PAOLO
GIGLIONI
INCULTURAZIONE
Teoria
e prassi
LIBRERIA
EDITRICE VATICANA
00120
CITTÀ DEL VATICANO
1999
“E’ fuori dubbio che il terzo millennio si profili come un rinnovato appello alla missione universale e, al tempo stesso, all’inculturazione del Vangelo da parte delle varie chiese locali”
(GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 1998)
PRESENTAZIONE
Sono trascorsi quasi venti anni da quando il termine inculturazione fu usato per la prima volta in un documento pontificio.[1] Da quella data in poi, il tema dell’inculturazione si è progressivamente conquistato un posto di primo piano in ogni discorso riguardante la missione e l’evangelizzazione. Anche la bibliografia su questo argomento è quantomai ricca.
Tra le altre pubblicazioni, questa del Prof. Paolo Giglioni, che ben volentieri ho accettato di presentare, si caratterizza per alcune qualità che qui di seguito elenco:
La completezza del discorso. Risente della didattica universitaria, nella Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana. Agli operatori della missione occorre offrire un discorso ampio, completo, documentato, su un argomento che Giovanni Paolo II ha definito «un’esigenza…oggi particolarmente acuta ed urgente…un processo che richiede discernimento e profondo equilibrio» (RMi 52) nel contesto dell’opera missionaria della Chiesa. Come suona lo stesso sottotitolo del volume, si offre qui non solo la teoria dell’inculturazione, cioè la sua componente storica e teologica, ma anche la prassi dell’inculturazione: basti vedere le applicazioni alla liturgia, alla catechesi, alla religiosità popolare, all’evangelizzazione dei nuovi areopaghi come i mass-media, la cultura, la modernità.
L’aggiornamento delle tematiche. Mi riferisco in particolare all’attenzione che viene data ai recenti Documenti del Magistero ed ai recenti Sinodi Continentali (Europa, Latinoamerica, Africa, America, Asia, Oceania). Stesso discorso per la Bibliografia ampia e aggiornata.
Un compito specifico che compete all’Urbaniana. Ricordo con vivo piacere quando, essendo Rettore Magnifico della Pontificia Università Urbaniana, ebbi la gioia di accogliere la visita di Giovanni Paolo II (19.10.1980) il quale, riconoscendo come specifica caratteristica di questa Università la «missionarietà», le affidava uno specifico compito di studiare il rapporto tra messaggio cristiano e culture diverse: «…l'Istituto missionario scientifico […] dovrà approfondire con rigore scientifico il problema dell'inculturazione del Vangelo e dovrà formare adeguatamente i futuri Araldi che in tutte le nazioni sappiano diffondere il messaggio di Cristo senza adulterarlo o svuotarlo, ma portandolo nel cuore stesso della vita e delle tradizioni dei vari popoli per elevarli a Cristo, via, verità e vita dell'uomo (cfr. Gv 14,6)».
Un debito personale. Nel 1986 io stesso, raccogliendo i frutti di numerosi anni di insegnamento all’Urbaniana, pubblicai un volume dal titolo Missione e cultura. Sono particolarmente lieto di vedere come quei principi che si rifanno al Vaticano II e alla teologia dell’inculturazione, siano oggi ripresi, ampliati, sviluppati (di particolare interesse il fondamento cristologico dell’inculturazione e l’accostamento con il Concilio di Calcedonia che si propone come parametro per valutare il rapporto tra Vangelo e cultura). Ancora oggi, come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, sto sperimentando come la «santità», che si realizza in ogni latitudine della Chiesa Cattolica, sia essa stessa un fenomeno anche culturale: i Santi evangelizzatori hanno saputo mirabilmente incarnarsi nelle varie culture, hanno saputo scorgervi i semi del Verbo, si sono avvicinati ad esse con stima e rispetto, convinti che la missione non è mai distruzione, ma una riassunzione di valori e una nuova costruzione (RH 12). «Il vero missionario è il santo […] L’universale vocazione alla santità è strettamente collegata all’universale vocazione alla missione» (RMi 90)
A questa pubblicazione, che si colloca come valido strumento di riflessione nel lungo e coraggioso processo dell’inculturazione, auguro vivamente di portare frutti abbondanti nell’opera missionaria affinché il Vangelo possa penetrare sempre più profondamente l’anima delle culture viventi per farle crescere alla dimensione della fede cristiana.
Roma, 3 Dicembre 1998
Memoria di S. Francesco Saverio
Patrono delle Missioni
S.E.R. Mons. José Saraiva Martins
Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi
SIGLE E ABBREVIAZIONI
AAS Acta Apostolicae Sedis, Città del Vaticano 1909ss
AG Decreto Ag gentes sull'attività missionaria della Chiesa, 7.12.1965: AAS 58 (1966) 947-990; EV 1/1087-1242.
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica, 12.10.1992
CCL Corpus Christianorum Latinorum. Saries
Latina (Turnhout 1953s)
CEI Conferenza Episcopale Italiana
CfL GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici su vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, 30.12.1988: AAS 81 (1989) 393-521; EV 11/1606-1900
CIC Codex iuris canoni, promulgato dal papa Giovanni Paolo Il, Roma 25.1.1983: EV 8.
CT GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae sulla catechesi nel nostro tempo, 16.10.1979: AAS 71 (1979) 1277-1340; EV 6/1764-1939
DCG SACRA CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio catechistico generale, 11.4.1971: AAS 64 (1971) 97-176; EV 4/453-654
DGC CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi [15.08.1997], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997.
DS DENZINGER H. - SCHÖNMETZER A., Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum, Herder, Barcinone, Friburgi Br, Romae 361976.
DV Costituzione dogmatica Dei verbum sulla divina rivelazione, 18.11.1965: AAS 58 (1966) 817-835; EV 1/872-911
ECEI Enchiridion della Conferenza episcopale italiana, EDB, Bologna, vol. I, 1985; vol. II, 1985; vol. III, 1986; vol IV, 1991.
EDB Edizioni Dehoniane Bologna
EMI Editrice Missionaria Italiana
EN PAOLO VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull'evangelizzazione nel mondo contemporaneo, 8.12.1975: AAS 68 (1976) 5-76; EV 5/1588-1716
EV Enchiridion vaticanum, voll. 1-12, EDB, Bologna 1976ss.
FABC Federation
of Asian Sishops' Conferences
GLNT Grande Lessico del Nuovo Testamento, trad. it. di TWNT, a cura di F. Montagnini, Paideia, Brescia 1965-1990.
GS Costituzione pastorale Gaudium et spes su la Chiesa nel mondo contemporaneo, 7.12.1965: AAS 58 (1966) 1025-1120; EV 1/1319-1644
IGMR SACRA CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Institutio Generalis Missalis Romani (Principi e norme per l'uso del Messale romano), 26.3.1970: EV 3/2017-2414
Insegnamenti Insegnamenti, [di PAOLO VI, fino al 1978 compreso; di GIOVANNI PAOLO II, dal 1979 ad oggi], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano.
LDC Edizioni Libreria Dottrina Cristiana, Leumann (TO)
LG Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21.11.1964: AAS 57 (1965) 5-71; EV 1/284-456
NA Dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, 28.10.1965: AAS 58 (1966) 740-744; EV 1/853-871
OICA RITUALE ROMANUM, Ordo Initiationis Christianae Adultorum [6.1.1972], Typis Polyglottis Vaticanis 1972, 19742; EV 4/1345-1515.
OR L'Osservatore Romano, Città del Vaticano 1849ss.
OT Decreto Optatam totius sulla formazione sacerdotale, 28.10.1965: AAS 58 (1966) 713-727; EV 1/771-818
PO Decreto Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri, 7.12.1965: AAS 58 (1966) 991-1024; EV 1/1243-1318
PUG Pontificia Università Gregoriana
PUU Pontificia Università Urbaniana
RMi GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Redemptoris missio circa la permanente validità del mandato missionario, 7 dicembre 1990, AAS 83 (1991) 249-340; EV 12/547-732.
SA GIOVANNI PAOLO II, Epistola enciclica Slavorum apostoli nel ricordo dell'opera evangelizzatrice dei santi Cirillo e Metodio dopo undici secoli, 2.6.1985: AAS 77 (1985) 779-813; EV 9/1554-1614
SC Costituzione Sacrosanctum concilium sulla sacra liturgia, 4.12.1963: AAS 56 (1964) 97-138; EV 1/1-244
SCh Sources
Chrétiennes (Paris 1941s)
TMA GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente all’episcopato, al clero ai fedeli circa la preparazione del Giubileo dell’anno 2000, 10.11.1994.
UUP Urbaniana University Press
INTRODUZIONE[2]
La Chiesa che vive nel tempo è per sua natura missionaria in
quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo che
essa, secondo il piano di Dio Padre, trae la propria origine. Questo piano
scaturisce dalla «fonte d'amore», cioè dalla carità di Dio Padre. L'idea
missionaria interpreta l'idea di Dio. E' un'idea divina, perciò un'idea misteriosa
ed immensa, un'idea stupenda ed amorosa, un'idea necessaria ed urgente.[3]
Evangelizzare, pertanto, è la grazia e la vocazione propria
della Chiesa, la sua identità più profonda; essa esiste per evangelizzare, vale
a dire per predicare e insegnare, essere il canale del dono della grazia,
riconciliare i peccatori con Dio, perpetuare il sacrificio del Cristo nella
Santa Messa che è il memoriale della sua morte e della sua gloriosa
risurrezione[4].
Questo disegno divino che la Chiesa porta con sé, in questi
ultimi tempi si è svegliato; la Chiesa ne ha preso maggiore consapevolezza. A
mano a mano che le vie del mondo hanno offerto comunicazioni nuove tra i
popoli, la Chiesa ha sentito in se stessa «l’urgenza della carità» di
percorrerle, anzi molto spesso di precorrerle; si è sentita, di natura sua,
missionaria. Il grido di S. Paolo: «Guai a me se non predicassi il Vangelo» (l
Cor 9,16) è risuonato nel cuore della Chiesa ed ha suscitato in lei con la
memoria, la spinta della sua primigenia vocazione.
Alla Chiesa, dunque, ad ogni cristiano, è richiesto di
essere luce che illumina il mondo, città situata sul monte, sale che dà sapore
alla vita degli uomini (Cf. Mt 5,13-14). Un'epoca nuova quindi sembra aprirsi
per l'impresa missionaria in questo scorcio di secolo che prelude al terzo
millennio, e nella quale epoca una nuova fase è lecito attendersi nell'annuncio
evangelico, fase contrassegnata da esigenze di autenticità, di unità, di
verità, di fedeltà, di carità[5].
Una evangelizzazione
autentica e vera, fondata sulla solidità e sulla limpida chiarezza dei principi
evangelici, tale da permeare tutta la realtà umana di quei valori eterni e
immutabili, a molti ancora ignoti, per molti dimenticati o dispersi. Per la
Chiesa e per il cristiano incombe dunque questo fondamentale compito di
annunziare, di rendere sempre più viva, reale, e operante la presenza di Cristo
fra gli uomini perché l'umanità intera possa vedere in Cristo la chiave, il
centro, il fine di tutta la storia umana[6].
Quest'opera di
evangelizzazione misteriosa, divina, immensa, deve essere fatta secondo una
logica di fede, rimanendo fedeli a Dio e fedeli all'uomo, fedeli alla Chiesa e
fedeli allo Spirito Santo che è l'ispiratore dell'evangelizzazione. Il problema
missionario è dunque un problema fondamentale per la Chiesa, come la sua
vocazione costitutiva, in quanto essa è stata fondata per essere missionaria.
L'urgenza di portare il Vangelo a tutte le genti obbliga naturalmente la Chiesa
ad entrare in dialogo col mondo in cui si trova: «La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa
colloquio»[7].
Questo dialogo della Chiesa con il mondo che nasce «da un impulso di carità»[8]
è un dialogo che parte da Dio stesso il quale vuole intessere con l'uomo una
varia e mirabile conversazione. Un colloquio che mira all'annuncio della divina
parola, nel pieno rispetto delle libertà e delle tradizioni; un dialogo che
diventa esercizio di una missione apostolica. Per evangelizzare, la Chiesa
entra dunque in dialogo con il mondo. Un dialogo che richiede però di
«immedesimarsi... nelle forme di vita di coloro a cui si vuol portare il
messaggio di Cristo; infatti non si salva il mondo dal di fuori»[9].
Immedesimarsi nella realtà per portare ad essa la Parola del
Vangelo è un'arte spirituale, un'arte delicata e difficile che richiede allo
stesso tempo un congiungersi all'umanità e insieme un distinguersi da essa, mai
però un opporsi.
Questa espressione ‑ «non si salva il mondo dal di
fuori» ‑ è un'espressione di Paolo VI nella sua Enciclica programmatica Ecclesiam Suam, là dove dice: «Occorre,
come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi in certa misura nelle
forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo; occorre
condividere, senza porre distanze di privilegi o diaframmi di linguaggio
incomprensibile, il costume, purché umano ed onesto... Bisogna, ancor prima di
parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo per comprenderlo e per
quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo»[10].
La necessità di evangelizzare, la necessità di venire in
dialogo con il mondo in cui la Chiesa si trova a vivere, porta questa stessa
Chiesa ad entrare in dialogo con la cultura e le culture dei popoli. Paolo VI
nella sua Esortazione Apostolica Evangelii
Nuntiandi, constatando il divario che si è creato tra Vangelo e cultura,
lancia un grido di allarme e scrive: «La rottura tra Vangelo e cultura è senza
dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre epoche» (EN 20).
Dinanzi all'urgenza di tali sollecitazioni la Chiesa non può tenersi in
disparte; pertanto: «Occorre fare tutti gli sforzi in vista di una generosa
evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture» (EN 20).
Recentemente anche Giovanni Paolo II, parlando ai membri del
Pontificio Consiglio per la Cultura, ha indicato nel dialogo della Chiesa con
le culture «una importanza vitale per l'avvenire della Chiesa e del mondo...
Per la Chiesa questo dialogo è assolutamente indispensabile, perché altrimenti l'evangelizzazione
resterebbe lettera morta... In questa fine del XX secolo, come ai tempi
dell'Apostolo, la Chiesa deve farsi tutta a tutti, raggiungendo con simpatia le
culture odierne... Si richiede un lungo e coraggioso processo di inculturazione
affinché il Vangelo penetri l'anima delle culture viventi, rispondendo alle
loro più alte attese e facendole crescere alla stessa dimensione della fede,
della speranza e della carità cristiana. La Chiesa, per mezzo dei suoi
missionari, ha già compiuto un'opera incomparabile in tutti i continenti, ma
questo lavoro della missione non è mai compiuto, perché spesso le culture sono
state toccate solo superficialmente e poiché si trasformano, continuamente
richiedono un incontro rinnovato»[11].
Proseguendo nel suo discorso ai membri del Pontificio
Consiglio per la Cultura, Giovanni Paolo II ha aggiunto: «Per evangelizzare
efficacemente occorre adottare risolutamente un atteggiamento di scambio e di
comprensione per simpatizzare con l'identità culturale dei popoli... Evangelizzare
suppone pertanto sia penetrare le identità culturali specifiche, ma anche
favorire lo scambio delle culture aprendole ai valori dell'universalità e
vorrei dire della cattolicità. E' pensando a questa grande responsabilità che
ho voluto creare il Pontificio Consiglio per la Cultura al fine di dare a tutta
la Chiesa un impulso vigoroso e rendere tutti i responsabili, tutti i fedeli,
coscienti del dovere che incombe su tutti ad essere in ascolto dell'uomo
moderno, non per approvare tutti i suoi comportamenti, ma per scoprire
soprattutto le sue speranze e le sue aspirazioni latenti»[12].
Il dialogo tra Vangelo e culture riveste dunque ancora oggi,
come del resto sempre nella storia della Chiesa, una importanza vitale per la
Chiesa stessa. E' un dialogo assolutamente indispensabile, perché altrimenti
l'evangelizzazione resterebbe lettera morta.
Sul rapporto evangelizzazione e inculturazione si tratta
dunque di aprire un colloquio costruttivo. Per comprendere nella loro
profondità i termini di questo discorso occorre anzitutto muoversi alla ricerca
del valore che essi hanno nel linguaggio teologico e nell'evangelizzazione (Parte I).
Si tratterà anche di vedere come questo problema, che oggi
si fa particolarmente urgente, di fatto sia un problema antico e che sempre,
fin dall'età apostolica, tra Chiesa e culture vi è stato un dialogo costruttivo
anche se non sempre facile (Parte II).
Il Vaticano II ha saputo raccogliere i frutti di questo
lento ma graduale dialogo tra Vangelo e culture (Parte III ).
Si dovranno inoltre trovare i fondamenti teologici
dell'inculturazione, fondamenti che poggiano su due punti particolari: la Legge
del dialogo nella Chiesa e la legge dell'incarnazione nel mistero della
salvezza. Essendo dunque un dialogo apostolico, un dialogo evangelizzante, esso
deve avere alcune caratteristiche particolari. La vastità del problema rivela
però che questo dialogo avviene non senza difficoltà: è dunque doveroso
evidenziare con chiarezza, assieme agli elementi positivi, anche i rischi che
questo stesso dialogo comporta. (Parte IV).
E' nel campo della Liturgia che oggi il dialogo tra Vangelo
e culture si fa particolarmente fecondo e si concretizza in espressioni
celebrative. Si vedrà qui la nozione di adattamento, le motivazioni, le
esigenze, gli obiettivi, le condizioni dell’inculturazione liturgica (Parte V e VI).
In particolare si analizzeranno le possibilità concrete di
adattamento offerte dai nuovi Praenotanda
ai libri liturgici riformati (Messale, Rituale) e lo spazio di creatività
liturgica come luogo specifico di inculturazione (Parte VII e VIII).
La religiosità popolare può essere considerata come un
grande vivaio di sperimentazione e di produzione dove l’esperienza di
inculturazione può fornire elementi utili per essere poi assunti nella stessa prassi
liturgica (Parte IX).
Oltre alla liturgia, un altro grande spazio di
inculturazione è oggi la catechesi soprattutto con gli spazi aperti dal Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte X).
Altri due capitoli sono dedicati ad argomenti che
recentemente hanno assunto notevole spazio nel dibattito teologico e pastorale:
l’evangelizzazione delle culture e l’attenzione alle culture nei recenti Sinodi
Continentali (Parte XI e XII).
A conclusione dell'intera riflessione sarà forse possibile
avere non solo una idea sufficientemente chiara di che cosa oggi significhi
inculturazione, ma allo stesso tempo anche orientamenti pratici che
conducano ad un sereno e costruttivo
confronto, ad un dialogo efficace, tra evangelizzazione e culture in vista di
una sicura prassi di inculturazione.
Se la rottura tra Vangelo e
cultura è un dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre (cfr. EN 20),
tuttavia particolarmente nuovo è il linguaggio che oggi, nell'ambito teologico,
catechetico, liturgico, missiologico, si usa per descrivere questo fenomeno.
Sarà dunque opportuno chiarire brevemente il significato di questo nuovo
vocabolario per poter così più facilmente definire lo spazio ed i limiti del
dialogo tra culture ed evangelizzazione.
Sia Evangelii
Nuntiandi 20, sia Catechesi Tradendae
53 usano distinguere tra cultura e culture.[14]
Questa distinzione sta a significare che nel linguaggio teologico, cultura e
culture hanno due significati diversi.[15]
«cultura»: secondo la definizione di Gaudium et Spes 53 «con il termine generico di cultura si vogliono indicare tutti i mezzi con i quali l'uomo
affina ed esplica le molteplici sue doti di anima e di corpo, procura di
ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza ed il lavoro; rende più
umana la vita sociale sia nella famiglia che in tutta la società civile,
mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andar del
tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze ed
aspirazioni spirituali affinché possano servire al progresso di molti, anzi al
genere umano» (GS 53).[16]
Nel suo discorso all'UNESCO Giovanni Paolo II dà una
definizione più descrittiva di cultura: «La cultura è un modo specifico dell'esistere
e dell'essere. L'uomo vive sempre secondo una cultura che gli è propria e che a
sua volta crea tra gli uomini un legame che pure è loro proprio, determinando
il carattere inter-umano e sociale della esistenza umana. La cultura è ciò per
cui l'uomo in quanto uomo diventa più uomo, è di più, accede di più all'essere.
E' qui anche che si forma la distinzione capitale tra ciò che l'uomo è e ciò
che l'uomo ha, fra l'essere e l'avere»[17].
Dovendo tuttavia tener conto anche della ricerca sia
teologica che antropologica, il termine «cultura» è specificato anche con altre
espressioni:
* è ciò che un popolo pensa, la saggezza di una comunità, la
conoscenza condivisa, i valori comuni che permettono il vivere in comune;
* è l'insieme di sensi e significati, di valori e modelli,
soggiacenti o incorporati all'azione e comunicazione di un gruppo umano o di
una società concreta e da essi considerati espressioni proprie e distintive
della loro realtà umana;
* la cultura è il modo di pensare, sentire, credere; è la conoscenza
di un gruppo accumulata per l'uso [Clyde Kluckhohn, 1944];[18]
* la cultura è qualunque cosa che bisogna sapere o credere
affinché qualsiasi membro di quella cultura possa operare nel gruppo in una
maniera accettabile [Goodenough, 1957];
* la cultura è la somma delle conoscenze acquisite da un
apprendimento e condivise con i membri del gruppo;
* la cultura è una struttura di significati ereditati,
trasmessi in simboli per cui gli uomini si comunicano, perpetuano e sviluppano
la loro conoscenza della vita ed i loro atteggiamenti verso la vita [Geertz,
1987];
* per un teologo la cultura è un complesso di significati e
valori che informano il modo di vivere di una comunità [Lonergan, 1974]; vi
saranno tante culture quanti saranno questi insieme distinti di significati e
valori; la differenza tra una cultura e un'altra sta nelle «differenze in
comprensioni-significati-intese condivise» [tutti gli altri aspetti,
arte-letteratura-musica-riti..sono solo portatori di significato]; elemento
essenziale di una cultura è il significato e la conoscenza acquisita, non il
veicolo portatore di tale significato [i significati, infatti, possono cambiare
mentre i portatori possono rimanere gli stessi: il suino ha un significato
diverso per un musulmano o per un montanaro della Nuova Guinea];
* nel contesto ecumenico-missiologico il Rapporto Willowbank
su Gospel and Culture (1978) definisce la cultura «un sistema integrato di
credenze (su Dio o la realtà o il significato ultimo), di valori (ciò che è
vero, buono, bello e normativo), di costumi (come comportarsi, relazionarsi
agli altri, parlare, pregare, vestirsi, lavorare, giocare, commerciare,
coltivare, mangiare, ecc.) e di istituzioni che esprimono queste credenze,
valori e costumi (governo, tribunali, templi o chiese, famiglia, scuole,
ospedali, fabbriche, botteghe, sindacati, club, ecc.), che cementano una
società e le conferiscono un senso di identità, dignità, sicurezza e
continuità». Considerata in questo
modo, la cultura permea tutta la vita umana ed è essenziale che i cristiani
sappiano come valutarla.[19]
L’influenza della cultura sull’evangelizzazione, sulla conversione e sulla
formazione della Chiesa viene sempre più vista come un tema di grande
importanza missiologica.
In conclusione: cultura è una struttura di significati
trasmessi storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni
ereditate espresse in forme simboliche per mezzo delle quali gli uomini
comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza della vita e i loro
atteggiamenti verso la vita [Geertz, 1987]; è il prodotto umano di un mondo di
adattamento e di significato, nel contesto del quale può essere vissuta in modo
significativo la vita umana.
Da uno studio comparato di queste molteplici definizioni, si
deduce che i pilastri su cui si fonda una cultura sono almeno 5: la lingua, per il fatto che sostiene
tutta la dimensione simbolica; i costumi
sostengono la dimensione etica; la
tecnologia per la dimensione economica; i
valori per la dimensione
assiologica; le istituzioni per la
dimensione politica.
La cultura non è dunque semplice elenco di «portatori di
significato» perché non è semplicemente cosificabile, non si riduce al
vedere-toccare (non si riduce alle sue espressioni: politica, arte, religione,
letteratura, ecc.), non é facilmente manipolabile; essa è già nelle menti e nei
valori [ciò che è ritenuto buono, bello, desiderabile] di un popolo.[20]
I valori restano l'anima di una cultura e quindi sono l'anima dell'anima della
società.[21]
«culture»:
questo termine starebbe ad indicare la diversità di etnie e formazioni sociali
espresse nelle varie forme del vivere umano: operare, trasformare, agire,
conoscere, nell'integrazione sociale di un dato ambiente. In questo senso le
culture sarebbero il risultato autentico degli sviluppi della cultura in un
determinato contesto sociale, sarebbero sinonimo di civiltà[22]
e comprenderebbero l'insieme delle credenze, arti, morale, diritto, costumi e
qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una
società. Per culture si potrebbe anche intendere il prodotto delle attività dei
singoli e dei gruppi in relazione al proprio ambiente socio-culturale[23].
Il termine «inculturazione» ha seguito un lento processo
evolutivo,[24]
distinguendosi e specificandosi da altri termini come «acculturazione»,
«enculturazione», «contestualizzazione» che, in un recente passato, erano usati
come sinonimi.[25]
a. acculturazione:
è il contatto con culture diverse e, a seguito di questo incontro, il
cambiamento culturale che avviene nelle persone ; si riferisce ai gruppi, più
che al singolo, i quali assumono significati e valori di altri gruppi con i
quali sono venuti in contatto; l'influenza maggiore di un gruppo sull'altro
produce un fenomeno di «acculturazione» di quel gruppo; non riguarda quindi le
culture, per cui si parla di «persone acculturate». Il Tylor (1832-1917) coniò
il termine «diffusionismo» per spiegare l'adozione di tratti culturali da una
cultura ad un'altra: tecnologie, strumenti, animali, istituzioni sociali [es.
il sistema «parlamentare» britannico].
b. enculturazione:
termine coniato da Herskovits nel 1948 (Man
and His Works, N.Y. 1952) per designare il processo di apprendimento per
cui una persona impara i requisiti della sua cultura, la trasmissione della
cultura da una generazione all'altra. Ha come sinonimo, in sociologia, il
termine socializzazione che significa
l'apprendimento dei comportamenti del gruppo (scuola, famiglia, mestiere...).[26]
c. contestualizzazione:
è spesso usato per indicare il processo con cui la Chiesa si fa presente in un
determinato «contesto»; ha il limite di non indicare la «duplice via», il
reciproco dare-ricevere, che deve avvenire nell'incontro tra la Chiesa e la
cultura.[27]
d. inculturazione:
Nel linguaggio ormai sufficientemente consolidato, per «inculturazione» si
intende oggi «l'incarnazione del vangelo nelle culture autoctone ed insieme
l'introduzione di esse nella vita della Chiesa».[28]
Il processo di inculturazione prevede quindi un duplice movimento, un processo dialogale: verso le culture,
mediante l'incarnazione in esse del Vangelo e la trasmissione dei propri
valori; verso la comunità ecclesiale, con l'introduzione in essa dei valori
presenti nella propria cultura, rinnovandola dall'interno e conducendola ad una
comunione più universale; allo stesso tempo viene meglio espresso e recepito il
messaggio e la realtà di cui la Chiesa è segno e presenza.[29]
Il Sinodo del 1985 ha parlato dell'inculturazione come
dell'«intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante
l'integrazione nel cristianesimo, e il radicamento del cristianesimo nelle
varie culture umane».[30]
Questo termine include l'idea di crescita, di arricchimento reciproco tra
Vangelo e culture: la forza trasformatrice e rigeneratrice del Vangelo aiuterà
a far sorgere dalla viva tradizione dei popoli espressioni originali di vita,
di celebrazione e di pensiero che siano cristiani (cf CT 53); dal canto loro i
valori profondi e vissuti nelle culture dei popoli, potranno svolgere un ruolo
positivo di mediazione per l'espressione e la diffusione della fede cristiana.[31]
L'inculturazione non è quindi un atto, ma un processo;
suppone e include storia e tempo. E' un processo attivo che esige reciproca
accoglienza e dialogo, coscienza critica e discernimento, fedeltà e
conversione, trasformazione e crescita, rinnovamento e innovazione.[32]
E' dunque opportuno, nel processo di inculturazione,
distinguere due aspetti: il divenire presente della Chiesa nella cultura di un
popolo, e il rinnovamento degli autentici valori culturali di un popolo
mediante un'intima trasformazione che avviene nell'incontro con la verità e la
vita cristiana. Il processo, come si vede, è unico, ma con due «intenzionalità»
diverse: all'uno spetta il radicamento della Chiesa, all'altro il rinnovamento
della cultura. Il primo aspetto riguarda la realtà storica della Chiesa; il
secondo la realtà culturale di un popolo. Il primo ha funzione di «mezzo» per
il secondo, ma è altrettanto vero che, senza una cultura che cominci a
manifestare con più chiarezza la gloria della libertà dei figli di Dio, sarà
difficile per la Chiesa trovare un terreno per radicarsi. Si hanno pertanto due
dinamismi strettamente correlati che potremmo chiamare:
* inculturazione ad
intra, cioè l'adattamento e l'arricchimento delle varie forme con cui la
comunità cristiana esprime-insegna-celebra-vive il mistero della fede, secondo
l'indole del popolo in mezzo a cui vive (UR 15-17: liturgia, tradizioni
spirituali, disciplina, riflessione teologica; AG 19-20: kerygma e catechesi;
* inculturazione ad
extra, cioè l'inserimento della Chiesa in una cultura, in atteggiamento
dialogale: assume elementi di tale cultura nella propria vita, e feconda tali
culture con il proprio messaggio fino a far sorgere in esse nuove espressioni
di vita che siano autenticamente cristiane.[33]
L'inculturazione liturgica fa parte di questo duplice
movimento che consiste nell'incarnare il messaggio evangelico nel profondo
della vita di persone che, in quanto comunità ben individuate, si riconoscono
in una determinata cultura ed in essa esprimono, celebrandola, la propria fede;
ciò sarà possibile dialogando con queste culture, fecondandole di spirito
evangelico, assumendo da esse ciò che meglio può esprimere il mistero
cristiano.[34]
Il linguaggio relativo all’inculturazione, dicevamo, è
relativamente nuovo. Il problema invece è antico quanto è antica l'esperienza
evangelizzatrice della Chiesa. Infatti la stessa tradizione biblica, i Padri,
le liturgie, tutta la storia dell'evangelizzazione fino al Vaticano II, hanno
dovuto affrontare in qualche modo il problema della inculturazione.
Non c'è dubbio che nella Bibbia la parola di Dio nella sua
«condiscendenza» (cfr. DV 13), nel suo assumere il linguaggio degli uomini, si
sia incarnata in una pluralità di civiltà e di culture[36].
In questo incontro scontro con le culture ambientali la
Bibbia assume certi aspetti, mentre altri ne rifiuta, altri ne modifica in un
processo faticoso di assunzione che è al tempo stesso discernimento e
purificazione.[37]
Come la grazia di Dio non distrugge la natura, ma la suppone
e la perfeziona, così anche tutte le ricchezze che Dio nella sua munificenza ha
dato ai popoli (cfr. AG 11) vengono assunte nell'unico disegno di alleanza e di
salvezza che si realizza in Cristo (cfr. GS 76).
Cristo stesso, nel mistero della sua incarnazione, ha
assunto non solo la natura umana, ma anche tutto ciò che ha attinenza con il
vivere in un tempo e in una storia determinata. La vita storica di Gesù è
modello di inculturazione religiosa anche per il modo con cui inserisce la
novità evangelica nel contesto religioso del suo tempo, del suo popolo.
L'atteggiamento di Cristo dinanzi alla cultura del suo tempo può essere così
descritto:
* trascendenza:
egli non accetta passivamente ogni forma di religiosità; critica severamente la
religiosità formale ed ipocrita, le «tradizioni degli uomini» (Mc 7,8);
manifesta chiaramente la sua trascendenza in rapporto a ogni cultura, compresa
quella ebraica, che spesso contesta e corregge;[38]
* presenza:
dimostra di essere pienamente inserito nella cultura e nelle culture del suo
popolo e del suo tempo;[39]
* cattolicità:
fattosi uomo concreto, si è tuttavia unito in certo modo ad ogni uomo; assume
la natura umana, non l'annienta; la innalza a dignità sublime (GS 22);[40]
AG 8: «A nessuno e in nessun luogo egli
può apparire estraneo»; Cristo è presente nell'unità, nella molteplicità,
nella diversità, nella complementarietà di ogni cultura e di ogni uomo (Gal
3,28: né uomo, né donna, né schiavo, né libero..); Cristo, e il suo Vangelo,
vogliono liberare dall'errore e dal peccato i semina Verbi presenti nella creazione (cf Col 1,16-17: egli è presente
in tutte le cose e tutte sussistono in lui).
L'evangelista Matteo esprime molto bene questo atteggiamento
di Gesù verso la cultura religiosa del tuo tempo: «Non sono venuto per abolire,
ma per dare compimento» (Mt 5,17).
