29), non ha recato adesso, a più forte ragione, la liberazione dal peccato? Se, poi, il sangue di un agnello privo d'intelletto ha prodotto la salvezza, quanto più la procurerà il sangue dell'Unigenito?

 

9.12.         Dai Sermoni di S. Leone Magno, papa: l'esempio del signore crocifisso.

Non ci si deve mostrare sciocchi tra le vanità, né timorosi tra le avversità. Ivi ci allettano le lusinghe, qui ci aggravano le fatiche. Ma poiché la terra è piena della misericordia del Signore (Sal 32,5), ovunque ci sostiene la vittoria di Cristo, affinché si adempia la sua parola: Non temete, perché io ho vinto il mondo (Gv 16,33). Quando dunque combattiamo, sia contro l'ambizione del mondo, sia contro le brame della carne, sia contro gli strali degli eretici, siamo armati sempre della croce del Signore. E mai ci allontaneremo da questa festa pasquale se - nella verità sincera - ci asterremo dal fermento dell'antica malizia.

Tra tutti i trambusti di questa vita, oppressa da molte passioni, dobbiamo ricordare sempre l'esortazione dell'Apostolo che ci istruisce dicendoci: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Egli, sussistendo nella natura di Dio, non stimò rapina lo stare alla pari con Dio, ma annientò se stesso prendendo la natura di servo, divenendo simile agli uomini e fu da tutti ritenuto come uomo. Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. E perciò Dio lo ha esaltato e gli ha donato il nome che sovrasta ogni nome, tanto che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e sotterra, e ogni lingua proclami che Signore è Gesù Cristo nella gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).

Se comprendete dunque questo grande mistero di carità e soppesate ciò che l'unigenito Figlio di Dio compì per la salvezza del genere umano, abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù e la sua umiltà non sia disprezzata da nessun ricco, non sia vergognosa a nessun nobile: nessuna prosperità umana, infatti, può giungere a tale vetta, da ritenere ignominioso che Dio, sussistendo nella natura di Dio, non ha ritenuto indegno assumere la natura di servo. Imitate ciò che ha fatto, amate ciò che ha effettuato e, trovando in voi tanto amore gratuito di Dio, riamate in lui la vostra natura. Come egli non perse la ricchezza per la povertà, non diminuì nella gloria per l'umiltà, non smarrì l'eternità per la morte, così voi, sui suoi passi, sulle sue orme, disprezzate i beni terreni per raggiungere quelli celesti. Abbracciare la croce è uccidere le cupidigie, annientare i vizi; allontanarsi dalla vanità è rinunciare a ogni errore. Nessun impudico infatti, nessun lussurioso, nessun superbo né avaro celebra la Pasqua del Signore.

 

9.13.         Dai Sermoni di S. Leone Magno, papa: inno alla croce.

Cristo, offrendosi al Padre quale nuovo e vero sacrificio di riconciliazione, è stato crocifisso non nel tempio, che aveva già perduta la sua dignità, e neppure entro la cinta della città, che per il suo delitto doveva essere distrutta. Fu crocifisso invece fuori le mura, perché cessando il mistero delle antiche vittime, una nuova ostia fosse posta su un nuovo altare e la croce di Cristo divenisse altare non del tempio, ma del mondo.

Ecco, dilettissimi, Cristo esaltato per mezzo della croce... La nostra mente, che è illuminata dallo Spirito di verità, accolga con cuore puro e libero la gloria della croce, raggiante in cielo e in terra; veda con interiore acume che cosa significhi ciò che il Signore disse, parlando dell'imminenza della sua passione: E' venuta l'ora in cui deve essere glorificato il Figlio dell'uomo (Gv 12,23); e poco dopo: Ora - disse - l'anima mia è turbata, e che dirò io? Padre, salvami da quest'ora? Ma io sono venuto appunto per quest'ora. Padre, glorifica tuo Figlio (Gv 12,27-28). Alla voce del Padre che risuonava dal cielo, dicendo: L'ho glorificato e ancora lo glorificherò, Gesù rispose ai presenti: Non per me è risuonata questa voce, ma per voi. Ora si fa il giudizio del mondo; ora il principe di questo mondo sarà cacciato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, trarrò tutto a me (Gv 12,30-32).

O ammirabile potenza della croce! O ineffabile gloria della passione! Qui si trova il tribunale del Signore, il giudizio del mondo e la potenza del Crocifisso... Hai attirato tutto a te, o Signore, perché, con lo squarcio del velo del tempio, il Santo dei santi fosse sottratto agli indegni pontefici. La figura si è trasformata così nella realtà; la profezia - attuandosi - si è manifestata e la legge ha trovato compimento nel Vangelo. Hai attirato, o Signore, tutto a te, affinché ora - con perfetto e manifesto sacramento - la pietà religiosa di tutte le nazioni celebrasse quel rito che si svolgeva soltanto nel tempio della Giudea, come ombra e figura. Ora infatti, più illustre è l'ordine dei leviti, più ampia la dignità degli anziani e più sacra l'unzione dei sacerdoti, poiché la tua croce è fonte di benedizione, origine di tutte le grazie. Per essa è data ai credenti la forza invece della debolezza, la gloria al posto dell'obbrobrio, la vita in cambio della morte. Ora che è cessata la varietà dei sacrifici carnali, la sola oblazione del tuo corpo e del tuo sangue sostituisce perfettamente la molteplicità delle vittime, poiché tu sei il vero Agnello che toglie i peccati del mondo. In te perfezioni tutti i misteri, perché ci sia un unico regno formato da tutte le genti, come c'è un solo sacrificio che sostituisce tutte le vittime. (in Ufficio delle letture, martedì V di Quaresima).

 

9.14.         Dalla Dimostrazione della predicazione apostolica di S. Ireneo di Lione: il significato ultratemporale e ultramondano della croce.

Alla fine di questo secolo Gesù Cristo si sarebbe manifestato al mondo intero come uomo, egli che è il Verbo di Dio che in sé ricapitola tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra. Egli unì dunque l'uomo con Dio, operò l'unione di Dio con l'uomo; noi uomini non avremmo potuto in alcun modo partecipare all'incorruttibilità se egli non fosse venuto tra noi. Infatti, se l'incorruttibilità fosse rimasta invisibile e occulta, non ci sarebbe stata di utilità alcuna. Perciò egli si fece visibile, affinché ricevessimo la partecipazione, in ogni senso, a questa incorruttibilità. E perché nella prima creatura, Adamo, noi tutti eravamo stati incatenati alla morte per la disobbedienza, fu necessario che i lacci di morte venissero rotti dall'obbedienza di colui che per noi si era fatto uomo. La morte aveva regnato sulla carne; per mezzo della carne bisognava che essa venisse perciò abolita, e l'uomo venisse liberato dalla sua schiavitù. Per questo, il Verbo si fece carne, affinché il peccato fosse abolito per mezzo della carne - grazie alla quale aveva ottenuto potere, diritto di possesso e dominio - e più non dimorasse in noi. Per questo il Signore assunse una “corporeità” identica a quella della prima creatura, per combattere in maniera ravvicinata in favore dei padri, e vincere in Adamo colui che in Adamo ci aveva colpiti.

Ora da dove procede la sostanza della prima creatura? Dalla volontà, dalla sapienza di Dio e da una terra vergine, perché Dio non aveva ancora fatto piovere, dice la Scrittura, prima che l'uomo fosse stato fatto, e non vi era nessuno che lavorasse la terra (Gen 2,5). Dunque da questa terra, mentre era ancora vergine, Dio prese del fango e ne plasmò l'uomo, capostipite della nostra umanità. Ricapitolando in sé quest'uomo, il Signore assunse la stessa economia della sua “corporeità”, nascendo da una Vergine per volontà e sapienza di Dio. Mostrò così l'identità della sua “corporeità” con quella di Adamo e divenne quello ch'era stato descritto all'inizio, cioè l'uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26).

Come per l'opera di una vergine che aveva disobbedito l'uomo fu ferito, cadde e morì, così per l'opera di una vergine che ha obbedito alla parola di Dio l'uomo è stato rianimato, e dalla Vita ha ricevuto la vita. Il Signore è venuto a cercare la pecorella smarrita, ed era l'uomo che s'era perduto; e se egli non ha assunto una qualunque altra carne umana diversamente plasmata, ma per mezzo di questa stessa Vergine che era della razza di Adamo, ha voluto mantenere la somiglianza con questa nostra carne plasmata, tutto ciò è avvenuto per uno scopo ben preciso: perché Adamo venisse ricapitolato nel Cristo - e così ciò che era mortale venisse assorbito e inghiottito dall'immortalità - ed Eva venisse ricapitolata in Maria e così una Vergine, divenendo l'avvocata di un'altra vergine, distruggesse e cancellasse la disobbedienza di quella vergine con la sua obbedienza verginale. Il peccato ch'era stato commesso per mezzo di un legno, fu distrutto per mezzo dell'obbedienza patita sul legno conformemente alla quale il Figlio dell'uomo, in obbedienza a Dio, fu inchiodato sul legno: distrusse in tal modo la scienza del male e rivelò e comunicò la scienza del bene. Il male è appunto disobbedire a Dio mentre il bene è obbedirgli.

Per questo il Verbo disse per bocca di Isaia profeta, che preannunciava il futuro - erano profeti appunto perché annunciavano il futuro - il Verbo, ripeto, così disse: Io non mi rifiuto, né contesto; ho presentato le mie spalle alle percosse e le mie guance agli schiaffi; non ho sottratto il mio volto all'ignominia degli sputi (Is 50,6). Dunque, per quell'obbedienza cui si è sottomesso inchiodato fino alla morte sul legno, egli ha distrutto l'antica disobbedienza commessa per il legno.

E poiché è il Verbo di Dio, anche lui onnipotente, che per la sua natura invisibile è presente tra noi in questo universo che egli abbraccia in tutta la sua lunghezza e larghezza, altezza e profondità - infatti, è per opera del Verbo di Dio che tutte le cose quaggiù sono state disposte e strutturate - per questo la crocifissione del Figlio di Dio si è compiuta anche lungo tutt'e quattro queste dimensioni, quando egli ha tracciato sull'universo il segno della sua croce. Infatti, col suo farsi visibile, ha dovuto rendere visibile la partecipazione di questo nostro universo alla sua crocifissione, per mostrare, con la sua forma visibile, l'azione che egli esercita sull'universo visibile: che egli cioè illumina l'altezza, cioè tutto quanto è nel cielo, che contiene la profondità, cioè quanto esiste nelle viscere della terra, che estende la sua lunghezza da oriente a occidente, che governa come nocchiero la regione di Arturo e la larghezza del Mezzogiorno, chiamando d'ogni parte coloro che sono dispersi, alla conoscenza del Padre.

 

9.15.         Da Contro i pagani di S. Atanasio: la rivelazione della salvezza del mondo attraverso la croce.

I pagani ci calunniano e ci scherniscono, ridendo sguaiatamente di noi, senza aver nient'altro da rimproverarci che la croce del Cristo. Ed è soprattutto questa loro incoscienza che suscita pietà: essi calunniano la croce, senza rendersi conto che la sua potenza ha riempito la terra intera e che, grazie ad essa, si sono resi manifesti a chiunque i frutti della conoscenza di Dio. Se anche i pagani, infatti, si sforzassero di rivolgere sinceramente il loro spirito alla sua divinità, non si prenderebbero gioco d'un evento così importante, ma piuttosto riconoscerebbero essi stessi il salvatore dell'universo e si accorgerebbero che la sua croce non ha rappresentato la rovina, bensì la guarigione di tutto il creato.

Giacché se è vero che la croce, una volta innalzata, ha fatto sparire ogni forma d'idolatria e che, in virtù di questo simbolo, sono state fugate tutte le apparizioni dei demoni e il Cristo solo, che ci fa conoscere il Padre, viene fatto oggetto d'adorazione; se è vero che i suoi oppositori sono coperti di confusione e che ogni giorno egli converte a sé misteriosamente le loro anime, come può accadere - si potrebbe, a buon diritto, loro obiettare - come può accadere che costoro continuino a ritenerlo un fatto puramente umano e non confessino, invece, che colui che è salito sulla croce è il Verbo di Dio e il Salvatore del mondo? L'atteggiamento di questa gente presenta aspetti simili a quello di colui che parlasse male del sole quando viene nascosto dalle nuvole, ma ne ammirasse la luce nel constatare come essa rischiara tutto il creato.

La luce è bella; più bello ancora, tuttavia, è il sole, autore e origine della luce. Non diversamente, se costituisce un evento divino che la terra intera sia riempita della conoscenza di Dio, è allora necessario che l'autore e l'ordinatore di un tale capolavoro siano Dio e il Verbo di Dio.

 

9.16.         Da La fede e le opere di S. Agostino: ci uniamo al crocifisso crocifiggendo i nostri piaceri carnali.

Evangelizzare il Cristo comporta non solo esporre ciò che si deve credere di Cristo, ma anche ciò che deve osservare colui che si unisce al corpo di Cristo; anzi, significa esporre tutto quello che si deve credere di Cristo: non solo di chi sia figlio, da chi generato secondo la divinità e da chi secondo la carne, quello che abbia sofferto e perché, in che consista la forza della sua risurrezione e il dono dello Spirito che ha promesso e dato ai fedeli; ma anche quali membra, di cui è capo, egli ricerchi, si formi, ami, liberi e conduca all'eterna vita e all'eterno onore. Quando si espone tutto ciò, talvolta con brevità e concisione, talaltra ampiamente e abbondantemente, si evangelizza il Cristo; quando cioè non si omette nulla di ciò che riguarda la fede, e neppure di ciò che riguarda il costume dei fedeli.