La Chiesa apostolica seguì l'esempio del Maestro. Nel
trasmettere la buona novella del regno mantenne una duplice fedeltà verso
l'insegnamento di Gesù e fedeltà verso la cultura religiosa delle persone cui
era rivolto il messaggio evangelico. Citeremo solo alcuni esempi:
1.3.1: Atti 2,1-11.
Con la Pentecoste si attua «l’unione dei vari popoli nella cattolicità della
fede attraverso la Chiesa della nuova alleanza, che parla tutte le lingue e
tutte le lingue nell'amore intende e comprende superando così la dispersione
babelica» (AG 4). Nessuna lingua, nessun popolo dunque possono essere stranieri
per la Chiesa.
Lo Spirito della Pentecoste supera la dispersione di Babele,
riportando «comunione» tra le diversità; lo Spirito non crea una supercultura:
* si comunica nella pluralità senza dividersi, crea unità
senza ridurre a uniformità (cf At 15 e la tensione tra giudei ed ellenisti);
* non esige dai nuovi credenti l'abbandono della propria
cultura a favore di un'altra [il rischio della sinagoga], ma dona discernimento per restare uniti in ciò che è
essenziale (At 15,28);
* salvaguarda dalla gnosi:
la presunzione che la cultura e la conoscenza umana possano fare a meno della
Croce del Signore: «la fede non si fonda sulla sapienza umana, ma sulla potenza
di Dio» (1 Cor 2,4ss).
1.3.2: Galati 3,28.
Ora che Cristo nostra pace ha abbattuto il muro di separazione e ha fatto dei
due (Giudei e Greci) un popolo solo, «non c'è più giudeo e greco; non c'è più
schiavo, né libero; non c'è più uomo, né donna; perché tutti voi siete uno in
Cristo» (Cf Col 3,11). Nella
comunione del corpo di Cristo, la Chiesa, vivono armonicamente una pluralità di
membra, ciascuna con un proprio ruolo ed un proprio servizio per la
edificazione comune. Il criterio paolino dell'unità nella varietà non prevede
esclusioni di membra, ma convergenza delle medesime per la comune edificazione
del corpo ecclesiale di Cristo.
Se l'inculturazione è imitazione dell'incarnazione, non
potrà evitare la kenosi legata a questo «eone» e
caratterizzata dalle «doglie del parto» (Rm 8,18-25); è tuttavia in situazione
escatologica, vivendo già il non ancora di «tutte le cose nuove» (Ap 21,5).
1.3.3: Apocalisse
1,4-9. Nel contemplare la schiera dei credenti, il veggente può distinguere
da una parte Israele, dall'altra «una moltitudine immensa, che nessuno poteva
contare, di ogni nazione, popolo e lingua». In questa visione escatologica,
Giovanni presenta la pluralità delle culture degli uomini, la varietà delle
razze umane, quale espressione inesauribile delle ricchezze del Creatore.
Cristo ha riscattato questi popoli e li ha assunti definitivamente nella
salvezza, nella lode eterna di Dio.
Oltre a questi esempi si può vedere anche l'episodio
emblematico riferito in Atti 10,1-48 (v. 34: «Dio non fa preferenze di
persone»); oppure il discorso di Paolo all'Areopago di Atene (Atti 17,16-34).
1.3.4: La catechesi ad
christianos, la catechesi ad hebraeos,
la catechesi ad gentes.
Secondo studi recenti[41],
la predicazione primitiva avrebbe subìto una forte inculturazione nel momento
in cui l'unico messaggio di salvezza rivelato da Cristo sarebbe stato trasmesso
dalla Chiesa con adattamenti dovuti alla cultura, alla tradizione delle persone
a cui questo messaggio veniva rivolto; e questa predicazione assume forme
totalmente diverse a seconda che sia fatta all'interno della comunità[42],
oppure agli Ebrei[43],
oppure ai pagani[44]. Del resto,
secondo questi Autori, gli stessi quattro Evangeli canonici avrebbero avuto
quattro forme diverse di inculturazione: Marco, quale adattamento del Vangelo
alle esigenze dell'impero romano; Matteo quale corrispondente ai bisogni
interni della Chiesa, specialmente giudeo-cristiana; Luca, quale confacente ai
bisogni delle classi colte; Giovanni quale corrispondente ai bisogni della
liturgia[45].
Anche Redemptoris
missio recepisce queste tradizioni;[46]
citando poi i vari discorsi di Paolo in contesti culturali diversi, dice che
questi discorsi «offrono un esempio di inculturazione del Vangelo» (RMi 25).[47]
L'esperienza biblica dell'inculturazione, quale prosecuzione
del grande mistero dell'incarnazione, trova quindi nella persona e nell'esempio
di Gesù di Nazaret un modello particolare di attuazione: vero Dio è anche vero
uomo; anzi la pienezza della sua divinità arricchisce ed eleva la natura umana
che assume con l'incarnazione. Con la sua pasqua di morte e risurrezione porta
a compimento tutte le figure religiose antiche, abolisce ogni muro di
separazione (Ef 2,14) e ricapitola in
sé l'eredità di tutti i popoli (cfr. LG 13 che cita il Salmo 2,8) rendendo possibile a tutti gli uomini l'accesso al Padre
mediante Lui nell'unico Spirito (1 Tim 2,5).
Secondo le indicazioni della «lettera apostolica» scaturita dal cosiddetto
Concilio di Gerusalemme, ancora oggi occorrerebbe ripetere: «Abbiamo deciso, lo
Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori delle cose
necessarie» (Atti 15,28); nello
stesso contesto, il discorso di Pietro suggerisce che non è giusto imporre sul
collo dei discepoli un giogo che né i Padri, né gli stessi Apostoli erano stati
in grado di portare (Atti 15,10).
L'adattamento della liturgia allo spirito e alla tradizione
locale non è una novità, ma una costante caratteristica della liturgia
cristiana che ha voluto sempre essere fedele alla tradizione e all'essenza della
rivelazione [le parti immutabili della
liturgia] e rispettosa e condizionata dalle culture dei popoli [le parti
mutabili: cf SC 21].
La storia dell'adattamento è importante perché:
* permette di
cogliere sia i modelli da imitare, sia gli errori da evitare;
* insegna ad essere creativi e allo stesso tempo prudenti,
secondo il principio di SC 21: alcuni elementi possono o addirittura debbono
variare; di SC 23: equilibrio tra tradizione e progresso; e di SC 34: restando
tuttavia nella semplicita-brevità-chiarezza-comprensione;
* permette di far riferimento alle forme originarie per una
più accurata interpretazione dei riti/testi evitando di sovrapporre un
simbolismo improprio [si veda il caso del rito della commistione o
dell'abluzione delle mani].
Seguendo le indicazioni di T. KLAUSER,[48]
e di A. CHUPUNGCO,[49]
divideremo la storia dell'adattamento in 4 grandi periodi:
1. Il periodo creativo: dalle origini a Gregorio Magno.
2. Il periodo della prevalenza franco-tedesca: da Gregorio
Magno a Gregorio VII.
3. Il periodo della disgregazione, delle esuberanze e
dell'allegorismo: da Gregorio VII al Concilio di Trento.
4. Il periodo della rigida unità liturgica e della
rubricistica: dal Concilio di Trento al Concilio Vaticano II.
La liturgia cristiana nasce e si sviluppa all'interno della
tradizione giudaica. Dalla tradizione sinagogale si sviluppa la liturgia della
Parola; dalla berakah si sviluppa l'eucharistìa; il calendario è quello
biblico-giudaico: la settimana, il ciclo lunare, la durata del giorno da sera a
sera; le feste: Pasqua-Pentecoste, dal sabato alla domenica; le Ore canoniche;
l'uso dei Salmi; le dossologie e le acclamazioni liturgiche [alleluia, Hosanna,
Amen]; i segni: imposizione delle mani; del tutto assente, invece, la liturgia
del tempio. Non si aboliscono i vecchi riti (Mt 5,17), ma si perfezionano dando
loro i contenuti della nuova economia pasquale cristiana: si veda la
reinterpretazione della cena pasquale giudaica (1 Cor 11,18ss)[50]
o della liturgia-teologia battesimale (Rm 6,4).[51]
Lo stesso stile e modo del pregare subì una forma di
inculturazione. Leggiamo ad esempio nella Didaché
che i cristiani d'ora in poi dovranno digiunare non il lunedì e il giovedì,
come i giudei, ma il mercoledì e il venerdì. Così invece di recitare le
preghiere giudaiche dello Shemoneh Esreh tre
volte al giorno come i giudei, i cristiani dovranno recitare, sempre tre volte
al giorno, la preghiera del Signore, il Padre Nostro[52]. Come si vede, non si vuol togliere la
preghiera, non si vuol togliere il digiuno, ma la sostanza viene adattata a
tempi, forme, modi diversi.
Un esempio classico di inculturazione liturgica lo possiamo
infine trovare nell'origine cristiana del Natale. Secondo studi ormai
consolidati[53], noi
sappiamo che la festa del Natale di Cristo ebbe origine nella Chiesa di Roma in
sostituzione della festa pagana del «Sol invictus». Alle tradizioni dei pagani
che nel solstizio di inverno celebravano la nascita del dio sole, i cristiani
opposero una nuova festa: quella di Cristo che «come Sole di giustizia» (cfr. Malachia 4,2; Gv 8,12), nasce per
diradare le tenebre dell'errore e del peccato.
La liturgia cristiana non nasce dunque ex novo ma, sotto la guida dello Spirito Santo, si sviluppa su
matrici preesistenti mediante un discernimento:
di accoglienza per tutto ciò che è in
armonia con la tradizione apostolica e fedele alla storia della salvezza,[54]
di esclusione (o di purificazione) per ciò che è contrario
al Vangelo e alla pratica cristiana; e soprattutto mediante un processo di re-interpretazione: dando ai
segni-riti-modelli nuovi contenuti e nuovi significati.
Nonostante la risoluzione del Concilio di Gerusalemme (At
15,7-11: Dio non fa discriminazione; non porre pesi inutili sui pagani), per il
momento l'unico adattamento della liturgia protocristiana è alla sola
tradizione giudaica sinagogale: battesimo, cena, Scritture, calendario. I riti
pagani sono visti come diabolici.[55]
Si prospettano tre possibili soluzioni: «cristianizzare» le
tradizioni giudaiche restando legati ad esse; fare adattamenti alle nuove
culture ellenistiche [concilio di Gerusalemme e il caso di Cornelio in At 10];
forte ostilità verso i culti pagani ritenuti demoniaci.
Non mancano tuttavia «contaminazioni» da culti-tradizioni
ellenistiche: i riti di iniziazione [segreto dei misteri, esorcismi, unzioni,
veste bianca, voltarsi ad oriente; linguaggio con stile ritmico-simmetrico, e
vocabolario: eucaristìa, anamnesi, epiclesi, epifanìa, esorcismo, dossologia,
Kyrie]. Di tipica provenienza ellenistica è l'uso di vesti, insegne e onori
liturgici [il pallio, i calzari, l'anello, il trono, il baciamano, l'incenso,
la schola, i guanti: onori civili imperiali trasferiti ai vescovi-funzionari
della corona (non senza opposizione: Ilario, Martino, Fulgenzio, Agostino)];
vengono tuttavia reinterpretati in senso spirituale-ecclesiastico [es. da trono
a cattedra del maestro]; anche l'arte è influenzata da questi modelli
imperiali: il Cristo-Pantokrator (sul trono, la corte imperiale degli
angeli-santi], Maria regina-madre [con la corte degli apostoli e degli angeli];
si vedano i mosaici di Ravenna e di s. Marco a Venezia.
In Didaché e nella 1 Clemente 59-61 si sentono ancora
modelli completamente ebraici[56]
[simbologia biblica veterotestamentaria: vedere l'arte sacra catacombale]. Con
la persecuzione e la necessità di celebrare la liturgia nelle «domus ecclesiae»
avvengono i primi adattamenti [vedere il modello di comunità descritto da
Ignazio di Antiochia: il Vescovo pater familias, i diaconi-servi, ecc.]. Per la
prima volta si fa il tentativo di esprimere la tradizione apostolica con
lingua-riti pagani [fino a che punto accogliere tali elementi pagani?]. Sorge
la delicata arte del «compromesso»: si veda l'uso della eiuratio nella iniziazione cristiana e il significato dato da
Ambrogio all'unzione pre-battesimale [la forza dell'atleta di Cristo; mantenne
inalterato invece il significato dell'unzione post-battesimale: carattere
sacerdotale-regale-profetico]. Si è seguito un duplice criterio nell'accogliere
questi riti pagani: * si adottano quei riti-segni che hanno una certa
«connaturalità» ad esprimere il mistero cristiano; * si pratica sempre una
necessaria catechesi.
La Liturgia si evolve rapidamente: dalla domus ecclesiae alle grandiose basiliche
costantiniane [loro disposizione]; è l'epoca dei grandi Padri; è l'epoca dei
solenni riti di iniziazione [Cirillo di Gerusalemme, Ambrogio, ecc]. E' un
fiorente periodo di creatività e di adattamento. Si attenua l'opposizione ai
riti pagani e alcuni elementi di questa tradizione vengono assunti nella
liturgia [es. unzione pre-battesimale e lavanda dei piedi nel rito battesimale:
polemica di Ambrogio con Roma: et nos
mentem habemus![57]].
Assunzione nel cerimoniale pontificale di elementi
provenienti dalla corte imperiale; la Chiesa si mostra sempre meno legata alla
cultura giudeo cristiana e si apre alle culture dove affonda le sue radici; la
Chiesa ubicata nel territorio dei Romani comincia ad essere Chiesa Romana.
Tipico esempio il Sacramentario veronese: descrive la gerarchia ecclesiastica
sull'esempio e con i termini del sistema socio-politico costantiniano (honor,
dignitas, gradus). Il linguaggio ed i segni vengono però «spiritualizzati» alla
luce delle Scritture e riferiti al mistero di Cristo.
Terminato il pericolo del paganesimo [messo fuori legge da
Teodosio nel 378] si vede una certa assimilazione di tradizioni pagane nella
liturgia cristiana: l'uso del refrigerium [il pasto funebre: dona eis locum
refrigerii, del Canone romano], delle litanie deprecatorie (libera nos, te rogamus), il bacio dell'altare, la terminologia mistagogica e
l'uso della veste bianca, il volgersi verso oriente e verso occidente. Dalla
tradizione ellenistica si mutua l'uso del Kyrie,
del Gloria, si accoglie la festa dell'Epifania e si cede quella del Natale.
Si evidenziano due metodi si adattamento: la sostituzione [si sostituiscono
feste-riti pagani con feste-riti cristiani: il Natale al posto della festa del Sol invictus nel solstizio d'inverno, le
processioni delle quattro tempora al posto delle «ambuvalie» pagane,
spiritualizzandole secondo Zac 8,19; la Cattedra di s. Pietro] e l'assimilazione [volgersi ad oriente nei
riti battesimali e nell'«orientamento» delle chiese; la liturgia papale dell'Ordo romanus I e le sue dipendenze dalla
prassi della corte imperiale]. Di fatto queste assimilazioni finirono per
diventare anche contaminazioni e quindi oggetto di purificazione nei secoli
successivi; la liturgia antica resta sempre come modello di liturgia «pura».
Il movimento di adattamento segue questa via: dalla
diversità alla unità (e non viceversa).
Tra creatività e adattamento non c'è né equivalenza né
identità. L'adattamento mette in atto le possibilità già previste dal rito;
creatività invece è un intervento destinato a mediare sapientemente l'incontro
tra il mistero di Cristo e la situazione culturale celebrativa [tuttavia non
una creazione ex nihilo ma secondo
modelli già esistenti ed entro i parametri delle esigenze della liturgia].
L'evoluzione storica della «creatività liturgica» vede queste tappe:
e.1: iniziativa e tradizione [I-IV secolo]. La preghiera del
celebrante non è scritta, ma lasciata alla libera iniziativa-improvvisazione
del celebrante [Giustino, I Apologia, 67,5 (ca. 150): colui che presiede fa
salire al cielo le preghiere e le eucaristie come può: òsô dynamis autô; Ippolito, Trad. Ap, 9: non è necessario che il
vescovo pronunci le parole come a memoria, ma renda grazie secondo le sue
capacità purché sia una preghiera misurata e ortodossa[58]];
non è una creatività ex novo ma
sviluppa modelli preesistenti [es. l'eucaristia dalla berakah giudaica]. Le controversie sulla disciplina liturgica,
sulla data di Pasqua, la necessità di unanimità liturgica porta, [dal II sec.
con papa Vittore] ad affermare il diritto nativo e supremo del vescovo di Roma
a legiferare in materia liturgica per tutta la Chiesa.[59]
Di grande rilevanza è il passaggio, tra l'anno 200 e 270, dalla lingua greca a
quella latina: non solo un cambio di lingua, ma un ripensamento del modo di
esprimersi con nuove categorie legate al pensiero latino-romano [es. nel Canone
romano l'espressione «Padre clementissimo» di tipica cultura latina].
e.2: costumi locali e decisioni regionali. Gli scismi
dolorosi in materia cristologico-trinitaria spinsero alcuni Concili africani
(intorno all'anno 400) ad emettere regole secondo cui i celebranti avrebbero
dovuto mettere fine all'improvvisazione liturgica; saranno legittimi solo i
testi scritti approvati dai Concili o dal proprio vescovo [Concilio di Ippona
del 393, can 21; di Cartagine del 397 e del 419 can 103; il Concilio di Toledo
del 633 è ancor più restrittivo: un solo ordo
di preghiera per coloro che sono riuniti nella stessa fede; lo stesso in
Oriente verso il 600]. Ciò non toglie che siano sopravvissute liturgie
differenti da quella Romana [così quella Ambrosiana a Milano; ad Aquileia; a
Benevento; a Toledo; in Gallia]
I grandi papi come Leone Magno [457-474] e Gelasio I
[492-496] hanno dato alla liturgia romana un grande splendore e composizioni
eccellenti; vengono composti i grandi sacramentari: Gregoriano (papale),
Gelasiano (presbiterale), Leoniano, Paduense; gli Ordines; la Liturgia delle Ore è pressoché strutturata (s.
Benedetto). Gregorio Magno (590-604) dà una struttura quasi definitiva.[60]
Di fatto avviene la codificazione liturgica e si pone fine alla «creativita»
liturgica.
L'anno liturgico si completa con l'introduzione
dell'Avvento. Avvengono anche forti mutamenti: scompare la preghiera dei fedeli
[unico residuo al venerdì santo], l'omelia, la processione dei fedeli; la
comunità non è considerata partecipante attiva al rito [difficoltà di lingua,
clericalizzazione delle funzioni]; dal pane abituale si passa al pane azimo; la
comunione dalla mano a sulla lingua. Si stabilizza una celebrazione più
solenne-pontificale per il vescovo, ed una più semplice per il presbiteri
[questo è anche il periodo in cui sorgono le parrocchie sotto la cura di un
parroco[61]].
Carlo Magno verso l'800 vuol unificare l'impero e fa ricorso
all'unità della fede-liturgia del papa di Roma; chiede i libri della liturgia
romana: li accoglie adattandoli alla cultura-liturgia gallicana [dà questo
incarico al monaco Alcuino che inserisce numerosi formulari non romani; i testi
romani semplici e lineari diventano infarciti di verbosità fiorita ed
approssimativa].
Verso il X secolo accade qualcosa di simile con gli
imperatori di Germania. In questo periodo Roma è in forte decadenza liturgica,
la curia è senza controllo. Proprio questi imperatori, facendo visita a Roma,
impongono l'uso di quei libri liturgici un tempo romani, ma ora
romano-gallicani e romano-germanici. Così il Pontificale romano-germanico del X
secolo che rimarrà fino a Trento. Enrico II nel 1014 impone a Benedetto VIII la
recita del Credo dopo la lettura del Vangelo [uso mutuato dall'oriente]. Ha
inizio l'uso della polifonia a scapito del gregoriano.
In questo periodo (VIII-XI secolo) l'adattamento liturgico
registra anche elementi più positivi: si introduce l'adorazione della croce e
gli «improperi» al venerdì santo [Agios o
Theos], la processione delle palme, la lavanda dei piedi, l'Agnus Dei alla frazione del pane [dalla
tradizione dell'oriente]; si esercita una certa creatività adattando i libri
romani alle culture franco-germaniche: l'unzione per l'ordinazione del vescovo
e presbitero, la consacrazione della chiesa e dell'altare [incenso,
lustrazioni: anche questi riti hanno seguito questa via: oriente-gallia-Roma];
l'uso abituale del Gloria (dal XI sec).
In sintesi: sulla base di
una essenziale liturgia romana si sono innestate aggiunte-tradizioni sia
gallicane che germaniche; da oltralpe sono poi rientrate a Roma e accolte come
proprie [non senza resistenza.
I papi romani riprendono il controllo della liturgia romana
e pongono fine alle ingerenze imperiali (es. la lotta per le investiture). Si
impone a tutti i vescovi della Chiesa l'uso dei libri liturgici di Roma [viene
tollerata la liturgia ambrosiana e quella ispanica]. I francescani sono
elemento unificatore della liturgia romana in tutto l'occidente.
Non mancarono tuttavia
elementi di decadenza: la disgregazione della comunità liturgica
[incomprensione del latino e recita sottovoce delle preghiere, eccessiva
clericalizzazione dei servizi, passività dei fedeli-spettatori, l'altare è
spostato verso la parete e il celebrante volge le spalle al popolo, le chiese
dalla pianta basilicale-romanica [circolare] passano allo stile gotico
[verticale], nascono le messe private e il moltiplicarsi delle messe e degli
altari, sorgono i «messali plenari» [un unico libro che contiene: Orazionale,
Lezionario e rubriche], la schola va per conto suo e copre la voce del celebrante,
il privato è preferito al comunitario perché ritenuto più devozionale e
raccolto [nel XII sec. ha origine il rosario: s. Domenico], aumentano le
genuflessioni.
La spiritualità liturgica di questo periodo subisce una
interpretazione allegorica [Amalario: 850] e il Cristo sofferente-crocifisso
[non più regale] monopolizza la visione
della iconografia e della concezione della Messa [prevalenza dell'aspetto
sacrificale: sec XII-XIII]. I riti, non più compresi, vengono interpretati in
maniera «allegorica» [ogni segno-gesto rappresenta una scena della passione].
Si hanno questi passaggi: nella catechesi: dalla mistagogìa all'allegorismo;
nell'architettura: dal romanico al gotico; nell'arte: dalla croce
gemmata-regale, al crocifisso sofferente; nella musica: dal gregoriano, agli
inizi della polifonia; nei libri liturgici: dalla varietà per ciascun ministro,
all'unico libro per tutti; nell'assemblea: dalla comunità orante, alla
devozione privata.
La decadenza liturgica e certi abusi [il sacrificalismo, le
troppe messe, la dottrina delle indulgenze] furono tra le cause della reazione
protestante [Lutero, Calvino, Zuinglio]. Trento affidò al papa l'esecuzione
pratica di una riforma liturgica [i vescovi vennero in qualche modo a perdere
una loro prerogativa di legislatori liturgici nella loro diocesi]. Nel 1568 si
pubblicò il Breviario romano e nel 1570 il Messale romano ad opera di Pio V. I
criteri: centralismo liturgico, uniformità [soppressione delle liturgie
gallicane e ispaniche, latinizzazione delle liturgie siro-malabariche],
fissismo [ne varietur: nel 1588 si
fonda la Congregazione dei Riti per vigilare su questo], rubricismo [attenzione
a eseguire bene le rubriche: qui sta la vera pietà]. Prevalgono le devozioni ed
i pii esercizi sulle forme liturgiche [si suona il campanello per richiamare
l'attenzione sul momento principale: la presenza del SS. Sacramento da adorare,
la comunione è molto rara e si favorisce quella «spirituale», si può fare sia prima che dopo la messa quasi
a prescindere dalla celebrazione; le chiese diventano sale festose del Re
Eucaristico; la musica polifonica ed i cori a discapito del canto del popolo;
durante la messa i più pii recitano il rosario e fanno le proprie devozioni].[62]
A seguito della scoperta delle nuove terre Gregorio XV nel
1622 fondò per le missioni una apposita congregazione cardinalizia cui diede il
nome di Congregatio de Propaganda Fide. Ad
appena 40 anni dalla sua istituzione, la Sacra Congregazione di Propaganda Fide
emanò un documento di notevole interesse circa il problema dell'incontro tra
Vangelo e culture. E divenuta ormai famosa l'Istruzione che la Congregazione di
Propaganda Fide indirizzò ai Vicari Apostolici della Società delle Missioni
Estere nel 1659 nella quale è detto:
«Non cercate in nessun
modo di persuadere i popoli che evangelizzate a cambiare i loro riti,
consuetudini e costumi purché non siano in maniera chiarissima contrari alla
religione e ai buoni costumi. Che cosa c'è di più assurdo di portare in Cina la
Francia, la Spagna, l'Italia o un'altra parte dell'Europa? Non introducete
queste nazioni, ma la fede la quale non respinge, né lede riti e consuetudini
di nessun popolo, purché non siano cattivi, ma al contrario, vuole conservarli
in tutto il suo vigore...Perciò non paragonate mai gli usi di quei popoli con
gli usi europei, ma piuttosto abituatevi voi ad essi con il massimo impegno»[63].
Se vengono citate con soddisfazione queste espressioni che
fanno onore alla tradizione evangelizzatrice della Congregazione preposta alle
missioni, tuttavia non va sottaciuto quanto di meno positivo esiste nella sua
tradizione. E questo dicasi a proposito della mancata accoglienza di quella
positiva tradizione di inculturazione che, quando è stata accolta ed attuata,
ha sempre portato frutti positivi; al contrario, quando è stata disattesa, ha
finito per portare notevoli conseguenze negative. Citiamo due esempi di mancata
inculturazione e di negativi effetti: il primo è l'episodio dei cosiddetti riti indiani,
al tempo del Padre Roberto de Nobili, gesuita. Egli aveva assunto nella sua
prassi di evangelizzazione il cosiddetto «sistema di accomodamento» fin
dall'anno 1606; accettando il sistema indiano della divisione in caste, aveva
assunto l'abito e il tenore di vita di Sannyasi e di Guru, dedicandosi con
successo alla conversione dei Bramini. Nel 1623 ebbe espressa autorizzazione a
proseguire questi usi da parte di Gregorio XV. Sorsero però dei malumori tra Ordini
diversi. Da Roma fu inviato un visitatore delegato papale nella persona di
Carlo Tommaso Maillard de Tournon. Questi, nel 1704, condannò 16 dei cosiddetti
riti Malabarici e nel 1744 Benedetto XIV con la Bolla Omnium Sollicitudinum rese definitiva la proibizione. Il danno per
le missioni in India fu molto grave per questa soppressione di riti e per
questa chiusura al dialogo costruttivo tra evangelizzazione e culture locali[64].
Il secondo esempio di mancata inculturazione è quello dei
cosiddetti riti cinesi. In Cina,
durante lo stesso periodo, sorse analoga controversia. Qui dal 1583 lavorava
con successo il Padre Matteo Ricci (1532-1610), gesuita, che aveva affrontato
la questione dell'accomodamento tollerando il culto di Confucio e degli
antenati, considerato come costume politico-civile, l'uso dei nomi cinesi di
Dio (Tien= Cielo, Schiangti = Signore Supremo, e così via).
Nel 1615 Paolo V consentì la celebrazione della Messa in
lingua cinese e il permesso fu rinnovato nel 1698. Sorsero però, anche in questo
caso, delle opposizioni. La questione tra proibizioni e permissioni si trascinò
per due anni. Il Delegato Apostolico, ancora il de Tournon, nel 1707, proibì
tutti i riti cinesi e Clemente XI confermò la decisione (1711 e 1715).
Fu questa una dolorosa esperienza e una tragedia perché
significò per la Chiesa la perdita della Cina e dell'Indocina[65].
E' probabile che proprio a questi episodi negativi, cioè al mancato dialogo tra
evangelizzazione e culture locali, si faccia riferimento nel discorso rivolto al
popolo cinese da Giovanni Paolo II quando, con una certa «autocritica», parla
dell'esperienza del P. Matteo Ricci: «Il gesuita P. Matteo Ricci comprese e
apprezzò pienamente la cultura cinese fin dagli inizi e il suo esempio dovrebbe
servire da ispirazione a molti; altri a volte non hanno mostrato la medesima
comprensione, ma quali che siano state le difficoltà, esse appartengono al
passato e ora è al futuro che dobbiamo guardare. Il vostro Paese infatti
consacra tutte le sue energie al futuro»[66].
Alla base di questa contrazione o addirittura scomparsa
della inculturazione sta probabilmente l'egemonia culturale cristiano-europea
e, in campo liturgico, il fissismo di Trento (ne varietur!). L'evangelizzazione segue un metodo di acculturazione
o di transculturazione a partire dalla cultura europea ritenuta egemonica, con
la conseguenza di una dissociazione tra fede e cultura. Per molti popoli non
europei l'accoglienza delle fede ha spesso coinciso con la rinuncia alla
propria cultura; è questo è un «dramma» per l'evangelizzazione (EN 20).[67]
Come
più volte abbiamo ripetuto, il problema dell'inculturazione non è un fenomeno
esclusivamente moderno, dal momento che sempre nella sua storia la Chiesa è
entrata in dialogo costruttivo e reciproco con le varie culture alle quali
annunziava il Vangelo di Cristo. Recentemente ci sono stati addirittura degli
interventi autorevoli che hanno presentato alcuni «modelli» del passato ad indicare
il metodo di intraprendere ancora oggi un dialogo costruttivo tra Vangelo e
culture. Ci riferiamo all’opera missionaria dei Santi Cirillo e Metodio (sec
IX), di Matteo Ricci e Roberto de’ Nobili (sec. XVI).
a. Cirillo e Metodio.
Nella sua Epistola Enciclica, Slavorum Apostoli, Giovanni Paolo II offre una acuta analisi della straordinaria opera missionaria dei Santi fratelli Cirillo (827-869) e Metodio (815-885) tra i popoli slavi. Dell'azione missionaria cirillo-metodiana, Giovanni Paolo II mette particolarmente in risalto quello dell'inculturazione del Vangelo.
Il loro metodo
missionario era tutto impostato sull'inculturazione del messaggio evangelico.
Essi lo ritenevano assolutamente necessario per la buona riuscita della loro
azione evangelizzatrice: «Innestare correttamente le nozioni della Bibbia e i
concetti della teologia greca in un contesto di esperienze storiche e pensieri
diversi, apparve loro una condizione indispensabile per la riuscita
dell'attività missionaria della Chiesa» (Slavorum
Apostoli 13).
Animati da un profondo senso cattolico della Chiesa, essi misero in pratica quel principio di inculturazione che prevede innanzitutto una approfondita conoscenza di quegli elementi culturali in cui si vuol incarnare il messaggio della salvezza. Consapevoli di questo, i due fratelli di Salonicco si prefissero in primo luogo di penetrare il più perfettamente possibile la cultura delle genti slave e le sue diverse forme di espressione: i concetti, la lingua, le immagini, le usanze, le tradizioni proprie di quei popoli «interpretandone fedelmente le aspirazioni e i valori umani che in esse sussistevano e si esprimevano» (Slavorum Apostoli 10); e ciò per essere in grado di annunciare la parola di Dio alle popolazioni locali in modo più conforme alle loro native categorie socio-culturali.
Questi due grandi missionari non solo studiarono la cultura slava, ma mostrarono anche un sincero e profondo rispetto per essa, per la sua originalità, per la sua identità, i suoi valori umani, morali e religiosi. Mai cercarono di imporre alle genti slave la lingua greca e la cultura bizantina che essi portavano nel sangue (cfr. Slavorum Apostoli 13); soprattutto non cercarono mai di fare dell'inculturazione un processo semplicemente culturale; per essi l'inculturazione ebbe essenzialmente un fine apostolico: incarnare il Vangelo in quelle culture nelle quali essi cercarono di scoprire i semi del Verbo per poter meglio attuare il pieno incontro con Cristo Salvatore.
Pertanto, lungi dal voler far diventare bizantini gli slavi,
distruggendo la loro identità culturale, «desiderarono diventare simili sotto
ogni aspetto a coloro ai quali recavano il Vangelo; vollero diventare parte di
quei popoli e condividerne la sorte» (Slavorum
Apostoli 9). Diventando «slavi di cuore» essi cercavano di imitare
l'Apostolo delle genti facendosi tutto a tutti per tutti guadagnare a Cristo.