In questo senso si può intendere anche la frase dell'apostolo Paolo, da essi [gli eretici] ricordata: Non ritenni di sapere nulla tra di voi, se non Cristo Gesù e crocifisso (1Cor 2,2)... Sappiano che il concetto “Cristo crocifisso” ha molto da dire agli uomini, e soprattutto che il nostro uomo vecchio fu con lui crocifisso, affinché il corpo fosse sottratto al peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Per questo l'Apostolo dice anche di se stesso: Lungi da me gloriarmi in qualcosa di altro se non nella croce del nostro Signore Gesù Cristo, per il quale il mondo è crocifisso a me, e io al mondo! (Gal 6,14). Pongano dunque attenzione a come Cristo crocifisso viene presentato e compreso: comprenderanno allora questa caratteristica della sua croce: anche noi, nel suo corpo, siamo crocifissi al mondo. E con ciò si intende il dominio dei piaceri perversi.

Anche l'apostolo Pietro, a proposito di questo mistero della croce, cioè dei dolori di Cristo, ricorda che coloro i quali a lui si consacrano devono cessar di peccare. Dice infatti: Poiché dunque Cristo patì nella carne, anche voi armatevi del medesimo pensiero, che chi ha patito nella carne l'ha finita col peccato, per vivere, nel tempo che gli rimane di vita corporale, non ai piaceri umani, ma alla volontà di Dio... (1Pt 4,1-2). Con ciò mostra, rettamente, che a Cristo crocifisso, il quale ha patito nella carne, appartiene solo chi ha crocifisso nel suo corpo i piaceri carnali e vive santamente per il vangelo.

 

9.17.         Dalle Omelie spirituali dello Pseudo-Macario: soffrire con Cristo.

Tutti i giusti hanno percorso una strada angusta e aspra, sopportando persecuzioni, angustiati e maltrattati... costretti a rifugiarsi nelle spelonche e nelle caverne scavate nella terra (Eb 11,37-38). Anche gli apostoli, non diversamente, dicono: Sino a questo momento noi soffriamo la fame, la sete, la nudità; siamo schiaffeggiati e non abbiamo ove poterci stabilire (1Cor 4,11). Alcuni di loro furono decapitati, altri crocifissi, altri ancora sottoposti alle più diverse torture. E il Signore stesso dei profeti e degli apostoli, dimentico, per così dire, della sua divina gloria, che testimonianza ci ha lasciato? Mostrando a noi il modello da imitare, sopportò l'onta gravissima di recare sul capo la corona di spine, subendo gli sputi, le percosse e la croce.

Se Dio, su questa terra, si è comportato a quel modo, a noi toccherà di imitarlo; se gli apostoli e i profeti, poi, non sono stati da meno, anche noi, se abbiamo in animo di costruire sulle fondamenta che il Signore e gli apostoli ci hanno lasciato, dobbiamo seguirli lungo la stessa strada. Raccomanda, infatti, l'Apostolo, dietro suggerimento dello Spirito Santo: Siate miei imitatori, come io stesso lo sono di Cristo (1Cor 11,1). Se, al contrario, aspiri alla gloria umana e desideri ricevere onori ed essere rispettato e vai cercando una vita comoda, significa che hai già smarrito la strada che dovevi seguire. Occorre infatti che tu sia crocifisso assieme a colui che è stato crocifisso e soffra con chi ha sofferto, per esser glorificato in unione a colui che è stato glorificato (cf. Rm 8,17)... Non è concesso, insomma, se non a prezzo di sofferenze e procedendo lungo un sentiero aspro, angusto e impervio, di entrare nella città dei santi, per riposare e regnare insieme con il re, nell'infinità dei secoli.

 

9.18.         Dalla Predica per la festa di un santo martire di Gregorio Magno: due modi di portare la croce.

In due modi portiamo la croce del Signore: quando con la rinuncia domiamo la carne e quando, per vera compassione del prossimo, sentiamo i suoi bisogni come fossero nostri. Chi soffre personalmente quando il prossimo è ammalato, porta la croce del Signore. Ma si sappia bene: vi sono alcuni uomini che domano con gran rigore la loro carne non per la volontà di Dio, ma solo per futile vanagloria. E ve ne sono altri, e molti, che hanno compassione del prossimo non in modo spirituale, ma solo carnale; e questa compassione non è in loro virtù, ma piuttosto vizio, per la loro esagerata tenerezza.

Tutti costoro sembra che portino la croce del Signore, ma essi non seguono il Signore. Per questo la Verità dice rettamente: “Chi non porta la mia croce e mi segue, non può essere mio discepolo”. Infatti, portare la croce e seguire il Signore significa rinunciare completamente ai piaceri carnali e avere compassione del prossimo per vero zelo della beatitudine. Chi fa ciò solo con fine umano, porta la croce, ma non segue il Signore.

 

 

9.19.         Dalle Omelie sui Numeri di Origene: nell'imitare cristo consiste il sacrificio perfetto.

Offrire un figlio, una figlia, degli animali, delle ricchezze fondiarie: tutto ciò è del tutto esterno a noi. Offrire se stessi a Dio e piacere a lui non per merito di un altro essere, ma per il proprio: questo sorpassa in perfezione e in sublimità ogni altro voto. Chi fa questo è un imitatore del Cristo. E' Dio, infatti, ad aver donato all'uomo, perché gli fossero d'utilità, la terra, il mare e tutto ciò ch'essi contengono. E' Dio che ha messo a disposizione dell'uomo il cielo, il sole stesso, la luna insieme con le stelle. E' lui ad aver elargito agli uomini le piogge, i venti e tutto quanto l'universo contiene. E, come se ciò non bastasse, alla fine egli ha donato se stesso. Dio, infatti, ha talmente amato il mondo, da donare il suo unico figlio (Gv 3,16) per la vita di questo mondo.

Qual mai gran merito avrà dunque l'uomo ad offrire qualsiasi cosa a Dio che, per primo, “si è sacrificato” per lui? Se perciò tu prendi la tua croce e segui il Cristo (cf. Mt 10,38); se sei in grado di dire: Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal 2,20); se l'anima nostra nutre il desiderio, la sete di raggiungere e di rimanere con il Cristo (Fil 1,23), soltanto allora si potrà dire che essa offre se stessa in sacrificio a Dio.

 

9.20.         Da Ottavio di Minucio Felice: il segno della croce nelle tradizioni pagane.

Quando ritenete oggetto della nostra religione un delinquente e la sua croce, errate ben lungi dalla verità, se pensate che noi crediamo Dio uno che meritò la pena e che ebbe poteri solo terreni. Ed è davvero miserabile colui la cui speranza si appoggia tutta in un uomo mortale: ogni suo aiuto, con la morte dell'uomo, viene meno... Non veneriamo le croci né le desideriamo. Voi piuttosto, che venerate idoli di legno, adorate forse le croci di legno, perché parti dei vostri dèi. Che altro sono le insegne, gli stendardi e i vessilli militari, se non croci dorate e ornate? I vostri trofei di vittoria imitano l'aspetto non solo della croce nuda, ma anche dell'uomo su di essa affisso.

Il segno della croce ci si presenta, spontaneamente, nella nave, quando viaggia a gonfie vele e quando procede a remi alzati; quando si innalza il giogo, è un segno di croce, e così pure se l'uomo prega Dio spiritualmente con le mani elevate. Perciò il segno di croce, o si basa su dati naturali, o viene espresso dai vostri usi.

 

9.21.         Da La città di Dio di S. Agostino: la croce, speranza dei popoli.

Il suo volto rifulse sul monte, la sua fama, su tutta la terra; non fu spezzato né infranto, perché non in se stesso, non nella sua Chiesa desistette, cedendo ai persecutori. E così non avvenne, né avverrà mai, ciò che i suoi nemici dissero o dicono: Quando morirà e il suo nome sparirà? (Sal 40,6).

 Fino a quando porrà sulla terra il giudizio (Is 42,4). Ecco rivelato il segreto che indagavamo. Si tratta infatti dell'ultimo giudizio che egli realizzerà sulla terra quando verrà dal cielo. Ora, noi vediamo già compiuto ciò che il profeta aggiunge: I popoli spereranno nel suo nome. Questo non lo si può certamente negare: perciò si deve credere anche quello, che pur con impudenza si nega. Chi avrebbe mai sperato questo, che anche coloro, i quali non vogliono ancora credere in Cristo, vedono come noi, e non potendolo negare fremono, battono i denti e si rodono? Chi, ripeto, avrebbe mai sperato che tutte le genti avrebbero posto la loro speranza in Cristo! E precisamente quando Cristo veniva arrestato, legato, percosso, oltraggiato e crocifisso; quando gli stessi suoi discepoli avevano perso la speranza già riposta in lui. A stento allora un ladrone solamente sperò nella croce, e ora vi sperano i popoli diffusi sulla terra; e per non morire in eterno, si segnano con la croce, su cui egli morì.

 

9.22.         Dalle Catechesi per i neofiti di S. Giovanni Crisostomo: ci si difende con la croce, non con gli amuleti o gli incantesimi.

Che cosa ne pensi di coloro che ricorrono a incantesimi e amuleti oppure si legano alla testa o ai piedi monete di bronzo con l'effigie di Alessandro il Macedone? Ebbene, dimmi: siamo proprio noi che, dopo la croce e la morte del Signore, dobbiamo riporre la nostra speranza di salvezza nell'immagine di un re pagano? Non sei a conoscenza delle opere straordinarie che la croce ha prodotto? Ha distrutto la morte, ha sconfitto il peccato, ha svuotato l'inferno, ha debellato la potenza del demonio. Non si deve dunque credere ch'essa possa restituire la salvezza a un corpo? La croce ha fatto risorgere il mondo intero, e tu non le dai fiducia? Che cosa, dunque, non saresti degno di soffrire!...

Non ti vergogni e non arrossisci per il fatto di esserti lasciato sedurre da queste cose, dopo aver conosciuto una dottrina così sublime? Ciò che è ancor più grave, poi, è che, mentre noi cerchiamo di metterti in guardia e di dissuaderti da tutto questo, coloro che ritengono, in questo modo, di giustificarti, dicono: “Ma la donna che fa questi incantesimi è cristiana e non parla d'altro se non del nome di Dio”. Ebbene, è proprio per questo che io nutro verso di lei tutto il mio odio e il mio disprezzo, giacché, nel momento in cui afferma di esser cristiana, bestemmia il nome di Dio compiendo opere degne dei pagani. Anche i demoni, infatti, pronunciavano il nome di Dio; non per questo, però, cessavano di essere demoni. Nonostante si rivolgessero a Cristo, dicendo: Sappiamo chi sei: il santo di Dio (Mc 1,24); egli, tuttavia, li respinse con disprezzo e li scacciò.

E' per questo che vi supplico di astenervi da una simile falsità, affidandovi a queste parole (“Io rinuncio a te, Satana!”) come a un sicuro sostegno. E come nessuno di voi oserebbe scendere in piazza svestito o senza calzature, così pure non dovrai mai farlo senza prima aver pronunciato queste parole, nel momento in cui sei sul punto di varcare la soglia di casa: “Io rinuncio a te, Satana, alla tua vana ostentazione e al tuo culto, per aderire unicamente a te, o Cristo”. Non uscire mai, senza prima aver enunciato questo proposito: esso sarà il tuo bastone, la tua corazza, la tua fortezza inespugnabile. E insieme a queste parole, imprimi anche il sigillo della croce sulla tua fronte. Così, infatti, non soltanto l'uomo che incontrerai, ma neppure il diavolo stesso potrà minimamente danneggiarti, vedendoti apparire con questa armatura.

 

9.23.         Dalla Prima apologia di Giustino: il valore del segno della croce

Ponete mente difatti a tutte le cose che sono al mondo e vedete se, senza questa figura, si possano costruire e combinarsi.

Il mare, ad esempio, non si fende se questo trofeo, sotto il nome di vela, non stia intero sulla nave; la terra non si ara senza di esso; gli zappatori e i meccanici non compiono il lavoro se non mediante arnesi fatti a questa foggia. La forma umana poi per nessun'altra caratteristica si distingue da quella degli animali irragionevoli, che per essere eretta e possedere l'estensibilità delle mani e presentare sul volto il naso, per il quale si compie la respirazione vitale, così disposto sotto la fronte da formare appunto una croce.

Per bocca del Profeta fu detto: Il respiro della nostra faccia è Cristo Signore (Lam 4,20). E ad attestare la potenza di queste figure stanno i vostri stessi emblemi, cioè i vessilli e i trofei, con i quali voi sempre marciate, ostentando, anche se ciò facciate senza porvi mente, in essi appunto il segno del dominio e del potere. E i simulacri, che innalzate, dei vostri Imperatori morti, con iscrizioni che li deificano, non hanno anch'essi questa foggia? E ora che abbiamo cercato, per quanto era in noi, di convincervi, sia con ragionamenti, sia mostrandovi il valore di questo segno, ci sentiamo esonerati d'ogni responsabilità, se voi restate increduli.