«Nell'opera di evangelizzazione che essi compirono... è
contenuto al tempo stesso un modello di ciò che oggi porta il nome di
“inculturazione” ‑ l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ‑
ed insieme l'introduzione di esse nella vita della Chiesa» (Slavorum Apostoli 21).[68]
«Fu uno sforzo veramente degno dello spirito missionario
quello di apprendere la lingua e la mentalità dei popoli nuovi ai quali portare
la fede, come fu esemplare la determinazione nell'assimilarle e nell'assumere
in proprio tutte le esigenze ed attese dei popoli slavi. La scelta generosa di
identificarsi con la stessa loro vita e tradizione, dopo averle purificate ed
illuminate con la rivelazione, rende Cirillo e Metodio veri modelli per tutti i
missionari, che nelle varie epoche hanno accolto l'invito di S. Paolo di farsi
tutto a tutti per riscattare tutti» (Slavorum
Apostoli 11).
b. Matteo Ricci
In occasione delle solenni celebrazioni per il IV Centenario dell'arrivo in Cina del missionario gesuita Matteo Ricci, autorevoli interventi hanno sottolineato l'intensa opera missionaria di Matteo Ricci soprattutto in rapporto ai suoi sforzi di inculturazione del Vangelo nella cultura cinese[69].
Matteo Ricci, infatti, si dedicò ad un lavoro di comprensione delle realtà culturali cinesi per penetrare nella profondità dello spirito di quel popolo. Egli studiò a fondo la cultura classica cinese, apprezzò i valori positivi in essa racchiusi e si sforzò di incarnare in essa il messaggio cristiano. A quest'opera così intensa di studio, di conoscenza della cultura cinese, dedicò ben 24 anni che egli trascorse a Zhaoquing nel sud della Cina.
Furono
anni di ricche esperienze, di riflessione, di studio dell'ambiente
socioculturale in cui doveva più tardi svolgere la sua missione. Ebbe così modo
di apprezzare la ricchezza di queste culture, i valori positivi che esse
contenevano, vedendo soprattutto in esse, non un ostacolo, ma piuttosto un
mezzo provvidenziale di cui servirsi per l'annuncio del Vangelo.
Questo amore e questa conoscenza del popolo cinese e della
sua cultura costituì un essenziale mezzo per presentare il Vangelo in un modo
che fosse compreso dai suoi ascoltatori e in una forma che facesse attenzione
alla loro legittima sensibilità e ai tesori di quelle antiche tradizioni e
dottrine filosofiche e morali non in contrasto con la verità del Vangelo e con
le norme morali della Chiesa cattolica; tanto più egli si prefisse di scoprire
come queste tradizioni potessero essere armonizzate con l'insegnamento
cattolico e potessero aiutare ad esprimere il messaggio di Cristo in termini e
in concetti molto più facilmente compresi e accettati dalla mentalità cinese;
evitò sapientemente non necessari scontri e rotture con una tradizione
culturale e con un ethos certamente degni della più alta considerazione.
Anche Matteo Ricci può essere dunque indicato come uno dei
modelli per tutti i missionari che si sforzano di inculturare il Vangelo nelle
tradizioni dei popoli. Quello che per la Chiesa è una necessità e un dovere,
trovò nel missionario Matteo Ricci una concreta attuazione. Come uomo di
cultura ebbe successo nel comprendere la grande civiltà cinese e nello scoprire
i suoi valori intellettuali, estetici e morali, rispettandoli con amore. Dunque
fu proprio il suo atteggiamento di rispetto e di ammirazione che lo rese capace
di stabilire un fiducioso e fruttuoso dialogo con eminenti rappresentanti della
cultura cinese, che fu, sul piano storico, il vero inizio dello scambio
culturale tra la Cina e il mondo occidentale[70].
Merito del Padre Ricci, fu dunque quello di stabilire tra la
Chiesa e la cultura cinese un ponte che appare ancora oggi solido e sicuro. Con
le parole di Giovanni Paolo II possiamo concludere questa riflessione dicendo:
«alla luce dello spirito di dialogo e di apertura che caratterizza il Concilio,
il metodo missionario di Matteo Ricci appare quanto mai vivo ed attuale; il
decreto conciliare Ad Gentes sembra
alludervi quando descrive l'atteggiamento che devono avere i cristiani: essi
devono stringere rapporti di stima e di amore con gli uomini del loro tempo,
riconoscersi membra vive di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono e prendere
parte, attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell'esistenza
umana, alla vita culturale e sociale. Così devono conoscere bene le tradizioni
culturali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei
germi del Verbo che in loro si nascondono» (AG 11)[71].
c.
Roberto de’
Nobili.
Nella missione di Tuticorim (India) Roberto de Nobili
(1577-1656) intuisce subito che quell'umanità così ricca di cultura e di
tradizioni è troppo distante ed impermeabile al messaggio evangelico così come
veniva allora predicato. E' anche convinto, però, che il Vangelo è lievito e
per poterlo rendere attivo ed efficace necessita di essere inserito dentro la
farina per farla tutta fermentare. Ha la certezza che quel popolo non potrà
essere adeguatamente evangelizzato senza prima averlo conosciuto in profondità.[72]
Intraprende allora con assiduità lo studio della lingua più
diffusa in quella regione, la lingua tamil.
Dopo appena sei mesi possedeva così bene la lingua da
non aver più bisogno di interprete per predicare e per discutere con la gente.
Si interessa alla dottrina filosofica e alle tradizioni religiose di quel
popolo.
A Madura, roccaforte dell'induismo, l'evangelizzazione
marcava il passo e le poche conversioni si avevano solo tra le classi più basse
e povere. Occorreva trovare nuovi e adeguati metodi di evangelizzazione per
superare la difficile situazione in cui stava ristagnando l'azione dei
missionari. La regola del «patronato» spingeva i Portoghesi ad
ottenere conversioni a qualunque costo; anche gli indiani dovevano diventare
buoni sudditi di sua maestà il re di Portogallo. Nel 1546 il re Giovanni III
proibiva con un decreto il culto brahaminico e ordinava la distruzione degli
idoli. Gli stessi missionari non erano immuni da forme violente: nel 1567 uno
di essi uccideva sulla pubblica piazza una vacca, l'animale sacro degli indù.
Non è difficile intuire il disprezzo che sia i prangui sia i
missionari e la stessa religione cristiana avevano presso il popolo indù
Roberto
de Nobili pensò a lungo ad un metodo apostolico che facesse fare un salto di
qualità all'evangelizzazione in quella regione.
Il metodo dell'adattamento.
Riflettendo sul metodo
missionario delle primitive comunità cristiane, Roberto de Nobili intuì che il
Vangelo, nella sua verità universale, poteva adattarsi anche al genio del
popolo indiano come già si era adattato a quello greco e latino. Lo stesso
cristianesimo avrebbe potuto assumere valori locali nelle sue manifestazioni
rituali e la predicazione non avrebbe dovuto prescindere dalla cultura di quel
popolo, ma piuttosto partire proprio da essa. Il de Nobili si convinse ben
presto che l'India non avrebbe mai rinunciato alla propria identità per
diventare cristiana; si doveva fare quindi ogni sforzo per evangelizzarla
partendo proprio da questa sua identità culturale, considerata come un valore
propedeutico all'Evangelo.
Questa sua convinzione, confortata dall'approvazione dei
superiori e dei Vescovi, incominciò a tradursi in pratica per cui Roberto de
Nobili da quel momento in poi non fece altro che attuare il principio paolino
di «farsi tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).
Prese subito le distanze dai disprezzatissimi prangui perché suo intento era fare
breccia nelle caste più alte; voleva dimostrare che coloro che avessero aderito
al cristianesimo non avrebbero dovuto per ciò stesso abbandonare la loro casta
e che il cristianesimo non era la religione dei soli paria come avvenuto fino ad allora.
Si presentò come un raja,
cioè di sangue nobile; come un sannyasi,
cioè come una persona sacra tutta dedita alla continenza e alla penitenza; come
un guru, cioè come un sapiente che
indica la via di Dio.
Indossò l'abito arancione del penitente indiano; coprì il
capo con il turbante e mise gli zoccoli di legno ai piedi; si cinse i fianchi
con il cordone, segno distintivo delle alte caste indù.
Si fece costruire una abitazione nel quartiere dei brahmini ed ebbe al suo servizio
soltanto servitù indù. Alimentazione e stile di vita furono strettamente quelle
dei brahmini. Usciva raramente. I
maduresi, attratti anche dalla curiosità per il modo di vita di questo sinnyasi romano, desiderarono molto
fargli visita non senza ripetute richieste dal momento che Roberto de
Nobili faceva ripetere dai suoi servi
di essere molto occupato nella preghiera e nello studio della parola di Dio.
Metodologia catechistica. Oltre alla lingua tamil apprese anche il telugu
ed il sanscrito. La conoscenza del
sanscrito gli permise di penetrare i segreti dei testi sacri induisti; testi
che citava anche a memoria nei colloqui con i suoi visitatori dotti ed
esigenti.
Questo, d'altro canto, era proprio il metodo didattico degli
indù. Compose anche degli inni in lingua tamil,
suscitando la meraviglia dei suoi ascoltatori.
La conoscenza della lingua sanscrita gli permise di
penetrare a fondo la filosofia e le tradizioni religiose indù. Poté così trovare sia le analogie col mistero
cristiano, sia individuare gli elementi più deboli o aberranti della loro
tradizione.
Con i suoi saggi interlocutori parlava dell'esistenza e
della natura di Dio, della trasmigrazione delle anime, delle virtù.
La sua dottrina profonda e la sua sincera vita di ascesi,
portarono ben presto i primi frutti.
Un guru dottissimo
dei principi di Madura, di nome Alberto, lasciò gli onori della sua famiglia e
si fece battezzare. Il maestro che aveva insegnato a Roberto il sanscrito,
Adeodato, dovette arrendersi alla sua dottrina e anch'egli si fece battezzare.
Al seguito di Maria, una ragazza ventenne e di grande capacità e cultura, anche
molte donne di alta casta aderirono al cristianesimo.
Roberto de Nobili non richiedeva l'abbandono della propria
casta, né la rinuncia a portare il kudumi
(ciuffo di capelli, distintivo della casta); si potevano usare gli unguenti
tradizionali e celebrare le feste locali: il suo principio non
era quello di abolire, ma di cristianizzare certe usanze purificandole da
quegli elementi che potevano apparire superstiziosi.
Non senza difficoltà. Era prevedibile che da parte degli altri guru brahmini sorgessero ben presto
delle forti gelosie. Fu accusato di doppiezza e alle accuse fecero seguito
minacce; tutto si calmò e si chiarì nel giro di qualche tempo.
Le difficoltà maggiori, purtroppo, vennero proprio
dall'interno della sua comunità cristiana.
Inizialmente i
superiori ed il vescovo avevano approvato ed appoggiato il suo metodo
missionario. Ma le gelosie, miste ad incomprensioni, spinsero alcuni suoi
confratelli a denunciare quelle conversioni ritenute troppo facili e frutto di
compromesso con la genuina verità evangelica. Non mancò neppure la scintilla
del nazionalismo ad accendere la polvere.
Proprio da Lisbona partirono le sanzioni più severe contro
l'iniziativa del de Nobili. Si sparse addirittura la voce che si fosse
convertito al paganesimo.
L'inchiesta voluta dalla Santa Sede si protrasse per circa
13 annni. Nel 1623, con la bolla «Romanae
Sedis» il papa Gregorio V poneva fine all'increscioso incidente e il metodo
missionario di Roberto de Nobili poté così continuare.
L’attualità del metodo. In che cosa consiste la specificità del
metodo missionario di Roberto de Nobili e quale può essere la sua attualità?
Si può dire che Roberto de Nobili, mostrando un grande
rispetto per le persone e con una sollecitudine disinteressata per il loro vero
bene, impiegò tutte le sue energie di zelo e di carità per portare ai futuri
credenti la luce del vangelo. A tale scopo desiderò diventare simile sotto ogni
aspetto a coloro ai quali recava il Vangelo; volle diventare parte di quel
popolo e condividerne in tutto la sorte (questo pensiero si trova in Slavorum apostoli 9).
Fu uno sforzo veramente degno dello spirito missionario
quello di apprendere la lingua e la mentalità del popolo a cui desiderava
portare la fede, come fu esemplare la determinazione nell'assimilare e
nell'assumere in proprio tutte le esigenze ed attese di quel popolo. Fu veramente
generosa la scelta di identificarsi con la stessa loro vita e tradizione.
Nell'opera di evangelizzazione intrapresa da Roberto de
Nobili è contenuto al tempo stesso un modello di ciò che oggi porta il nome di
«inculturazione»: l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme
l'introduzione di esse nella vita della Chiesa.
Roberto si lasciò guidare dall'ideale apostolico di s.
Paolo: «Non c'è più schiavo né
libero...tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 26-28). Di Paolo
accolse anche l'invito a farsi servo di tutti per poterne guadagnare il maggior
numero (1 Cor 9,19), per salvare ad ogni costo qualcuno (v. 22) facendo
risuonare la parola di Dio anche in ambienti ritenuti fino ad allora
impenetrabili (cf At 17).
Oltre a queste motivazioni che attingono direttamente allo
spirito di fede, ve ne sono altre che nascono dall'intuito missionario di
Roberto de Nobili: per evangelizzare, la Chiesa deve immedesimarsi nelle forme
di vita di coloro ai quali vuol portare il messaggio di Cristo; «infatti non si
salva il mondo dal di fuori» (Ecclesiam
suam: EV 2/198).
Le espressioni dell'enciclica Ecclesiam suam che parlano di «come avvicinare i fratelli nella
interezza della verità», ben si addicono all'opera di Roberto de Nobili: «occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi in
certa misura nelle forme di vita di coloro a cui si vuol portare il messaggio
di Cristo; occorre condividere, senza porre distanze di privilegi o diaframmi
di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed
onesto...Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore
dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita
assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell'atto stesso che vogliamo
essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi
il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo
l'esempio e il precetto che Cristo ci lasciò (Cf Gv 13,14-17)» (Ecclesiam suam: EV 2/198).
Questo rispetto per la cultura locale fu una caratteristica
di Roberto de Nobili. Egli non solo studiò tale cultura, ma mostrò anche un
sincero e profondo rispetto per essa, per la sua originalità, per la sua
identità, per i suoi valori umani, morali e religiosi. Né cercò di fare del suo
metodo apostolico un esperimento puramente culturale; la sua preoccupazione fu
semplicemente apostolica: incarnare il vangelo in quelle culture perché fosse
possibile un migliore e più profondo incontro con Cristo Salvatore. E possiamo ben
dire che Roberto de Nobili fece tutti gli sforzi in vista di quella che Paolo
VI chiama «una generosa evangelizzazione
della cultura, più esattamente delle culture» (EN 20).
Il de Nobili vedeva con rammarico che quel tipo di Chiesa
fino ad allora «impiantata» in India, continuava ad essere una Chiesa
«straniera», troppo legata non solo all'occidente ma anche ad una nazione
colonizzatrice come il Portogallo. Fece di tutto perché i cristiani dell'India
non fossero stranieri tra i propri fratelli e la Chiesa potesse sentirsi di
casa in quella nazione.
Da qui l'impegno ad una evangelizzazione non superficiale, a
modo di vernice, ma piuttosto una incarnazione del Vangelo che affonda le
radici nel suolo spirituale e culturale dell'ambiente in cui viene proclamato.
Per questo Roberto de Nobili si prefisse di scoprire come quelle tradizioni
potessero essere armonizzate con l'insegnamento cattolico e potessero aiutare
ad esprimere il linguaggio di Cristo in termini e in concetti molto più
facilmente comprensibili dalla mentalità indiana.
Il metodo missionario di Roberto de Nobili appare oggi
quanto mai vivo ed attuale; il decreto conciliare Ad gentes sembra alludervi quando descrive l'atteggiamento che
devono avere i cristiani nel contesto della missione: essi devono stringere
rapporti di stima e di amore con gli uomini del loro tempo, riconoscersi membra
vive di quel gruppo umano in mezzo a cui vivono e prendere parte, attraverso il
complesso delle relazioni e degli affari dell'esistenza umana, alla vita
culturale e sociale. Così devono conoscere bene le tradizioni culturali e
religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del
Verbo che in loro si nascondono(cf AG 10 e 11).
Si può ben dire che il metodo apostolico di Roberto de
Nobili, come quello del suo confratello Matteo Ricci, costituiva ante litteram il complesso problema
della inculturazione che è posto di fronte alla Chiesa e che oggi è più che mai
sentito come una necessità e come un dovere.
Questa esperienza sta a ricordarci che la missione
evangelizzatrice della Chiesa esige non soltanto che il Vangelo sia predicato
in fasce geografiche sempre più vaste e a moltitudini umane sempre più grandi,
ma che siano anche permeati della virtù
dello stesso Vangelo il loro modo di pensare, i criteri di giudizio, le norme
d'azione. In una parola, è necessario che tutta la cultura dell'uomo sia
penetrata dal Vangelo (cf EN 19-20). Istituendo il pontificio Consiglio per la
cultura, Giovanni Paolo II ha detto: «Una
fede che non diventa cultura, è una fede non pienamente accolta, non
interamente pensata, non fedelmente vissuta» (Lettera al Card. Casaroli: EV 8/177).
Per venire a tempi più recenti, in una lettera del Prefetto
della Sacra Congregazione de Propaganda Fide al Delegato Apostolico in Cina,
così vien detto a proposito del rapporto Chiesa-cultura: «La Chiesa cattolica
non ha fini imperialisti, ma è rispettosa di tutto ciò che è buono in tutte le
civiltà... E' questa la tradizione costante del cattolicesimo, che essendo la
vera religione e perciò religione universale, non è legata ad alcuna forma
particolare di cultura e apprezza, rispetta, e cerca di santificare tutto ciò
che di buono ogni civiltà sa produrre» (15.7.1931)[73].
Anche nel 1936, in occasione di una esposizione di arte
sacra congolese, organizzata dagli Ordini del Congo Belga a Leopoldville, così
si felicitava la Sacra Congregazione De
Propaganda Fide per tale iniziativa: «La Chiesa cattolica non è né belga,
né francese, né inglese, né italiana o americana: essa è cattolica. Nel Congo
essa deve essere congolese»[74].
Questi positivi interventi e questa sensibilità confluirono
più tardi nella formazione del documento Ad
Gentes, alla preparazione del quale
contribuì certamente la secolare tradizione acquisita dal Dicastero per le
missioni.
Agli inizi del XX secolo si hanno i primi segni di un
movimento liturgico [monasteri benedettini di Solesmes, Maredsous, Beuron].
L'opera di s. Pio X [Comunione frequente, ai bambini, canto gregoriano al
popolo]. La seconda guerra mondiale e il movimento liturgico [Casel, Capelle,
Mohlberg, Parsch, Guardini, Beauduin]. Pio XII e la Mediator Dei [1947]. La
riforma della Veglia pasquale e della settimana santa [1951.1955], la messa
vespertina [1953.1958], il Congresso internazionale di pastorale liturgica
[Assisi 1956: in questa occasione Pio XII definisce il movimento liturgico come
«un passaggio dello Spirito Santo nella sua Chiesa»: citato in SC 43], il
Vaticano II e la Costituzione Sacrosanctun
concilium [4.12.1963]. Il Concilio non volle la rinascita delle vecchie
liturgie, ma l'adattamento del rito romano riformato alle culture dei popoli:
SC 37-40; pluralismo locale nell'unità della liturgia romana universale.[75]
Nella Costituzione Liturgica è detto che «La Chiesa, quando
non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre
neppure nella liturgia una rigida uniformità, anzi rispetta e favorisce le
qualità e le doti d'animo delle varie razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi
che nei costumi dei popoli non è indissolubilmente legato a superstizione o ad
errori, essa lo considera con benevolenza e, se è possibile, lo conserva
inalterato e a volte lo ammette perfino nella liturgia purché possa
armonizzarsi con il vero e autentico spirito liturgico» (SC 37).
«Salva la sostanziale unità del rito romano, anche nella
revisione dei libri liturgici, si lasci posto alle legittime diversità e ai
legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli, soprattutto nelle
missioni e ciò si tenga opportunamente presente nella struttura dei riti e
nell'ordinamento delle rubriche» (SC 38)[76].
Concludendo questa riflessione su «continuità e
rinnovamento», possiamo dire che lungo la millenaria storia della Chiesa,
sempre si è posto il problema di rendere fruttuoso l'incontro del Vangelo con
le culture dei popoli a cui questo divino messaggio veniva rivolto.
Come sempre accade quando sono gli uomini a dover
trasmettere un messaggio di salvezza, accanto ad esperienze positive, vi sono
state anche esperienze negative; ciò che rimane è la continuità dell'esperienza
e la continua ricerca di nuove risorse e nuovi metodi per affrontare un
problema che, nella Chiesa, è un problema di sempre.
Senza questo lento e faticoso dibattito tra evangelizzazione
e culture, forse, non ci sarebbe stata quella maturazione di idee e di principi
che si è avuta col Vaticano II e con i Pontefici che hanno provveduto a
tradurne concretamente le risoluzioni.
Tutto questo, però, necessita un discorso a parte.
Nella sua bimillenaria storia missionaria
la Chiesa ha sperimentato una varietà di modelli di missione. Se è vero che
«una pagina di storia vale più di un volume di teoria» (Oliver Wendel Holmes),
sarà utile prendere in considerazione almeno alcuni tra i numerosissimi modelli
di missione applicati dai missionari in duemila anni di evangelizzazione. In
concreto vedremo alcuni modelli teorici,
e alcuni modelli storici.[77]
a.
Modello etnocentrico. Tende a considerare i propri
valori-modelli come superiori e cerca di imporli agli altri. Un tale
attaccamento e orgoglio di gruppo può trasformarsi in xenofobia (persino in nazismo), in imperialismo
culturale, in paternalismo
(ritarda l’autodeterminazione e tiene gli altri sotto tutela), in triofalismo (trasmettere non solo la
propria fede, ma anche le proprie forme culturali; cristianizzare equivale a
civilizzare-europeizzare). Un tale modello ha impedito il formarsi di un clero
locale (i neri sono sì da battezzare, ma non da ammettere al sacerdozio e alla vita
religiosa).
b.
Modello dell’adattamento. Prende atto che anche nelle altre culture
vi sono elementi positivi; possono costituire una buona base per
l’evangelizzazione. Il Vangelo però non è fatto entrare «dentro» l’anima di
queste culture: resta come un abito esterno, una vernice superficiale.
L’evangelizzazione è vista più come un trapianto che una semina, una
concessione delle Chiese «antiche» piuttosto che un diritto e una necessità
delle Chiese «giovani» (ritenute infantili e immature, sotto «tutela»).
L’adattamento segue un’ottica prevalentemente «ecclesiocentrica».
c.
Modello dell’inculturazione. E’ il processo
mediante il quale una Chiesa locale integra il messaggio evangelico (il
«testo») nella propria cultura locale («contesto») secondo il modello della
«incarnazione» (AG 10), in maniera vitale, in profondità, fino alle radici
della propria mentalità e dei propri valori (EN 53). In questo processo di
reciproco dare-ricevere, la Chiesa locale deve assumere un atteggiamento
autoevangelizzante restando in dialogo con la Chiesa universale. L’ottica è
quella del «Regno» e l’evangelizzazione è la prima preoccupazione (non quindi
la civilizzazione o l’umanizzazione).
Questo processo di «inculturazione» si
sviluppa almeno su tre livelli:
·
Primo livello: Le forme culturali. E’ l’aspetto esteriore e fenomenico delle cose.
Sono solo «portatori di significato», senza entrare dentro il «perché» dei
fatti.
·
Secondo livello: L’incarnazione. Ricerca i motivi, i perché, gli scopi, i
significati... delle forme. Una forma a cui si annette un significato diventa
un simbolo.[78] Il processo
di inculturazione non può fare a meno di ricercare, dentro i «portatori di
significato» (= le forme), i significati, i valori, i bisogni, i presupposti,
le motivazioni...
·
Terzo livello: La psicologia soggiacente. Sono gli atteggiamenti emotivi, le
tendenze fondamentali, i punti di partenza del ragionamento.
Si potrà dire che il messaggio cristiano
è pienamente inculturato quando diventa parte integrante della cultura di un
popolo, quando è capace di generare forme nuove di espressione della fede
(arte, liturgia, espressioni di vita), senza per questo perdere il legame
essenziale con il Vangelo e con la tradizione universale della Chiesa (le cose
nuove e le cose antiche di Mt 13,52; cf CT 53).
Il processo di inculturazione vede
coinvolti tre poli dinamici: il Vangelo, la tradizione universale della Chiesa,
la Chiesa locale con la propria cultura:
* il
Vangelo. Non è puramente isolabile né dalla cultura in cui è nato, né dalle
culture nelle quali si è già espresso lungo i secoli (CT 53). E’ impensabile
una «deculturazione» del Vangelo!
* la
Chiesa universale. Non è la semplice «somma» delle Chiese particolari, ma
piuttosto le precede e le genera.[79]
Essendo «cattolica», essa è da tutti
e per tutti i popoli (LG 13; CCC
830-831). La sua missione non è mai distruzione , ma «riassunzione» di valori
(RH 12).
* la
Chiesa locale. E’ il luogo vitale dove il Vangelo e la Chiesa universale si
fanno presenti germinando una nuova creatura che porta tutti i cromosomi e il
DNA sia dell’Evangelo, sia della Chiesa universale.
Gli evangelizzatori sono sempre stati
figli del loro tempo; accanto alla loro dedizione generosa stanno
necessariamente anche gli errori di metodo. Cercheremo di leggere i fatti per
apprendere gli aspetti ritenuti positivi ed evitare, nella missione odierna,
quelli ritenuti negativi.[80]
3.2.1.
Evangelizzazione
e culture nel primo medioevo (V-XI secolo).
Con la morte di Teodosio (395) l’Impero è
diviso in Oriente e Occidente. Con la caduta dell’impero d’Occidente (476: il
germano Odoacre depone l’ultimo imperatore romano-occidentale Romolo Augustolo)
ha inizio l’invasione dei popoli barbari (Unni, Germani, Visigoti, Vandali) che
da Nord calano verso il Sud dell’Europa. Nel 410 avviene il saccheggio di Roma
da parte di Alarico.
Dinanzi a tanto sfacelo, la metodologia
missionaria tende alla conversione dei capi che si trascina dietro quella del
loro popolo. Un ruolo importante è svolto dalle spose cattoliche dei prìncipi
barbari (Clodoveo e la regina Clotilde, verso il 500; Berta e il marito
Etelberto in Gran Bretagna, verso il 590). In molti casi la conversione del
popolo è legata alla dominazione politica, come forma di sottomissione alla
corona.
Patrizio (389- 461) evangelizza l’Irlanda.
Con i suoi monaci fissa una lingua e una letteratura nazionale; l’Irlanda
diventa un popolo di civiltà. Da questo nucleo di monaci partono Colombano e
Gallo per evangelizzare la Gran Bretagna e il Continente (fino alla valle del
Reno). L’evangelizzazione avviene per espansione: da una terra a quella vicina.
Da Roma il Papa Gregorio Magno (590-604)
invia Agostino e altri quaranta monaci in Gran Bretagna; verso il 590 avviene
la conversione degli Anglosassoni e la fondazione dell’arcivescovato di
Cantebury (Il collegamento con Roma sarà una costante della metodologia
missionaria anche nei secoli seguenti). Ha inizio un metodo missionario che
prevede non la distruzione dei templi (come avevano fatto Colombano e Gallo),
ma la loro dedicazione al Dio vero e una attenzione alle culture antiche dei
popoli da evangelizzare. Presso molti popoli nordici si usò all’inizio anche
una certa tolleranza verso costumi pagani (divorzio, concubinato).
Questi prìncipi, divenuti cattolici,
accolsero di buon grado la cultura romana, ritenuta universale e quindi
superiore alla loro. Diventare cristiano significava accedere ad una religione
universale legata a una certa civiltà. Non mancarono tuttavia forme di
«contaminazione» con elementi franco-germanici (come si è potuto vedere per la
liturgia del X e XII secolo).
3.2.2.
Evangelizzazione
e culture nel tempo della cristianità (XI-XIV secolo).
Verso la fine dell’XI
secolo l’Europa si può considerare tutta cristiana; inizia quella che viene
chiamata la «cristianità». Si prende atto che l’Islam assedia questa
cristianità dall’Oriente fino alla Spagna (le comunità cristiane dell’Africa
Occidentale sono ormai scomparse sotto tale pressione).
Il papa Urbano (1095) indìce la prima
crociata per liberare i luoghi santi. La crociata acquista però anche una
valenza evangelizzante: riunire «ecumenicamente» tutti i cristiani, d’Oriente e
d’Occidente, per far fronte all’Islam; si pensa infatti che la conversione dei
musulmani spetti alle Chiese Orientali che ne conoscono meglio lingua e
costumi. Sotto questa convinzione i Maroniti proclamano la loro unione a Roma
(1141?), come pure gli Armeni (1199).
Fallite le crociate, l’evangelizzazione
dei musulmani viene assunta dagli ordini mendicanti: Domenicani (1216) e
Francescani (1223). Sorgono altri Istituti con finalità missionaria: Trinitari
(1198), Mercedari (1218).
Il papa Innocenzo IV nel concilio di
Lione (1245) invita tutte le Chiese a tornare nell’unità romana; invia i frati
mendicanti per la conversione dei musulmani.
In quest’epoca nasce una dottrina-metodologia
e una organizzazione missionaria. Umberto da Romans, maestro generale dei
Domenicani, elabora un programma di evangelizzazione: imparare le lingue dei
popoli da evangelizzare, bandire la costrizione, evitare le controversie
pubbliche, non cercare il martirio con provocazioni gratuite, conoscere l’Islam
e il Corano.[81]
Raimondo Lullo (1245-1315) scrive un Trattato sulla maniera di convertire gli
infedeli (1292). Bandisce ogni forma di costrizione e fa appello alla
libertà, all’amore, all’intelligenza. Occorre conoscere l’ambiente (credenze,
usi, filosofia) e fondare scuole per imparare le lingue. Suggerisce che un
cardinale abbia l’incarico di coordinare la politica missionaria del papato.[82]
Con il secolo XIII nascono dunque
organismi centralizzati e specializzati per preparare ed inviare missionari.
Questi organismi sono affidati soprattutto ai frati mendicanti (Domenicani e
Francescani). Sorgono stazioni missionarie, alla dipendenza delle stessa Santa
Sede; anche quando sono gli Ordini ad inviare missionari, ciò avviene sempre
«per decisione», «per mandato» della Sede apostolica. Molti missionari, come
Giovanni da Montecorvino (Cina 1307), ricevettero dal papa poteri di legato
pontificio.
I Pontefici romani sentono la necessità
di creare sedi vescovili nei territori di missione. Così partono sei vescovi
per la Cina (1313), nasce una arcidiocesi a Samarcanda (1318).
La metodologia missionaria però è
prevalentemente latinizzante;[83]
gli europei sono commercianti di schiavi; l’Islam è forte e soffoca le deboli
colonie cristiane che, per mancanza di missionari, pressoché scompaiono verso
il secolo XV.
3.2.3.
L’evangelizzazione
delle nuove popolazioni delle Americhe e dell’Asia: 1500-1800.
Con la fine del
Medioevo e l’inizio dell’età moderna (XV secolo) assistiamo anche alla scoperta
e all’evangelizzazione del Nuovo Mondo.
Le motivazioni per cui si partiva verso
le nuove terre erano innumerevoli: la ricerca dell’oro, delle spezie, della
manodopera degli schiavi; in tale contesto partono anche i missionari per l’evangelizzazione.
A seguito del Concilio di Firenze (1437-1439) era dottrina comune che tutti i
non battezzati come pure gli eretici andassero all’inferno; era necessario
battezzare il maggior numero possibile di pagani (si spiegano così i battesimi
di massa, come pure l’Inquisizione, applicando la regola di Lc 14,23: compelle intrare, «costringili» ad
entrare al banchetto delle nozze).
C’era anche una forte idea millenarista
(si riteneva che la fine del mondo dovesse avvenire nel 1656) e un forte
desiderio di riconquistare Gerusalemme (con l’oro delle conquiste coloniali).
C’era poi la paura che, a seguito dell’eresia protestante, tutta l’Europa
avrebbe perso la fede apostolica; le nuove terre sarebbero state la controparte
di tali perdite: lì sarebbe sopravvissuta la vera fede cattolica.[84]
La missione era calata in questo contesto
culturale: i missionari, per guadagnare le anime, dovevano tenersi buoni i
commercianti e i conquistadores che dovevano guadagnare oro, spezie, schiavi!
Colonizzazione ed evangelizzazione erano strettamente unite.[85]
A seguito della scoperta del «Nuovo
Mondo» (1492), le potenze marinare dell’epoca, Spagna e Portogallo, inviarono
congiuntamente la Croce e la Corona per la conquista delle nuove terre. Il
Portogallo assunse la responsabilità dell’Africa, dell’Asia e del Brasile. La
Spagna quella dell’America centrale e meridionale e delle Filippine.
I missionari portoghesi usavano costruire
centri abbastanza piccoli; sopprimevano le religioni tribali e allontanavano la
classe nobile indigena che costituiva la principale opposizione; le conversioni
avvenivano prevalentemente tra le classi basse della società e tra i meticci.
I missionari spagnoli controllarono in
maniera diretta e severa le comunità indigene. I francescani, i domenicani, gli
agostiniani, i gesuiti,[86]
fondarono le cosiddette «riduzioni», colonie riservate ai soli indios in vista
della loro protezione da parte degli schiavisti, ma anche per proteggerli dalle
cattive influenze tribali.
Se le «riduzioni» del Paraguay sono un esempio
di protezione degli Indios e della loro cultura, non si può nascondere che in
altri luoghi la conquista (e l’evangelizzazione) arrecarono danni irreparabili
alle popolazioni locali e alle loro culture. Appena trenta anni dopo la
scoperta delle Antille da parte di Colombo, gli Indigeni delle isole erano già
quasi del tutto scomparsi, a causa delle guerre, delle epidemie, dei lavori
forzati nelle piantagioni di caffè e di canna da zucchero.
Dal momento poi che i nativi non erano
sufficientemente forti per il lavoro pesante, si iniziò la tratta degli schiavi
negri dalle coste dell’Africa.[87]
Non mancarono missionari che levarono la
loro voce contro i soprusi verso gli Indios. Nel 1511 il Domenicano Montesinos
protestò presso i re di Spagna. Nel 1514 si levò la voce del messicano
Bartolomé de Las Casas. In Europa si levò la voce di Erasmo da Rotterdam
(1467-1536).[88] Il papa
Paolo III, con la bolla Sublimis Deus
(9 giugno 1537) riconobbe la libertà degli Indios.[89]
Il domenicano Francisco de Vitoria (ritenuto uno dei fondatori del diritto
internazionale) sostiene che gli Indios hanno diritto naturale al possesso
delle loro terre (che non sono pertanto né del papa, né dei conquistadores);
non li si può obbligare alla conversione.
Bartolomé de Las Casas indicò anche
regole ben precise per l’evangelizzazione: non aver fretta, rispettare gli usi
indigeni, dare il buon esempio, non è necessario diventare sudditi spagnoli per
essere buoni cristiani, gli Indios sono legittimi proprietari delle loro terre;
porre fine alla conquista e all’ingiusta guerra contro gli Indios.[90]
La legislazione che istituiva il
«patronato»[91] e
l’«encomienda»[92] finì per
ritardare e complicare l’opera di evangelizzazione. Con la fondazione di Propaganda Fide (1622) molti di questi
abusi vennero eliminati: Roma riprese il controllo dell’elezione dei Vescovi e
provvide ad inviare missionari scelti e svincolati dai governi coloniali.[93]
Si intendeva così liberare la missione dagli impacci della politica e del
commercio. Fu fondato il Collegio Urbano (1627), furono istituiti i Vicari
apostolici (1658), fu incoraggiata la fondazione del seminario delle Missioni
Estere di Parigi (1663).[94]
Per un discorso più «culturale» circa il
metodo di evangelizzazione in questa prima fase missionaria nelle terre del
Nuovo Mondo si può dire che in questa epoca esso consiste prevalentemente nella
«tabula rasa»: l’evangelizzazione implica la soppressione delle religioni
locali (ritenute sanguinarie ed antiumane). Non mancarono tuttavia esempi
significativi di «adattamento», come è possibile vedere in certi catechismi
(che fanno uso dei videogrammi aztechi e maya), e nella religiosità popolare
(come l’immagine della Vergine di Guadalupe).
Ben diverso fu il metodo missionario dei
gesuiti nel Nord America. Isaac Jogues e i suoi compagni andarono ad abitare
con gli indiani irochesi e li seguivano nei loro spostamenti.
Nel Vietnam i Gesuiti si dedicarono alla
formazione dei catechisti e dei sacerdoti indigeni.
3.2.4.
L’evangelizzazione
nell’età moderna (XV - XVIII secolo).
Sarà utile prendere in
considerazione un Continente per volta.
a. L’Africa.
A partire dal 1415 i Portoghesi iniziano l’esplorazione dell’Africa occidentale
(Angola e Congo). L’evangelizzazione è discontinua, il clero mediocre, si
ignora la lingua del popolo, si battezza senza catechesi, si fa tabula rasa dei culti pagani. C’è troppa
collusione tra colonizzazione e missione. Nel 1444 si vendono i primi schiavi a
Lisbona. Le missioni africane in questo periodo sono un fallimento.
b. L’America
spagnola e portoghese. La prima evangelizzazione fu fatta con molta serietà
e da missionari validi.[95]
Ben presto furono create diocesi e si susseguirono concili e sinodi diocesani.
La metodologia era quella della «tabula rasa»: distruggere i templi
pagani e innalzare al loro posto la croce. Il Vescovo di Città del Messico, il
francescano Juan de Zumárraga, dopo appena sette anni di permanenza (era
iniziata nel 1524), poteva già contare «più di un milione di persone
battezzate, cinquecento templi d’idoli distrutti, ventimila dipinti di demòni
bruciati... sono cessate le usanze di offrire agli idoli ogni anno quasi
ventimila cuori umani...».
Non mancarono tuttavia forme di
adattamento, come l’uso di immagini messicane, del teatro, della danza, per
accompagnare il catechismo dei bambini (i testi erano quelli spagnoli). Si
curava molto la solennità della liturgia e la fastosità delle chiese.
I missionari francescani erano rispettosi
degli Indiani e li proteggevano dalla rapacità dei conquistatori. Si posero
anche il problema di formare un clero indigeno; a Tlaltelolco fu fondato un
collegio per scolari indigeni (ma non ci furono ordinazioni di Indiani).
A differenza dei conquistatori, i
francescani non volevano ispanizzare gli Indiani. Impararono le lingue (nahuatl in Messico e quechua in Perù); prepararono
grammatiche e dizionari;[96]
scrissero catechismi e libri di pietà nei dialetti locali;[97]
scrissero la cronaca di quelle civiltà (si deve ai missionari se oggi possiamo
conoscere quelle tradizioni); deplorarono la distruzione di quelle culture e l’imposizione
di metodi di vita ispanici.
Ci fu uno sforzo notevole per captare il
sacro di quelle antiche culture per metterlo al servizio del cristianesimo.
Qualche esempio: non insistevano molto sulla morte di Cristo per non ricordare
i sacrifici umani proibiti; costruirono chiese su vecchi templi pagani;
fissarono le feste cristiane nei giorni delle antiche feste indiane. Si voleva
che gli Indiani diventassero cristiani, senza farli rinunciare alla loro
identità di Indiani.
Un’altra esperienza di felice incontro
tra cristianesimo e cultura indiana si ha nell’esperienza delle «riduzioni»
create dai Gesuiti nel Guaranì (regione nella confluenza dei fiumi Paranà,
Paraguay, Uruguay); per oltre 150 anni quasi un milione di indigeni vissero in
più di 100 reducciones al riparo
delle incursioni schiaviste dei coloni e svilupparono notevoli espressioni di
arte e cultura indigena.
Va sottolineata anche la preoccupazione
per l’educazione con la creazione di una diffusa rete di scuole di ogni ordine
e grado e con la fondazione di ospedali con annesse facoltà di medicina.[98]
In mezzo a tanto impegno (abnegazione e
martirio per la causa missionaria; difesa dei diritti umani degli indios,
studio delle lingue-culture, promozione di scuole e ospedali), non mancarono
ovviamente contraddizioni ed ombre: mancanza di un reale interesse per la
formazione del clero indigeno, troppa dipendenza da modelli ecclesiali della
madre patria,[99] ricorso
indiscriminato alla «tabula rasa» per sconfiggere l’idolatria e le pratiche
pagane.
c. L’America
francese e inglese. Nel Canada l’evangelizzazione fu legata alla
colonizzazione assai meno che in altri luoghi. I gesuiti seguirono gli Indiani
nei loro spostamenti, impararono le loro lingue, tradussero catechismi
(Brébeuf, 1639) e vari libri religiosi con grande sforzo di adattamento alla
mentalità di quei popoli. Nel 1767 il padre de la Brosse pubblicò il primo
libro indiano stampato in Canada.
Le colonie di lingua inglese furono per
lo più evangelizzate da anglicani venuti dall’Inghilterra (oltre a comunità di
tipo settario come puritani, quaccheri, pietisti, metodisti, non sempre
rispettosi degli Indiani).
d. L’Asia
e il Giappone. Al seguito dei commercianti portoghesi che avevano un patroado a Goa fin dal 1498, arrivarono
anche i missionari. Francesco Saverio fu nominato «nunzio apostolico» delle
Indie orientali da Ignazio di Loyola. Quando arrivò in quelle terre battezzò
migliaia di persone dopo una rapida catechesi e applicando il metodo della
«tabula rasa». Solo in un secondo momento, quando si trasferì in Giappone
(1549), cambiò metodologia e la insegnò anche agli altri missionari: imparare
le lingue del popolo, studiare la loro filosofia, frequentare le loro
università; l’evangelizzazione era vista come opera di lungo respiro e non
certo da realizzare con conversioni in massa.
Seguì il metodo di Francesco Saverio
anche il gesuita Alessandro Valignano che giunse in Giappone nel 1578.Vestì di
seta (e non di cotone), studiò e apprezzò la cultura giapponese, introdusse la
stampa, compose grammatiche e dizionari, tradusse testi europei in giapponese e
viceversa, auspicava la formazione di preti e vescovi locali.[100]
Non altrettanto positiva fu
l’evangelizzazione dei francescani che pretesero introdurre anche in Giappone
il metodo della «tabula rasa» praticato in Messico. Le rivalità tra Spagnoli e
Portoghesi, il discredito verso i cattolici seminato da protestanti Olandesi e
Inglesi, oltre alla disfatta politica dei daimo
cristiani appoggiati dai gesuiti, provocarono una feroce persecuzione (nel 1628
furono massacrati 35.000 cristiani). Il cristianesimo fu bandito dal Giappone
fino al 1858 (rimasero sulle montagne alcuni gruppi in regime catacombale,
scoperti solo nel sec. XIX).
e. L’India.
Un’antica tradizione faceva risalire l’evangelizzazione dell’India del Sud
all’Apostolo san Tommaso (la cui tomba è venerata a Mailapur). Era considerata
una comunità nestoriana, legata alla Siria e pertanto chiamata Siro-Malabarese.
L’avvento dei Portoghesi e del padroado portò ad una inevitabile
latinizzazione di queste comunità. I missionari applicarono il metodo della
«tabula rasa», perseguitarono i musulmani, introdussero l’Inquisizione, non
conoscevano la lingua del popolo e ricorrevano ai traduttori.[101]
Il gesuita Roberto de’ Nobili (1577-1656)
cambiò profondamente il metodo di evangelizzazione (conosceva l’esperienza di
Matteo Ricci in Cina). Non volle passare per un prangui, ma si presentò come un rajah
(nobile), della casta alta dei brahmani e si comportò come un sannyassi (penitente che ha rinunciato
al mondo): veste gialla, zoccoli, cordone brahaminico. Imparò il tamil e il sanscrito e compose numerose
opere in queste lingue. Studiò la filosofia indiana, cercando corrispondenze
fra quella lingua e il Cristianesimo. Viveva riservato e riceveva solo su
appuntamento, dedicandosi prevalentemente alla evangelizzazione delle classi
alte (brahmani).
Introdusse cambiamenti anche nella
liturgia: tolse, dai riti battesimali, l’insufflazione e l’effatà con la saliva (ritenuti ripugnanti dagli Indiani); mantenne
alcune feste ed il modo di vestire.
Volle che alcuni suoi confratelli si
dedicassero all’evangelizzazione delle classi più basse; sorsero i missionari pandara (penitenti indù delle classi
inferiori). Alla morte del Nobili si contavano 4000 cristiani, fra i quali 26 brahmani.
Altri missionari gesuiti si distinsero
per l’opera di inculturazione. Il gesuita austriaco Giovanni Ernesto Hnxleben
fu il primo a scrivere una grammatica in sanscrito, oltre a poemi e inni; il
gesuita italiano Costante Breschi compose una grammatica tamil, poemi epici e favole: è considerato un classico e una gloria
della letteratura tamil.
Il missionario protestante William Carey
tradusse la Bibbia in bengali (1801), pubblicò dizionari e grammatiche, fondò
scuole, società di agricoltura e orticoltura, una cassa di risparmio, fece
proibire l’infanticidio e il sacrificio delle vedove sul rogo.
Alcuni sinodi cattolici a Pondicherry
(1844 e 1849) proposero nuovi metodi per la formazione del clero indigeno.
f. La
Cina. Già nel Medioevo alcuni viaggiatori (Marco Polo e altri) e alcuni
missionari avevano visitato la Cina. Nel 1307 il francescano Giovanni da
Montecorvino era stato nominato dal Papa primo vescovo di Pechino. Tradusse in
cinese i Salmi e il Nuovo Testamento. Tuttavia, è con l’arrivo dei Portoghesi a
Macao (1514) che inizia una sistematica presenza Occidentale in Cina. I
missionari gesuiti vi si stabilirono nel 1565 e nel 1576 viene eretta una sede
vescovile.
L’evangelizzazione in Cina è
caratterizzata dalla presenza dei gesuiti Alessandro Valignano (1578) e Matteo
Ricci (1582). Studiarono la lingua e la letteratura cinese; assunsero abiti e
comportamento dei letterati. Il Ricci compose opere di matematica, astronomia,
geometria. Simpatizzò con la tradizione Confuciana (ritenuta più una prassi di
vita che una religione). Molti mandarini si convertirono al cristianesimo e
alla morte del Ricci c’erano circa 2000 cristiani. Questi missionari compresero
l’importanza di avere un clero cinese ed anche una liturgia in lingua cinese
(furono ordinati alcuni preti cinesi ed anche un vescovo [Gregorio Luo
Wen-Zhao, vicario apostolico di Nanchino: 1685-1691]; il Papa concesse anche un
breve che autorizzava una liturgia in lingua cinese). Verso il 1670-1680 fu
rilanciata l’idea di una liturgia in lingua cinese. Alcuni missionari spagnoli
provenienti dalle Filippine non videro di buon occhio questa tolleranza dei
gesuiti (culto degli antenati e venerazione a Confucio), ritenuta
sincretistica. Iniziava la disputa dei riti che si concluse con la condanna da
parte di Roma (Clemente XI 1711 e 1715).[102]
Questa divisione interna favorì la
persecuzione da parte dell’imperatore che proibì, nel 1707, l’ingresso in Cina
a tutti i missionari (eccetto i gesuiti che seguivano il metodo di Matteo
Ricci; si permetteva loro solo un’attività scientifica). Nel 1717 i preti erano
ridotti a soli 47 e nel 1724 il Cristianesimo fu proscritto. Nel 1745 alcuni
preti e catechisti subirono il martirio. Altri riuscirono ad organizzare
clandestinamente catechisti, uomini e donne. La persecuzione durò quasi 100
anni, fino al 1842.
All’inizio del X secolo ci sono in Cina
circa 250.000 cristiani e 130/200 preti di cui la metà cinesi. Alla fine del
secolo, a seguito di una massiccia penetrazione di missionari protestanti,
circa quaranta società protestanti si spartivano la Cina.
Al momento della fondazione della
Repubblica Popolare Cinese con Mao Tse-Thung (1949), in Cina c’erano oltre 5000
preti, più della metà cinesi e oltre 7000 religiose (per due terzi cinesi).
g. La
Corea. Gli evangelizzatori della Corea furono probabilmente alcuni
intellettuali che, recatisi in Cina per pagare il tributo, s’interessarono alla
scienza dei gesuiti e alla loro attività letteraria; simpatizzarono subito con
il Cristianesimo considerato la scienza dell’Europa e una filosofia analoga al
Confucianesimo, più che una religione.
In occasione di una di queste visite
annuali, un giovane coreano Yi-Seung-hun, si fece battezzare col nome di Pietro
e condusse con sé testi di matematica e di religione (1784). A sua volta battezzò
altri amici e diede loro il permesso di battezzare. La comunità fu fortemente
perseguitata e vi furono molti martiri (Il primo prete coreano, Andrea Kim, fu
martirizzato nel 1846, insieme a molti altri cristiani); dovette vivere in
regime catacombale fino al 1885.
h. I
paesi dell’Indocina. I Portoghesi arrivarono nel Tonchino verso il 1533.
Verso il 1600 anche alcuni gesuiti giunsero nella regione del Vietnam e della
Cocincina assieme ad altri cristiani espulsi dal Giappone a seguito della
persecuzione. Nel 1615 c’erano già 2000 cristiani. I gesuiti iniziarono una
trascrizione dei suoni della lingua vietnamita (quoc-ngu).
Il principale evangelizzatore di questa
regione fu il gesuita francese Alessandro de Rhodes (1593-1660). Nei venti anni
della sua missione, avendo una buona conoscenza della lingua, si dedicò alla
diffusione della scrittura vietnamita.
Nella catechesi sfruttava gli elementi
della cultura locale, come la poesia e gli spettacoli religiosi. Scrisse un Catechismo con l’intento di far apparire
l’aspetto razionale del messaggio cristiano, che non desse l’impressione d’una
dottrina straniera.
Fondò una congregazione di catechisti,
formati in una specie di seminario. Soggetti al celibato, esercitavano tutti
quei ministeri che non richiedono il sacerdozio. L’intento del Rhodes era
quello di avere poi un clero locale; solo un clero e catechisti nativi
avrebbero potuto, in caso di persecuzione, mantenere in vita la Chiesa del
Vietnam.
Chiese al Papa di inviare dei vescovi per
l’ordinazione di un clero locale ( i catechisti erano dei candidati naturali).
Nel 1658 Propaganda inviò tre vicari apostolici per l’Estremo Oriente[103]
e nell’occasione preparò una Istruzione
per i vicari apostolici in partenza per i regni cinesi del Tonchino e della
Cocincina (1659). Questa Istruzione
può essere considerata un manuale ante litteram di quella che oggi viene
chiamata inculturazione: rispetto per
le culture locali, non esportare modelli occidentali, simpatizzare e
immedesimarsi con le culture presso cui si svolge l’opera di evangelizzazione,
provvedere al più presto ad un clero locale...
L’unico dei tre vicari che sopravvisse
(Pierre Lambert de la Motte) ordinò i primi preti vietnamiti, definì le
circoscrizioni ecclesiastiche, creò la Congregazione femminile delle Amanti
della Croce, fondò un seminario per la formazione dei preti da inviare in
Estremo Oriente.
3.2.5.
Evangelizzazione
e culture nel secolo XVIII.
Il secolo XVIII vede
una terribile crisi delle missioni: più per motivi interni all’Europa, che per
situazioni locali veramente obiettive.
Tra i motivi di crisi possiamo ricordare:
la disputa dei riti, la crisi dello
spirito missionario.
a. La
disputa dei riti. Il problema di fondo era legato proprio all’impatto con
le culture che i missionari incontravano: era lecito (ed anche conveniente) che
i convertiti, per diventare cristiani, abbandonassero le loro secolari
tradizioni ricche di valori culturali e spirituali? Perché costringere i
cristiani ad emarginarsi dalla loro società? Era proprio necessario
europeizzare gli Indiani e i Cinesi che volevano farsi cristiani?[104]
I missionari, soprattutto i gesuiti,
avevano permesso di utilizzare il linguaggio della tradizione confuciana;
avevano soppresso, nella liturgia, riti secondari che provocavano disagio nelle
culture [es. l’unzione per le donne]; permettevano il culto degli antenati e
gli onori a Confucio (ritenuti atti civili e non religiosi).
La visita in Cina di missionari
domenicani e francescani provocò una condanna di quei riti ritenuti sincretisti
e superstiziosi. Il papa Clemente XI condannò i riti cinesi (1704 e 1715); lo
stesso faceva Benedetto XIV con i riti malabarici (1744). A seguito della
condanna dei riti cinesi, l’imperatore Yung-chen nel 1724 mise al bando il
Cristianesimo in tutta la Cina.[105]
L’ostilità tra ordini religiosi,
l’incomprensione del valore delle culture non europee, portarono ad un forte
discredito dell’opera missionaria. La crisi spirituale e teologica dell’Europa
si tradusse in crisi dello spirito missionario con un conseguente indebolimento
dell’impegno verso le missioni.
b. La
crisi dello spirito missionario. Il discredito e la crisi
dell’evangelizzazione d’oltremare, oltre che dalla polemica dei riti, era
causata anche da altri avvenimenti storici e politici che travagliarono la
stessa Europa.
La Rivoluzione francese (1789-1792) portò
alla soppressione di numerosi ordini religiosi e dei rispettivi benefici
(luglio 1790). Nel 1794 inizia una campagna di scristianizzazione a favore del
culto dell’Ente Supremo (Notre-Dame diventa il «Tempio della Ragione»).
Nel frattempo le potenze marinare
cattoliche, come il Portogallo e la Spagna, perdevano il controllo dei mari a
favore delle potenze marinare protestanti come gli Inglesi, Olandesi, Danesi.
L’espansione delle missioni protestanti coincise con la diminuzione (e
limitazione) delle missioni cattoliche.
Nel 1773 il papa Clemente XIV soppresse
la Compagnia di Gesù in tutta la Chiesa (in Portogallo già dal 1759); più di
3000 missionari dovettero lasciare i loro posti. Anche le altre Congregazioni
attraversarono una forte crisi di vocazioni missionarie.[106]
Il Patronato non è più in grado di
inviare missionari e sostenere economicamente le missioni. Anche Propaganda non
ha a disposizione né vocazioni missionarie né risorse economiche.[107]
3.2.6.
L’evangelizzazione
nel secolo XIX.
La Rivoluzione francese e le
guerre di religione causarono senza dubbio un indebolimento della causa
missionaria e delle vocazioni; allo stesso tempo furono anche un’occasione di
purificazione e di rinnovamento dell’idea missionaria. Con il secolo XIX
assistiamo ad una ripresa fiorente delle missione.
La nuova stagione
missionaria deve il suo risveglio alla convergenza di alcune circostanze:
a. L’esilio di molti preti
francesi a seguito della Rivoluzione e di molti contemplativi austriaci (trappisti,
cistercensi) permise una nuova ondata di vocazioni verso le missioni. Anche la
persecuzione e la scristianizzazione[108] a seguito della Rivoluzione
fece sorgere in Francia una urgenza di evangelizzazione con stile e spirito
missionario (già si parlava della Francia come paese di missione).[109]
b. Con la dissoluzione
dell’impero coloniale ispano portoghese[110] è la Francia che prende la
leadership dell’opera missionaria. La fioritura di una letteratura missionaria
favorì (in Francia ed in Europa) la nascita di numerosi istituti missionari
maschili e femminili.[111]
c. L’impegno missionario dei
laici, soprattutto con la raccolta dei fondi per le missioni: Pauline Jaricot
perfeziona l’idea dell’obolo settimanale e ottiene il riconoscimento
dell’Associazione della Propagazione della Fede (Lione, 1822). Stessa cosa per
l’Opera di S. Pietro Apostolo per il clero indigeno ad opera di Giovanna e
Stefania Bigart (1876).
d. Sono inventati i battelli
a vapore; questi nuovi strumenti di comunicazione permettono maggiore rapidità
e sicurezza nei trasporti marittimi. Siamo nel secolo della grande emigrazione
dall’Europa verso il Nuovo Mondo (con la necessità di fornire assistenza
religiosa agli emigranti; nasceranno Congregazioni specifiche).
e. Si vuol contrastare
l’espansione missionaria protestante.[112] Fare cattolici nelle
giovani Chiese equivale anche a compensare le perdite subite in Occidente con
il protestantesimo.
f. La visione teologica
della «salvezza delle anime» è uno stimolo a partire per evangelizzare coloro
che altrimenti sarebbero condannati all’inferno. Lo slogan è «Lumen ad revelationem gentium» (Lc 1,79;
Is 9,1): portare la luce a coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra di
morte. C’è anche una forte letteratura martiriale.
g. Viene riabilitato il
ruolo del pontefice come centro coordinatore e propulsore per le missioni.
h. Le missioni diventano
centri di civilizzazione, oltre che di evangelizzazione. Sorgono attività
caritative, si organizzano campagne antischiaviste, si vuol fare del
cristianesimo il lievito di una civiltà universale. Non mancano tuttavia
accenti nazionalisti (modello etnocentrico e coloniale). Gli stati Occidentali
garantiscono in Oriente la libertà religiosa (unitamente a clausole di libertà
di commercio).
i. A partire dal 1817 si riorganizza
anche Propaganda Fide: si elaborano progetti missionari e si organizza la
raccolta e la distribuzione di fondi. Accanto all’Opera per la Propagazione
della fede (1822) sorgono anche le Opere per la Santa infanzia (1843) e di S.
Pietro Apostolo per il clero indigeno (1894).
l. Il risveglio dell’idea
missionaria portò in questo secolo anche ad un forte rinnovamento delle
metodologie di evangelizzazione.
Si può citare come esempio
l’attività africana di Charles Lavigerie, fondatore dei Padri Bianchi (1868) e
delle Suore di Nostra Signora dell’Africa (1869). Ripristinò il catecumenato
quale tempo di preparazione al Battesimo; ai missionari chiese di adattarsi
agli usi africani (abito, alloggio, cibo, lingua); era dell’avviso che ci
sarebbe stata una vera Chiesa africana solo quando ci avessero lavorato gli
africani.
Di particolare interesse
anche la metodologia missionaria di Mons. Truffet, nominato vicario apostolico
delle due Guinee (1847).Non trasferire in Africa le Nazioni europee, ma solo la
fede cattolica. Civilizzare non significa trasportare costumi europei, ma
elevare con la potenza del Vangelo le tradizioni locali; accogliere ciò che c’è
di buono in esse dal momento che è Dio ad averle fecondate; dobbiamo farci
africani perché gli africani diventino cattolici; tutti sono figli di Dio al di
là del colore della pelle; si dovranno costituire Chiese locali
autosufficienti, con proprio clero, capaci di vivere con le proprie risorse
locali; i missionari potranno poi ripartire per trasferirsi «in regioni al di
là della loro» (2 Cor 10,16).
Anche Propaganda riprese,
proprio in questo periodo, a sostenere l’idea della costituzione di un clero
indigeno. Con l’Istruzione Neminem
profecto (23.11.1845) sostiene: non è possibile l’impiantazione e il
consolidamento della fede cattolica senza la costituzione di un clero indigeno;
si costruiscano seminari e si dia una seria formazione a coloro che si
preparano ad essere sacerdoti in vista poi di essere elevati alla dignità
vescovile; si abolisca ogni discriminazione verso il clero indigeno utilizzato
spesso come ausiliario; i missionari non si immischino in faccende politiche,
commerciali e non si leghino a partiti politici; si incoraggiano i Sinodi
locali e le opere apostoliche.
Tra la fine del XIX e
l’inizio del XX secolo si verificò una forte espansione coloniale. Le potenze
europee (soprattutto Inghilterra, Francia e Germania), con il trattato di
Berlino (1884-1845) si divisero l’Africa.
L’espansione coloniale si
portò dietro anche una penetrazione missionaria; questo comportò un forte
accento nazionalista perché in genere i missionari erano tutti del Paese
colonizzatore. Dalla madrepatria arrivavano aiuti per la costruzione di scuole
e di ospedali. Si abolì la schiavitù ma fu spesso rimpiazzata con lavori
forzati per la costruzione di opere sociali. Si enfatizza la superiorità
dell’uomo bianco e la validità universale della civiltà europea.[113] Non mancarono tuttavia i
rimproveri verso il colonialismo; i missionari sostengono le lingue locali e
fanno ricorso ai catechisti indigeni [avversati dal potere coloniale].
a. Leone XIII.
Leone XIII (1878-1903) e
Propaganda Fide danno al Cattolicesimo una apertura universale. Dal punto di
vista metodologico ribadiscono le Istruzioni del 1659 e del 1845: una
evangelizzazione sganciata dal potere politico; formazione del clero locale
(sacerdoti e vescovi); sviluppare i sinodi locali. Contro gli assalti
dell’agnosticismo liberale e delle correnti illuministe e razionaliste che
presentavano la Chiesa come una forza retrograda, Leone XIII ribadì con
fermezza la grande forza civilizzatrice della Chiesa e il suo impegno per il
progresso delle scienze umane (Enciclica Inscrutabili,
1878).
Con la rinuncia al «patronato» da parte del Portogallo (1886),
Propaganda Fide procede alla costituzione di circoscrizioni ecclesiastiche e di
gerarchie locali.[114]
Lo scoppio della prima
guerra mondiale (1914-1918) portò molto danno alle missioni: sia per il
richiamo alle armi di molti missionari da parte delle rispettive nazioni, sia
per il cattivo esempio presso le giovani Chiese di cristiani che si combattono
tra loro (a parte le violenze verso le popolazioni indigene).
b. Benedetto XV
Nel 1919, il 30 novembre,
Benedetto XV (1914-1922) pubblica la Lettera apostolica Maximum illud: ricorda
l’opera di eminenti precursori[115] che seppero impiantare la
Chiesa in diverse parti del mondo; ancora oggi l’opera della «plantatio ecclesiae» deve tener conto
delle caratteristiche di ciascun popolo. Con una direttiva che si è rivelata di
importanza storica, egli incoraggia vivamente la costituzione di un clero
indigeno, capace di comprendere dall'interno i popoli da evangelizzare. Quanto
ai missionari stranieri, chiede loro di possedere le lingue dei paesi in cui
operano, in modo da poter comunicare con tutti. Un avvertimento è rivolto loro:
evitino ogni mira politica o nazionalistica. Talvolta, infatti, si è potuto
verificare che alcuni «abbiano messo in secondo piano l’espressione della
Chiesa rispetto a finalità patriottiche». Rilancia l’evangelizzazione come
impegno costitutivo della Chiesa; ribadisce la necessità di un clero indigeno e
delle lingue locali.
c. Pio XI
Pio XI (1922-1939),
nell’enciclica Rerum Ecclesiae (1926)
tornò ad insistere sulla esigenza di un clero indigeno; nei paesi di missione
dovevano essere solidamente formati giovani candidati, «non solo per accedere
al sacerdozio, ma anche per diventare i maestri della fede presso i loro
compatrioti». Chiede che non si faccia alcuna distinzione tra missionari europei
e autoctoni, che non si considerino questi ultimi solo come degli ausiliari,
bensì come degli uguali, alcuni dei quali potranno un giorno esercitare delle
responsabilità di governo nella chiesa. «A quale altro fine, dunque, tendono le
missioni, se non a fondare e a naturalizzare la Chiesa di Gesù Cristo in queste
carissime regioni?». I sacerdoti autoctoni comprendono meglio di chiunque altro
l'anima del loro popolo, le sue tradizioni, i suoi costumi, la sua lingua.
Questi stessi argomenti sono invocati perché siano formati i religiosi e le
religiose autoctoni, poiché è soprattutto per loro tramite che la Chiesa potrà
impiantarsi in mezzo al popolo. Pio XI ha mostrato a qual punto questa esigenza
gli stesse a cuore moltiplicando i vescovi autoctoni, favorendo la creazione di
seminari, di conventi, di istituzioni assistenziali ed educative.
Sotto il suo pontificato si
ebbe, in occasione dell’Anno Santo del 1925, una grande esposizione missionaria
(scritti, oggetti, foto, espressioni artistiche, provenienti dalle missioni).[116] Fu istituita la Giornata
missionaria mondiale (aprile 1926); furono consacrati i primi sei vescovi
cinesi (18.10.1926); Santa Teresa del Bambino Gesù è proclamata patrona delle
missioni (1927); si fonda l’agenzia Fides (1927) che fornisce settimanalmente
notizie sull’attività delle missioni in tutto il mondo; l’Apostolato della
preghiera propone mensilmente una intenzione missionaria (1927); si pone fine
alla disputa dei riti (tra il 1935 e il 1940).
Soprattutto in Germania
(scuola di Münster, con J. Schmidlin) sorge una intensa riflessione teologica
sulle missioni e si pongono le basi della moderna «missiologia».[117] In Belgio nasce la scuola
di Lovanio con il gesuita Pierre Charles (1882-1954) e proprio a Lovanio dal
1923 hanno origine le Settimane missiologiche. A Roma nel 1932, presso
l’Università Gregoriana, viene creata una facoltà di missiologia; nel 1933,
presso l’Ateneo Urbaniano, viene fondato l’Istituto missionario scientifico.[118]
In questi stessi anni i
cattolici (ed i cristiani in genere) hanno un fiorente sviluppo soprattutto in
Asia: in Cina, verso gli anni trenta operano 51 società missionarie femminili e
27 maschili; si contano circa 3.251.000 cattolici [5 milioni di cristiani: solo
l’1% della popolazione!]; 2542 preti cinesi; 3046 preti stranieri. Nel 1924 si
riunisce il primo concilio cinese; nel 1926 vengono ordinati 6 vescovi cinesi.
Hanno inizio le prime lotte (marxismo e anticlericali) che sfociano poi nella
guerra civile (1926-1937).