 

9.24.         Dalla Lettera di Barnaba: il significato allegorico della croce.

Abramo circoncise, tra i suoi familiari, trecentodiciotto uomini (Gen 14,14). Ebbene, quale era il significato allegorico a lui rivelato? Lo potete comprendere se osservate che la Scrittura dice diciotto e poi, separatamente, aggiunge trecento. Il numero diciotto si scrive con un iota (dieci) e un eta (otto): ti risulta “Gesù”. Inoltre la Scrittura aggiunge trecento perché la lettera tau raffigura la croce, da cui sarebbe venuta la grazia [ecco fin dove arriva l'interpretazione allegorica: non si tratta di 318 uomini, ma di un simbolo di Gesù crocifisso]. In conclusione, con le due prime lettere simboleggia Gesù, con la terza, la croce. Lo sa bene colui che ha posto profondo, nel nostro cuore, il dono della conoscenza interiore. A nessuno ho mai insegnato una dottrina più elevata: ma so che voi ne siete degni!...

La croce viene designata anche nello scritto di un altro profeta che dice: Quando si adempirà tutto ciò? Dice il Signore: quando il legno verrà steso a terra e poi sollevato, e quando dal legno stillerà sangue (4 Esd 5,5) [si noti che questo libro apocrifo è citato come Scrittura]. Ecco: si parla ancora della croce, e di colui che sarebbe stato crocifisso.

Anche Mosè ebbe la rivelazione della crocifissione quando il popolo di Israele, attaccato dai nemici, stava per subire una sconfitta, permessa da Dio perché imparasse che i suoi peccati lo travolgevano nella rovina. Lo spirito allora ispirò al cuore di Mosè di rappresentare una figura della croce e di colui che vi avrebbe sofferto sopra (significando anche che, se non si confida in lui, si verrà travolti da un'eterna sconfitta). Mosè dunque ammucchiò armi su armi in mezzo alla battaglia: si pose così al di sopra di tutti, e stese le braccia. Subito Israele cominciò a vincere. Ma ogni volta che le abbassava, subito venivano sopraffatti. Perché tutto questo? Perché comprendessero che non avrebbero potuto salvarsi senza confidare nel crocifisso (cf. Es 17,8-16). E il Signore disse per bocca di un altro profeta: Tutto il giorno ho disteso le mani verso un popolo che non crede e oppugna il mio retto cammino (Is 65,2).

Durante un'altra tribolazione, che colpì gli israeliti, Mosè propose ancora la figura di Gesù, mostrando chiaramente che egli avrebbe sofferto, ma poi avrebbe dato loro la vita, proprio quando lo avrebbero creduto morto.

 

9.25.         Dal Commento al Vangelo di san Giovanni di S. Agostino: figlio di Maria nella carne, Signore di Maria nella gloria.

Perché, dunque [alle nozze di Cana], il figlio disse alla madre: Che c'è tra me e te, o donna? L'ora mia non è ancora venuta (Gv 2,4)? Nostro Signore Gesù Cristo era Dio e uomo; come Dio, non aveva madre; come uomo, sì. Era dunque madre della carne di lui, madre della sua umanità, madre della sua infermità che egli fece sua per noi. Ma il miracolo che egli stava per compiere era opera della sua divinità, non della sua infermità: in quanto era Dio, non in quanto era nato debole uomo. Ma il debole di Dio è più forte di tutta la potenza umana (1Cor 1,25). Sua madre gli chiede un miracolo: Gesù, nel momento di compiere un'opera divina, sembra non riconoscere le viscere umane, quasi dicesse: Quel che di me compie il miracolo non lo hai generato tu, tu non hai generato la mia natura divina; ma, poiché hai generato la mia infermità, allora ti riconoscerò quando questa mia infermità penderà sulla croce. Questo significa infatti: “L'ora mia non è ancora venuta”. Allora riconoscerà sua madre, lui che certamente l'aveva sempre conosciuta.

Prima ancora che nascesse da lei, nella predestinazione l'aveva conosciuta come madre sua; prima che, come Dio, creasse colei da cui come uomo avrebbe avuto l'essere. Ma in un certo momento, per un disegno misterioso, non la riconosce, e in un altro momento, quello che ancora non era venuto, la riconosce, sempre per quel disegno misterioso. La riconoscerà allora, quando ciò che ella aveva partorito, stava morendo. Moriva, infatti, non ciò che per mezzo di Maria era stato fatto, ma ciò che Maria aveva fatto: non l'eterna divinità moriva, bensì l'infermità della carne. Con quella risposta, dunque, il Signore vuole distinguere, nella fede dei credenti, chi egli è, e come è venuto. E' venuto per mezzo di una donna, che gli è madre, lui che è Dio e Signore del cielo e della terra. In quanto Signore del mondo, Signore del cielo e della terra, egli è certamente Signore anche di Maria; in quanto creatore del cielo e della terra, è creatore anche di Maria; però in quanto - come è stato detto - fatto di donna, nato sotto la legge (Gal 4,4), è il figlio di Maria. Egli è, insieme, Signore di Maria e figlio di Maria, insieme creatore di Maria e fatto da Maria. Non ti meravigliare che egli è, insieme, figlio e Signore: è chiamato figlio di Maria come è chiamato anche figlio di Davide, ed è figlio di Davide, perché è figlio di Maria.

Ascoltate la testimonianza chiara dell'Apostolo: Nato secondo la carne dalla stirpe di Davide (Rm 1,3). Ma egli è pure il Signore di Davide - è Davide stesso che lo dice; ascolta: Parla Dio al mio Signore: siedi alla mia destra (Sal 109,1). Gesù stesso invocò questa testimonianza di fronte ai giudei, e con essa li costrinse al silenzio. Come dunque egli è insieme Signore e figlio di Davide - figlio di Davide secondo la carne, Signore di Davide secondo la divinità -, così è figlio di Maria secondo la carne, e Signore di Maria secondo la sua maestà. E poiché ella non era madre della divinità, e il miracolo che ella chiedeva doveva essere opera della divinità, per questo le rispose: “Che c'è tra me e te, o donna?”; d'altra parte, affinché tu, Maria, non credessi che egli ti rinnegava come madre, aggiunse: “L'ora mia non è ancora venuta”; allora ti riconoscerò, quando l'infermità, di cui sei madre, penderà dalla croce.

Vediamo se tutto ciò è vero. Narrando la passione del Signore, il medesimo evangelista, che conosceva la madre del Signore e che come tale ce l'ha presentata anche in queste nozze, così dice: Stava presso la croce la madre di Gesù, e Gesù dice alla madre: Donna, ecco il tuo figlio. E poi dice al discepolo: Ecco la madre tua (Gv 19,25-27). Affida la madre al discepolo; affida la madre, egli che stava per morire prima di lei, e che sarebbe risorto prima che ella morisse: egli, uomo, a un uomo raccomanda una creatura umana. Questa è la natura umana che Maria aveva partorito. Era già venuta l'ora della quale dianzi aveva detto: “L'ora mia non è ancora venuta”.

 

9.26.         Dai Sermoni di S. Leone Magno: trafiggi la mia carne col tuo timore.

Quando uno si accorge di varcare i limiti dell'osservanza cristiana e sente di tendere in cuor suo a ciò che lo può distogliere dal retto cammino, ricorra alla croce del Signore e crocifigga all'albero della vita le brame peccaminose della sua volontà; si rivolga a Dio col grido del profeta dicendo: Trafiggi la mia carne col tuo timore; infatti ho sempre temuto i tuoi giudizi! (Sal 118,120).

Ora, che altro significa aver la carne trafitta dal chiodo del timore di Dio, se non trattenere i sensi corporei, per timore del giudizio divino, dalle lusinghe delle brame illecite? In tal modo, colui che resiste al peccato e uccide le sue concupiscenze per non compiere ciò che è degno di morte, oserà dire con l'Apostolo: Quanto a me, non sia mai che mi glori d'altro che della croce del Signore nostro Gesù Cristo, per la quale il mondo è crocifisso per me e io per il mondo (Gal 6,14).

Là dunque si ponga il cristiano, ove Cristo l'ha sollevato con sé; là diriga tutti i suoi passi, ove sa che fu salvata la natura umana. La passione del Signore, infatti, dura sino alla fine del mondo; e come nei suoi santi lui è onorato, lui è amato; e come nei poveri lui viene nutrito, lui viene vestito; così in tutti coloro che soffrono avversità per la giustizia, è lui che patisce. A meno non si debba ritenere che, diffusasi nel mondo la fede e diminuito il numero degli empi, siano finite tutte le persecuzioni e tutte le lotte che incrudelirono contro i martiri beati, e che furono soggetti al dovere di portare la croce solo quelli cui furono inflitti supplizi atroci per conquistare l'amore di Cristo. Ma ben diversa è l'esperienza di chi serve Dio con fedeltà, ben diversa è la predicazione dell'Apostolo; egli asserisce: Tutti coloro che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo soffriranno persecuzioni (2Tm 3,12).

Questa asserzione dimostra che è troppo tiepido, troppo pigro colui che non è battuto dalla persecuzione. In pace con questo mondo non può stare se non chi ama questo mondo, e non vi è mai società tra giustizia e iniquità, concordia tra verità e menzogna, accordo tra luce e tenebre. E anche se i buoni cercano piamente di correggere i cattivi, e spesso per grazia misericordiosa di Dio ottengono belle conversioni, tuttavia mai non cessano contro i santi le insidie degli spiriti maligni che turbano il retto proposito di tutti i fedeli, sia con frode occulta, sia con guerra aperta.

 

9.27.         Dal Discorso 49 di S. Agostino.

Ma la tua anima non vuol perdonare, e si rattrista perché le dici di non portar odio. Rispondile: “Perché sei triste, anima mia, e perché mi turbi?” (Sal 41,6). “Perché mi turbi?”, o: “Perché sei triste?” Non odiare per non portarmi alla perdizione. “Perché mi turbi? Spera in Dio”. Sei nel languore, aneli, ti opprime l'infermità. Non sei in grado di liberarti dall`odio. Spera in Dio, che è medico. Egli per te fu sospeso a un patibolo e ancora non si vendica. Come vuoi tu vendicarti? Difatti in tanto odii in quanto ti vorresti vendicare. Guarda al tuo Signore pendente [dalla croce]; guardalo così sospeso e quasi in atto d'impartire ordini dall'alto di quel legno-tribunale. Guardalo mentre, sospeso, prepara a te malato la medicina ricavata dal suo sangue. Guardalo sospeso! Vuoi vendicarti? Lo vuoi davvero? Guarda a colui che pende [dalla croce] e ascolta ciò che dice: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).

 

9.28.         Dall'Omelia sul libro dei Numeri  di Origene: Nell`imitare Cristo consiste il sacrificio perfetto

Offrire un figlio, una figlia, degli animali, delle ricchezze fondiarie: tutto ciò è del tutto esterno a noi. Offrire sé stessi a Dio e piacere a lui non per merito di un altro essere, ma per il proprio: questo sorpassa in perfezione ed in sublimità ogni altro voto. Chi fa questo, è un imitatore del Cristo. E` Dio, infatti, ad aver donato all`uomo, perché gli fossero d'utilità, la terra, il mare e tutto ciò ch`essi contengono. E` Dio che ha messo a disposizione dell`uomo il cielo, il sole stesso, la luna insieme con le stelle. E` lui ad aver elargito agli uomini le piogge, i venti e tutto quanto l`universo contiene. E, come se ciò non bastasse, alla fine egli ha donato se stesso. “Dio, infatti, ha talmente amato il mondo, da donare il suo unico Figlio” (Gv 3,16) per la vita di questo mondo.

Qual mai gran merito avrà dunque l`uomo ad offrire qualsiasi cosa a Dio che, per primo, “si è sacrificato” per lui? Se perciò tu prendi la tua croce e segui il Cristo (cf. Mt 10,38); se sei in grado di dire: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20); se l`anima nostra nutre “il desiderio, la sete di raggiungere e di rimanere con il Cristo “ (Fil 1,23), soltanto allora si potrà dire che essa offre se stessa in sacrificio a Dio.

 

9.29.         Romano il Melode: Il trionfo della croce[27]

1. Tre croci furono issate per ordine di Pilato sul Golgota: due per i ladroni, una per il Datore di vita. L'Ade le vide e disse ai propri seguaci: “ Ministri miei e Potenze mie, chi è colui che ha conficcato un chiodo nell'intimo del mio cuore? Una lancia di legno mi ha trapassato all'improvviso e sto per crepare. Le viscere patiscono, il ventre è tutto dolore. Oh! miei sensi! resto senza fiato, costretto a vomitare Adamo ed i figli di Adamo, che dal legno mi erano stati donati! E ora il legno loro riporta al paradiso “.

 

2. A queste parole l'astuto Serpente sopravviene strisciando e sibila: “ Che hai, Ade? Perché questi lamenti insensati? Perché questi discorsi? Il legno che ti mette spavento io l'ho architettato per il Figlio di Maria, io l'ho suggerito ai Giudei a comune vantaggio nostro: si tratta di una croce alla quale essi hanno inchiodato il Cristo, perché voglio distruggere, attraverso il legno, il secondo Adamo. Non deve quindi farti paura. Essa non ti spoglierà. Occupati piuttosto di sorvegliare i prigionieri tuoi. Di quanti sono in nostro potere, nessuno dovrà sfuggirci con il ritorno in paradiso “.

 

3. “ Orsù! Belial non perdere la testa - gridò l'Ade -. Corri, apri gli occhi e vedi come la radice del legno sia penetrata entro la mia anima; si è conficcata nel mio profondo per strappare Adamo come un pezzo di ferro. Eliseo ne aveva prefigurato in antico l'immagine, allorché ritirò l'accetta dal fiume (2 Re 6,6-7): ritirando l'oggetto pesante per mezzo del leggero, il profeta ti prefigura e ti insegna che, tramite il legno, Adamo è ritirato dalla sua miseria e ricondotto al paradiso “.

 

4. “ Chi ha potuto metterti in testa una idea del genere, Ade? Da dove, questa paura, mentre nulla v'è da temere dal legno del disonore, secco e sterile, destinato alla esecuzione di criminali e assassini sanguinari? Di tale legno Pilato ebbe l'idea, obbedendo ai miei consigli; e tu, tu tremi davanti ad esso e tu credi in un suo potere? Ma chi ti ha ingannato? Chi ha potuto persuaderti che la creatura caduta a causa del legno potrebbe rialzarsi tramite il legno ed esser chiamata ad abitare nuovamente nel paradiso”?

 

5. “ Hai di colpo perduto il senno, da accorto Serpente quale eri prima? L'intero tuo equilibrio è stato annientato dalla croce e ti sei lasciato prendere al cappio del tuo stesso tranello? Alza gli occhi e renditi conto che sei inciampato nella fossa da te scavata: sul legno che tu dici secco e sterile ecco spunta un frutto che il Ladrone ha assaggiato divenendo così erede dei beni dell'Eden. Anzi, la virtù di quel legno risulta maggiore di quella del bastone che consentì al popolo di lasciare l'Egitto (Nm 17,25), perché riconduce nuovamente al paradiso “.

 

6. “ Smettila, Ade miserabile! Basta con simili vigliaccherie! I discorsi da te tenuti tradiscono qualcosa: hai avuto paura di fronte alla croce e al crocifisso. Per quanto mi riguarda, io non mi lascio impressionare né dall'uno né dall'altra, perché tutto è il risultato dei miei piani. V'è anche dell'altro, nei miei progetti: aprirò il sepolcro e vi seppellirò Cristo, procurandoti così una doppia paura: quella della sua tomba e quella della sua croce. Poi, vedendo te, prenderò beffa di te e, una volta sepolto Cristo, verrò a dirti: “Adamo? - ma chi lo riporterà nuovamente nel paradiso” “?

 

7. Subito l'Ade lancia al Diavolo invettive, dall'orbo al losco, dal cieco al cieco: “ Guarda, tu cammini nel buio: vai a tentoni per paura di cadere. Capisci quanto sto dicendo: quel che fai ha spento il sole (Mt 27,45). Quel legno di cui vai fiero ha scosso l'universo, ha fatto vacillare la terra, ha ottenebrato il cielo, ha spaccato allo stesso tempo le rocce ed il velo del tempio, e ha risuscitato dai loro sepolcri i morti (Mt 27,51) che gridano: “Lo vuoi capire, Ade? Adamo rientra nuovamente nel paradiso””.

 

8. “ Il legno del Nazareno riesce a metterti paura? - seguitò a dire il Diavolo all'Ade assassino -; muori davanti alla croce tu, tu che hai fatto morire tutti? Se un pezzo di legno ti ha riempito di spavento, avresti dovuto tremare davanti alla crocifissione di Aman (Est 7,10) e davanti al palo che servì a Giaele per far morire Sisara (Gd 4,21-22), e davanti alle cinque croci sulle quali Giosuè, figlio di Nun, inchiodò i re coalizzati contro di lui (Gs 10,26-27). Una paura maggiore ti venga dall'albero dell'Eden, perché ha sloggiato Adamo e non lo ricondurrà nuovamente nel paradiso “.

 

9. “ E tempo per te di aprire le orecchie, Belial. L'ora presente ti farà vedere l'impero della croce ed il grande potere del crocifisso. Per te la croce altro non è che follia (1 Cor 1,18), ma tutta la creazione la considera un trono, da dove Cristo, inchiodatovi, ascolta come giudice in carica il Ladrone che grida: “Signore, ricordati di me nel tuo regno”. Ed egli gli risponde come dall'alto di un tribunale: “Oggi, povero uomo, regnerai con me, perché con me tu entrerai nuovamente nel paradiso” “

 

10 Il Dragone macchinoso, udite queste parole, trasaliva per la disperazione. Vedeva infatti realizzato ciò che aveva udito: il Ladrone era divenuto testimone di Cristo, il quale a favore di lui testimoniava. Stupefatto a questo spettacolo, si batté il petto dicendo tra sé: “ Ad un Ladrone egli parla, ed ai propri accusatori non ha risposto? Lui che poco fa per Pilato non ebbe nemmeno una parola si rivolge all'assassino ora, dicendo: “Vieni, rallegrati”. Ma che cosa è successo, che cos'ha osservato del Ladrone sulla croce, gli atti o le parole, sì che lui riconduca nuovamente al paradiso “?

 

11. Per una seconda volta il diavolo alzò la voce: “ Ade, ricevi anche me. Tu rimani il mio unico rifugio, provo adesso le stesse tue sofferenze perché non vi ho creduto prima. Ho visto il legno che ti fece tremare, tinto di rosso per il sangue e l'acqua (Gv 19,34). E ho tremato: non davanti al sangue, voglio dire, ma davanti all'acqua. L'uno sta per significare l'immolazione di Gesù, l'altra, la sua vita, perché la vita è scaturita dal suo fianco. Non è infatti il primo, ma il secondo Adamo che fa rifiorire la madre dei viventi , Eva, nuovamente nel paradiso “.

 

12. Con queste parole il grande malvagio dovette riconoscere a malincuore che aveva fallito insieme con l'Ade. Allora insieme, come era naturale, piangono la caduta, dicendo: “ Proprio questa sciagura doveva capitarci? Come è potuto avvenire che siamo caduti su questo legno? La nostra perdizione è derivata dalla pianta che ha radici in terra. Abbiamo pur tentato di innestarvi getti di amarezza, ma non ne abbiamo potuto alterare la dolcezza. Ahimè! compagno di sventura! - Ahimè, compare! Abbiamo fallito insieme, insieme lamentiamoci: perché Adamo di nuovo ritorna al paradiso.

 

13. Oh! come abbiamo potuto dimenticare i segni premonitori di questo legno? In più occasioni ci sono stati mostrati, e sotto diverse forme (Eb 1,1), per esempio in quanti si sono salvati, ed in quanti si sono perduti (1 Cor 1,18). Noè grazie al legno si salvò, mentre il mondo che non gli aveva creduto perdette tutto; Mosè fu glorificato dall'avere impugnato il bastone come uno scettro; l'Egitto, invece, caduto nelle piaghe che egli aveva aperto, annegò nelle acque profonde. Tutto quanto è oggi compiuto dalla croce, ci era stato mostrato allora dai segni premonitori: come dunque non piangere? Adamo è nuovamente riportato al paradiso “.

14. “ Aspetta, Ade miserabile - gemette il Diavolo -. Zitto, pazienza, cuciti la bocca: mi sembra di udire una voce annunciatrice di gioia. Un rumore mi perviene, felice auspicio. un bisbiglio di voci: si direbbe il fogliame della croce. Cristo ha emesso un grido, come di chi sta all'ultimo respiro: “Padre, perdona loro”. Sono costernato però, che egli abbia aggiunto: “Perché essi non sanno che cosa fanno (Lc 23,34), gli empi”. Noialtri sappiamo bene che questo che è sottoposto a supplizio è il Signore della gloria (1 Cor 2,8) e vuole ricondurre nuovamente Adamo al paradiso.

 

15. Quel legno che il Maestro mostrò a Mosè, e che donò dolcezza alle acque di Mara (Es 15,23-25), ha forse insegnato che cosa fosse e di quale albero fosse la radice? No! non lo disse allora, perché non lo voleva. Adesso soltanto egli lo rivela a tutti. Adesso tutto è divenuto soave. Noi, invece, ci amareggiamo. Dalla nostra radice è spuntata la croce, ma, piantata in terra, è divenuta tanto dolce quanto prima produceva soltanto spine. Adesso, come il vitigno di Sorec (Is 5,2), ha emesso tralci che sono trapiantati nuovamente nel paradiso “.

 

16. “Ora puoi anche gemere, Ade. Io ne farò altrettanto, in tuo appoggio. Piangiamo alla vista della pianta da noi stessi messa a dimora, trasformata da sé in tronco sacro sotto il quale accampano, e nei cui rami fanno il proprio nido, i ladri, gli assassini, i percettori, le donne di mala vita (Ez 17,23), raccogliendo un frutto dolce nella evidenza di un legno secco. Essi abbracciano la croce come pianta della vita, vi si aggrappano per attraversare a nuoto nell'andata e nel ritorno come in una rada tranquilla, e gettano l'ancora nuovamente nel paradiso “.

 

17. “ Giura dunque, Tiranno, di non crocifiggere più alcuno “. Prometti anche tu, Tartaro, di non infliggere più ad alcuno la morte. Esperienza abbiamo adesso! Fermiamo allora la nostra mano. Il nostro malore ci serva di lezione per l'avvenire. Nessuno di noi due osi più tiranneggiare la razza di Adamo, perché è segnata dal sigillo della croce, alla stregua di un tesoro che, in uno scrigno corruttibile contenga una perla immunizzata contro il furto (Dt 32,34), e tuttavia derubata dall'intelligente Ladrone sulla croce. Per aver derubato gli uomini egli è appeso con i chiodi, e per il latrocinio è stato richiamato nuovamente al paradiso”.

 

18. Altissimo, Dio glorioso dei padri e dei figli, hai fatto, del tuo volontario oltraggio subito, il nostro onore. Perché vincendo tu, noi possiamo rallegrarci tutti nella croce. Inchiodiamo ad essa i nostri sentimenti, appendiamo ad essa anche la nostra arpa per cantare a te, Maestro dell'universo, uno dei cantici di Sion (Sal 136 [137],2-3). Un tempo antico, la nave di Tarsis trasportava oro a Salomone, in tempo determinato, come sta scritto (1 Re 10,22). Oggi, invece, il tuo legno oro procura a noi,. anzi in tutti i giorni, in ogni tempo, ricchezza inestimabile, perché riporta nuovamente tutti gli uomini al paradiso.

 

9.30.        Romano il Melode: Adorazione della croce[28]

1. Il legno tre volte beato, che è dono della nostra vita, fu dall'Altissimo piantato nel mezzo del paradiso, affinché in sua vicinanza Adamo trovasse vita immortale (Gn 2,9; 3,22). Ma questi non ebbe interesse a conoscere quale fosse la vita donata. Errò e conobbe così la morte. Il Ladrone, al contrario, riconobbe a prima vista quale vita racchiudesse la pianta dell'Eden felicemente trapiantata sul Golgota. Egli disse fra sé: Ecco che cosa ha disperso un tempo il padre mio nel paradiso “.

 

2. Alzato sul legno del supplizio, quando quel condannato fu glorificato dalla fede della quale si era fatto confessore, l'occhio del suo cuore si aprì (Gn 3,7) sulle delizie dell'Eden. Egli vide splendervi la croce, alta al centro. Quell'albero della vita era infatti a misura di ogni età dei mortali. Il Ladrone vedeva splendere uguale vita su l'uno e sull'altro legname, e gemeva all'idea di Adamo che lo aveva perduto nel paradiso.

 

3. Appeso alla croce, egli era combattuto tra la gioia ed il dolore. Contemplava la vita sulla croce ed era nella gioia; vedeva Adamo malato ed era mosso a compassione, senza tener conto della propria sofferenza. Allora il Cristo, leggendo nel pensiero di colui che si era fatto suo confessore, a questi disse: “ Non rimpiangere il tuo avo Adamo, perché sono io il secondo, e vero, Adamo (1 Cor 15,45.47) e sono venuto di volontà propria a riscattare l'Adamo che a me appartiene. A lui avevo donato ogni delizia mediante il legno della vita; ma con la sua ribellione egli ha raccolto soltanto maledizione nel paradiso.

 

4. Sono quindi disceso dai cieli per lui, da Amico degli uomini, per riscattare il suo genere con misericordia, e mi sono fatto maledizione per liberare Adamo ed i suoi (Gal 3,13). Il legno fu all'origine della disobbedienza dell'Avo, a causa del legno fu anche cacciato dal paradiso come fosse un delinquente, ma proprio per mezzo del legno della vita, al paradiso egli ha nuovamente accesso. Vi entrerai anche tu con lui, per primo. Quando sarai giunto, chiama i mortali ed accogli i fedeli, perché oggi con me entrerai in letizia nel paradiso (Lc 23,43).

 

5. Quando il primo della creazione fu esiliato dal paradiso, di questo i Cherubini ebbero ordine di chiudere l'accesso (Gn 3,24). Ma prendi la croce mia sulle spalle e va verso l'Eden, in fretta. Se il guardiano non ti vedesse provvisto della giustizia dell'iscrizione che hanno messo sulla mia croce, egli, Spada di fuoco che monta la guardia, ti consumerà. Questa incisione invece della mia croce, prendila, Ladrone, e vai incontro ai Cherubini: riconosceranno il simbolo della vita e ti daranno in mano il potere di far entrare, ed uscire, i miei amici nel paradiso “.

 

6. Obbedendo all'ordine del molto Misericordioso, il Ladrone si caricò sulle spalle l'emblema della grazia e, avviandosi, benediceva il dono della croce e salmodiava senza sosta un cantico nuovo: “ Tu sei la mazza per le anime aride; tu sei l'aratro, ottimo mezzo che purifica l'anima; tu sei la buona radice della mia vita rinnovata; tu sei la canna del castigo, che colpisce il Nemico di Adamo; tu hai aperto le porte delle delizie che erano chiuse a causa del peccato commesso allora da Adamo nel paradiso.