Anche in Giappone ci sono
circa 200.000 cristiani (per metà cattolici); nel 1922 viene fondata
l’Università Sofia a Tokio, segno di un’opera di evangelizzazione basata su un
apostolato intellettuale e culturale; nel 1927 vengono consacrati i primi
vescovi giapponesi (nel 1940 tutti i vescovi del Giappone erano autoctoni);
l’opera di evangelizzazione, però, è prevalentemente occidentale e ancora
troppo legata al colonialismo; si pensa di edificare il cristianesimo sulle
rovine dello Shintoismo, provocando forti reazioni nazionaliste.[119]
In India il 2% della
popolazione è cristiano (soprattutto nel Sud tra i fedeli di rito siriaco); in
Ceylon sono invece l’8%; nelle Filippine, evangelizzate dagli Spagnoli e
conquistate dagli USA nel 1898, i cristiani erano il 90%.
In Africa la missione si
caratterizza in questo periodo per un forte impegno di scolarizzazione, per la
promozione della donna (e contro la poligamia), per la lotta ad un regime di
semischiavitù. Avvengono conversioni in massa. In Rwanda-Burundi i cristiani
aumentano dell’80% all’anno ed i catecumeni del 200%. Tra il 1932 e il 1936 i
cattolici passano da 81.000 a 233.000 (con detrimento della qualità del
catecumenato e della vita cristiana). Nel profondo della gente rimane un forte
sincretismo con le tradizioni religiose precedenti (animismo,ecc).
d. Pio XII
Pio XII (1939-1958) fin
dalla sua prima enciclica Summi
Pontificatus del 1939 rivolgendosi ai missionari scriveva: «Guardatevi bene
dal trasportare nei paesi di missione, come si trasporterebbe un albero, le
forme culturali dei popoli europei; infatti i giovani popoli, fieri delle loro
culture, non hanno da ricevere altro che l'Evangelo»[120]. Nel radiomessaggio del
Natale 1945 ribadì la missione sovranazionale della Chiesa: presso nessun
popolo essa è straniera, assumendo in sé la pienezza di tutto ciò che è umano.
Nel 1946 crea il primo cardinale cinese, Mons. Thien.
In questo periodo è fervente
l’opera di Mons. Celso Costantini, Segretario di Propaganda Fide. Promosse le
espressioni artistiche delle giovani Chiese convinto che «dovunque passa, la Chiesa
crea una civiltà nuova, di cui l’arte è soltanto uno dei frutti più belli».
Nel 1951, XXV anniversario della Rerum Ecclesiae, scrive l’enciclica missionaria Evangelii praecones per richiamare
l’urgenza di un clero autoctono e di una Chiesa locale con gerarchia propria ed
un laicato impegnato. Circa il rispetto delle culture scriveva: «La Chiesa non
si comporta come colui che, senza rispettare nulla, abbatte una foresta
lussureggiante, la saccheggia e la rovina: essa imita piuttosto il giardiniere che
opera un innesto di qualità sopra un tronco selvatico per far sì che esso
produca un giorno frutti più saporosi e più dolci»[121].
Nel 1957 scrive un’altra
enciclica, la Fidei donum, per
sollecitare da parte di tutti i vescovi del mondo l’invio di clero e laici
diocesani allo scopo di aiutare, almeno per alcuni anni, le Chiese di missione.[122]
In questi anni i territori
di Missione, soprattutto dell’Africa, raggiungono l’indipendenza; la Chiesa
sostenne questo processo di liberazione e procedette in maniera rapida alla
creazione di una gerarchia locale.
Sotto il pontificato di Pio
XII molte Chiese d’Asia conobbero la persecuzione comunista. In Cina con
l’avvento di Mao Tse-tung (1949: proclamazione della Repubblica Popolare
Cinese) i missionari stranieri sono cacciati, molti preti locali sono uccisi o
incarcerati, la comunità locale è costretta alle catacombe. Nel 1948 i
cattolici cinesi erano 3.276.282 con 1015 missionari stranieri e ben 2676
cinesi.
Nel 1953 viene creato il
primo cardinale indiano: Valeriano Gracias.
Anche nel Vietnam del Nord
nel 1954 si scatena una forte persecuzione contro i cristiani. Stessa cosa
nella Corea del Nord (1959-1953).
In Africa, fra il 1950 e il
1960 il numero dei cristiani quasi raddoppia (da 23 a 46 milioni). Nel 1950 ci
sono in tutta l’Africa solo 800 preti autoctoni.
e. Giovanni XXIII
Anche Papa Giovanni XXIII
(1959-1963) dedicò un’enciclica alle missioni (Princeps pastorum, 1959); tra l’altro diceva che la Chiesa non deve
identificarsi con la cultura mediterranea, anche se in essa ha avuto origine:
«La Chiesa non si identifica con nessuna cultura, nemmeno con la cultura
occidentale, cui è legata con la sua storia».[123] Come già i suoi
predecessori, richiamò l’importanza del clero autoctono, trasformò in diocesi
numerosi vicariati apostolici.[124]
Il 2 aprile 1958 parlando ai
partecipanti ad un Congresso organizzato dalla Societé Africaine de Culture,
mentre incoraggiava lo studio e lo sviluppo di una cultura negro-africana,
diceva: «La Chiesa apprezza, rispetta, incoraggia un simile lavoro di
investigazione e di riflessione che ha per oggetto di mettere in luce le
ricchezze originali di ogni cultura»; e più oltre: «La Chiesa è disposta a
riconoscere, ad accogliere ed anche ad animare tutto ciò che è stimato
dall'intelligenza e dal cuore dell'uomo in ogni parte del mondo, anche al di
fuori del bacino del Mediterraneo che pure fu l'ovile provvidenziale del
cristianesimo»[125].
Nel 1959 crea il primo cardinale africano (il Card. Lauriano
Rugambwa).
Giovanni XXIII va
soprattutto ricordato come il Papa che ha convocato il Concilio Ecumenico
Vaticano II perché desse alla Chiesa il necessario aggiornamento in seno alla cultura moderna. Dando al Concilio
un’ottica pastorale, egli invitava la
Chiesa ad intraprendere uno sforzo nuovo ed audace per comprendere e per
incontrare il mondo contemporaneo in vista di una sua più efficace
evangelizzazione.
f. Paolo VI
Paolo VI, subentrando nel
1963 a Giovanni XXIII nella guida della Chiesa universale, diede fin
dall’inizio del suo pontificato un contributo notevole all’apertura della
Chiesa verso la cultura del mondo contemporaneo. Egli riteneva che fosse dovere
della missione evangelizzatrice della Chiesa lanciare un ponte verso quel mondo
che si sarebbe dovuto evangelizzare: «Poi
e da ultimo, il concilio cercherà di lanciare un ponte verso il mondo
contemporaneo. Singolare fenomeno: mentre la chiesa, cercando di animare la sua
interiore vitalità con l’aiuto dello Spirito Santo, si distingue e si stacca
dalla società profana, in cui è immersa, viene al tempo stesso qualificandosi
come fermento vivificante e strumento di salvezza del mondo medesimo, e
scoprendo e corroborando la sua vocazione missionaria, ch’è quanto dire la sua
essenziale destinazione a fare dell’umanità, in qualunque condizione essa si
trovi, l’oggetto dell’appassionata sua missione evangelizzatrice».[126]
Ad appena nove anni dalla
chiusura del Vaticano II (1965), Paolo VI volle che il Sinodo
sull’evangelizzazione (1974) studiasse la difficile e urgente questione
dell’evangelizzazione «intesa non solo come predicazione del vangelo in fasce
geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche come
l’atto di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del vangelo i
criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di
pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in
contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza» (EN 19).
«Si potrebbe esprimere tutto
ciò dicendo così: occorre evangelizzare - non in maniera decorativa, a
somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino
alle radici - la cultura e le culture dell’uomo…La rottura tra vangelo e
cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre.
Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione
della cultura, più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate
mediante l’incontro con la buona novella. Ma questo incontro non si produrrà,
se la buona novella non è proclamata» (EN 20).
g. Giovanni Paolo II.
Sulla scia del Vaticano II e
raccogliendo l’eredità di Paolo VI, anche Giovanni Paolo II si è posto il
problema urgente di portare con efficacia il Vangelo nelle culture dei popoli.
Nel 1982 istituiva il Pontificio Consiglio per la Cultura
proprio per mettere in atto gli orientamenti del Vaticano II: «Fin dall’inizio
del mio pontificato ho ritenuto che il dialogo con le culture del nostro tempo
fosse un’area vitale in cui si gioca il destino del mondo in questo scorcio di
secolo XX […] Per questo mi sembra opportuno fondare uno speciale organismo
permanente, con lo scopo di promuovere i grandi obiettivi che il Concilio
Ecumenico Vaticano II si è proposto circa i rapporti tra Chiesa e cultura […]
La Chiesa deve consacrarsi effettivamente e in nome della sua missione al
progresso della cultura e al dialogo fecondo delle culture, cos’ come
all’incontro benefico con il Vangelo».[127]
L’invito fatto alla Chiesa da Giovanni XXIII circa la necessità
di un aggiornamento, trovava molti
pastori impreparati proprio perché il concetto di «cultura» non rientrava nel
loro orizzonte filosofico-teologico, né tantomeno in quello antropologico.
Il dibattito teologico che si è avuto nel Concilio Ecumenico
Vaticano II, soprattutto con l'apporto di energie nuove immesse nella Chiesa
dalla sensibilità dei Vescovi delle terre di missione, ha contribuito
indubbiamente a porre le basi teologiche per una riflessione che in seguito si
è sempre più allargata e approfondita circa il rapporto tra evangelizzazione e
culture, come pure sulla evangelizzazione delle culture.
Questa maturazione di coscienza trova notevole spazio nel
Vaticano II, si consolida notevolmente durante il pontificato di Paolo VI, prosegue ampiamente negli insegnamenti di
Giovanni Paolo II, viene espresso autorevolmente nel Catechismo della Chiesa
Cattolica.
1. Le
culture nel Vaticano II.
Data la vastità delle citazioni,[129]
ci limiteremo soltanto ad una lettura corsiva dei passi principali del Concilio
dove chiaramente si indicano i punti focali di quello che Gaudium et Spes ha chiamato «i numerosi rapporti esistenti fra il
messaggio della salvezza e la cultura» (GS 58).
Fin dalla discussione del primo documento preso in esame dal
Concilio Vaticano II (1962), apparve evidente che il rapporto tra
evangelizzazione e culture aveva nel Concilio un suo proprio peso specifico. La
Costituzione sulla Sacra Liturgia, Sacrosanctum
Concilium (1963), fornisce i principi generali sul rapporto liturgia e
culture offrendo «Norme per un adattamento all’indole e alle tradizioni dei
vari popoli» (III.d = nn. 37-40). La riforma liturgica mira infatti a dare
nuovo vigore ai riti «come richiedono le circostanze e le necessità del nostro
tempo» (SC 4); si tiene in particolare considerazione la situazione della
Chiesa missionaria dal momento che la liturgia irrobustisce le forze dei
missionari perché possano predicare il Cristo (SC 2).
* SC 37: «La Chiesa, quando non è in questione la fede o il
bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida
uniformità, anzi rispetta e favorisce le qualità e le doti d'animo delle varie
razze e dei vari popoli. Tutto ciò poi che nei costumi dei popoli non è
indissolubilmente legato a superstizioni o ad errori, essa lo considera con
benevolenza e, se è possibile, lo conserva inalterato, e a volte lo ammette
perfino nella liturgia, purché possa armonizzarsi con il vero e autentico
spirito liturgico».
Con questo paragrafo, il concilio ha voluto affermare che la
Chiesa non vuole imporre una rigida uniformità nelle materie che non
coinvolgono la fede o il bene della comunità; è evidente che sia richiesta
l'unità della fede e della comunione delle Chiese; tuttavia tra la Chiesa e le
culture vi deve essere un reciproco scambio di energie vitali. Con questo
documento, dunque, la Chiesa sancisce l'adattamento liturgico, inteso come
l'introduzione nella liturgia di elementi della cultura e della tradizione che
attraverso il processo di purificazione possono servire da veicolo alla
liturgia per le necessità e l'utilità di un particolare gruppo culturale.
* SC 38 e 39: si parla ancora di una aptatio nella revisione dei libri liturgici, soprattutto nelle
Missioni, salva la sostanziale unità del rito romano; tali aptationes, spettanti alla competente autorità territoriale, si
possono estendere alla struttura dei riti, all'ordinamento delle rubriche,
all'amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali, alle processioni, alla
lingua liturgica, alla musica sacra e alle arti.[130]
* SC 40: si parla
di un più profondo, e per conseguenza più difficile, grado di adattamento,
quello che in termini tecnici si chiama la aptatio
profundior [et ideo difficilior], cioè la possibilità di determinare ciò
che dalla tradizione e dall'indole dei vari popoli può opportunamente essere
ammesso nel culto divino, dopo una previa sperimentazione.
E' chiaro che il Concilio pone delle condizioni: attenzione,
prudenza, esame, studio di persone competenti e soprattutto approvazione della
Sede Apostolica, la quale darà facoltà, se è il caso, di compiere questo
determinato adattamento dopo un conveniente periodo di sperimentazione.[131]
Nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, al capitolo secondo, quando si parla del popolo di
Dio e dell'universalità di quest'unico popolo, si dice:
* LG 13: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo
popolo di Dio. Perciò questo popolo pur restando uno e unico si deve estendere
a tutto il mondo e a tutti i secoli affinché si adempia la intenzione della
volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine
radunare insieme i suoi figli che si erano dispersi (cfr. Gv 11,52)...».
In tutte le nazioni della terra quindi è radicato un solo
popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi Egli prende i cittadini del
suo Regno, non terreno, ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il
mondo, comunicano con gli altri nello Spirito Santo e così «chi sta in Roma sa
che gli Indi sono sue membra»[132].
Poiché il Regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa,
cioè il popolo di Dio, introducendo questo Regno, nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutta la
dovizia di capacità e di consuetudine dei popoli, in quanto sono buone, e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva...
«In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i
propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, e così il tutto e le singole
parti sono rafforzate comunicando ognuna con le altre e concordemente operando
per la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non solo si
raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di vari
ordini» (LG 13).
* LG 16: «Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova
in loro (nei non cristiani) è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad
accogliere il Vangelo e come dato da Colui che illumina ogni uomo affinché
abbia finalmente la vita».
Pur riconoscendo che anche nei non cristiani vi sono
elementi di bontà e di verità, tuttavia non per questo la Chiesa può venir meno
al comando del Signore che invia a predicare il Vangelo ad ogni creatura; per
questo la Chiesa non può fare a meno di promuovere con ogni cura le missioni.
Parlando del carattere missionario della Chiesa LG 17 dice che la Chiesa,
fedele al comando di Cristo di annunziare la verità salvifica, continua a
mandare missionari fino a che le giovani Chiese siano pienamente costituite e
anch'esse continuino l'opera di evangelizzazione. Parlando del metodo con cui
la Chiesa predica il Vangelo, Lumen
Gentium, fa un particolare accenno al metodo dell'inculturazione.
* LG 17: «procura poi che quanto di buono si trova seminato
nel cuore o nella mente degli uomini, o nei riti e culture proprie dei popoli,
non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato a gloria
di Dio, confusione del demonio e felicità dell'uomo; ad ogni discepolo di
Cristo incombe il dovere di spargere, quanto gli è possibile, la fede».
La Chiesa guarda dunque con favore alle ricchezze e ai doni
che Dio ha dato ai popoli. L'evangelizzazione suppone l'accoglienza di questi
doni, in modo che tra Chiesa e culture ci sia un reciproco dare e ricevere.
E' Dio stesso infatti che semina nel cuore dell'uomo tutto ciò che vi è di
buono e di positivo[133].
Facendo tesoro delle idee teologiche espresse nella
Costituzione dogmatica Lumen Gentium, anche
il decreto Ad Gentes sull'attività
missionaria della Chiesa ritorna più volte sul rapporto che unisce
evangelizzazione e culture. L'attività missionaria, non è né più né meno che la
manifestazione, cioè l'epifania e la realizzazione del piano divino nel mondo e
nella storia. E' dunque missione della Chiesa rendere presente nel mondo e
nella storia il Cristo, autore unico della salvezza. Questa attività
missionaria deve pertanto collocarsi nel dialogo con il mondo e la storia in un
rapporto di particolare attenzione che Ad
Gentes così descrive:
* AG 9: «Ogni elemento di verità e di grazia presente e
riscontrabile, per una nascosta presenza di Dio, in mezzo alle genti essa lo
purifica dalle scorie del male e lo restituisce intatto al suo Autore, cioè a
Cristo... Perciò ogni elemento di bene presente e riscontrabile nel cuore e
nella mente umana, o negli usi e civiltà particolari dei popoli, non solo non
va perduto, ma viene sanato ed elevato e perfezionato per la gloria di Dio, a
confusione del demonio e la felicità dell'uomo»[134].
La Chiesa quindi non solo fa tesoro di tutti gli elementi di
verità e di bontà presenti nel mondo, ma si sforza di entrare sempre più in
dialogo con l'uomo di ogni razza e cultura presente in questo mondo.
* AG 10: «La Chiesa quindi, per essere in grado di offrire a
tutti i misteri della salvezza e della vita che Dio ha portato all'uomo, deve
cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso metodo con
cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione, si legò a quel certo
ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali visse».
La legge dell'incarnazione richiede dunque che la Chiesa sia
presente in mezzo agli uomini mediante la testimonianza della vita che egli ha
dato come primo missionario. Per poter dare una chiara testimonianza, i
missionari del Vangelo devono stringere rapporti di stima e di amore con gli
uomini a cui rivolgono la buona notizia del Vangelo; devono prendere parte alla
vita culturale e sociale di queste persone cui si annuncia il Vangelo.
Pertanto:
* AG 11: «Così debbono conoscere bene le tradizioni
nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei
germi del Verbo che in esse si nascondono; debbono seguire attentamente
l'evoluzione profonda che si verifica in mezzo ai popoli e sforzarsi perché gli
uomini di oggi, troppo presi da interessi scientifici e tecnologici, non
perdano il contatto con le realtà divine, ma anzi si aprano ed intensamente
anelino a quella carità e verità oggetto della rivelazione divina. Come Cristo
stesso penetrò nel cuore degli uomini per portarli, attraverso un contatto
veramente umano, alla luce divina, così i suoi discepoli animati intimamente
dallo Spirito di Cristo, debbono conoscere gli uomini in mezzo ai quali vivono,
ed improntare le relazioni con essi ad un dialogo sincero e comprensivo
dimostrando tutte le ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli,
ed insieme tentando di illuminare queste ricchezze alla luce del Vangelo e di
liberarle e di riferirle al dominio di Dio Salvatore».
Più oltre, nel capitolo terzo, parlando delle Chiese
particolari, il decreto Ad Gentes si preoccupa di conciliare la diversità
delle Chiese locali nell'unità della Chiesa cattolica. Tra l'altro si dice:
* AG 22: «Il seme, cioè la parola di Dio, germogliando nel
buon terreno irrigato dalla rugiada divina, assorbe la linfa vitale e la
trasforma e l'assimila per produrre finalmente un frutto abbondante.
Indubbiamente, come si verifica nell'economia dell'incarnazione, le nuove
Chiese che hanno messo radici in Cristo e sono costruite sopra il fondamento
degli Apostoli, hanno la capacità meravigliosa di assorbire tutte le ricchezze
delle nazioni, che appunto a Cristo sono state assegnate in eredità. Esse dalle
consuetudini e dalle tradizioni, dal sapere e dalla cultura, dalle arti e dalle
scienze dei popoli, sanno ricavare tutti gli elementi che valgono a rendere
gloria al Signore, a mettere in luce la grazia del Salvatore e a ben
organizzare la vita cristiana».
Per raggiungere questo scopo, il decreto Ad Gentes indica anche alcuni criteri:
sia promossa una ricerca teologica, la quale alla luce della rivelazione divina
e della tradizione della Chiesa universale legga queste consuetudini, la loro
concezione di vita, la loro struttura sociale, in modo da stabilire come queste
tradizioni possono essere conciliate con il costume espresso nella rivelazione
divina. Si tratta in altre parole di aprire un dialogo tra quella che è la
cultura e la filosofia dei popoli, con quelle che sono le tradizioni immutabili
della tradizione divina e della tradizione della Chiesa. Da questo dialogo
scaturiranno forme nuove di arricchimento che porterà vantaggi non solo alla
Chiesa, ma alle stesse culture.
L'ultimo documento emanato dal Concilio Ecumenico Vaticano
II (1965), la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes, è importante per il
fatto che per la prima volta un Concilio Ecumenico consacra alla cultura un
intero capitolo di un suo documento. Nel capitolo IV, là dove si parla della
missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, dopo aver accennato della mutua
relazione che intercorre tra Chiesa e mondo e dell'aiuto che la Chiesa intende
offrire agli individui e alla società umana per mezzo dei cristiani, si parla
anche dell'aiuto che la Chiesa riceve dal mondo contemporaneo.
* GS 44: «Come è importante per il mondo che esso riconosca
la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa
non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere
umano.
L'esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze,
i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso i quali si
svela più a pieno la natura stessa dell'uomo e si aprono nuove vie verso la
verità, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa».
Più oltre, nella parte seconda, parlando di alcuni problemi
più urgenti, il Concilio desidera attirare l'attenzione su alcuni problemi
contemporanei particolarmente urgenti che toccano in modo specialissimo il
genere umano. Nel capitolo II si parla del problema della promozione del
progresso della cultura. Dopo aver dato una definizione del termine cultura (GS
53), si descrivono i molteplici rapporti che intercorrono fra Vangelo di Cristo
e la cultura:
* GS 58: «Fra il messaggio della salvezza e la cultura
esistono molteplici rapporti. Dio infatti, rivelandosi al suo popolo fino alla
piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato al suo popolo
secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche. Parimenti la
Chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle
differenti culture per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua
predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio
esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei
fedeli».
Essendo inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di
qualsiasi luogo, la Chiesa non può legarsi in modo esclusivo e indissolubile a
una stirpe o ad una nazione o ad un modo particolare di vivere. Pertanto:
* GS 58: «Fedele
alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione
universale (la Chiesa) può entrare in comunione con le diverse forme di
cultura; tale comunione arricchisce tanto la Chiesa stessa, quanto le varie
culture».
Continuando la sua esposizione, Gaudium et Spes dice anche che questo entrare in comunione con le
culture dei popoli permette al Vangelo di Cristo di rinnovare le culture, di
combattere e rimuovere gli errori e i mali in esse presenti; purifica ed eleva
la moralità dei popoli, fortifica, completa, restaura in Cristo le stesse doti
di ciascun popolo. Ed è questo un servizio particolare che la Chiesa sente di
dover dare mediante la sua azione missionaria alla cultura umana e civile di
ogni popolo. La stessa costituzione al termine della sua riflessione tra
Vangelo e cultura umana e insegnamento cristiano, conclude:
* GS 62: «Sebbene la Chiesa abbia grandemente contribuito al
progresso della cultura, l'esperienza dimostra tuttavia che, per ragioni
contingenti, l'accordo tra la cultura e la formazione cristiana non si realizza
sempre senza difficoltà».
Il difficile dialogo tra Chiesa e cultura non deve tuttavia
lasciarsi scoraggiare dalle difficoltà che sono realmente presenti; devono
piuttosto stimolare lo spirito ad una più accurata e profonda intelligenza
della fede. Soprattutto i teologi sono invitati a ricercare modi sempre più
adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca, perché
altro è il deposito e le verità della fede, altro è il modo con cui vengono
annunziate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo.
Nel suo progetto di evangelizzazione dunque, la Chiesa deve essere
costantemente preoccupata, da una parte, di conservare il deposito della fede,
dall'altra di porre tutto il suo impegno nel ricercare forme e modi che siano
più confacenti per annunciare l'Evangelo agli uomini del nostro tempo,
ricorrendo, ovviamente, anche ai sussidi che le scienze moderne offrono
all'evangelizzazione; tra queste la psicologia, la sociologia e tutte quante le
tecniche della comunicazione sociale.
La cultura non è stata solo un capitolo
aggiunto agli altri. Ma piuttosto tutto è
stato culturale nel Concilio, come tutto è stato teologico. L'uomo
contemporaneo e storico non è mai stato assente dalle sue preoccupazioni e
riflessioni. Il quadro di analisi è stato sempre ecclesiale e culturale
insieme.[135] In questa
ottica bisogna rileggere e interpretare i documenti principali sui vescovi, i
sacerdoti, i religiosi, i laici, la liturgia, l'unità dei cristiani, le
religioni non cristiane, la libertà religiosa, i mezzi di comunicazione.
Riportiamo alcuni esempi tipici.
I vescovi, i sacerdoti, i responsabili
della pastorale sono vivamente invitati a utilizzare i mezzi moderni delle
scienze umane, soprattutto la psicologia e la sociologia, per illuminare le
situazioni culturali in cui essi devono annunciare il Vangelo (GS 62). La
ricerca seria è fortemente incentivata (GS 36).
I religiosi devono ritrovare il dinamismo
della loro vocazione primigenia e vivere il loro carisma nei contesti culturali
nuovi (PC 3).
I laici devono impegnarsi direttamente
nei problemi di carattere civico e nella promozione delle culture, per
testimoniare la loro fede là dove i valori umani sono in causa (AA 17).
Nel dialogo ecumenico bisogna scoprire i
fattori culturali che provocano la disunione e stimolare tutti i cristiani a
una collaborazione efficace sul piano sociale, economico e culturale (UR 12).
I mezzi di comunicazione sono oggetto di
una particolare attenzione, giacché hanno un impatto considerevole sulla
cultura e sulla moralità pubblica (IM 12).
Dovendo affrontare il grave problema dell'ateismo
moderno la Chiesa si interrogherà sulle condizioni culturali del credere e del
non credere (GS 19-21).
Tutto il problema dell'educazione è
affrontato in una prospettiva di sviluppo culturale che tende alla formazione
completa, intellettuale e spirituale, dei giovani, ispirandosi ai progressi
della psicologia e della pedagogia (GE 1).
La cultura, intesa come vita dello
spirito è, come si è potuto vedere, una dimensione particolarmente tipica di
questo Concilio che esamina più volte la scienza moderna, i suoi rapporti con
la fede e con lo sviluppo dell'uomo; la libertà di indagine; i progressi della
pedagogia e delle scienze umane; la formazione umana e spirituale dei
sacerdoti, dei religiosi, dei laici; il ruolo della scuola e dell'università; la
creatività artistica. Si mira sempre all'uomo nel suo sviluppo personale e
collettivo.
Bisogna anche notare che il Concilio è
stato attento alla mentalità dell'uomo
contemporaneo e ha cercato di
valorizzare le aspirazioni culturali tipiche
della nostra epoca, come il desiderio di partecipazione, il senso della
corresponsabilità, della solidarietà della decisione personale,
dell'interiorizzazione, della libertà religiosa come pure della responsabilità
dei laici, il ruolo della donna, l'attenzione verso i giovani, la ricerca
universale della giustizia, della pace, dello sviluppo per tutti gli uomini.
Queste preoccupazioni socio-pastorali si ritrovano in tutti i documenti e
riflettono una esigenza concreta di evangelizzazione.[136]
L’immagine di
Chiesa che emerge dalla riflessione del Vaticano II si configura pertanto come
un Popolo in cammino nella storia, una comunità pellegrina che si fa compagna
di viaggio della famiglia umana per poterla meglio evangelizzare. La fede della
Chiesa permette una «compenetrazione della città terrena e della città celeste»
(GS 13); in questo modo, «perseguendo il suo proprio fine di salvezza, la
Chiesa non solo comunica all’uomo la vita divina, ma anche diffonde la sua luce
con ripercussione, in qualche modo, su tutto il mondo, soprattutto per il fatto
che risana ed eleva la dignità della persona umana, consolida la compagine
della società umana, e immette nel lavoro quotidiano degli uomini un più
profondo senso e significato. Così la chiesa, con i singoli suoi membri e con
tutta intera la sua comunità, crede di poter contribuire molto a rendere più
umana la famiglia degli uomini e la sua storia» (GS 40).
Nella sua esortazione apostolica Catechesi Tradendae, Giovanni Paolo II spiega il termine nuovo di acculturazione o inculturazione ricorrendo ad una analogia: «Il termine acculturazione, o inculturazione, pur essendo un neologismo, esprime molto bene una delle componenti del grande mistero dell'incarnazione» (CT 53). Nella sua opera di evangelizzazione, che consiste anche nel portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura e delle culture, la Chiesa deve dunque imitare il grande mistero della incarnazione.
Con il termine inculturazione si intende oggi lo sforzo che compie la Chiesa per presentare il Messaggio e i valori del Vangelo incarnati in forme e termini propri di ciascuna cultura. Tutto questo in modo tale che la fede e la vita cristiana di ciascuna Chiesa locale si inserisca nella maniera più intima e profonda possibile nella cornice culturale di ciascun popolo. Evangelizzazione e inculturazione hanno dunque una stretta relazione; la Parola di Dio deve essere trasmessa in modo tale che non solo sia capita con l'intelligenza, ma penetri profondamente nella globalità della persona umana in modo tale che, attraverso una conversione radicale, possa portare questa persona ad esprimere con tutta la sua vita, con tutta la sua cultura, la propria adesione alla fede di Cristo Signore[138]. Da qui la necessità che questa parola sia trasmessa non già in un linguaggio esotico, ma in forme consustanziali con la vita delle persone a cui è annunciato il Vangelo; non quindi in contrapposizione, ma in armonia con il contesto storico-sociale-culturale dei popoli a cui è rivolto il messaggio della salvezza.
E' dunque compito della teologia ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della propria epoca e di stabilire quali siano i fondamenti teologici di questo processo che oggi comunemente si chiama inculturazione.[139]
Stando alle indicazioni della Commissione Teologica Internazionale,[140] il fondamento dottrinale della inculturazione si può trovare:
a. Nel mistero della
creazione: la
moltitudine diversificata illustra l'innumerevole bontà di Dio creatore;
b. Nel mistero
dell'incarnazione: il
Verbo di Dio ha assunto nella propria persona una umanità concreta, in un
luogo-tempo-spazio; così cerca di fare anche la Chiesa che nasce dalla
Pasqua-Pentecoste (At 2,5-11); è il «mistero
dell'ammirabile condiscendenza dell'eterna sapienza» (DV 13).
c. Nel mistero dell'
evangelizzazione: Gesù e
la Chiesa annunciano il messaggio eterno della salvezza utilizzando le culture
del popolo;
d. Nel mistero della
redenzione: la Croce
chiama a conversione e purifica il male presente negli uomini e nelle loro
culture; anche le culture devono essere sottoposte alla legge purificatrice
della morte e della risurrezione in Gesù Cristo;
e. Nel mistero della
risurrezione: Cristo
rende l'uomo nuovo, come il Vangelo libera, purifica, eleva le culture.
f. Nel mistero
dell'admirabile commercium:
lo scambio che ci ha redenti [il divino assume l'umano; niente è redento se non
viene assunto: AG 3; GS 22];
g. Nel mistero della
ricapitolazione (Ef
1,10): In tutte le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché
di mezzo a tutte le stirpi Egli prende i cittadini del suo Regno, non terreno,
ma celeste (LG 13).
h. Nel mistero della Chiesa
cattolica: «In virtù di
questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, e così il tutto e le singole parti sono rafforzate comunicando
ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza nell'unità (LG
13).[141]
La varietà di questi fondamenti può essere riassunta attorno
a due temi principali: la legge del dialogo e la legge dell'incarnazione.
1.
La legge del
dialogo.
Paolo VI nella sua enciclica programmatica Ecclesiam Suam, scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo con cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio»[142]. Il dialogo tra la Chiesa e le culture dei popoli non è mosso da mode contingenti, ma nasce dalla costituzione missionaria della Chiesa, la quale in quanto istituzione divina sempre viva e operante deve farsi presente al mondo ovunque l'uomo abbia bisogno di ritrovare la propria dignità.
Un dialogo che nasce da un interiore impulso di carità; un dialogo che spinge la Chiesa ad immedesimarsi nelle forme di vita di coloro a cui si vuol portare il messaggio di Cristo, dal momento che non si salva il mondo dal di fuori. La Chiesa sa di essere seme, di essere fermento, di essere sale e luce del mondo. Avvertendo la sbalorditiva novità del tempo moderno, essa con chiarezza e con prudenza, con mitezza e con fiducia, si affaccia sulle vie della storia e dice agli uomini: io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate. Non promette una felicità terrena, ma offre qualche cosa - la sua luce, la sua grazia - per poterla, come meglio è possibile, conseguire[143].
In questo dialogo, la Chiesa parla agli uomini del loro trascendente destino, ragiona ad essi di verità, di giustizia, di libertà, di progresso, di concordia, di pace e di civiltà. Il segreto di questa realtà la Chiesa lo conosce perché Cristo glielo ha rivelato; ed essa sa anche che non può tenere per sé questa rivelazione, ma deve necessariamente comunicarla a tutti gli uomini perché tutte le genti possano entrare in contatto con Cristo Salvatore. Da qui la necessità per la Chiesa di farsi dialogo, di andare a cercare gli uomini nel loro contesto sociale e culturale in cui si trovano. Fedele al mandato rinnovatole dal Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa si fa dialogo presso tutti i popoli per ricordare loro che tutto ciò che in essi c'è di vero, di buono, di umano, la Chiesa cattolica lo apprezza ed è disponibile ad accoglierlo come suo patrimonio, purché l'Evangelo sia accolto e capito come realtà trasformante.
E' vero che il dialogo è un'arte delicata e difficile, ma
dal momento che ha il suo fondamento nell'amore stesso di Dio che in Cristo
entra in dialogo di salvezza con ogni uomo, occorre ripetere con Giovanni Paolo
II che: «Per la Chiesa questo dialogo è assolutamente indispensabile, perché
altrimenti l'evangelizzazione resterebbe lettera morta»[144].
Essendo uomo perfetto, Cristo nel mistero della sua
incarnazione assume la natura umana senza per questo annientarla, anzi
piuttosto innalzandola ad una dignità sublime. Come in forza del mistero della
incarnazione la natura divina e la natura umana si incontrano in una maniera
inconfusa, immutabile, indivisa, inseparabile,[146]
allo stesso modo l'opera di evangelizzazione è chiamata a portare la forza del
Vangelo nel cuore della cultura e delle culture[147]
senza per questo arrivare ad una diminuzione né del Vangelo, né delle culture,
ma piuttosto ad un innalzamento delle culture stesse alla dignità di via e
strumento del Verbo.
Sull'esempio dell'incarnazione di Cristo anche la Chiesa,
nel suo programma di evangelizzazione, deve incarnarsi in un modo sempre più
vitale e intimo in ogni cultura, arricchendosi dei suoi valori e portando in
cambio l'unica redenzione che si può trovare soltanto in Cristo, offrendo alle
culture il suo messaggio e la linfa di una vita nuova (cf AG 10). Introducendo
il Regno di Cristo nel mondo, la Chiesa nulla sottrae al bene dei popoli, ma al
contrario favorisce ed eccoglie tutta la dovizia di capacità e consuetudini dei
popoli: ed accogliendole le purifica, le consolida ed eleva (cf LG 13.17).
Sull'esempio del Figlio di Dio che «piantò la sua tenda in
mezzo a noi» (Gv 1,14) facendosi uomo concreto, nascendo nella pienezza del
tempo, nascendo da donna, nascendo sotto la legge per riscattare coloro che
erano sotto la legge (Galati 4,4-5),
così anche la Chiesa, per essere in grado di offrire a tutti il mistero della
salvezza, della vita che Dio ha portato all'uomo, deve cercare di inserirsi in
tutti i raggruppamenti con il metodo uguale a quello con cui Cristo stesso,
attraverso la sua incarnazione, si legò a quel certo ambiente socio-culturale
degli uomini in mezzo ai quali visse (cfr. AG 10).
Si possono dunque applicare al dialogo tra Vangelo e culture
le parole che S. Atanasio riferiva all'incarnazione del Verbo: «Non fu redento
quel che da Cristo non fu assunto»[148].
Giovanni Paolo II, parlando dell'incarnazione del messaggio
evangelico nelle culture, scrive in Catechesi
Tradendae 53: «Il messaggio evangelico non è puramente e semplicemente
isolabile dalla cultura nella quale esso si è da principio inserito (l'universo
biblico e, più concretamente, l'ambiente culturale, in cui è vissuto Gesù di
Nazaret), e neppure è isolabile senza un grave depauperamento dalle culture in
cui si è già espresso nel corso dei secoli. Esso non sorge per generazione
spontanea da alcun «humus» culturale; esso da sempre si trasmette mediante un
dialogo apostolico che è inevitabilmente inserito in un certo dialogo di
culture» (CT 53).[149]
Dunque il messaggio evangelico non è isolabile né dalla
cultura nella quale nacque all'epoca degli Apostoli, né dalle culture nelle
quali ancora oggi questo stesso messaggio viene ad essere inserito come un
elemento vitale e vivente, capace cioè di respirare e di dialogare ancora una
volta con i popoli con i quali esso viene a contatto.
In forza delle legge dell'incarnazione e alla luce
dell'antropologia cristiana, non solo il Vangelo continuerà ad incarnarsi nelle
culture dei popoli, ma farà sì che ogni uomo, dal momento che Cristo si è unito
in certo modo ad ogni uomo (cf GS 22), sentirà Dio non come un essere lontano
ed inaccessibile, bensì ne avvertirà la presenza accanto a sé, dentro di sé.
Dal momento che Cristo è stato costituito primogenito e capo
di una umanità nuova, tutti gli uomini sono costituiti fratelli tra di loro e
tutti hanno lo stesso diritto di sentirsi familiari dentro la Chiesa. Diceva
Paolo VI: «Il cristiano non è uno straniero in mezzo ai suoi»[150].
Come il cristiano, così anche la Chiesa non deve essere straniera in mezzo al
popolo: «In tutte le nazioni la Chiesa si sente di casa»[151].
Proprio in forza della sua essenziale cattolicità, la Chiesa, imitando il Verbo
fatto carne, non può essere estranea ad alcuna nazione o popolo, essa è tenuta
ad incarnarsi in ogni clima, cultura e razza; ovunque essa sia, deve affondare
le sue radici nel suolo spirituale e culturale del luogo e assimilare ogni
valore genuino.
Così mentre si preserva la ricchezza culturale e
l'individualità di ciascuna nazione, la Chiesa cattolica potrà comunicare a
tutte le altre quanto c'è di universale valore in ciascuna di esse per il
comune arricchimento. Si può dunque con certezza dire che lo stile
dell'evangelizzazione deve imitare lo stile della incarnazione. Uno stile che,
come insegna il Concilio, deve adeguarsi al particolare modo di pensare e di
agire dei popoli a cui questa evangelizzazione è rivolta (cfr. AG 16-18).
Se nel passato una conoscenza insufficiente delle ricchezze
nascoste nelle diverse civiltà ha potuto ostacolare la diffusione del messaggio
evangelico e dare alla Chiesa un certo volto straniero, è compito
dell'evangelizzazione oggi mettere in luce che la salvezza arrecata da Cristo è
offerta a tutti senza condizioni, senza legame privilegiato per una razza, un
continente o una civiltà e che, lungi dal voler soffocare i germi di bene nel
cuore e nel pensiero degli uomini o nei loro riti, nella loro cultura, il
Vangelo ha piuttosto per effetto di guarirli, elevarli, perfezionarli per la
gloria di Dio (cfr. LG 17; AG 22). Se la Chiesa deve essere anzitutto
cattolica, è legittimo un pluralismo di espressioni nell'unità della sostanza
ed è anche desiderabile nella maniera di professare la fede comune nel medesimo
Gesù Cristo.[152]
In ultima analisi, quindi, il mistero dell'incarnazione è il
principio teologico su cui si fonda il dialogo tra Vangelo e culture. Il Verbo
di Dio, assumendo la natura dell'uomo, ad eccezione del peccato, si legò alla
storia, alla cultura, alle tradizioni, alla religione del suo popolo. Il Verbo
di Dio, in altre parole, assunse non solo ciò che apparteneva alla razza umana,
ma anche ciò che era proprio della razza giudaica. Il fatto che il Verbo sia
diventato un giudeo, ci dà la sicurezza che dopo la risurrezione egli può anche
oggi incarnarsi in razze e culture differenti, attraverso la fede della Chiesa
e la celebrazione del suo mistero. Mediante la Chiesa, l'irripetibile evento
storico dell'incarnazione di Cristo diventa attuale e Cristo continua ad essere
attivamente presente nel mondo. L'estensione dell'incarnazione della Chiesa
nelle varie razze e culture, sarà l'espansione del mistero dell'incarnazione di
Cristo, il quale, incarnato storicamente in una cultura che in qualche modo lo
limitava, desidera oggi come Signore risorto estendere misticamente la sua
presenza a tutte le genti e a tutte le culture dei popoli. L'inculturazione del
Vangelo quindi non è una opzione per la Chiesa, è piuttosto un imperativo
teologico che deriva dall'esigenza stessa dell'incarnazione; la Chiesa deve
incarnarsi in ogni cultura come Cristo si incarnò seriamente nella cultura
giudaica[153].
La Chiesa quindi non può permettersi di rimanere estranea al
popolo al quale annunzia l'Evangelo, non potrà mai pretendere di essere
considerata come madre se non tratterà con affetto filiale tutti coloro che le
sono stati affidati come figli. Tra Vangelo e culture deve dunque avverarsi
quell'admirabile commercium che
avvenne tra Cristo e la natura umana in forza dell'incarnazione, cioè il
meraviglioso scambio che ci ha redenti: «La nostra debolezza è assunta dal
Verbo; l'uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi uniti a te in
comunione mirabile condividiamo la tua vita immortale»[154].
Da un lato, facendosi uomo, Cristo si è legato ad una razza,
ad un paese, ad una cultura; ma allo stesso tempo ha voluto superare questi
limiti per poter radunare tutti i popoli nell'unità (Gv 11,52) chiamandoli da
ogni tribù-lingua-popolo-nazione (Ap 5,9); ha fatto cadere i muri di
separazione (Ef 2,14-16) in modo che giudeo e greco fossero ormai «uno in
Cristo Gesù» (Gal 3,28) dal momento che «Cristo è tutto in tutti» (Col 3,11).
Con la Pentecoste ciò che prima era segno di divisione, le lingue (Gen 11,1-9),
diventa ora strumento da tutti comprensibile per la trasmissione delle grandi
opere di Dio (At 2,8.11). In forza dello Spirito della Pentecoste, la Chiesa
“in tutte le lingue si esprime e in tutte le lingue nell'amore intende e
comprende, superando così la dispersione babelica” (AG 4).
Anche nella Chiesa delle origini si seguì questo metodo. A
coloro che venivano dal paganesimo non si impose la cultura di Mosè ma, secondo
la decisione dell'assemblea apostolica, si richiese loro «niente al di là del
necessario» (At 15,28). Fu così possibile, nell'ambito del culto, la formazione
di famiglie liturgiche diverse, avendo quale legame l'unica fede e la fedeltà
alla paradôsis che viene dal Signore (1 Cor 11,23). Anche la liturgia vive in
qualche modo il paradosso dell'incarnazione: non deve essere straniera presso
alcun popolo, ma allo stesso tempo deve trascendere anche tutti i
particolarismi per esprimere l'universalità della fede che tutti unisce in un
solo battesimo e in un solo Signore (Ef 4,5-6).
«Per l'inculturazione la Chiesa incarna il Vangelo nelle
diverse culture e, nello stesso tempo, introduce i popoli con le loro culture
nella sua stessa comunità; trasmette ad esse i propri valori, assumendo ciò che
di buono c'è in esse e rinnovandole dall'interno».[155]
La liturgia, come il Vangelo, deve inserirsi in tutte le culture: rispetterà i
valori e le ricchezze, apprenderà le espressioni più significative, farà
sorgere espressioni originali di celebrazione; ma non si asservirà a nessuna
cultura né abdicherà o si impoverirà del suo buon deposito di fede (cf 2 Tim
1,14).
La Chiesa è oggi impegnata con tutte le sue energie nel dare
una risposta positiva al problema dell' inculturazione nello sforzo non facile
di salvaguardare l'unità nella diversità, la particolarità nell'universalità.[156]
Ogni popolo della terra, ogni lingua è chiamata a confessare e ad esprimere
«nel suo proprio linguaggio» (At 2,8) l'Evangelo della salvezza, ad «esprimere
progressivamente la propria esperienza cristiana in modi e forme originali,
consone alle proprie tradizioni culturali, purché sempre in sintonia con le
esigenze oggettive della stessa fede» (RMi 53). L'inculturazione non potrà
essere che il frutto di una progressiva maturazione nella fede.[157]
Se nel passato una conoscenza insufficiente delle ricchezze
nascoste nelle diverse civiltà ha potuto ostacolare la diffusione del messaggio
evangelico e dare alla Chiesa un certo volto straniero, è compito della missio
ad gentes mettere in luce che la salvezza arrecata da Cristo è offerta a tutti
senza condizioni, senza legame privilegiato per una razza-continente-civiltà, e
che lungi dal voler soffocare i germi di bene nel cuore e nel pensiero degli
uomini, il Vangelo ha piuttosto per effetto di guarirli, elevarli,
perfezionarli per la gloria di Dio (cf LG 17; AG 22).[158]
Se la Chiesa è anzitutto cattolica, è legittimo un pluralismo di espressioni
nell'unità della sostanza ed è anche desiderabile nella maniera di professare
la fede comune nel medesimo Gesù Cristo (AG 22).
3. Cristologia
e inculturazione.
L’insegnamento che possiamo trarre delle lotte cristologiche
può portare un qualche insegnamento all’attuale dibattito sulla inculturazione.
3.1.
Nicea (325):
Oggetto: la divinità di Cristo messa in discussione da Ario.
Ario (256-336), prete di Alessandria, sosteneva: il Verbo è
creatura e opera del Padre; non è eterno, non simile a lui quanto alla
sostanza. Il Figlio occuperebbe un posto intermedio (subordinazionismo) tra il
Padre e le creature.[159]
Nicea promulgò il simbolo
(=Credo): Gesù Cristo è il Figlio unigenito
e pre-esistente del Padre; nessun altro è come lui in rapporto a Dio perché lui
solo , non essendo creato ma generato,
dal Padre, è consustanziale a lui
(consustanziale: omoûsios = della
stessa sostanza [natura, essenza]; essendo della stessa natura, Cristo non
appartiene all’ordine delle creature, ma a quello della divinità. Asserire
l’identità di sostanza tra Gesù e il Padre significa riconoscere che egli è Dio
come è Dio il Padre: Quanto al livello dell’essere, non è per nulla inferiore a
lui: è «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero».[160]
La dottrina di Nicea, pur usando un linguaggio folosofico greco, è tuttavia il
rifiuto di ogni compromesso (ariano) con l’ellenismo perché modifica
profondamente lo schema metafisico greco, soprattutto quello dei platonici e
dei neoplatonici.[161]
3.2.
Costantinopolitano I (381):
Oggetto: definizione delle controversie ariane sulla natura
di Cristo.
Si ribadisce la dottrina di Nicea e se ne completa il simbolo (da qui il nome di Simbolo Niceno-Costantinopolitano dato
al Credo cristiano).
3.3.
Efeso (431):
Oggetto: rapporto tra natura umana e natura divina in
Cristo.
Riafferma l’unità della persona di Cristo e la sua effettiva
divinità senza separare il Figlio di Dio dall’uomo Gesù Cristo.
Il Concilio fu voluto e sostenuto dal patriarca Cirillo di
Alessandria (U 444)
contro le dottrine di Nestorio (dal 428 vescovo di Costantinopoli) che
contestava il titolo, ormai consolidato, di Theotokos
dato a Maria.
Nestorio, preoccupato di sostenere che il Verbo era Dio vero
e uomo vero, separò talmente le due realtà da rischiare di porre in essere due
persone separate, il Verbo, Figlio di Dio, e l’uomo, Gesù di Nazaret, figlio di
Maria. Da qui la negazione del titolo di Theotòkos
(Dei genitrix, madre di Dio) data a Maria, per sostituirlo con Christotòkos (Madre di Cristo).[162]
[Nestorio: in Cristo coesistono due nature e due persone (umana e divina) senza
unione ipostatica; per «unione ipostatica» si intende: l’unione profonda della
natura divina e della natura umana nella persona/soggetto-ipostasi del Figlio/Verbo eterno di Dio in Gesù Cristo
Coloro che non accettarono le decisioni di Efeso si
separarono dalla comunione dell’ecumene cristiana (il nestorianesimo fu la prima grande separazione [=scisma] tra i
cristiani).
3.4.
Calcedonia (451).
Oggetto: definizione del rapporto tra le due nature in
Cristo nell’unica Persona[163]
del Verbo.
Dichiarò l’unità della persona di Cristo nelle sue due
«nature», quella umana e quella divina, secondo la formula (detta appunto calcedonese) «una persona in due nature inconfuse [asygkytôs], immutabiliter,
indivise [adiairetôs], inseparabiliter: DS 148; GS 22, nota 22); «la natura
umana è stata assunta [non assorbita], senza per questo venire annientata» (GS
22) [questa stessa verità fu ribadita dal Concilio Costantinopolitano II (U553; DS 219) e Costantinopolitano III (U680-681;
DS 291). Si sviluppò il principio espresso dalla scolastica (S. Tommaso:
U1274) con queste parole: «gratia non destruit, sed supponit et
perficit naturam» [la grazia non distrugge la natura, ma la presuppone e la
perfeziona].[164]
Il dogma calcedonese vuol affermare la perfetta
«trascendenza» [piena ed autentica divinità di Cristo, contro la teologia
«riduttiva» di Ario] e la perfetta «immanenza» [reale ed autentica umanità di
Cristo, contro il docetismo degli gnostici] di Dio in Cristo.
«Senza confusione»: esclude qualsiasi stadio intermedio tra
la divinità e l’umanità di Cristo (=subordinazionismo);
«Senza divisione»: proclama l’unione profonda ed
irreversibile di Dio e dell’uomo nella persona del Verbo.
Coloro che non accettarono le decisioni del Concilio di
Calcedonia furono chiamati monofisiti [monos physis = unica natura]
(consideravano prevalente nella persona di Cristo l’unica natura divina).
Sostenitore della «monos-physis»
fu il monaco Eutiche di Costantinopoli (387-454) che diceva: nel Verbo la
natura divina è così preminente da superare la natura umana fino ad
«assorbirla».
Il papa Leone Magno, che aveva inviato a Calcedonia i suoi
legati, affermava: «non si può credere che sussista un’umanità senza la vera
divinità e la divinità senza una vera umanità».
Citando le parole di Pio XI, Gaudium et spes 58 afferma: «Non va mai perduto di vista che
l'obiettivo della Chiesa è evangelizzare e non civilizzare. Se essa civilizza
lo fa per mezzo dell'evangelizzazione».
Si tratta dunque di ricercare i molteplici rapporti che
esistono fra il messaggio della salvezza e le culture ed evidenziare in maniera
concreta alcuni criteri che possono essere di guida ad una corretta
inculturazione in modo che il dialogo tra la Chiesa e le culture sia un dialogo
di edificazione, un dialogo evangelizzante, e non un dialogo che eventualmente
e dolorosamente dovesse portare a cedimenti soprattutto riguardo ai princìpi
della fede. Vi sono, pertanto, criteri positivi da seguire, ma anche alcune
condizioni da rispettare.
Sinteticamente si possono riassumere in questo modo i
criteri più adatti per un costruttivo dialogo tra evangelizzazione e culture:
Nella sua azione evangelizzatrice, la Chiesa è chiamata ad
operare nel pieno rispetto delle diverse culture mantenendone e valorizzandone
quegli elementi originali e tradizionali che ne costituiscono la profonda
identità. Per fare questo, però, la Chiesa deve necessariamente conoscere
queste culture in modo da poter distinguere i veri valori delle false
apparenze.
E' dunque opportuno ricordare quanto dice Ad gentes 11 «i figli della Chiesa...devono
conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di
scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che in esse si nascondono».[165]
Non si può dunque procedere ad una corretta inculturazione
senza farla precedere da una attenta ricerca teologica, antropologica e
culturale, in modo che sia possibile rintracciare pazientemente i semina Verbi predestinati dalla
Provvidenza per l'edificazione della verità. Come Dio ha agito ed è presente
nella vita e nella storia di questa cultura prima dell'arrivo
dell'evangelizzazione? Dove si trovano le tracce di Dio in questo gruppo umano?
Disattendere questo criterio significa incorrere in forme di
superficialità e di improvvisazione con il rischio di non saper più discernere
i valori dai non valori.
Il dialogo tra Chiesa e culture deve essere sincero e
costruttivo; esso tende a fare assumere nella Chiesa, secondo l'economia
dell'incarnazione, tutte le ricchezze di consuetudini, di tradizioni, di
sapere, di cultura, di arti, di scienze, di religiosità assegnate in eredità a
Cristo Signore (cfr. AG 22). Il Vangelo e l'opera di evangelizzazione non
possono non tenere conto di quelle espressioni culturali a cui gli uomini, che
devono essere evangelizzati, sono particolarmente legati (EN 20).
Convinti dunque che nelle culture dei popoli vi sono
elementi di verità e di grazia (AG 9), delle cose vere e sante (NA 21), dei semina Verbi (AG 11), la Chiesa nel suo ruolo di evangelizzazione
nulla sottrae al bene temporale di queste culture, ma al contrario favorisce e
accoglie tutta la dovizia di capacità e consuetudini in quanto sono buone e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva (LG 13). Perciò ogni elemento
di bene presente e riscontrabile nel cuore e nella mente umana o negli usi e
civiltà particolari dei popoli, non solo non va perduto, ma viene risanato ed
elevato e perfezionato per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la
felicità dell'uomo (AG 17). Dal canto loro le nuove Chiese che hanno messo
radici in Cristo e sono costruite sopra il fondamento degli Apostoli, hanno la
capacità meravigliosa di assorbire tutte le ricchezze delle nazioni, che
appunto a Cristo sono state assegnate in eredità. Esse, dalle consuetudini e
dalle tradizioni, dal sapere e dalla cultura, dalle arti e dalle scienze dei
loro popoli, sanno ricavare tutti gli elementi che valgono a rendere gloria al
Creatore, a mettere in luce la grazia del Salvatore e a ben organizzare la vita
cristiana (AG 22).
Paolo VI, il 29 novembre 1970, nel suo Messaggio ai popoli
dell'Asia, non mancò di pronunciare parole di autocritica, circa
l'insufficiente conoscenza e la mancata assunzione nel passato delle ricchezze
culturali dei popoli:
«Se nel passato una conoscenza insufficiente delle ricchezze
nascoste in diverse civiltà ha potuto ostacolare la diffusione del messaggio
evangelico e dare alla Chiesa un volto straniero, è vostro compito mettere in
luce che, lungi dal voler soffocare i germi del bene seminati nel cuore e nel
pensiero degli uomini, o nei loro riti o nella loro cultura, il Vangelo ha per
effetto di guarirli, elevarli, perfezionarli nella gloria di Dio»[166].
Cinque anni dopo, nel discorso rivolto ai partecipanti del IV Simposio delle
Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar, Paolo VI aggiungeva: «Voi
Vescovi, dovete integrare nella Chiesa, perfezionandoli, i valori culturali,
tradizionali dei vostri popoli con prudenza e saggezza»; aggiungeva poi che è
necessario «dedicarsi ad una investigazione approfondita delle tradizioni
culturali delle diverse popolazioni»[167].
Una scarsa attenzione a questo problema costituisce
certamente un ostacolo alla evangelizzazione.
La conoscenza genera rispetto verso tutto ciò che c'è di
valido nelle altrui culture spingendo piuttosto a scoprire il Dio nascosto in
tutto ciò che è autenticamente umano. Solo così si apre lo spazio ad una
collaborazione purificatrice e costruttrice di un presente e di un futuro,
senza esclusioni prestabilite, senza sospetti, senza limitazioni all'azione
dello Spirito Santo.
Solo un attenta conoscenza e profondo rispetto delle altrui
ricchezze, possono permettere all'evangelizzazione di «proporre a tali culture
la conoscenza del mistero nascosto ed aiutarle a far sorgere dalla loro propria
viva tradizione espressioni originali di vita, di celebrazione e di pensiero
cristiano».[168]
Le culture quindi non solo non sono di ostacolo all'opera di
evangelizzazione della Chiesa, ma diventano luogo e strumento prezioso di
incontro tra Cristo e gli uomini. La Chiesa dovrà evangelizzare le culture con
la convinzione che la forza del Vangelo è trasformatrice e rigeneratrice; dovrà
in una parola entrare in un dialogo costruttivo.
Solo in questo modo
potrà proporre agli uomini del nostro tempo, inseriti e radicati nella loro
cultura, la conoscenza del mistero nascosto; questa sarà anche la via per fa
sorgere dalla loro propria viva tradizione, espressioni originali di vita, di
celebrazione e di pensiero che siano autenticamente cristiani (cfr. GS 62; CT
53)[169].
Come ben si esprime Giovanni Paolo II nella sua enciclica
programmatica Redemptor hominis, «La
missione non è mai distruzione, ma una riassunzione di valori e una nuova
costruzione».[170]
Se, in prossimità del terzo millennio, la Chiesa vuol
attuare una vera «plantatio ecclesiae», dovrà fare ogni sforzo affinché il
Vangelo sia calato in maniera vitale, in profondità fino alle radici, nelle
culture dei popoli (cf EN 20).
La giusta e doverosa valorizzazione delle culture non deve
tuttavia andare a discapito della forza totalmente nuova e superiore della
Parola di Dio. Nel rispettoso dialogo del mutuo dare e ricevere non si deve
misconoscere la forza intrinseca della parola di Dio la quale, una volta
annunziata, non è semplice giustapposizione alle culture, ma deve essere in
grado con questa sua potenza intrinseca di trasformare e rigenerare le culture.
Opportunamente si dice in Evangelii Nuntiandi: «Il Vangelo e quindi l'evangelizzazione non si
identificano certo con la cultura... Indipendenti di fronte alle culture, il
Vangelo e l'evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse,
ma capaci di impregnarle tutte senza asservirsi ad alcuna» (EN 20).
Sarebbe dunque una falsa inculturazione se dovesse essere il
Vangelo a subire alterazioni nel suo incontro con le culture. Superata quindi
la concezione di una pacifica convivenza tra parola di Dio e culture, quasi che
tra le due vi sia uguaglianza ed identica energia interiore, occorre affermare,
seguendo Catechesi Tradendae 53, che
non deve far meraviglia allorché la forza del Vangelo, penetrando una cultura,
ne rettifica non pochi elementi, trasformando e rigenerando quell'humus
culturale nel quale si incarna. Il Vangelo deve essere quindi in grado di
impregnare tutte le culture senza asservirsi ad alcuna di esse (EN 20)[171].
In Redemptoris missio
si dice che il processo di inculturazione deve avvenire “tenendo presenti gli
apporti positivi che si sono avuti nei secoli grazie al contatto del
cristianesimo con le varie culture, ma senza dimenticare i pericoli di
alterazioni che si sono a volte verificati” (RMi53).[172]
Si indicano anche due principi fondamentali che devono guidare l'inculturazione
nel suo retto processo:
“«La compatibilità col Vangelo e la comunione con la Chiesa
universale ».[173] Custodi
del «deposito della fede », i Vescovi cureranno la fedeltà e, soprattutto, il
discernimento,[174]
per il quale occorre un profondo equilibrio: c'è, infatti, il rischio di
passare acriticamente da una specie di alienazione dalla cultura ad una
supervalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo, quindi è segnata dal
peccato. Anch'essa dev'essere «purificata, elevata e perfezionata»” (RMi 54).[175]
Se il Vangelo, in questo processo di evangelizzazione,
dovesse subire delle alterazioni o si limitasse a «convivere» con le culture
quasi che tra le due vi sia uguaglianza di energie, si arriverebbe
semplicemente a ciò che S. Paolo chiama con espressione molto forte «rendere
vana la Croce di Cristo» (l Cor 1,17;
cfr. CT 53).
Va pertanto salvaguardata la trascendenza della rivelazione
in rapporto alle culture nelle quali essa si manifesta. La Parola di Dio è
espressa in una cultura dalla quale non è semplicemente isolabile; tuttavia non
può legarsi in maniera esclusiva ad alcuna cultura; non può abdicare o
attenuare il suo messaggio, né fare concessioni in materia di fede e di morale
(CT 53).
Il metodo dell'inculturazione va dunque usato con saggezza e
discernimento al fine di non compromettere i. «buon proposito della fede» ((2
Tim 1,14), ma di comunicare piuttosto tutta la pienezza del mistero di Cristo.
Già Paolo VI in Evangelii
Nuntiandi scriveva: «Sì, questo messaggio è necessario. E' unico. E'
insostituibile. Non sopporta né indifferenza, né sincretismi, né accomodamenti.
E' in causa la salvezza degli uomini. Comporta una saggezza che non è di questo
mondo» (EN 5). Il messaggio del Vangelo va dunque proposto senza riduzione, né
ambiguità (cfr. EN 32 e 65)[176].
Il ruolo affidato dal Concilio alle Chiese locali è quello
di assimilare l'essenziale del messaggio evangelico per poi annunciarlo e
trasmetterlo nel contesto vitale dei propri fedeli. Il processo di
inculturazione, però, non può venire a discapito dell'unità e dell'universalità
della Chiesa; una Chiesa infatti priva di «cattolicità» diventerebbe
inevitabilmente una Chiesa nazionalista e regionalista, senza orizzonte (EN 64).
Questo pensiero si trova bene espresso in Lumen Gentium 13: «Ciò che è particolare
non deve nuocere all'unità, ma piuttosto deve servirla». Il processo di
inculturazione dovrà pertanto ricordare che «da Cristo Signore, la Chiesa è
stata fondata una e unica» (UR 1). «Questo popolo, pur restando uno e unico si
deve estendere a tutto il mondo e a tutti i popoli... In tutte quindi le
nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché in mezzo a tutte
le stirpi Egli prende i cittadini del suo Regno» (LG 13). Il segno dell'unità
tra i cristiani è pertanto via e strumento dell'evangelizzazione; è quindi
evidente che non si può ricercare una inculturazione a scapito dell'unità
all'interno della Chiesa.
E' dunque opportuno ricordare che: «oggi, come in altri
periodi di disorientamento dottrinale... occorre sottolineare vigorosamente,
senza stancarsi mai, che chi si stacca dalla Chiesa, dai suoi Pastori, dalle
sue dottrine, dalle sue norme morali, si pone in pericolo di collocarsi da sé
al di fuori della comunione ecclesiale».[177]
Guardando alla ricca esperienza e al desiderio di
inculturazione presente in Africa, e soprattutto al concetto molto diffuso di
africanizzazione della Chiesa, Paolo VI ebbe a dire: «La vostra Chiesa deve
essere innanzitutto cattolica, cioè deve essere fondata sul patrimonio
identico, essenziale, costituzionale, della medesima dottrina di Cristo e
professata dalla tradizione autentica e autorevole dell'unica e vera Chiesa.
Questa è una esigenza fondamentale e indiscutibile... Non siamo noi gli
inventori della nostra fede; noi siamo i custodi»[178].
Salvaguardata dunque l'unità e la cattolicità della Chiesa
come valori irrinunciabili, una Chiesa locale non solo potrà dedicarsi ad un
legittimo pluralismo di espressioni culturali, anzi, un tale pluralismo sarà
auspicabile; quindi il linguaggio e il modo di manifestare l'unica fede può
essere molteplice e perciò originale e conforme alla lingua, allo stile,
all'indole, al genio, alla cultura di chi professa l'unica fede. Un adattamento
di vita cristiana nel campo pastorale e rituale e didattico ed anche
spirituale, non solo è possibile, ma è favorito dalla Chiesa; la riforma
liturgica, ad esempio, ne è una espressione quantomai significativa. «In questo
senso», ebbe a dire Paolo VI rivolto ai Vescovi africani, «voi potete e dovete
avere un cristianesimo africano; anzi voi avete valori umani e forme
caratteristiche di cultura che possono assurgere ad una loro perfezione idonea
a trovare nel cristianesimo e per il cristianesimo una genuina e superiore
pienezza e quindi capace di avere una ricchezza di espressione sua propria
veramente africana. Occorrerà forse del tempo, occorrerà che la vostra anima
africana sia imbevuta profondamente dei segreti carismi del cristianesimo,
affinché poi questi si effondano liberamente in bellezza e sapienza alla
maniera africana. Occorrerà che la vostra cultura non rifiuti, anzi si giovi di
attingere, al patrimonio della tradizione patristica, esegetica, teologica
della Chiesa cattolica, i tesori della sapienza che possono considerarsi
universali e, in modo speciale, quelli che sono più facilmente assimilabili
dalla mentalità africana... Se voi saprete evitare i pericoli possibili del
pluralismo religioso e cioè di fare della religione cristiana una specie di
pluralismo locale, ovvero di razzismo esclusivista o di tribalismo egoista,
oppure di separatismo arbitrario, voi potrete rimanere sinceramente africani
anche nella vostra interpretazione della vita cristiana, voi potrete formulare
il cattolicesimo in termini congeniali alla vostra cultura, e potrete apportare
alla Chiesa cattolica il contributo prezioso e originale della negritudine del
quale essa in quest'ora storica ha particolarmente bisogno»[179].
Il vincolo di unità e di cattolicità tra la Chiesa e le
Chiese locali, non solo non indebolisce quel rapporto costruttivo tra le due,
ma come ben si esprime Lumen Gentium: «In
virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa e così il tutto e le singole parti sono rafforzate
comunicando ognuna con le altre e concordemente operando per la pienezza
dell'unità» (LG 13).
L'evangelizzazione delle culture, pertanto, deve avvenire
all insegna di questo mutuo dare e ricevere; guai ad isolarsi o pretendere di
camminare da soli, senza curarsi del sentire comune che deve animare l'unica
Chiesa di Cristo.