 

7. Hai donato la vita totale, Legno tre volte beato, a me e a tutti gli uomini che hanno la tua grazia; tu sei il pungolo (Sal 22 [23] 4) che guida verso la vita i peccatori che ti riconoscono; tu sei apparso quale crivello per vagliare con precisione sull'aia le scorie destinate al fuoco, e il frutto da riporre nel granaio (Mt 3,12; Lc 3,17); tu sei il giogo, domatore dei tenebrosi Ebrei; tu sei, per la barca della santa Chiesa, che è in Cristo, il remo divino che guida i giusti e i pii direttamente nel paradiso.

 

8. Ho trovato nel tempo giusto la via alla confessione e ti canterò, o Legno che portasti la nostra vita. Tu sei norma di convivenza nei luoghi abitati e ottimo custode della pietà dei fedeli; tu sei il santo altare, il santuario perfetto che accolse il sangue immacolato del sacrificio (Eb 9,11-12); tu sei la lancia trribile che spezza la forza dei demoni; tu sei il corno puro che spunta sulle pecore del Cristo; hai avvicinato il cranio di Adamo e vi hai versato la gioia. Ed io, perché ho confidato in te, mi dirigerò premurosamente nel paradiso.

 

9. Vedo la patria santa che possedeva il mio Avo, ho ritrovato le distese luminose che le tenebre non possono ingoiare. Se tale è l'esterno, immensi dovrebbero essere i beni racchiusi in questo luogo di delizie! L'occhio non ha visto, né l'orecchio ha sentito, né il cuore ha conosciuto ciò che il Signore ha preparato per gli amici crocifissi presso di lui (1 Cor 2,9), ai quali per primo ho io aperta la strada della vita. Ho trovato nell'insegna della croce una sicurezza alla vita mia, perché, chi custodisce il sigillo della croce, entrerà nel paradiso.

 

10. Non mi spaventa più la Spada fiammeggiante che monta la guardia, perché io innalzo il sigillo della croce che mi colma di fiducia”. Così parlando il Ladrone si accosta al paradiso, si presenta ai Cherubini e dice: “ Custode fedelissimo, Ostiario fidatissimo, Santo dal quadruplice volto, Cherubino ricoperto di occhi, vengo per presentarti il sigillo che Cristo manda oggi dalla terra di Israele. Esamina tu stesso attentamente l'iscrizione e rendimi i possedimenti antichi di mio padre, dei quali egli godeva da padrone nel paradiso.

 

11. Accetta l'indubbio sigillo e l'impronta divina, firma del Sovrano, del molto misericordioso Iddio “. Mentre egli così parlava, eseguiva gli ordini di Cristo Re. I Cherubini a loro volta, riconoscevano i caratteri radiosi attraverso la lettura della porpora fatta di sangue. Erano ammirati della splendida composizione, in essa riconoscendo subito le rette parole ed il significato di quanto era stato detto al Ladrone: “Entrerai con me, gioioso, nel paradiso “.

 

12. “ Vieni, Ladrone, recupera i diritti di tuo padre - rispose il Cherubino -. Ho riconosciuto l'ordinanza dell'alto Sovrano. Eccoti i beni del paradiso, li rimetto ora in tua mano. Riprendi possesso dell'antica tua patria, riprendi la proprietà paterna, indistruttibile. La croce che portavi nel presentarti, ha sanato la confisca e contiene, con la tua richiesta al Cristo, la sentenza che ti dà diritto ad indiscusso possesso del paradiso.

 

13. Ostiario sei ora tu: ti cedo l'incarico di buona voglia, non essendo a me affidato il paradiso come a padrone. Il godimento del paradiso fu una grazia data da Dio al primo della creazione. Egli lo lasciò confiscare per decreto, soffrì l'esilio a causa della corruzione, ed ecco perché divenni io il custode dell'antico possedimento. A me sono affidati ora altri compiti, gli spirituali, che spartisco con i Serafini - domini riservati, terribili. Tu, tu mi hai fatto conoscere il recupero di Adamo alla grazia. Ebbene, ricevi ora la tua parte dei diritti che Adamo ha posseduto prima di te nel paradiso “.

 

14. Obbedendo a queste parole, il Ladrone prese possesso della sua parte di paradiso e, sigillo in mano, si fece ancora più accanito che la Spada fiammeggiante contro il Diavolo il quale aveva già scorto il Ladrone nel luogo delle delizie. E il Diavolo, lamentandosi, protestò: “ E' spaventoso quanto mi accade! Allo stesso modo che, ladrone anch'io, cercavo di rubare Pietro, ecco che mi si ruba il Ladrone; e mentre cercavo di trarre in inganno il discepolo, che così tradiva Cristo, vengo io stesso ingannato da quest'uomo che, per la fede, entra nel paradiso!

 

15. Mi volgevo contro gli apostoli, tendendo trappole di orribile lega: contro di loro, come a nemici, affilavo le armi ma sono stato derubato dal mio amico, il Ladrone, nel momento stesso in cui cercavo di unire a lui altri compagni a mio servizio. Se io avessi veduto Giuda meritare il paradiso ne avrei forse sofferto altrettanto? No! Perché egli non era discepolo mio, ma del Cristo. Il Ladrone, invece, da discepolo mio si è fatto discepolo fedele di Gesù, abbandonando me per correre da lui e mi ha preso in odio. Peggio ancora grazie alla croce, egli è ora Ostiario del paradiso.

 

16. Ebbene, la guerra che scatenerò non sarà per questo meno terribile: sbarrerò la via del paradiso per dimostrare all'Ostiario la vanità della custodia della chiave dell'Eden “. Dette queste parole egli arse di collera e si mise ad eccitare l'odio degli Ebrei contro la predicazione della fede; loro, emergenti, impostori, tiranni della terra, intrise di esasperazione contro la croce di vita, ottenne persecuzione contro il Cristo e contro i suoi servitori, convinto come egli era di deviare i mortali dall'entrare nel paradiso.

 

17. Il sangue versato, dai miti di cuore, fu causa di disfatta per il Maligno. Mentre perseguitava gli apostoli ed i martiri, egli versava lacrime di rabbia nel constatare lo spirito di sopportazione dei campioni di Cristo. Per anni ed anni si agitò associando a sé criminali, tiranni, magistrati, sovrani; lo fece invisibilmente, e a volte in modo visibile. Non desisteva mai dalla battaglia se non quando era perduta. Doveva riconoscere la virtù dei santi e deplorava lo slancio di coloro che da vittoriosi correvano a raggiungere il Ladrone, divenuto fedelissimo, nel paradiso.

 

18. Colui che governa nella bontà tutti i secoli, il Misericordioso, attirò al sapientissimo suo volere l'imperatore Costantino, che era della stirpe di Abramo e di Davide, un uomo di fede. Imitando il proprio avo e dimostrandosi degno di esserlo, Costantino decretò la fine della guerra contro la Chiesa. Come Abramo, che alla testa di trecentodiciotto guerrieri fedeli aveva vinto la guerra, così, l'imperatore, fedele e valoroso, con il medesimo numero, mise fine alle eresie atee che impediscono di entrare nel paradiso!

 

19. Le opere di Cristo sono veramente grandi e superiori ad ogni dire. Non sono rivelate agli increduli ed agli indegni, ma ai meritevoli e ai giusti. Così accadde ad Elena, madre di quel Principe. Aspirava, perché ne era degna questa amica di Dio, a rinvenire il legno della nostra vita sino ad allora tenuto nascosto. Lasciando senza indugio i suoi imperiali palazzi, si recò con premurosa cura là dove Cristo era stato crocefisso. Né pigrizia, né fatica, lungo la strada, perché ella ardeva dal desiderio di scoprire la lampada che guida verso il paradiso.

 

20. Di fronte alla premura di lei, Colui che attende il ritorno di tutti - dalla prima alla undicesima ora egli non ha esitato infatti ad invitare alla vita gli eletti ed i chiamati -, come aveva cercato e chiamato Paolo, facendolo poi proprio araldo e apostolo, così scelse un uomo di nome Giuda per il rinvenimento dei resti della croce. E questi giustamente cambiò nome poiché era, quello, nome di traditore. Poté cambiarlo, perché il suo comportamento non era da traditore, e pervenne anche lui nel paradiso.

 

21. Ora, il Signore gradi la fede dell'amica di Dio, e ne trasformava in ministro fedelissimo l'uomo che, appartenuto prima ai Giudei, fu in seguito pastore ottimo dei popoli cristiani. E' questi Ciriaco, dal bel nome. Così difatti aveva mutato nome il santo che trovò la forza per scoprire la croce. Egli indagò per sapere quale fosse quella del Cristo, e anche questa volta la morte servì di prova alla vita. Come un tempo nel sepolcro, al vedere la presenza del Cristo, così oggi si ritira la morte nel vedere al capezzale del morente la vita che conduce nel paradiso.

22. Ora, a perfezionare il dono della grazia, Cristo, nostro Sovrano, rivelò anche la presenza dei chiodi. Appena rinvenutili, la santa li strinse al cuore, quasi pietre preziose, insieme con la croce. Trasformò poi i chiodi in morsi. Si compiva così l'oracolo del profeta Isaia che aveva detto: “ Un giorno la materia del freno sarà detta sacra “ (Zc 14,20). Ciò ella fece per la vittoria perpetua di quanti riporranno in essi la fiducia. La croce poi ella la donò alle generazioni successive a sicurezza della vita, poiché quelli che ad essa si sarebbero affidati sarebbero entrati con gloria nel paradiso.

 

23. Rifugiandoci sotto la croce, rallegriamoci. Peccatori, siamo sobri: il paradiso è stato aperto da Cristo sulla croce e l'antico Ladrone ne è stato eletto custode. Non chiudiamo a noi stessi quanto non è chiuso. L'amico del Cristo, il Ladrone, affettuosissimo, ha l'incarico di accogliere noi con amicizia: onoriamo dunque la croce, custode della nostra vita, perché a noi assicura la vita dei cieli. Essa protegge tutti dal Maligno e dai suoi assalti. Quanti sono marcati dal sigillo del Cristo hanno la fiducia di entrare nel paradiso.

 

24. Sei divenuto figlio di Maria, o Figlio di Dio, nostro Salvatore, e ti sei lasciato inchiodare sulla croce tu, il Dio incarnato, per salvare gli afflitti e prendere in pietà i peccatori, tu, Potente e Buono. Dona il pentimento a tutti quelli che sperano in te, affinché di gran cuore ti servano con i salmi e con le preghiere. Uniti al Ladrone noi ti gridiamo come lui: “ Ricordati di noi nel tuo regno “ (Lc 23,42). Degnati di unirci al coro dei santi, o Cristo, poiché abbiamo avuto il sigillo della croce per esserne un tutt'uno nel paradiso.

 


10.  LA CROCE E IL CROCIFISSO: LA LITURGIA E LA PIETA’ POPOLARE.

 

Vexilla regis prodeunt

Ecco il vessillo della croce, mistero di morte e di gloria:

l'artefice di tutto il creato è appeso ad un patibolo.

 

Un colpo di lancia trafigge il cuore del Figlio di Dio:

sgorga acqua e sangue, un torrente che lava i peccati del mondo.

 

O albero fecondo e glorioso, ornato d'un manto regale, talamo, trono ed altare al corpo di Cristo Signore.

 

O croce beata che apristi le braccia a Gesù redentore, bilancia del grande riscatto che tolse la preda all'interno.

 

Ave, o croce, unica speranza, in questo tempo di passione accresci ai fedeli la grazia, ottieni alle genti la pace. Amen.

(INNO, Vespri Settimana Santa)

 

 

O Gesù Redentore

O Gesù redentore, immagine del Padre,

luce d'eterna luce, accogli il nostro canto.

 

Per radunare i popoli nel patto dell'amore,

distendi le tue braccia sul legno della croce.

 

Dal tuo fianco squarciato effondi sull'altare

i misteri pasquali della nostra salvezza.

 

A te sia lode o Cristo, speranza delle genti,

al Padre e al Santo Spirito nei secoli dei secoli. Amen.

(INNO, Lodi mattutine, Settimana Santa)

 

Gloria a te, misericordioso!

Cado adorante ai tuoi piedi, Signore!

Ti rendo grazie, Dio di bontà;

Dio di santità, ti invoco, in ginocchio, al tuo cospetto...

 

Per me, indegno peccatore,

hai voluto subire la morte in croce,

liberandomi dalle strette del male.

 

Cosa ti offrirò in cambio della tua generosità?

Gloria a te, amico degli uomini!

Gloria a te, misericordioso!

Gloria a te, longanime!

Gloria a te, che condoni i peccati!

Gloria a te, che sei venuto a salvarci!

Gloria a te, che ti sei fatto uomo nel grembo di una vergine!

Gloria a te, che sei stato legato!

Gloria a te, che sei stato flagellato!

Gloria a te, che sei stato schernito!

Gloria a te, che sei stato inchiodato alla croce!

Gloria a te, che messo in un sepolcro, sei risuscitato!

Gloria a te, che hai predicato il tuo Vangelo agli uomini

ed essi ti hanno creduto!

Gloria a te, che sei salito al cielo!

Gloria a te, che siedi alla destra del Padre

e con lui, in maestà, tra gli angeli,

ritornerai a giudicare chi ha negletto la tua passione!