Purtroppo non sono mancati e non mancano nella Chiesa
fermenti di esasperato nazionalismo e desiderio intransigente di indipendenza,
quasi a scrollarsi di dosso quella che si suol chiamare la «tutela» di Roma. In
Evangelii Nuntiandi, Paolo VI ha
affrontato con chiarezza questo problema quando ha scritto: «La Chiesa
universale si incarna di fatto nelle Chiese particolari, che parlano una data
lingua, che sono tributarie di un loro retaggio culturale... pertanto ogni
Chiesa particolare che si separasse volontariamente dalla Chiesa universale
perderebbe il suo riferimento al disegno di Dio, si impoverirebbe nella sua
dimensione ecclesiale» (EN 62).[180]
«Le Chiese particolari... hanno il compito di esaminare
l'essenziale del messaggio evangelico, di trasfonderlo senza la minima
alterazione della sua verità fondamentale nel linguaggio compreso da questi
uomini e quindi di annunziarlo nel medesimo linguaggio... La questione è
indubbiamente delicata. L'evangelizzazione perde molto della sua forza e della
sua efficacia se non tiene in considerazione il popolo concreto a cui si
rivolge, se non utilizza la sua lingua, i suoi segni e simboli...
Ma d'altra parte l'evangelizzazione rischia di perdere la
propria anima e di svanire, se il suo contenuto resta svuotato o snaturato col
pretesto di tradurlo[181]
o se, volendo adattare una realtà universale ad uno spazio locale, si sacrifica
questa realtà o si distrugge questa unità senza la quale non c'è universalità.
Orbene, soltanto una Chiesa che conservi la consapevolezza della propria
universalità e dimostri di essere effettivamente universale, può avere un
messaggio da tutti comprensibile al di là dei confini regionali» (EN 63).
Occorre pertanto sottolineare con forza questo principio che
è basilare nel dialogo evangelizzante tra la Chiesa e le culture: i legami di
comunione che uniscono una Chiesa particolare alla Chiesa universale, ad
esempio nella carità, nella fedeltà, nell'apertura al magistero di Pietro,
nell'unità della Lex Orandi, come
pure della Lex credendi,[182]
non solo non indeboliscono la crescita e l'espressione viva della Chiesa
particolare, ma proprio in forza di questo legame essa sarà capace di attingere
abbondantemente al patrimonio universale di fede, di preghiera, di culto, di
vita, del comportamento cristiano, a profitto del proprio gregge. Se è dunque
doveroso e legittimo affermare che si può essere autenticamente cristiani senza
rinunciare ad essere altrettanto autenticamente asiatici o africani, tuttavia
viene da chiedersi a che cosa servirebbe una esasperata inculturazione che
finisse per tagliare fuori una Chiesa locale dalla Chiesa universale. Avrebbe
senso una Chiesa africana o asiatica se non fosse anche autenticamente una e
cattolica?[183].
In Redemptoris missio
52-54 è possibile ritrovare in sintesi i rapporti molteplici, in positivo e in
negativo, che intercorrono tra evangelizzazione e culture. Infatti “svolgendo
l'attività missionaria tra le genti, la Chiesa incontra varie culture e viene
coinvolta nel processo di inculturazione” (RMi 52). Questo processo di
inculturazione è descritto in questi termini:
a. Una esigenza acuta e
urgente: infatti “La
rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come
lo fu anche di altre epoche”;[184]
pertanto: “occorre fare tutti gli sforzi in vista di una generosa
evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture”;[185]
l'evangelizzazione raggiunge il proprio scopo soltanto quando l'uomo accetta di
ricevere la Parola di Dio e di farla fruttificare nella sua vita; evangelizzare
significa raggiungere e quasi coinvolgere mediante la forza del Vangelo, i
criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di
pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità (EN 19);[186]
b. Un processo che richiede
tempi lunghi e gradualità:
“Si richiede un lungo e coraggioso processo di inculturazione affinché il
Vangelo penetri l'anima delle culture viventi, rispondendo alle loro più alte
attese e facendole crescere alla stessa dimensione della fede, della speranza e
della carità cristiana. La Chiesa, per mezzo dei suoi missionari, ha già
compiuto un'opera incomparabile in tutti i continenti, ma questo lavoro della
missione non è mai compiuto, perché spesso le culture sono state toccate solo
superficialmente e poiché si trasformano, continuamente richiedono un incontro
rinnovato”;[187] “E' un
cammino lento che accompagna tutta la vita missionaria” (RMi 52); “Un tale
processo ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione
dell'esperienza cristiana della comunità” e si abbia quindi come una
incubazione del mistero cristiano nel genio di un popolo (RMi 54).
c. Un processo profondo e
globale: investe sia il
messaggio cristiano che la prassi della Chiesa; incarnazione significa non un
puro adattamento esteriore, a modo di vernice, ma piuttosto l'intima
trasformazione degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel
cristianesimo e il radicamento del cristianesimo nelle varie culture (EN 20);
d. Un processo difficile: non deve in alcun modo compromettere la
specificità e l'integrità della fede cristiana; richiede “la compatibilità col
Vangelo” (RMi 54; FC 10); non ci sarebbe inculturazione “se fosse il Vangelo a
dover alterarsi al contatto con le culture” (CT 53); dimenticando questo si
arriverebbe semplicemente a “render vana la croce di Cristo” (1 Cor 1,17: testo
citato in CT 53);
e. Un processo di
«comunione»: deve
coinvolgere le Chiese particolari di un medesimo territorio (Cf AG 22) e deve
mantenere legami con la Chiesa universale (FC 10); “deve coinvolgere tutto il
popolo di Dio e non solo alcuni esperti” (RMi 54); “dev'essere espressione di
vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo
di ricerche erudite” (RMi 54);
f. Un processo che richiede
discernimento e profondo equilibrio:
“c'è infatti il rischio di passare acriticamente da una specie di alienazione
dalla cultura ad una sopravvalutazione di essa, che è un prodotto dell'uomo,
quindi è segnata dal peccato. Anch'essa deve essere purificata, elevata e
perfezionata” (RMi 54 che cita LG 17). Da qui la necessità di studiare a fondo,
a tutti i livelli, il problema dell'inculturazione.[188]
Discernimento ed equilibrio sono anche richiesti dinanzi al costante rischio di
ridurre il cristianesimo a semplice avvenimento culturale, a movimento politico
o sociale; questa sarebbe una culturizzazione
del Vangelo, cioè il contrario dell'inculturazione;
g. Un arricchimento della
Chiesa universale:
permette l'assunzione di espressioni e valori viventi nei vari settori della
vita cristiana, compreso quindi il culto e la teologia: “la Chiesa...
introducendo questo Regno, nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo,
ma al contrario favorisce e accogliue tutte le ricchezze, le risorse e le forme
di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica,
le consolida ed eleva” (LG 13);
h. Una via che permette di
conoscere ed esprimere ancor meglio il mistero di Cristo: “Le comunità ecclesiali in formazione,
ispirate dal Vangelo, potranno esprimere progressivamente la propria esperienza
cristiana in modi e forme originali, consone alle proprie tradizioni culturali,
purché sempre in sintonia con le esigenze oggettive della stessa fede” (RMi 53);
le Chiese particolari “hanno il compito di assimilare l'essenziale del
messaggio evangelico, di trasfonderlo, senza la minima alterazione della sua
verità fondamentale, nel linguaggio compreso da questi uomini e quindi di
annunziarlo nel medesimo linguaggio... E il termine «linguaggio» dev'essere qui
inteso non tanto nel senso semantico o letterario, quanto in quello che si può
chiamare antropologico o culturale” (EN 63 citato da RMi 53 alla nota 92);
“perciò sembra giunto il tempo in cui molte Chiese non europee, prendendo per
la prima volta coscienza della loro peculiare originalità e dei compiti che
loro incombono, hanno il dovere di creare a livello della vita e del linguaggio
nuove forme di espressione dell'unico Vangelo”.[189]
i. Uno stimolo per un continuo
rinnovamento della Chiesa.
In Catechesi Tradendae
53 si parla di “espressioni originali di vita, di celebrazione e di pensiero
che siano cristiani”; si pensi anche alla necessità di un rinnovamento nel
linguaggio a livello di evangelizzazione, di catechesi, di omelia, di
formulazione teologica (cf EN 63).
Il processo di evangelizzazione inculturata è un processo
dialettico di liberazione di entrambe le culture, quella dell'evangelizzatore e
quella dell'evangelizzando, perché vi sia spazio all'azione dello Spirito sui
soggetti dell'evangelizzazione nel proporre il messaggio e nel suscitare la sua
accoglienza mediante la fede.
Il Concilio Vaticano II dettando le norme per un adattamento
della liturgia all'indole e alle tradizioni dei vari popoli, nella Costituzione
Sacrosanctum Concilium dice che «La
Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non
intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità» (SC 37).
Nella sua tradizione secolare la Chiesa ha conosciuto
diversità di riti e di famiglie liturgiche; questa varietà non solo non nuoce
alla sua unità, ma piuttosto la manifesta.[191]
Volendo dare nuovo vigore ai riti come richiedono le
circostanze e le necessità del nostro tempo (SC 2), la riforma liturgica deve
lasciare posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti (aptationibus) ai vari gruppi etnici,
regioni, popoli, soprattutto nelle Missioni (SC 38; cf anche n. 40, 3)
Recentemente lo stesso Giovanni Paolo II nella sua lettera
apostolica Vicesimus quintus annus,[192]
riconoscendo che l'inculturazione non è un problema nuovo nella Chiesa, ha
indicato lo sforzo per radicare la liturgia nelle differenti culture come un
compito importante per il rinnovamento liturgico: «Resta considerevole lo sforzo di continuare per radicare la liturgia in
talune culture, accogliendo di esse quelle espressioni che possono armonizzarsi
con gli aspetti del vero ed autentico spirito della liturgia, nel rispetto
dell'unità sostanziale del rito romano...(La Chiesa) ha il potere, e talvolta
anche il dovere di adattare la liturgia alle culture dei popoli recentemente
evangelizzati» [n.16].
Proprio in queste culture dei territori di missione il
bisogno pastorale rende urgente quella forma di adattamento della liturgia che Sacrosanctum Concilium chiama «più
profonda» e dichiara nel contempo «più difficile» (SC 40).
1. Adattamento o inculturazione?
Con il termine inculturazione meglio si indica quel duplice
movimento di dare-ricevere tra Chiesa e culture mediante il quale «la Chiesa incarna il Vangelo nelle diverse
culture e, nel contempo, introduce i popoli con le loro culture nella propria
comunità» (RMi 52).
L’opera missionaria ha necessità di assimilare i valori
delle culture, le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo, per
approfondire l’annuncio di Cristo e per meglio esprimerlo nella celebrazione
liturgica e nella vita multiforme della comunità dei fedeli (cf GS 58).
In molte di queste culture il Vangelo è stato annunciato in
epoca moderna da missionari che hanno portato nel contempo il Rito romano
secondo la rigida tradizione Tridentina (ne
varietur).
Oggi la Chiesa non intende imporre, neppure nella liturgia,
una rigida uniformità, ma desidera piuttosto rispettare e favorire le qualità e
le doti d’animo delle varie razze e dei vari popoli (SC 37) per potervi
apportare le ricchezze di Cristo e per arricchirsi essa stessa della sapienza
multiforme delle nazioni della terra. Così la liturgia della Chiesa non
dev’essere estranea a nessun paese, a nessun popolo, a nessuna persona.
La funzione missionaria della Chiesa è quella di
evangelizzare e formare nella fede. Rientra in questo processo l'opera di
rinnovare le forme liturgiche già esistenti e di acquisirne delle nuove; sarà
così più facile comunicare con maggiore efficacia pastorale la vita di Cristo
agli uomini (movimento “discendente”) e ottenere che il culto al Padre sia
meglio partecipato (movimento “ascendente”) mediante segni e riti efficaci e
comunicativi, rispettosi non solo del mistero ma anche dell'uomo.
D’altro canto, come tutte le altre forme di azione
evangelizzatrice, anche questa complessa e paziente attività di inculturazione
liturgica domanda un impegno metodico e progressivo di ricerca e discernimento
(cf RMi 54). Non va infatti dimenticato che le azioni liturgiche appartengono
all’intero Corpo della Chiesa (SC 23) e in quanto tali esse trascendono ogni particolarismo
di razza e di nazione. L'inculturazione della vita cristiana e delle sue
celebrazioni liturgiche, per un popolo nel suo insieme, non potrà che essere
frutto di una progressiva maturazione nella fede.[194]
Essendo cattolica,
la Chiesa è chiamata a raccogliere tutte le genti, a parlare ogni lingua, a
permeare ogni cultura. In virtù della sua autorità pastorale essa può disporre
ciò che può essere utile al bene dei fedeli, secondo le circostanze, i tempi, i
luoghi (cf SC 48.62). Quali, dunque, le
motivazioni-esigenze-obiettivi-condizioni dell’inculturazione liturgica?
* “pastorali”:
“per assicurare maggiormente al popolo cristiano l'abbondante tesoro di grazie
che la sacra Liturgia racchiude” (SC 21; cf anche 11.14);[195]
* “liturgiche”:
“l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante
realtà, da essi significate, siano espresse più chiaramente, il popolo
cristiano possa capirne più facilmente il senso, e possa parteciparvi con una
celebrazione piena, attiva e comunitaria” (SC 21; cf SC 14.48.62, 63b, 65, 67,
107);
* “missiologiche”:
[Si promuova la ricerca teologica] “Si comprenderà meglio allora secondo quali
criteri la fede, tenendo conto della filosofia e del sapere dei popoli, può
incontrarsi con la ragione, ed in quali modi le consuetudini, la concezione
della vita e la struttura sociale possono essere conciliati con il costume
espresso nella rivelazione divina” (AG 22; cf AG 40b; SC 2);
* “catechetiche”:
La Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli comprendano bene il mistero
cristiano per mezzo dei riti e delle preghiere (SC 48; cf SC 33; CD 30e; GE
7a);
* “ecumeniche”:
“Manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera
Chiesa [...] A coloro che sono fuori mostra la Chiesa come segno innalzato sui
popoli” (SC 2; cf DV 25c);
L'inculturazione liturgica è mossa e giustificata
principalmente da due esigenze:
* esigenza teologica: continuare la missione del Verbo fatto
carne nel tempo e nello spazio (AG 10); incarnare il messaggio dell'uomo d'oggi
perché diventi autenticamente cristiano; rendere credibile la Chiesa (non
antiquata, né straniera, ma capace di riconoscere ed accogliere “i semi del
Verbo” presenti nelle culture dei popoli [AG 11]); rendere più intelligibili, e
quindi vivibili, le “realtà eterne” del Vangelo (ogni scriba sapiente sa trarre
dal suo deposito cose antiche e cose nuove: cfr Mt 13,52); dare attuazione alla
natura “teandrica” della liturgia (cfr SC 2: divina e umana, terrena e celeste)
in modo che ciò che vi è in essa di divino possa lievitare, fermentare,
trasformare ciò che vi è di umano: “divinizzare” l'uomo senza sradicarlo dal
proprio contesto socio-culturale e quindi ecclesiale;
* esigenza antropologica: “il sacro Concilio si propone... di
meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono
soggette a mutamenti (SC 1 e 21); i fedeli non devono assistere alla liturgia
come estranei o muti spettatori... ma devono comprenderla bene per mezzo dei
riti e delle preghiere, in modo da partecipare all'azione sacra
consapevolmente, pienamente, attivamente, fruttuosamente, comunitariamente (cfr
SC 48); la Chiesa, anche in campo liturgico, non intende imporre una rigida
uniformità (SC 37), ma lascia posto alle legittime diversità-adattamenti dei vari gruppi etnici (cfr SC 38);
L'inculturazione rientra nel programma di rinnovamento
pastorale voluto dal Concilio.[196]
Con tale adattamento-inculturazione della liturgia alle culture dei popoli si
vuole:
* incrementare la vita cristiana (SC 1)
* esprimere più chiaramente le sante realtà significate nei
testi-riti perché il popolo cristiano possa capirne il senso e parteciparvi
pienamente-attivamente-comunitariamente (SC 21);
* adattare ai periodi storici le istituzioni soggette a
cambiamento (SC 21;37)
* favorire l'unità dei credenti in Cristo (SC 1)
* promuovere la partecipazione attiva, piena, consapevole,
fruttuosa dei fedeli (SC 14.21.48);
* aprire la via ad un legittimo progresso liturgico
conservando la sana tradizione (SC 23);
* dare trasparenza ai segni e semplicità ai riti adattandoli
alla capacità di comprensione dei fedeli senza dover ricorrere a molte
spiegazioni (SC 34);
* rispondere meglio all'indole e alla natura dei popoli e
delle culture (SC 37-40).
u Il processo di inculturazione avrà luogo
salvaguardando l’unità sostanziale
del Rito romano (cf SC 37-40). Il processo di inculturazione non ha per oggetto
la creazione di nuove famiglie rituali, ma piuttosto di adattare le edizioni tipiche della Chiesa universale
alle legittime esigenze culturali delle Chiese locali;
u Il processo di inculturazione non è
lasciato alla libera iniziativa delle singole persone, né all’iniziativa
collettiva delle assemblee; regolare la liturgia compete unicamente
all’autorità della Chiesa (SC 22 § 2; CIC 838 §§ 1 e 2);
u L’introduzione di
innovazioni deve essere dettata da una vera e accertata utilità della Chiesa,
in continuità con la tradizione precedente (SC 23); ciò richiede pedagogia e
tempo, per evitare fenomeni di rigetto o di attaccamento alle forme anteriori;
u Va attentamente evitata ogni forma,
anche in apparenza, di sincretismo religioso o di ambiguità; ciò potrebbe
accadere quando i luoghi, gli oggetti di culto, le vesti liturgiche, i gesti e
gli atteggiamenti lasciassero trasparire gli stessi significati che avevano
prima dell’evangelizzazione, senza un'adeguata verifica e purificazione. Va
anche evitata ogni forma di sostituzione di testi-canti-preghiere con elementi
mutuati da altre religioni (cf OLM 12);
u Nella scelta della lingua o di
espressioni culturali si faccia attenzione a non offendere le minoranze che
sono presenti nel territorio; le stesse Conferenze episcopali evitino, per
quanto è possibile, di introdurre notevoli differenze di riti tra regioni
confinanti (cf SC 23):
La varietà di questi elementi può essere riassunta
considerando, come in una «icona», i vari aspetti della celebrazione
eucaristica: l'atto penitenziale richiama il dovere di purificazione essendo la
cultura prodotto dell'uomo e quindi segnata dal peccato (RMi 54); la liturgia
della parola corrisponde all'illuminazione e all'elevazione di tutto ciò che di
buono-bello-vero si trova nelle culture; la presentazione dei doni corrisponde
all'offerta dei valori delle culture che a Cristo sono stati assegnati in
eredità e così riportati al loro Autore (AG 22); il sacrificio eucaristico
corrisponde all'intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante
l'integrazione nel cristianesimo (RMi 52); la comunione significa il reciproco
arricchimento, il meraviglioso scambio, tra Chiesa e culture, tra valori locali
e Chiesa universale (LG 13).[197]
Per ben intendere la nozione di inculturazione nella
liturgia bisogna tener conto che essa si compone di parti “immutabili” e di
parti “mutabili” (SC 21):
u le parti immutabili sono quelle che provengono alla Chiesa da Cristo, per
istituzione divina, toccano l'unità della fede e il bene dell'intera comunità;
intaccare il legame che i sacramenti hanno con Cristo che li ha istituiti, e
con gli atti fondanti della Chiesa, non sarebbe più inculturarli, ma svuotarli
della loro sostanza;
u le parti mutabili sono invece tutte le altre parti, i “segni sensibili” (SC
7c) che significano-attuano la glorificazione di Dio e la santificazione degli
uomini (è questo il duplice movimento della Liturgia, sempre trinitario).
Questi mutamenti sono possibili, alcune volte anche necessari, soprattutto
quando si tratta di rimuovere elementi antiquati che si fossero infiltrati
nella Liturgia (SC 21), in modo che questa sia sempre semplice, lineare,
chiara, di facile comprensione (cfr SC 34).
L'inculturazione risponde pertanto alle esigenze di
praticità e di pastoralità dei riti al fine di ottenere una piena, attiva,
cosciente, fruttuosa, comunitaria partecipazione dei fedeli alla «liturgia»
(cfr SC 11.14.21). L'inculturazione non ha niente a che fare con
l'“archeologia” liturgica né con l'improvvisazione.
In questo modo la Liturgia, pur essendo nella sua intima
natura sempre la stessa (è infatti partecipazione del sacerdozio eterno di
Cristo [SC 7c] e attuazione dell'unica e irrepetibile opera della nostra
redenzione [cfr SC 2]), è anche soggetta a mutamenti possibili e, a volte,
doverosi. Non si confonda dunque “unità” (necessaria) con “uniformità” (da
evitare).
La Chiesa di Cristo è resa presente e significata, in un
dato luogo e momento, dalle Chiese locali o particolari, che nella liturgia ne manifestano
la vera natura (LG 28).
Per questo ogni Chiesa particolare deve essere in accordo
con la Chiesa universale non soltanto sulla dottrina della fede e sui segni
sacramentali, ma anche sugli usi ricevuti universalmente dall’ininterrotta
tradizione apostolica.[198]
La Liturgia non è azione privata o semplicemente personale,
ma azione pubblica ed eminentemente ecclesiale (la Chiesa, unita a Cristo
Signore, ne è il “soggetto” primario ed essa sola ha competenza per fissare
anche l'“oggetto” della Liturgia, cioè i “riti e le preghiere” [SC
22.1;22;26]). A motivo di questa ecclesialità universale, e tenuto anche conto
dell'importanza dell’ortodossia del culto (secondo il principio lex orandi [statuit] lex credendi),[199]
in questo ambito dell'inculturazione liturgica solo la Gerarchia è competente;
a nessun altro, sia pure sacerdote, è permesso di proprio arbitrio, togliere o
mutare qualcosa nella Liturgia (cfr SC 22), salvo le parti previste come «accomodationes».[200]
Questo servizio di vigilanza e di legislazione liturgica da parte della
Gerarchia è tradizione costante nella Chiesa; essa si estende
all’organizzazione del culto, alla redazione dei testi, allo svolgimento dei
riti.[201]
Per Gerarchia si intende:
a. La Santa Sede: regolare la Liturgia compete unicamente
all'autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica, e, a norma del
Diritto, nel Vescovo (SC 22 § 1); la Santa Sede, tramite la Congregazione per
il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, approva gli adattamenti
ritenuti utili o necessari e presentati dai Vescovi o dalle Conferenze
episcopali; dà facoltà alla competente autorità territoriale di avviare i
necessari esperimenti preliminari (SC 40).[202]
b. Le Conferenze Episcopali: devono preparare le versioni dei libri
liturgici nelle lingue correnti, dopo averle adattate (aptatas) convenientemente entro i limiti definiti negli stessi
libri liturgici, tenuto conto delle necessità pastorali e della promozione di
una vita liturgica tra i fedeli (SC 22 § 2; CIC 447-448 e 838,1 e 3; Vicesimus quintus annus 20). Per la
pubblicazione occorre la previa autorizzazione della Santa Sede.
c. Il Vescovo: è il primo responsabile della
promozione e della esatta applicazione delle norme liturgiche nella propria
diocesi (Cfr SC 22 § 2; 36 §§ 3.4; 40, 1.2; 44-46; CIC 447ss e 838 §§ 1 e 4);
particolare impegno dovrà mettere nella formazione liturgica del clero perché
sia, a sua volta, capace di guidare i fedeli nella comprensione e attuazione
dell'autentico spirito della liturgia (SC 14; PO 5; CIC 838.1 e 4; Vicesimus quintus annus 21).
d. Le commissioni
liturgiche (a livello
diocesano e nazionale) sono l'organo operativo dei Vescovi; dovranno essere
composte di persone veramente competenti, compresi i laici (cfr SC 45; Inter Oecumenici 44); dovranno
preoccuparsi di tradurre, anche mediante sussidi appropriati, l'applicazione
delle norme liturgiche di volta in volta emanate dalla Chiesa universale.
L’inculturazione non è dunque lasciata all’iniziativa
personale dei celebranti, né all’iniziativa collettiva dell’assemblea
Secondo Sacrosanctum Concilium 37-40 sono possibili tre
diversi tipi di adattamento-inculturazione:
5.1: celebrativo-locale [o «antropologico-rituale»]: questo tipo
di “adattamento” si chiama “accomodatio” e spetta al celebrante nell'ambito
dell'assemblea;[203]
è legato alla dimensione didattica e catechetica della liturgia; esso postula
la spiegazione dei riti, l'uso di una lingua comprensibile dall'assemblea
celebrante (cfr SC 33-36), la scelta sapiente delle varie opportunità offerte
dal rito; la “accomodatio” è dunque quell'adattamento degli elementi
celebrativi, già previsti nel Rituale, che il celebrante deve porre in atto
perché questa assemblea diventi autenticamente una “assemblea celebrante”.
Questa “accomodatio” può e deve essere fatta in sintonia con ogni singola
assemblea. In questo caso non si tocca l'ambito “culturale”, ma si rimane solo
nell'ambito “rituale”;
5.2:
antropologico-culturale:
aiuta la liturgia ad entrare in “dialogo” con la cultura (mentalità e tradizioni)
dei singoli popoli (cfr SC 37-39); la Chiesa rispetta e favorisce la cultura
dei vari popoli e talvolta ne ammette alcuni elementi nella stessa «liturgia»
(SC 37); questo tipo di adattamento “culturale” viene chiamato “aptatio”.[204]
E' quel reciproco movimento tra liturgia e cultura per cui: la liturgia
accoglie elementi dalle culture e li introduce nel rito romano o in forma sostitutiva o illustrativa; la cultura dei popoli riceve il rito romano e lo
adatta, nelle sue componenti mutabili, al contesto sociale e culturale di una
determinata comunità cristiana. Lo scopo è: essere autenticamente cristiani
senza cessare di essere anche autenticamente africani, asiatici, ecc.
Questo tipo di adattamento investe la “cultura” dei popoli e
corrisponde a quel che si suol chiamare “adattamento per acculturazione” (=
reciproco interscambio culturale);[205]
Secondo SC 37-39 esige alcune condizioni:
* ciò che non è indissolubilmente legato a superstizioni o a
errori, la Chiesa lo considera con benevolenza, se possibile lo conserva
inalterato, e a volte lo ammette perfino nella Liturgia;
* deve però armonizzarsi con il vero e autentico spirito
liturgico;
* deve essere rispettata “la sostanziale unità del rito
romano” (SC 38);
* queste “aptationes” devono restare entro i limiti indicati
nei Praenotanda dei libri liturgici rinnovati;
* spettano alle Conferenze episcopali e necessitano
dell'approvazione della Santa Sede (SC 39; 22 § 2);
5.3: la “inculturatio”, o
«aptatio per inculturazione»,
cioè “un più profondo adattamento della Liturgia” (SC 40); queste aptationes non sono previste nei
rituali; in questo caso riti sociali o religiosi ricevono un significato
cristiano, senza che per questo siano assoggettati a un cambiamento strutturale
radicale. Si può parlare di una incarnazione in riti-culture e la loro
transignificazione ed assunzione nel rito romano.
In questo caso non si ha solo un adattamento, ma una vera e
propria re-interpretazione di questi segni-riti al momento della loro
assunzione all'interno del rito romano.
Si faccia però attenzione: questo linguaggio non è
riscontrabile alla lettera in SC 40, ma è deducibile sia dal contesto, sia
dagli esperimenti attualmente in atto (cfr il rito “indiano” o il rito
“zairese” della Messa). Questi adattamenti non sono indicati nelle edizioni
tipiche (cf invece le aptationes già previste in SC 37-39), ma devono partire
dall'iniziativa delle singole Conferenze Episcopali.[206]
Si vedano, ad esempio, le ampie possibilità offerte nei Praenotanda al Rito del Matrimonio [Praenotanda n.9 che cita Inter
Oecumenici n.70).
Sia l'adattamento per aptatio
che quello per inculturatio, per
essere legittimi ed efficaci necessitano:
* del controllo della Conferenza Episcopale territoriale;
* di un'ampia sperimentazione;
* dell'approvazione della Santa Sede;
* della cooperazione di diversi esperti (teologi, liturgici,
pastoralisti, linguisti, ecc., cfr SC 40,3 e SC 23: accurata investigazione
teologica, storica, pastorale).
* Redemptoris missio
aggiunge anche un'altra attenzione: «l'inculturazione deve coinvolgere tutto il
popolo di Dio, non solo alcuni esperti»(RMi 54).[207].
* per quanto attiene a SC 40 si vedano le indicazioni di La liturgia romana e l'inculturazione
nn.63.69.
Sarebbe un grave errore metodologico extrapolare alcuni
numeri di SC senza leggerli nel contesto e nell'insieme di tutta la “mens”
presente nella Costituzione liturgica. I numeri riguardanti più direttamente
l'adattamento liturgico (SC 37-40) vanno letti in sintonia con:
6.1. SC 23: tradizione e progresso.
* ogni adattamento deve essere preceduto da un'accurata
investigazione teologica, storica, pastorale;
* sia rispettato lo spirito della liturgia;
* si tenga conto delle esperienze di inculturazione attuate
altrove;
* si introducano innovazioni solo se richieste da vera e
accertata utilità della Chiesa;
* le nuove forme scaturiscano quasi in maniera organica da
quelle già esistenti;
* i riti risplendano per nobile semplicità;
* siano chiari nella loro brevità e senza inutili
ripetizioni;
*
siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli né abbiano bisogno,
generalmente, di molte spiegazioni.
Giovanni Paolo II, parlando ai Vescovi dell'India, mentre da
una parte sollecitava una efficace opera di “inculturazione” dall'altra
indicava con fermezza e chiarezza anche i “limiti” del processo di
“inculturazione liturgica” e diceva:
“Qui sono necessari
ulteriore riflessione e studio. Qui è anche importante che la verifica
dottrinale e la preparazione pastorale dei fedeli debbano sempre precedere
l'applicazione di norme liturgiche...La preferenza di individui e gruppi deve
essere subordinata ai requisiti di unità ecclesiale nel culto”[in Regno Documenti 5(1986)131].
Per una concreta gradualità di adattamento si suggerisce:
a. Tradurre le attuali “edizioni tipiche” (compresi i segni
e i simboli) nella lingua e nella cultura del popolo. Già in questa fase di
traduzione si potrà fare ricorso ai modelli di pensiero e di linguaggio di un
popolo, ai valori di vita e alle espressioni linguistiche contemporanee,
mediante l'assunzione di espressioni dinamiche equivalenti.[208]
b. Porre in atto con sufficiente flessibilità le
“aptationes” previste dalle edizioni tipiche latine; si avvia un processo di «creatività»
per cui più facilmente “le nuove forme”, frutto della creatività liturgica di
un popolo, “scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già
esistenti” (SC 23);
c. Partire dalla religiosità popolare, in quanto è parte e
porzione della cultura religiosa di un popolo, per eventuali adattamenti o
incorporazioni nella liturgia di elementi linguistici e rituali;
d. Formare, anche liturgicamente, personale specializzato
per quest'opera. Ai liturgisti dovranno essere affiancati anche esperti in
scienze moderne (antropologia, sociologia, linguistica, musica, arte), oltre ai
teologi e pastoralisti.
Introduzione.
Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Liturgia,
ha fornito i principi e le norme per adattare la Liturgia all'indole e alle
tradizioni dei vari popoli (SC 37-40) poiché nutre stima e rispetto per gli
autentici valori e ricchezze presenti nelle culture dei popoli.
Con l'inculturazione non si intende creare una nuova liturgia,
ma piuttosto far sì che la Liturgia possa esprimersi più chiaramente nel
linguaggio, nella mentalità e nella vita delle singole Chiese locali,
rispettando la sostanziale unità della fede e nella profonda comunione di
carità che deve unire le Chiese nell'unità.
Si deve ammettere che, nel corso dei secoli, è avvenuto un
certo allontanamento della liturgia dal popolo, e del popolo dalla liturgia.
Soprattutto c'è stata una certa dicotomia tra liturgia e religiosità popolare
(quest'ultima è diventata la liturgia del popolo).
Tale dicotomia ha provocato:
* nella liturgia: la distanza dal popolo; una celebrazione
fredda, ritualista, avulsa dalla vita; poco attenta ai fenomeni culturali e
storici delle comunità;
* nella religiosità popolare: una povertà tematica e
dottrinale e un debole senso di ecclesialità.
La salvaguardia di una liturgia “universale” non può essere
a discapito di una liturgia “particolare”. Si dovranno ricercare tutte le forme
possibili di adattamento previste dal Concilio, facendo anche ricorso a forme
di “inculturazione” più profonda come indicato da SC 40.