 

Le potenze del cielo saranno scosse;

tutti gli angeli, gli arcangeli, i cherubini e i serafini

appariranno con timore e con tremore davanti alla tua gloria;

le fondamenta della terra vacilleranno

e tutto ciò che ha un'anima fremerà davanti alla tua maestà.

In quell'ora la tua mano mi ripari sotto le tue ali,

per salvarmi dal fuoco terribile, dallo stridore dei denti,

dalle tenebre esteriori e da una disperazione senza fine.

Che io possa glorificarti cantando:

gloria a colui che con la sua misericordiosa bontà

si è degnato di redimere il peccatore.

(Efrem Siro, Inno a Cristo)

 

O mio eccelso salvatore.

O vittima non destinata al fuoco sacrificale,

accogli la mia preghiera, come olocausto,

e accetta le mie invocazioni;

le mie lacrime valgano il sangue delle vittime espiatorie

e ti siano gradite nelle celebrazioni festive.

O mio eccelso salvatore,

accogli le mie offerte colme d'amore,

esaudisci le mie preghiere, che attendono, o mio maestro,

con ansia di saperle a te gradite.

Ricevesti nel fianco il colpo inferto dalla lancia

e mi mostrasti tutto il tuo amore

con la passione sofferta per me;

mi hai salvato e accolto nella tua casa;

e con il tuo balsamo hai lenito il mio dolore;

con il tuo pane mi ristorasti;

e abitai lieto e sicuro nella tua dimora.

(Efrem Siro, Inno a Cristo).

 

Crux fidelis inter omnes

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

Per noi dolce legno, che porti appeso il Signore del mondo.

 

Esalti ogni lingua nel canto lo scontro e la grande vittoria,

e sopra il trofeo della Croce proclami il suo grande trionfo,

poiché il Redentore del mondo fu ucciso e fu poi vincitore.

 

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

 

D'Adamo comprese l'inganno e n'ebbe il Signore pietà,

quando egli del frutto proibito gustò e la morte lo colse.

Un albero scelse, rimedio al male dell'albero antico.

 

Per noi dolce legno, che porti appeso il Signore del mondo.

 

La nostra salvezza doveva venire nel corso dei tempi,

doveva divina sapienza domare l'antico nemico,

e trarci a salvezza là dove a noi era giunto l'inganno.

 

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

 

E quando il momento fu giunto del tempo fissato da Dio,

ci venne qual dono del Padre il Figlio, Creatore del mondo;

agli uomini venne, incarnato nel grembo di Vergine Madre.

 

Per noi dolce legno, che porti appeso il Signore del mondo.

 

Vagisce il Bambino, adagiato in umile, misera stalla;

le piccole membra ravvolge e copre la Vergine Madre,

ne cinge le mani e i piedi, legati con candida fascia

 

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

 

Compiuti trent'anni e conclusa la vita mortale,

il Signore offrì se stesso alla morte per noi, Redentore del mondo;

in croce è innalzato l'Agnello, e viene immolato per noi.

 

Per noi dolce legno, che porti appeso il Signore del mondo.

 

Or ecco l'aceto ed il fiele, gli sputi, la lancia ed i chiodi;

trafitto l'amabile corpo, da cui rosso sangue fluisce,

torrente che lava la terra, il mare, il cielo ed il mondo.

 

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

 

Or piega i tuoi rami frondosi, stendi le rigide fibre,

s'allenti quel rigido legno che porti con te per natura;

accogli su un morbido tronco le membra del Cristo Signore.

 

Per noi dolce legno, che porti appeso il Signore del mondo.

 

Tu fosti l'albero degno di reggere il nostro riscatto,

un porto prepari per noi, come arca salvezza del mondo,

del mondo cosparso dal sangue versato dal Corpo del Cristo.

 

O Croce di nostra salvezza, albero tanto glorioso,

un altro non v'è nella selva, di rami e di fronde a te uguale.

 

Al Padre sia gloria ed al Figlio, e gloria allo Spirito Santo;

eterna sia gloria per sempre all'Unico e Trino Signore;

il suo amore il mondo ha redento. E sempre il suo amore lo salva.

Amen.

(INNO Adorazione della Santa Croce, Venerdì Santo)

 

La Croce albero della vita

E' veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno.

Nell'albero della Croce tu hai stabilito la salvezza dell'uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall'albero traeva vittoria, dall'albero venisse sconfitto, per Cristo nostro Signore.

Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell'inno di lode.

(PREFAZIO, Festa dell'Esaltazione della Santa Croce, 14 settembre)

 

Il trionfo della Croce

Proemio I

La spada di fuoco non sbarra più

le porte dell'Eden: a lei è subentrato

mirabile chiavistello - il legno della croce.

Il pungolo della morte e la vittoria

dell'Ade vi sono stati inchiodati.

Ti sei affacciato, o mio Salvatore,

gridando ai reclusi nell'Ade:

“Rientrate ancora nel paradiso “.

 

Proemio II

 

Quale autentico riscatto di molti,

inchiodato in forma di croce,

o Cristo nostro Dio, tu ci hai

riscattati: col tuo prezioso sangue

e per amore degli uomini tu hai strappato

le anime nostre alla morte,

ammettendoci di nuovo nel paradiso.

 

Proemio III

 

Il cielo e la terra

a giusto motivo si rallegrano

insieme con Adamo

di nuovo riammesso nel paradiso.

(Romano il Melode)

 

Adorazione della Croce

Proemio

Venerando l'augusto legno

della tua preziosa croce,

o Cristo Dio, supplichiamo te,

Signore che vi sei stato inchiodato:

libera dai pericoli il genere umano,

per la Madre di Dio, tramite la quale

Adamo è stato richiamato nel paradiso.

 

 

Gloria alla tua Croce e alla tua passione

Sei stato crocifisso per me, per effondere su di me il perdono;

sei stato trafitto al fianco per farne sgorgare flutti di vita.

Ti trafissero con chiodi perché, nell'abisso dei tuoi patimenti,

io credessi alla tua sublime potenza,

esclamando a te, o Cristo Dio, che largisci la vita:

“Salvatore, gloria alla tua Croce e alla tua Passione!”.

 

O Cristo, vedendoti crocifisso, tutto il Creato tremava:

le fondamenta della terra furono sconvolte tutte dal timore della tua potenza, le luci del cielo si nascosero, il velo del Tempio si squarciò,

i monti tremarono e si spezzarono le pietre, mentre il Ladrone fedele

ti gridava insieme a noi: “O Salvatore, ricordati!”.

 

Innalzato sulla Croce, hai distrutto la potenza della morte

e cancellato l'antico scritto della nostra condanna;

perché tu sei Dio, concedi anche a noi Signore,

la stessa conversione del Ladrone, o solo Amico degli uomini!

A noi, che con fede ti adoriamo, Cristo Dio nostro,

e gridiamo a te: “Ricordati anche di noi nel tuo regno!”.

 

Ti presentiamo l'intercessione della Madre tua, o Cristo,

che senza seme ti ha generato nella carne

rimanendo Vergine intatta, anche dopo il parto.

O Signore ricco di misericordia, donaci il perdono dei peccati

mentre gridiamo: “Ricordati di noi, Salvatore, nel tuo regno!”.

(Dalla Liturgia bizantina)

 

Inno allo Sposo della Chiesa

Oggi è inchiodato al legno

Colui che ha fatto emergere la terra dalle acque.

Il Re degli Angeli è incoronato di spine.

E' avvolto in una porpora mendace

Colui che avvolge di nubi il cielo.

Riceve uno schiaffo Colui che nel Giordano

ha donato ad Adamo la liberazione.

Lo Sposo della Chiesa è trafitto dai chiodi.

Il Figlio della Vergine è trapassato da una lancia.

Adoriamo la tua Passione, o Cristo.

Mostraci anche la tua gloriosa Risurrezione!

(Tropario al Mattutino, Liturgia Bizantina)

 

 

Venite tutti a celebrare il Crocifisso per noi!

Maria lo guardava sul legno e diceva:

“Anche tu sopporti la Croce,

Tu sei il mio Figlio, e Dio!”.

 

La tua Croce, o Cristo, ha distrutto la tirannide

e calpestato sotto i piedi la potenza del Nemico.

Non un Angelo, infatti, non un uomo,

ma tu stesso, Signore, ci hai salvati!

 

Hai compiuto la salvezza in mezzo alla terra,

hai disteso sulla Croce le tue mani immacolate,

al fine di nutrire tutte le genti.

 

 

Inno al Crocifisso

Te, avvolto dalla luce come da un manto,

Giuseppe e Nicodemo deposero dal legno.

E te contemplando morto, nudo, insepolto,

iniziarono il lamento di compassione.

Gemendo, Giuseppe diceva:

“Ahimé, Gesù dolcissimo,

or non è molto il sole era oscurato da tenebra,

e la terra ha tremato dallo sgomento,

e il velo del Tempio si è squarciato.

Ma ecco, ora ti vedo entrato nella morte per me volontariamente.

Come potrò dare a te sepoltura, o Dio mio?

Come potrò avvolgerti di bende?

Con quali mani toccherò il tuo corpo immacolato?

Con quali canti celebrerò l'esodo tuo, o Misericordioso?

Esalto i tuoi patimenti,

magnifico il tuo sepolcro e la tua Risurrezione,

gridando: Gloria a te, Signore””.

(Epitafion del Venerdì Santo, Liturgia bizantina).

 

Incomprensibile Signore e Dio, gloria a te!

Quando sei stato crocifisso, o Cristo,

tutto il Creato vide, e tremò.

Le fondamenta della terra rimasero sconvolte

dal timore della tua potenza.

Oggi, alla tua esaltazione sulla Croce,

 precipitò nella rovina il popolo iniquo.

Il velo del Tempio si divise in due.

Aperte le tombe, i morti risuscitarono.

Il Centurione vide il prodigio e tremò.

Ma la Madre tua, stando presso la Croce,

 singhiozzava e gemeva maternamente:

“Come potrei non piangere e straziarmi nel vederti nudo,

fisso ad un legno da criminale?

Signore crocifisso e risorto, gloria a te!”.

 

Oggi la Vergine immacolata,

vedendoti issato sulla Croce, o Verbo,

soffriva nelle sue viscere di Madre,

il cuore ella sentiva amaramente trafitto

e, gemendo con dolore dal profondo dell'anima,

si lacerava le guance, si strappava i capelli

si consumava nel grande patire.

Percuotendosi il seno esclamava appena:

“Ahimé, Figlio divino, ahimé luce del mondo!

Perché, o Agnello di Dio, tramonti ai miei occhi?”.

E le Schiere degli Angeli incorporei

colte da timore, dicevano:

“Incomprensibile Signore e Dio, gloria a te!”.

 

Vedendo te sul legno, o Cristo,

tu che sei Creatore di tutte le cose, e Dio,

Colei che senza seme ti aveva generato, diceva desolata:

“Figlio mio, dov'è finita la bellezza del tuo volto?

Non reggo nel vederti iniquamente crocifisso.

Affrettati dunque, risorgi, perché anche io veda

la Risurrezione tua dai morti”.

(Liturgia bizantina, Stichirà di Lodi).

 

O luce del mondo

“L'Agnella, nel vedere il suo Agnello ucciso, gemeva,

sconvolta dal dolore e tutto il gregge gridava con lei.

“O Luce del mondo, Luce mia, Gesù, mio dilettissimo!”

esclamava la Vergine, gemendo sommessa.

“Chi mi darà pioggia, e fonti di lacrime per piangere il mio dolce Gesù?”, lamentava la Vergine Sposa di Dio.

“O monti, o valli, o moltitudine di uomini e universo tutto,

piangete, fate lamento con me, Madre del Dio vostro!”.

“Quando vedrò te, o Salvatore, Luce senza principio,

gioia, delizia del cuore mio?”, piangeva la Vergine.

Vedendoti sulla Croce, o Verbo, trafitto da chiodi,

la Madre tua restò trafitta da frecce di amara pena.

Vedendo ingoiata l'amara bevanda da te,

che sei dolce dell'universo,

la Madre tua ebbe il volto intriso di lacrime:

“Guarda il Discepolo che hai amato, guarda la Madre tua

e dona una tua parola dolcissima”, gridava piangendo la Pura.

“Ahimé, si è compiuta la profezia di Simeone:

la tua spada ha trapassato il mio cuore, o Emmanuele!”

(Liturgia bizantina)

 

 

Adoriamo la tua passione, o Cristo

Oggi viene messo in croce colui che mise la terra sopra le acque:

con una corona di spine viene cinto il capo del re degli angeli,

con falsa porpora viene coperto colui che copre il cielo di nubi;

riceve uno schiaffo colui che nel Giordano diede la libertà ad Adamo:

lo sposo della Chiesa viene confitto in croce:

il figlio della Vergine viene trafitto con una lancia.

Adoriamo la tua passione, o Cristo;

e tu mostraci anche la tua gloriosa risurrezione.

 

Lodi alla Croce

O Croce, benedizione del mondo,

o speranza, o sicura redenzione,

un tempo passaggio alla geenna,

ora luminosa porta del cielo.

 

In te è offerta l'ostia

che tutto trasse a se.

L'assale il principe del mondo

ma nulla di suo vi trova.

 

L'articolo della tua legge

annulla l'antica sentenza.

Perisce l'atavico servaggio,

vien resa la vera libertà.

 

La magnificenza del tuo profumo

vince tutti gli aromi.

La dolcezza del tuo nettare

riempie i recessi del cuore.

 

Per la Croce, o Cristo, ti preghiamo

conduci al premio della vita

quelli che inchiodato al legno

redimere ti sei degnato.

 

Sia gloria al Padre ingenerato,

splendore sia all'Unigenito,

e maestà sia pari

di entrambi alla gran Fiamma.

(Pier Damiani, Nel ritrovamento della Santa Croce)

 

Antifona

Oggi viene messo in croce colui che mise la terra sopra le acque: con una corona di spine viene cinto il capo del re degli angeli, con falsa porpora viene coperto colui che copre il cielo di nubi; riceve uno schiaffo colui che nel Giordano diede la libertà ad Adamo: lo sposo della Chiesa viene confitto in croce: il figlio della Vergine viene trafitto con una lancia. Adoriamo la tua passione, o Cristo; e tu mostraci anche la tua gloriosa risurrezione.

(Liturgia bizantina, Antifona all'ora nona)

 

Inno alla Croce

O croce grande bontà di Dio, croce gloria del cielo,

croce salvezza eterna degli uomini,

croce terrore dei malvagi, forza dei giusti, luce dei fedeli.

O croce che hai fatto sí che Dio nella carne

fosse di salvezza alle terre

e, nei cieli, che l'uomo regnasse su Dio.

Per te splendette la luce della verità, l'empia notte fuggì.

Tu distruggesti per i pagani convertiti i templi scalzati,

tu armoniosa fibbia di pace,

che concilii l'uomo col patto di Cristo.

Tu sei la scala per cui l'uomo può essere portato in cielo.

Sii sempre a noi tuoi devoti fedeli colonna ed àncora,

perché la nostra casa stia salda e la flotta sicura.

Sulla croce fissa la tua fede, dalla croce prendi la corona.

(Paolino di Nola, Carmen 19)

 

 

Orazione

O Dio al quale obbediscono tutte le creature

e tutto nel Verbo facesti con sapienza,

supplici preghiamo la tua ineffabile clemenza,

affinché coloro che per il legno della santa Croce

del Figlio tu con pietoso sangue

ti sei degnato redimere,

tu che sei il legno della vita

e il restauratore del paradiso,

estingui in coloro che ti invocano

l'antico veleno del serpente

e per la grazia dello Spirito Santo

infondi sempre in loro la bevanda di salvezza.

(Sacramentario Gelasiano, n 870)

 

Invocazioni al Santissimo Redentore

Anima di Cristo, santificami.

Corpo di Cristo, salvami.

Sangue di Cristo, inebriami.

Acqua del costato di Cristo, lavami.

Passione di Cristo, confortami.

O buon Gesù, esaudiscimi.

Fra le tue piaghe ascondimi.

Non permettere ch'io mi separi da te.

Dal nemico maligno difendimi.

Nell'ora della morte chiamami.

E comanda che io venga a te.

Affinché ti lodi con i tuoi santi.

Nei secoli dei secoli. Così sia.

 

A Gesù Crocifisso

Eccomi, o mio amato e buon Gesù,

che alla santissima tua presenza prostrato,

ti prego col fervore più vivo

a stampare nel mio cuore sentimenti di fede, speranza, carità,

dolore dei miei peccati e proponimento di non più offenderti;

mentre io con tutto l'amore e con tutta la compassione

vado considerando le tue cinque piaghe,

cominciando da ciò che disse dite, o mio Dio, il santo profeta Davide:

“Trapassarono le mie mani ed i miei piedi,

contarono tutte le mie ossa” (Sal 21,17)

 

 Colloquio intimo con Dio

Ritengo dunque auspicabile dire qui

qualcosa delle sofferenze che per me Tu hai sofferto,

o Dio di tutti.

Ti sei tenuto in piedi nel tribunale della creatura,

in una natura che era la mia;

Non hai parlato, Tu che doni la parola;

Non hai alzato la voce, Tu che crei la lingua;

Non hai gridato, Tu che scuoti la terra;

Non hai ruggito, Tu che sei la tromba che risuona

agli orecchi di tutti nella Maestà;

Non li hai biasimati, nonostante i tuoi benefici,

e non hai loro, nonostante le loro malvagità, chiuso la bocca;

Non hai abbandonato alla confusione

chi Ti abbandonava ai tormenti della morte;

Non hai opposto resistenza, quando Ti legavano;

e quando Ti schiaffeggiavano, non Ti sei indignato;

quando Ti coprivano di sputi, Tu non hai ingiuriato,

e quando Ti davano pugni, Tu non hai fremuto;

Quando si facevano burle di Te, non ti sei corrucciato;

E quando Ti schernivano, non hai alterato il tuo viso.

Lo hanno spogliato della tunica che Lo ricopriva

come se Egli fosse impotente,

e di nuovo ve Lo hanno rivestito

come un detenuto incapace di fuggire...

Con la flagellazione, all'ultima ignominia

L'han consegnato in mezzo a plebaglia abietta;

han piegato il ginocchio per insultarlo

e gli han posto sul capo una corona per disprezzo

(cf. Mt 27,26-31).

Lungi dal darTi un attimo di tregua, o Fonte della vita,

T'hanno apprestato, per portarlo

lo strumento di morte.

Con magnanimità Tu l'hai accolto,

l'hai preso con dolcezza,

l'hai sollevato con pazienza;

Ti sei caricato, come fossi un colpevole,

del legno dei dolori!

Sulla sua spalla Egli ha portato l'arma di vita,

come il fiore di giglio delle valli (cf. Ct 2,1).

Ti han cacciato fuori come la vittima dell'olocausto;

Ti hanno sospeso come l'ariete

impigliato al cespuglio per le corna (cf. Gen 22,13);

Ti hanno disteso sull'altare della Croce come una vittima;

Ti hanno inchiodato quasi Tu fossi un malfattore;

Ti hanno inchiodato come un ribelle;

Tu che sei la Pace celeste, quasi Tu fossi un brigante;

Tu che sei la grandezza inviolabile, come un uomo dei dolori;

Tu che sei adorato dai Cherubini, come un essere spregevole

(cf. Is 53,3)

 

Tu che sei la causa della vita,

come degno d'esser distrutto dalla morte;

Tu che hai esposto l'Evangelo,

come un bestemmiatore della Legge;

il Signore e il compimento dei Profeti,

come un trasgressore delle Scritture;

Tu che sei il raggio di gloria e il sigillo

di pensieri insondabili del Padre (cf. Eb 1,3),

come avversario della volontà di Colui che Ti ha generato;

Tu che sei veramente Benedetto, come un esiliato;

Tu che hai sciolto il legame della Legge,

come uno scomunicato (cf. Gal 3,13);

 

Tu che sei un fuoco divoratore (cf. Dt 4,24),

come un prigioniero condannato;

Tu che sei temibile in cielo e in terra,

come un uomo giustamente castigato (cf. Is 53,4);

Tu che sei nascosto in una luce inaccessibile (cf. 1Tm 6,16),

come uno schiavo terrestre!

(Gregorio di Narek, Libro delle orazioni)

 

        Litanie della Santa Croce

 

Croce misericordiosa

Albero della Passione

Trono del Regno

Scettro della Maestà divina

Sgabello dei piedi del Signore

Bastone del Pastore divino

Corona della Gloria

Arma della Vittoria

Arma di pace

Altare del Sacrificio

Tavola dell'Offerta

Talamo nuziale

Fontana del Sangue e dell'Acqua

Prezzo del riscatto

Ara della riconciliazione

Caparra della resurrezione

Colonna del creato

Ancora di eternità

Sostegno dell'universo

Scala celeste

Rivelazione della Sapienza eterna

Verità della Misericordia

Vessillo militante

Vessillo fiammeggiante

Audacia divina

Onore divino

Luogo della propiziazione

Tempio dell'intercessione

Santuario della riconciliazione

Strumento del soccorso

Visione di vocazione

Fontana della Comunione

Inimicizia contro i demoni

Disfatta dei demoni

Predatrice dell' inferno

Protezione sovrana

Fortezza inespugnabile

Segno della Gioia divina

Divino Tesoro piantato sulla terra

Albero fiorito

Legno che fa fiorire la Vita

Legno fruttuoso

Albero vivificante

Legno che sostiene il Grappolo divino

Albero del Cibo immortale

Albero del Cibo dell'incorruzione

Scala per il cielo

Porta del Paradiso

Luce dei credenti

Protezione dei credenti

Vanto dei credenti

Onore dei battezzati

Consacrazione dei confermati

Conforto dei credenti

Forza dei perseguitati

Icona della fede

Speranza dei forti

Forza dei deboli

Medicina per i malati

Fermezza dei giusti

Soccorso unico per tutti

Difesa dei piccoli

Guida per i ciechi

Albero della Nave

Faro per gli erranti

Liberazione perfetta dell'Adamo caduto

Sostegno per i ritardati

Bastione contro l'inferno

Via per i moribondi

Porto dei flagellati dalla tempesta

Resurrezione di tutti i morti.[29]

 


CONCLUSIONE

In compagnia del Crocifisso Risorto abbiamo ricercato nelle Scritture quanto si riferiva a lui, “cominciando da Mosé e da tutti i profeti”. Abbiamo così visto che quella che il mondo chiama “stoltezza della croce” è invece  potenza di Dio” (1 Cor 1, 18). Tutto è avvenuto “secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio” (Atti 2,23).

Il Crocifisso Risorto, facendosi nostro compagno di viaggio, ci ha spiegato con le Scritture che egli è: l'Agnello pasquale al quale non si devono spezzare le gambe; è il nuovo Tempio dal cui fianco squarciato scaturisce il dono pasquale dell'acqua-Spirito; è il nuovo Adamo che nel sonno della morte genera la nuova Eva, la Chiesa-Madre dei nuovi figli destinati non più alla morte, ma alla vita; è il Re-Messia innalzato sul trono della croce per attirare tutti a sé; è il Servo di Jahvè che offre in sacrificio la propria vita per il riscatto dei molti-tutti; è il nostro Sommo Sacerdote, sempre vivo, che con uno Spirito eterno ha offerto se stesso al Padre per fare di noi un'offerta gradita al Dio vivente; è il nuovo Giuseppe venduto dai fratelli, dalla cui sofferenza Dio ha pensato di tarne un bene (cf Gen 50,20); è l'Uomo levato in alto, fonte della vita definitiva da cui scaturisce l'acqua-Spirito per la vita eterna; è il Re della gloria, colui che gli uomini hanno ucciso, ma che Dio ha risuscitato costituendolo Salvatore universale.

La nostra meditazione sul Crocifisso non può dirsi certo conclusa; abbiamo solo individuato alcune tra le principali  figure che nei Vangeli e nei Padri ci aiutano a comprendere la grandezza di questo mistero di morte che, fecondato dall'amore inesauribile del Figlio di Dio, diviene strumento di vita.

A questo punto è necessario porre termine alle parole e fare spazio alla preghiera e alla contemplazione dinanzi al Crocifisso. Dobbiamo fare nostri i sentimenti del Centurione sotto la croce: «Veramente quest'uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39).

San Paolo, nella Lettera ai Filippesi, si fa portavoce di questa preghiera, espressione della fede delle prime comunità cristiane che cantavano inni a Cristo, il Servo fedele che si è fatto obbediente fino alla morte di croce:

“Pur essendo di natura divina... spogliò se stesso,

assumendo la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini;

apparso in forma umana umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e alla morte di Croce”  (Fil 2, 6-8).


INDICE

1.      LA CROCE.

2.      LA CROCIFISSIONE

3.      IL SIGNIFICATO DELLA CROCE

4.      LO SCANDALO DELLA CROCE.

5.      CHI È IL CROCIFISSO?

5.1.            L'Agnello pasquale.

5.2.            Il nuovo tempio.

5.3.            Il nuovo Adamo.

5.4.            Il Re della gloria

5.5.            Il Servo di Jahvè.

5.6.            Il nuovo sommo Sacerdote.

5.7.            Il nuovo Giuseppe.

5.8.            L'Uomo levato in alto.

6.      Il segno della croce.

7.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: ICONOGRAFIA, ICONOLOGIA, ICONOSOFIA.

8.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: RIFLESSIONI DAL MAGISTERO E DALLA TEOLOGIA CONTEMPORANEA.

8.1     Il Mistero Pasquale. Misericordia rivelata nella croce e nella risurrezione

8.2     Partecipi alle sofferenze di Cristo.

8.3     Beata colei che ha creduto.

8.4     La croce, prova del più grande amore

8.5     La croce alla luce della carità trinitaria.

8.6     L'aspetto trinitario della croce di Gesù Cristo o il problema della «sofferenza di Dio»

 

9.      LA CROCE E IL CROCIFISSO: I PADRI DELLA CHIESA.

9.1.            Dagli Inni di Romano il Melode.

9.2.            Dai Discorsi  di san Pietro Crisologo, vescovo.

9.3.            Dai Discorsi di sant'Efrem, diacono.

9.4.            Dai Discorsi  di sant'Agostino, vescovo.

9.5.            Dai Discorsi di san Leone Magno, papa.

9.6.            Dall' Omelia di Giovanni Crisostomo “sulla croce e sul ladrone”.

9.7.            Dall'Epitome delle Divine Istituzioni di Lattanzio: efficacia e potenza della croce.

9.8.            Dalla Grande Catechesi di Gregorio di Nissa: il significato misterioso della croce.

9.9.            Dal Commento al Salmo 95 di S. Girolamo: la croce nell'anima.

9.10.        Dall'Esposizione della fede ortodossa di S. Giovanni Damasceno: è in virtù della croce che si riconoscono i credenti dagli increduli.

9.11.        Dalle Catechesi battesimali di Cirillo di Gerusalemme: la croce nostra somma gloria.

9.12.        Dai Sermoni di S. Leone Magno, papa: l'esempio del signore crocifisso.

9.13.        Dai Sermoni di S. Leone Magno, papa: inno alla croce.

9.14.        Dalla Dimostrazione della predicazione apostolica di S. Ireneo di Lione: il significato ultratemporale e ultramondano della croce.

9.15.        Da Contro i pagani di S. Atanasio: la rivelazione della salvezza del mondo attraverso la croce.

9.16.        Da La fede e le opere di S. Agostino: ci uniamo al crocifisso crocifiggendo i nostri piaceri carnali.

9.17.        Dalle Omelie spirituali dello Pseudo-Macario: soffrire con Cristo.

9.18.        Dalla Predica per la festa di un santo martire di Gregorio Magno: due modi di portare la croce.

9.19.        Dalle Omelie sui Numeri di Origene: nell'imitare cristo consiste il sacrificio perfetto.

9.20.        Da Ottavio di Minucio Felice: il segno della croce nelle tradizioni pagane.

9.21.        Da La città di Dio di S. Agostino: la croce, speranza dei popoli.

9.22.        Dalle Catechesi per i neofiti di S. Giovanni Crisostomo: ci si difende con la croce, non con gli amuleti o gli incantesimi.

9.23.        Dalla Prima apologia di Giustino: il valore del segno della croce

9.24.        Dalla Lettera di Barnaba: il significato allegorico della croce.

9.25.        Dal Commento al Vangelo di san Giovanni di S. Agostino: figlio di Maria nella carne, Signore di Maria nella gloria.

9.26.        Dai Sermoni di S. Leone Magno: trafiggi la mia carne col tuo timore.

9.27.        Dal Discorso 49 di S. Agostino.

9.28.        Dall'Omelia sul libro dei Numeri  di Origene: Nell`imitare Cristo consiste il sacrificio perfetto

9.29.        Romano il Melode: Il trionfo della croce

9.30.        Romano il Melode: Adorazione della croce

10.  LA CROCE E IL CROCIFISSO: LA LITURGIA E LA PIETA’ POPOLARE.

 

CONCLUSIONE

INDICE


BIBLIOGRAFIA.

 

BALAGUÉ M., Croce, in AA.VV., Enciclopedia della Bibbia, 6 voll., LDC, Torino-Leumann 1969, 678-679.

GROSSI V., Croce, Crocifisso, in AA.VV., Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato (AL) 1983, vol 1, 864-867.

LECLERCQ H., Croix et Crucifix, DACL, Paris 1915-1953, pp 3045-3131

LURKER M., Croce, Crocifissione, in Id., Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 64-66.

McKENZIE J.L., Croce, in Id., Dizionario biblico, Cittadella Editrice, Assisi 1981, pp.209-211

SIEDE B. - BRANDENBURGER E., Croce, Albero, in COENEN L. - BEYREUTHER E. - BIETENHARD H., Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1976, 414-428.

 



[1] CEI, Documento pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità. Orientamenti pastorali dell'Episcopato italiano per gli anni '90, Roma 8 dicembre 1990, n. 13: ECEI 4/2731.

[2] Dal sanscrito svasti, (salute, bene, felicità), la svastica fu originariamente un simbolo solare di buon auspicio, che venne poi interpretato come emblema di rassegnazione dai buddisti, come il segno dell'ultimo profeta dai giainisti, come raffigurazione della notte, della magia e della forza distruttiva della dea Kali dagli indù e, infine, fu impiegata come simbolo nazista durante la seconda guerra mondiale.

[3]  Dt 21,22-23; cfr Gs 8,29; 10,26-27; anche Gen 40,19

[4] Iniziali della parola ΧΡΙΣΤΟΣ (Christos).

[5] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, Ad Eph. 9,1 e 18,1; Ad Trall 11,2; Ad Philad. 8,2

[6] GIUSTINO, Apol I, 60,1 e 5)

[7] GIUSTINO, Dial 86)

[8] EUSEBIO., Hist. Eccl. V, 23,1

[9] CIRILLO DI GERUSALEMME, Cat. 13,36

[10] AGOSTINO, In Io. ev. tr. 118, 5

[11] Il detto sul «portare la croce » viene tramandato 5 volte dai sinottici secondo due tradizioni diverse. Una versione è data da Mt 10, 38 e Lc 14, 27, in formulazioni differenti, ma ambedue derivanti dalla fonte Q (« fonte loghia »); la redazione di Luca dev'essere la più vicina alla fonte. L'altra versione è data da Mt 16, 24 e Lc 9, 23 che l'hanno desunta da Mc 8,34; Luca aggiunge kath'heméran: portare la croce su di sé dev'essere un fatto «quotidiano», sempre rinnovato e non paralizzante. La versione Q, che esprime in forma negativa la condizione per essere discepoli, dev'essere la più originaria: colui che come discepolo non porta la propria croce e non segue Gesù per la via che egli ha aperto, non potrà essere suo discepolo. La versione di Mc parla in termini positivi del prendere la via di Cristo, il che significa prendere su di sé la croce.

 

[12] Secondo Col 2, 14, Cristo ha annullato « il documento-scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo sulla croce ». Si intrecciano qui due immagini: 1) quella del «registro dei debiti », suggerita evidentemente da una pratica dei commercianti nell'antichità; su di esso sono registrate le prescrizioni della legge giudaica e i precetti dei falsi dottori, la cui testimonianza d'accusa è ora cancellata; 2) l'immagine di una dichiarazione scritta e affissa pubblicamente per ordine dell'autorità ufficiale; forse si riflette qui l'usanza di affiggere talvolta alla croce un titulus con scritta la causa poenae del condannato. Queste immagini ci dicono, nel loro complesso, che Cristo ha fatto della croce un manifesto pubblico e provvisto di valore legale che proclama la cancellazione dei nostri peccati e la fine di qualunque pretesa della legge.

 

[13] Ippolito, nell'esperto timoniere, vede Cristo; nell'albero maestro, la croce; nei due timoni, i due testamenti; nella bianca vela, lo Spirito Santo. Nei Padri si incontra anche questa interpretazione: senza la nave di legno, tenuta insieme dai chiodi, non si può navigare in mare; senza che Cristo sia inchiodato alla croce non si può affrontare il male di questo mondo.

[14] In Giustino si trova per la prima volta l'interpretazione dell'arca come figura del legno redentore della croce di Cristo. S. Agostino considera l'arca prefigurazione della Chiesa pellegrina in questo mondo, «che viene salvata dal legno, da cui pende il mediatore tra Dio e gli uomini», e - in un'ulteriore identificazione dell'arca col corpo di Cristo - interpreta la porta dell'arca (Gen 6,16) come la ferita nel costato del Crocifisso da cui passa l'unica via verso la salvezza.

[15] In effetti è solo Luca a parlare di un ladrone buono (Lc 23,40-43), mentre Matteo (27,44) e Marco (15,32) ci dicono che entrambi i ladroni oltraggiavano Gesù. Giovanni non parla affatto di questi due condannati, come pure evita di parlare di Simone di Cirene che avrebbe aiutato Gesù a portare la croce (cf Mt 27,32; Mc 15,21). Per Giovanni, il Cristo sulla Croce è il Re "innalzato sul trono", il Sovrano che "attira" tutti a sé (Cf Gv 12,32). Il richiamo alla bilancia che si eleva verso destra è un richiamo anche a  Matteo 25,33.34 che parla delle pecore poste alla sua destra mentre i capri sono posti alla sua sinistra.

 

[16] Si consiglia di leggere tutto il Discorso in: Ufficio delle letture, venerdì II di Pasqua.

[17] Nella tradizione biblica "redentore" (in ebraico go`êl) è dapprima il parente stretto, vendicatore del sangue (Nm 35,19), colui che riscatta il prigioniero per debiti, colui che deve difendere la vedova (Rt 2,20). La parola designa dunque Dio come protettore dell`oppresso e liberatore del popolo. In questo senso, è molto frequente nei salmi (cf. Is 19,15) e nella seconda parte di Isaia (Is 43,14, Is 44,6, Is 44,24, Is 47,4, Is 48,17, Is 59,20; cf. Ger 50,34). Il NT e la teologia cristiana riprenderanno l`idea per applicarla a Gesù, che è pure il «redentore», Colui che ci ha «comprati» a caro prezzo (cf 1 Pt 1,18-19; Rm 3,24; 1 Cor 1,30; Ef 1,7.14; Col 1,14; Eb 9,15).

 

[18] At 2,36; 4,10; 1 Cor 1,13; 2,8; 2 Cor 13,4; Eb 6,6; Ap 11,8

[19] L'ultima parola di Cristo in Croce è «tutto è compiuto» (Gv 19,30); Giovanni usa qui il verbo «teleioô», verbo che ricorre anche in Gv 19,28 («sapendo Gesù che ormai tutto era compiuto») e in Gv 17,4 («Io ti ho glorificato sulla terra, avendo perfettamente compiuto l'opera che mi hai dato da fare») e in Gv 13,1 («dopo aver amato i suoi… li amò sino alla fine [eis telos]»); la Croce diventa la suprema manifestazione dell'amore di Cristo per i suoi. Il tutto è compiuto è come il grido di trionfo di Gesù innalzato sul trono della croce. Giovanni (ma anche Luca) si guarda bene dal mettere sulla bocca di Gesù morente le parole di dolore che invece sono riportate da Matteo 27,46 e da Marco 15,34; egli ha voluto conservare solo la maestà serena di questa morte. S. Paolo chiamerà questo Crocifisso «il Re della gloria» (1 Cor 2,8).

 

[20] E' probabile che questa prescrizione sia dovuta al fatto che, essendo le ossa un organo riproduttore di sangue e quindi contenenti sangue, per evitare di mangiare anche involontariamente il sangue, sede della vita (Lev 17,11.14), si proibiva di spezzare le ossa per succhiarne il midollo.

[21]Si noterà come tutti i crocifissi hanno il lato "destro" trafitto, contro ogni buonsenso che sa essere il cuore nel lato "sinistro". La forte assonanza con il lato "destro" del Tempio in Ez 47,1 portò alcuni amanuensi del Medioevo ad aggiungere "destro" anche al testo di Gv 19, 34. Avendo negli orecchi il "lato destro" i pittori dipingevano i crocifissi con la ferita sul lato destro.

[22] Giovanni usa qui lo stesso avverbio anôthen-dall’alto, che già aveva usato in Gv 3,3.7 nel dialogo con Nocodemo, quando aveva detto che "nessuno può vedere il regno di Dio se non rinasce dall’alto"; in Gv 8,23 l'alto (anô) è la stessa dimora-origine di Cristo.

[23] Rito della Iniziazione Cristiana degli Adulti nn. 83-85

[24] Il termine Iconoclastìa (greco, eíkon, “immagine"; kláein, "spezzare"), indica generalmente qualsiasi movimento contrario all'utilizzo delle immagini a fini religiosi. Il movimento iconoclasta più famoso fu quello che turbò l'impero bizantino nei secoli VIII e IX. Nel 726 e 730 l'imperatore Leone III l'Isaurico, in parte per scongiurare le accuse di idolatria mosse dai musulmani, promulgò un decreto che proibiva la venerazione delle immagini. Questa decisione venne condannata dal papa, ma l'imperatore impose vigorosamente la dottrina iconoclasta a Costantinopoli, e ancora più suo figlio e successore Costantino V, che fece condannare il culto delle immagini come idolatria nel sinodo svolto nel palazzo di Hieria, alla periferia di Costantinopoli, nel 754. La salita al trono dell'imperatrice Irene portò un mutamento politico e gli iconoclasti furono condannati a loro volta dal II concilio di Nicea nel 787. Un nuovo periodo iconoclasta ebbe inizio sotto gli auspici imperiali nella prima metà del IX secolo, terminando con la condanna finale dell'iconoclastia nel concilio tenutosi nel 843 sotto il patronato dell'imperatrice Teodora II.

[25] Conclusioni del secondo Concilio di Nicea, 787, «settimo ecumenico» e ultimo celebrato congiuntamente tra Oriente e Occidente.

[26] Il latino sàpere significa sia conoscenza, sia sapore (da cui recta sàpere: conoscere correttamente, conoscere con gusto-sapore).

[27] Romano il Melode scrisse questo Inno a Costantinopoli, verso l'anno 500. Protagonisti di questo Inno sono l'Ade e il Diavolo che, vedendosi caduti nel proprio tranello, ammettono la propria disfatta. La Croce è ben più efficace del bastone che liberò gli Ebrei dall'Egitto. La Croce è divenuta il trono dal quale Cristo rende giustizia al Ladrone. Da amara radice, la Croce è divenuta dolce vitigno, tronco sacro, pianta della vita.

[28] Composto da Romano il Melode a Costantinopoli verso l'anno 500, questo Inno canta, nella prima parte, l'episodio del buon Ladrone: dalla Croce egli ha trovato la vita; entrando nel Paradiso portando la Croce, canta un bellissimo inno alla Croce. Nella seconda parte si parla del rinvenimento della Croce ad opera di Elena, madre di Costantino. L'Inno si chiude con una invocazione alla Croce e a Cristo per ottenere il pentimento e l'ingresso nel Paradiso.

[29] Con adattamenti da: FEDERICI T., Resuscitò Cristo, Palermo 1996, pp.1083-1086