In questo delicato processo di inculturazione si richiede:
* non andare mai contro le indicazione della Chiesa
universale (le norme liturgiche già prevedono spazi che devono essere sfruttati
con intelligenza);
* l'adattamento deve essere affidato a persone veramente
competenti ed entrare in vigore solo dopo l'approvazione della Santa Sede (non
ci si può affidare ad improvvisazioni);
* si dovrà prestare particolare attenzione a realizzare una
feconda fusione tra liturgia ed espressione popolare; a utilizzare tutti i
moderni strumenti di comunicazione; salva l'unità sostanziale del rito romano,
si dovrà entrare soprattutto dentro le culture autoctone con prudenza ma anche
con audacia; purificarle dal fatalismo e dalla alienazione per renderle
autenticamente espressive e comunicative della fede semplice ed umile del
popolo cristiano.
Sono
essenzialmente criteri: di fede, liturgici, ecclesiologici, antropologici.
Non può essere oggetto di adattamento ciò che di per sé è
legato a superstizioni o a errori (cfr SC 37). Nel rispetto del contenuto della
fede, si segua la dinamica dell'incarnazione che prevede fedeltà a Dio e
fedeltà all’uomo. Una liturgia inculturata dovrà:
* celebrare la presenza pasquale del Signore in mezzo al suo
popolo;
* proiettare quest'uomo verso il Regno futuro nell'attesa
del Signore che viene;
* rispettare il ruolo della Parola che interpreta i segni
dei tempi;
* rispettare le persone e i popoli che giustamente
desiderano assumersi la responsabilità della realizzazione del proprio destino.
L'inculturazione deve avvenire nel rispetto della fede e nel
rispetto dell'uomo credente.
Secondo SC 37, tutto ciò che nei costumi dei popoli non è
legato a superstizione o a errore e si armonizza con il vero e autentico
spirito liturgico: * la Chiesa lo prende in considerazione; * lo conserva; * a
volte lo ammette nella liturgia stessa.
Si dovrà tener conto che nella liturgia ci sono elementi
immutabili ed altri che possono e debbono variare nel tempo (SC 21); inoltre
non si deve dimenticare che la liturgia per sua natura è: * manifestazione del
mistero; * dialogo di Dio con il suo popolo; * incontro con il Signore risorto;
* manifestazione della fede ed espressione della vita di un popolo credente.
Si dovrà evitare, nella liturgia, sia una riduzione di tipo
“didascalico” (semplice insegnamento) sia di tipo “ludico” (una festa che
diverte, espressione del folklore). Vi dovrà essere sempre integrazione fra
fede e vita.
Dovrà anche essere rispettata “l'unità sostanziale del rito
romano” (SC 38) e procedere solo se lo richiede una utilità vera e sicura della
Chiesa particolare (SC 23).
“La natura della liturgia è intimamente legata alla natura
della Chiesa, al punto che è soprattutto nella liturgia che si manifesta la
natura della Chiesa”.[210]
La natura di questa «ekklesìa» sta in questo:
* «ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e
divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita
alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in
modo che ciò che in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il
visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla
futura città verso la quale siamo incamminati (cf Eb 13,14)» (SC 2)
* è la santa convocazione
di Dio nello Spirito, che si nutre alla duplice mensa della parola e
dell'Eucaristia, unico Corpo del Signore Risorto;
* è cattolica
perché oltrepassa le barriere che separano gli uomini;
* è pellegrina
perché nei suoi sacramenti porta l'impronta del tempo presente pur essendo tesa
verso la manifestazione del Signore Gesù (cf Tt 2,13; LG 48; SC 2 e 8) su
questa terra.
Pertanto, ogni forma di adattamento:
* deve avvenire nel rispetto dell'unità e della continuità
tra Chiesa universale e Chiesa particolare; non si può procedere a innovazioni
che possano danneggiare l'unità e il bene della Chiesa (SC 37); l'accordo tra
Chiesa universale e Chiesa particolare deve avvenire non solo sulla dottrina
della fede e sui segni sacramentali, ma anche sugli usi ricevuti universalmente
dall'ininterrotta tradizione apostolica;[211]
* deve rinnovare e rafforzare la natura missionaria del
popolo di Dio nella sua azione di salvezza nel mondo.
* deve lasciare aperta la partecipazione alla liturgia della
Chiesa universale (la “particolarità” di una comunità non può avvenire in
discapito della sua “universalità”).
* «le Chiese particolari di un determinato territorio
dovranno operare in comunione fra di loro e con tutta la Chiesa» (RMi 54; cf AG
22).
L'inculturazione deve avvenire nel massimo rispetto delle
culture che caratterizzano i gruppi umani, ed in particolare:
* promuovere un progresso di mutua integrazione tra liturgia
e religiosità popolare;
* rispettare il senso della festa presente nei vari gruppi
umani;
* utilizzare pienamente le possibilità di linguaggio e di comunicazione
(segni, simboli, immagini, ecc.) avendo tuttavia l’accortezza di far precedere
ogni adattamento, oltre che da una indagine teologica, anche da una seria
investigazione antropologica, storica, pastorale (SC 23.37).
a. Formazione dei ministri nell'arte di presiedere e animare
la liturgia;
b. Formazione dei diaconi permanenti, dei laici, soprattutto
nei casi in cui queste persone devono presiedere liturgie domenicali senza
presbitero;
c. Si eviti ogni forma di monopolio indebito (SC 28-31)
nella gestione dell'azione liturgica;
d. Si promuovano sessioni di studio e di formazione per
tutti questi operatori e si producano sussidi adatti per la conoscenza dei
santi segni e per una loro adeguata traduzione catechetico-liturgica nelle
assemblee;
e. Si dia ampia conoscenza dei “Praenotanda” ai vari rituali;
f. Si curi la formazione
liturgica nei seminari e nei noviziati (SC 15-20).
Sarebbe quanto mai fuori luogo mirare aforme di
inculturazione più impegnative e profonde quando poi si dovessero trascurare
quegli adattamenti che si possono e si devono fare secondo le indicazioni già
presenti nei vari Ordines, e che si
chiamano accomodationes.
In particolare si faccia attenzione:
a. all'assemblea: curare il senso festivo della
celebrazione; utilizzare tutti gli elementi previsti per una adeguata
animazione liturgica in favore di una assemblea orante e celebrante (monizioni,
canti, didascalie, sussidi liturgici, ecc.);
b. ai testi: sia quelli eucologici (il Messale con
le orazioni presidenziali), sia a quelli biblici (Lezionario e ordinamento
delle letture); utilizzare le indicazioni offerte dalla Santa Sede per la
traduzione dei testi (25 gennaio 1969: Lettera Comme le prévoit[212]
del “Consilium”); pronunciare i testi con tono adeguato; adattare qualche
espressione particolarmente difficile;[213]
c. al canto e ai
gesti-atteggiamenti: è
indispensabile l'efficacia di canti e musiche adeguate alle varie celebrazioni;
i gesti e gli atteggiamenti possono essere anche quelli tipici della
religiosità popolare; gli strumenti musicali quelli della cultura locale.[214]
d. all'arte: aiuta i fedeli a celebrare, ad
incontrare Dio, a pregare; concorre alla bellezza degli edifici e dei riti
conferendo l'onore ad essi dovuto; un'arte applicata non solo agli oggetti
necessari per il culto, ma anche alle immagini.[215]
Non sempre è necessario o conveniente che tutte le assemblee
liturgiche si esprimano con la celebrazione dell'Eucaristia: questa deve essere
il culmine e la fonte dell'espressione della fede di una comunità (SC 10). Sarà
opportuno quindi prevedere se non convenga, in certi casi, la sola celebrazione
della Parola (lettura, omelia, canti, preghiera dei fedeli); in alcuni casi ciò
è espressamente previsto (cf Rito del Matrimonio n. 9; Inter Oecumenici 70).
L'impronta “pastorale” del Vaticano II ha influito in
maniera sostanziale anche sulla riforma liturgica, soprattutto per quanto
riguarda l'adattamento alle diverse culture.[217]
Uno degli obiettivi primari da raggiungere era quello di una
partecipazione attiva, piena consapevole, fruttuosa dei fedeli (cfr SC 14);
questo comportava: un abbandono della rigida uniformità a favore di una
diversità di espressioni nell’unità sostanziale del rito romano (cfr SC 38), la
composizione armonica tra tradizione e progresso (cfr SC 23), una doverosa
attenzione alle culture dei popoli (cfr SC 37-40).
Lo stesso Concilio, pertanto, volle indicare delle Norme per adattare la liturgia romana
all’indole e alle tradizioni dei differenti popoli. Nei nuovi libri liturgici
riformati dal Concilio ci si limitò ad offrire la struttura rituale
fondamentale del rito romano, lasciando volutamente alle singole Chiese locali
l'opera di un vero e proprio adattamento, fino a prevedere, in certi casi,
soprattutto nelle Missioni, degli adattamenti più profondi (SC 40).
Sia nei “Praenotanda”
(le norme teologico-pastorali che introducono i nuovi libri liturgici), sia
negli “Ordines” (i riti, le
preghiere, le rubriche), vennero indicati gli spazi per le “accomodationes” (spettanti al ministro)
e per le “aptationes” (spettanti alle
Conferenze Episcopali). In genere occupano rispettivamente i capitoli IV e V
dei Praenotanda.
Lasciando per il momento da parte le “accomodationes” di spettanza del ministro, ci occuperemo qui delle
“aptationes” di compentenza delle
Conferenze Episcopali dal momento che solo questi adattamenti rivestono un
carattere “culturale” e coinvolgono il processo di “inculturazione”.
Tutto questo sulla base di quanto indicato da Sacrosanctum
Concilium 63b:
“Sulla nuova edizione
del Rituale romano, la competente autorità ecclesiastica territoriale...prepari
al più presto i Rituali particolari adattati alle necessità delle singole
regioni, anche per quanto riguarda la lingua; questi Rituali saranno usati
nelle rispettive regioni dopo la revisione da parte della Sede Apostolica”.
(per il Rito del Matrimonio cfr anche SC 77).
Resta ugualmente ben inteso che le competenze di cui tratteremo
qui di seguito non riguardano quelle “aptationes”
più profonde e più difficili indicate da SC 40 (la possibilità di adattamenti
all’interno dello stesso Rito romano, non quindi alternativi ad esso, che vanno
ben al di là della editio tipica
attuale).[218]
Si
tratta di creare liturgie non “standardizzate”, ma adatte ad ogni singola
assemblea, in un determinato ambiente ed in una specifica cultura. Spettano
alle Conferenze Episcopali e necessitano dell'approvazione della Santa Sede
(cfr SC 37-40; 63b).
E' stato il primo Ordo
ad essere pubblicato (1969). Per il nostro argomento è anche il Rituale che
offre maggiori possibilità sia per la aptatio
fatta in forma di “acculturazione” (“De
Ritualibus particularibus parandis”, nn. 12-16: offre la possibilità di
assumere nell'attuale Rito romano elementi profani o religiosi provenienti da
altre culture capaci di esprimere il mistero cristiano), sia per la aptatio fatta in forma di “inculturazione”
(“De facultate exarandi ritum proprium”,
nn.17-18: cioè l'assunzione di elementi rituali esterni che modificano il Rito
romano attuale sfociando in una creatività vera e propria che produce una
realtà nuova rispetto all'attuale Rito romano, salva sempre l’unità sostanziale
indicata in soli due elementi: richiesta e ricezione del consenso, benedizione
nuziale.[219]
Come è detto nel Proemium
alla IGMR, già l'introduzione della lingua viva (nn.12-13), la recezione sacramentale
dell'Eucaristia (n.13) compresa la forma sotto le due specie (n. 14), l'obbligo
dell'omelia nelle domeniche e la possibilità di introdurre monizioni durante la
celebrazione (n. 13) sono elementi che, mentre si conserva ciò che è antico,
permettono pure di assolve il dovere di esaminare e adottare con prudenza ciò
che è nuovo (cfr Mt 13,52; 1 Ts 5,21).
Tutto questo avviene poi in vista di una partecipazione
vitale dell'assemblea la quale diventa così “soggetto globale celebrante” non
soltanto attraverso e per mezzo del sacerdote, ma “insieme con lui” (SC 48) pur
nella salvaguardia dei rispettivi ruoli (SC 28; IGMR 58).
E' possibile offrire un esempio concreto di possibili aptationes esaminando la seconda
edizione del Messale Romano in lingua italiana (ed. CEI, 1985):
* si offrono testi più rispondenti al linguaggio e alla
cultura delle nostre comunità;
* si stabilisce un collegamento tra le nuove Collette e la
Parola proclamata;
* sono stati composti nuovi prefazi per sottolineare il
rapporto tra Eucaristia e riti sacramentali;
* sono state composte o adottate nuove Preci eucaristiche;
* viene offerta una scelta più ampia di Orazioni (Collette,
sulle offerte, dopo la Comunione);
* sono state aggiunte nuove antifone alla Comunione, in
sintonia col Vangelo proclamato;
* è stata premessa una “notizia storica” alle singole
memorie o feste anche in vista di una migliore puntualizzazione omiletica e
didascalica delle singole celebrazioni;
* sono state composte ed inserite apposite melodie per il
canto del celebrante e dei fedeli.
Questo nuovo testo del Messale romano è dunque più che una
“traduzione” in lingua italiana del testo tipico latino; è da considerare
piuttosto una “edizione italiana” del Messale romano dove si è cercato di
attuare tutte le possibilità di “aptatio”
previste dalla IGMR capp. VII.VIII.).
Questo nuovo Rituale comprende una “Introduzione generale
all'Iniziazione cristiana” (nn. 1-35) e “L'Iniziazione cristiana degli adulti”
(nn. 1-67). Ciascuna di queste due parti prevede elementi propri di
“adattamento”.
Il cap. IV., nn. 30-33, è dedicato agli “Adattamenti di
competenza delle Conferenze Episcopali”. Si richiama SC 63b sulla competenza
delle Conferenze Episcopali di preparare Rituali particolari che tengano conto
delle esigenze delle singole regioni, da sottoporre all'approvazione della
Santa Sede.
Tutto questo in attuazione delle possibilità indicate da SC
39. In pratica si dice:
* valutare con attenzione e prudenza gli elementi che
possono essere opportunamente accolti dalle tradizioni e dall'indole dei
singoli popoli (n. 30,2);
* conservare gli elementi propri dei Rituali particolari già
esistenti (n. 30,3);
* preparare le versioni dei testi secondo il carattere delle
varie lingue e culture, aggiungendo le melodie adatte al canto (n.30,4; cfr
l'apposita Istruzione per la traduzione dei testi liturgici[220]);
* adattare e completare l'introduzione che si ha nel Rituale
Romano in modo che i ministri comprendano pienamente e traducano in realtà il
significato dei riti (n. 30,5);
* ordinare la materia nella forma che sembrerà più adatta
all'uso pastorale (n. 30,6);
* nelle terre di missione, giudicare se gli elementi
dell'iniziazione in uso presso alcuni popoli possono essere adattati al rito
del Battesimo cristiano e decidere se si debbono accogliere in esso (n. 31);
* aggiungere altre formule simili quando il Rito già ne
prevede alcune a scelta (n. 32);
* sollecitare esperti musicisti perché arricchiscano di
melodie i testi liturgici che sono ritenuti degni di essere cantati dai fedeli
(n. 33).
Oltre alle “aptationes” già indicate sopra per l'iniziazione
cristiana in genere (nn.30-33), per l'Iniziazione cristiana degli adulti sono
indicate ulteriori “aptationes”:
* istituire particolari modalità di accoglienza per i
“simpatizzanti” (n. 65,1);
* inserire particolari esorcismi e forme di rinuncia (n.
65,2);
* stabilire le modalità delle unzioni, del nome nuovo, del
colore delle vesti liturgiche (n. 65,3.4.);
* possibilità di aggiungere riti supplementari di
accoglienza e di “passaggio” (es. traditio, redditio, effetà).
I Vescovi, a loro volta, possono procedere ad ulteriori
“accomodamenti” nell'ambito del loro territorio (n. 66).
Di particolare interesse è pure il cap. VII dedicato alle
«accomodationes» che competono al ministro dove, tra l'altro, si dice: «Massima
libertà è stata lasciata nelle monizioni e nelle intenzioni di preghiera, che,
secondo le circostanze, si possono sempre abbreviare o cambiare o arricchire,
perché siano corrispondenti alla particolare condizione sia dei candidati, sia
dei presenti (n.67).
Fin dalle Premesse generali n. 2, si tiene conto
dell'adattamento:
“Nel celebrare le
esequie dei loro fratelli, i cristiani intendono affermare senza reticenze la
loro speranza nella vita eterna; non possono però né ignorare né disattendere
eventuali diversità di concezioni o di comportamento da parte degli uomini del
loro tempo o del loro paese.
Si tratti quindi di
tradizioni familiari, di consuetudini locali o di onoranze funebri organizzate,
accolgano volentieri quanto vi riscontrano di buono; se poi qualche particolare
risultasse in contrasto con i princìpi cristiani, cerchino di trasformarlo, in
modo che le esequie celebrate per i cristiani esprimano la fede pasquale e
dimostrino uno spirito in piena linea con il Vangelo” (OE 2).
Anche qui, ai nn.21-22, vengono proposte in quale linea
devono procedere le “aptationes” spettanti alla Conferenza Episcopale.
Oltre a quelle comuni già indicate sopra per l'OICA, qui
nell'OE ne notiamo alcune specifiche:
* stabilire se i laici possano presiedere il Rito delle
esequie (n. 22,4);
* armonizzare la liturgia funebre nell'insieme della vita
liturgica parrocchiale e dell'attività pastorale (n. 25,4);
* soprattutto i sacerdoti ricordino che sono “ministri del
Vangelo, e lo sono per tutti” (n.18); essi sono anche “educatori della fede e
ministri del conforto cristiano” (n.16); “le loro parole siano di sollievo al
cristiano che crede, senza urtare l'uomo che piange” (n.17).
Come si può vedere, l'OE fornisce non solo delle indicazioni
per “aptationes” di tipo “culturale”, ma offre anche importanti considerazioni
per “aptationes” di tipo “antropologico” che non sono meno importanti delle
precedenti.
Soprattutto si fa intendere che questi adattamenti devono
rientrare in un progetto “pastorale” dove tutta la comunità è coinvolta.
Negli altri Ordines
(Confermazione, Penitenza, Unzione, Ordine) troviamo in sostanza le stesse
forme di aptatio per cui non è
necessario qui dilungarci oltre nelle singole analisi.
Si possono invece indicare alcune riflessioni conclusive e
globali.
2.1. Il processo di “adattamento” (aptationes), pur spettando alle Conferenze Episcopali, tuttavia
esige ormai il coinvolgimento della “comunità credente e celebrante”. E' stato
sperimentato che le riforme imposte dall'alto ricevono un lento e difficile
accoglimento; devono in qualche modo essere il frutto di un processo di
crescita e di maturazione nella fede che coinvolge, oltre ai Pastori, l'intera
comunità. Non si richiede fretta, ma una certa gradualità è forse necessaria,
almeno all'inizio.[221]
2.2. L'adattamento richiede anche celebrazioni diversificate
nella forma e negli elementi che ne costituiscono la struttura.
Ora, in ogni Rituale vi sono sempre possibilità alternative,
che suppongono una disponibilità e capacità di “adattamento” a: tempi, luoghi,
persone, situazioni pastorali. Si pensi alle varie possibilità già indicate nel
Direttorio per le Messe con i fanciulli, là dove ci si deve interrogare: Dove?
Quando? Come? Chi? Quali strumenti, musica, gesti, segni, luoghi?[222]
2.3. Di fatto il processo di adattamento, secondo i Praenotanda dei vari Ordines, si può riassumere attorno a
questi verbi:
* aggiungere: formule simili a quelle già riportate dal
Rituale (là dove si trova “oppure”: cf OICA 32);
* sostituire: con formule già presenti nel Rituale;
* adattare/completare: le formule eucologiche, i Praenotanda, le parti del Rito;
* ristrutturare: i gesti, le parti, ecc.
* assumere nella liturgia i vari elementi presi dalle
tradizioni dei popoli (OICA, Introduzione generale 31).
2.4. Occorre distinguere tra:
* riforma liturgica: è quel movimento che ha per oggetto i
riti-parole;
* rinnovamento liturgico: è quel movimento che ha per
oggetto le “persone” (mutare le “teste” più che i “testi”); una riforma senza
il rinnovamento, difficilmente può raggiungere lo scopo desiderato;
* aggiornamento liturgico: è la forma più superficiale di
tutto questo processo che rassomiglia più ad una verniciatura superficiale, che
ad una profonda conversione di mentalità nel modo di celebrare i santi misteri.
2.5. L'anima dell'adattamento è lo Spirito Santo (cfr PO
22b). E' lui che conduce alla verità tutta intera e quindi dona la capacità di
interpretare la realtà umana nelle sue varie manifestazioni. E' lui che rende
possibile alla Chiesa la decifrazione dei “segni dei tempi” (cfr GS 4a) per
meglio essere “luce delle genti”.
2.6. Il movente dell'adattamento è “teologico”: continua la
missione del Verbo fatto carne, nel tempo e nello spazio. Per la Chiesa è
criterio di credibilità, nel senso che dimostra la presenza del Risorto nella
sua Chiesa fino alla fine dei tempi. Cristo non si è fermato alla cultura di
2000 anni fa, ma si incontra, parla, salva nel suo contesto ogni uomo di ogni
tempo.
Proprio per questo si può dire che l'adattamento è un atto
di fedeltà: a Dio e all'uomo.
PARTE VIII
Tra adattamento e creatività vi sono stretti rapporti ma
anche distinzione, come ben specificato nella Institutio Generalis Missalis
Romani [IGMR] n. 11: «Spetta ugualmente
al sacerdote, nel suo ufficio di presidente dell'assemblea radunata, proferire
le monizioni e le formule di introduzione e di conclusione previste nel rito.
Per loro natura queste monizioni non richiedono di essere pronunziate alla
lettera, nella formulazione presentata nel Messale; per cui potrà essere
opportuno l'adattarle in qualche modo, almeno in alcuni casi, alle reali
condizioni della comunità.
Così pure spetta al
sacerdote che presiede annunziare la parola di Dio e impartire la benedizione
finale. Egli può inoltre intervenire con brevissime parole, prima di dar inizio
alla celebrazione, per introdurre i fedeli alla Messa del giorno; alla liturgia
della Parola, prima delle letture; alla Preghiera eucaristica, prima di
iniziare il prefazio; prima del congedo, a conclusione dell'intera azione sacra» (IGMR 11).[224]
Secondo il testo sopra citato, per adattamento (accomodationes) si intende: mettere in atto,
da parte del ministro che presiede, le varie possibilità di scelta già previste
nel rito secondo le esigenze spirituali di una determinata assemblea;[225]
altre volte si tratta di adattare alcune monizioni già previste [si tratta qui
di «monizioni», non di formule «eucologiche»[226]]
o crearne delle nuove, alternative a quelle proposte, restando tuttavia nello
stesso genere letterario.[227]
Si dà poi allo stesso ministro che presiede la possibilità
di «creare» monizioni che non esistono nel Rito: in questo caso egli deve
mediare sapientemente l'incontro tra il mistero di Cristo e la situazione umana
e cristiana di questa assemblea celebrante.[228]
Di questa creatività liturgica vedremo: i presupposti, le esigenze, le prospettive pastorali.
1.1. La Liturgia è sempre celebrazione di una realtà
donata-offerta (“fate questo come
memoriale di me”: 1 Cor 11,24.25; Lc 22,19); ha un punto di partenza
oggettivo; non è semplice creazione o improvvisazione; non viene dall'uomo, ma
è consegna di Cristo Signore; non celebra le mie idee, ma una Historia salutis;[229]
è il Padre che sceglie i suoi adoratori nello Spirito Santo e nella Verità che
è Cristo (cf Gv 4,22-24); la vera novità non consiste anzitutto nel cambiare
sempre tutto e ad ogni costo [il contrario è conservare ad ogni costo anche ciò
che la Chiesa desidera cambiare-aggiornare], ma sperimentare ogni volta il dono
nuovo che Cristo fa alla sua Chiesa del suo mistero pasquale; la liturgia è
infine «presenza» del Risorto in mezzo al suo popolo convocato (SC 7).
1.2. La liturgia assume e
trasforma il dato umano: rientra nella legge sacramentale dell'incarnazione
(niente è redento se non è assunto: S. Atanasio, citato in AG 3, nota 15); il
segno non è più soltanto «umano», ma espressione del divino-invisibile; questo
vale anche per il segno-parola; tuttavia: mentre gli elementi mutabili della
liturgia possono o debbono essere purificati-adattati, ciò non può valere per
gli elementi immutabili che sono vincolati alla istituzione divina (cf SC 21).
1.3. La creatività è docilità al Creator Spiritus al quale devono aprire il cuore e la mente sia il
celebrante sia i fedeli all'interno della comunione ecclesiale.
2.1. Esige una assunzione «critica» degli elementi
socio-culturali (SC 37-38: siano compatibili con la liturgia e con il mistero
celebrato);
2.2. Esige il rispetto-armonia tra le esigenze della
«universalità» e della «particolarità» (ogni liturgia locale-particolare è
valida solo se è epifanìa e attuazione della fede-mistero della Chiesa
Una-Santa-Cattolica); la fedeltà agli aspetti normativi e disciplinari della
liturgia è condizione essenziale perché la creatività non diventi anarchia (cf
SC 23.3); tuttavia unità non deve significare uniformità (cf SC 21.23.37);
2.3. Esige il rispetto e il coinvolgimento dell'assemblea
celebrante:
* IGMR 5: si deve avere la massima cura nello scegliere e
nel disporre quelle forme e quegli elementi che la Chiesa propone e che,
considerate le circostanze di persone e di luoghi, possono favorire la
partecipazione attiva e piena e rispondere più adeguatamente al bene dei
fedeli;[230]
* IGMR 11: nel proferire...nell'adattare...nel creare... si
tenga conto delle reali condizioni della comunità (cf IGMR 313);
* IGMR 73: ogni celebrazione deve essere preparata di comune
intesa fra tutti gli interessati, sentito anche il parere dei fedeli per quelle
parti che li riguardano direttamente;
* IGMR 313: nel preparare la Messa, il sacerdote tenga
presente più il bene spirituale comune dell'assemblea che non il proprio gusto.
Nella scelta delle parti non siano esclusi i fedeli in ciò che li riguarda;
*IGMR 316: il sacerdote si preoccupi anzitutto del bene
spirituale dei fedeli, evitando di imporre i propri gusti;
* IGMR 341: i sacerdoti sono ministri del Vangelo di Cristo,
e lo sono per tutti.
E' dunque il caso di ripetere che la creatività liturgica
non ha niente a che fare con l'improvvisazione; pertanto richiede sia una
preparazione remota (studio della
liturgia, conoscenza dei libri liturgici e delle possibilità di
scelta-creatività ivi contenute), sia una preparazione prossima (preghiera,
meditazione, composizione preferibilmente scritta dei testi creati da proferire
durante la celebrazione).
3.1. Ogni celebrazione è un «evento» di salvezza che deve
coinvolgere «qui-ora» una comunità celebrante. Ogni celebrazione va
«personalizzata», va «animata», va vitalizzata nei riti-gesti-parole se vuol
essere evento di salvezza ed espressione della fede di coloro che vi
partecipano. In altre parole, si richiede: decollare dalla ripetitività
meccanica, dal generico, dall'ovvio, dal banale.[231]
3.2. Richiede l'uso intelligente dei testi e dei riti:
conoscerne tutte le potenzialità e le varianti; veri mediatori tra il libro e
l'assemblea, tra l'universale e il particolare; in sintonia con l'ambiente
culturale-sociale in cui si celebra [quale omelia? quale preghiera dei fedeli?
Quale prefazio? quale prece eucaristica?].
3.3. Richiede una «sintonia» tra celebrante e comunità:
nell'uso di un linguaggio che, senza tradire il contenuto del mistero, non
scavalchi neppure la persona cui è rivolto; il rito è per l'uomo;
3.4. Richiede apertura a tutti i ministeri possibili e
necessari:
* SC 28: ognuno faccia tutto e solo ciò che è di sua
competenza;
* IGMR 58: l'ordinamento della celebrazione deve manifestare
la Chiesa costituita nei suoi diversi ordini e ministeri;
* IGMR 65-68: sono previsti alcuni ministeri [accolito,
lettore, salmista, ministri straordinari della Comunione, commentatore,
accoglienza, offerte];
* IGMR 71: se sono presenti più persone che possono
esercitare lo stesso ministero, nulla vieta che se ne distribuiscano tra loro
le varie parti e ciascuno svolga la sua.
3.5. Il ministro celebrante e l'assemblea devono essere
«soggetti interpretativi» e non solo esecutivi [un direttore non può fare a
meno dell'orchestra per interpretare la forma musicale preesistente]; restando
tuttavia servi e non facendosi padroni del mistero celebrato.
3.6. Non ci si illuda che bastino da soli i nuovi riti a
plasmare una comunità credente-celebrante; è vero piuttosto il contrario: una
comunità credente-celebrante sarà capace di dare vitalità anche ai riti nella
loro semplicità e povertà;
3.7. Alla ricerca di forme celebrative alternative in
rapporto alle esigenze pastorali e alla domanda-risposta dei singoli o
dell'assemblea; si dovrà dunque discernere: i diversi livelli di fede; se non
convenga una celebrazione di tipo «catecumenale» (solo la liturgia della
Parola) al posto dell'Eucaristia;[232]
sempre la Messa o anche la Liturgia delle Ore?
3.8. Una celebrazione che sia epifania del mistero:
attuazione dell'evento pasquale mediante i segni sensibili-sacramentali;
ingresso nella comunione trinitaria, partecipi della natura divina; nel dono
dello Spirito che «divinizza» (theosis)
diventare un solo corpo e un solo spirito con Cristo e sacrificio
spirituale-vivente gradito al Padre;[233]
3.9. Una sapiente regia nel rispetto dei ritmi celebrativi:
equilibrio tra liturgia della Parola e liturgia Eucaristia, tra parola e
silenzio, tra parlato, cantato e silenzio; non tutto, tutte le volte; attenti
anche al «dopo» della celebrazione: «quanto si è ricevuto nella fede, deve
essere espresso nella vita» (SC 10); dalla Messa alla Missione; dalla agàpe
(cena) alla agapê (carità).
Già Paolo VI in Evangelii nuntiandi 48 parlava del
fenomeno molto diffuso della religiosità popolare[235]
intesa come ricerca di Dio e della fede: fenomeno che deve essere oggetto di
attenzione e di riscoperta. Accanto ai limiti che essa può avere, non manca
tuttavia di valori da recuperare, soprattutto se ben orientata:
“Essa
manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere;
rende capaci di generosità e di sacrificio fino all'eroismo, quando si tratta
di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di
Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera
atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado:
pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli
altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri
«pietà popolare», cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità” (EN
48).[236]
Guardare alla
religiosità popolare con carità pastorale nel contesto dell'adattamento
liturgico significa ed esige:
a. accettazione. Occorre
avvicinarsi alla religiosità popolare senza pre-comprensioni negative o di
sfiducia. La stessa costituzione liturgica suggerisce di rispettare e favorire
le qualità e le doti d'animo delle varie razze e dei vari popoli, di
considerare queste realtà con benevolenza e, se possibile, ammetterle perfino
nella Liturgia qualora possano armonizzarsi con il vero e autentico spirito
liturgico (cf SC 37; cf anche SC 40 e 13; ma anche LG 66-67; AG 9.22; GS
42.44).
b. autenticazione. Per essere
accettata a pieno titolo nella liturgia, la religiosità popolare necessita di
autenticazione, cioè di un riconoscimento pieno e convinto della sua
originalità e qualità. Evangelii
nuntiandi dice che occorre esservi sensibili e invita a «cogliere le sue
dimensioni interiori e i suoi valori innegabili» (EN 48).
c. interpretazione. La fenomenologia
della religiosità popolare è piuttosto complessa e di non facile lettura; è
tuttavia innegabile che la presenza di valori profondi in essa potrà costituire
ancora oggi, come nel passato, un humus fecondo per la seminagione evangelica.
d. valorizzazione. Si tratta di
attuare quella «pedagogia di evangelizzazione» di cui parlava Paolo VI,
utilizzando al meglio la ricchezza di valori presenti nella religiosità
popolare: il senso della festa e della coralità, il senso delle realtà create e
della Provvidenza, il senso della croce, il senso della presenza amorosa e
paterna di Dio, il senso della generosità e dell'altruismo.[237].
«L'evangelizzazione perde molto della sua forza e della sua efficacia se non
tiene in considerazione il popolo concreto al quale si rivolge, se non utilizza
la sua lingua, i suoi segni e simboli, se non risponde ai problemi da esso
posti, se non interessa la sua vita reale» (EN 63). Nel processo di adattamento
liturgico si dovrà dunque valorizzare il «carisma» della religiosità popolare
quale veicolo eccezionale per la trasmissione del messaggio evangelico, per
l'approfondimento della fede, per la promozione della vita religiosa, per la
partecipazione anche affettiva dei fedeli alla liturgia.
e. purificazione. Soprattutto nelle
sue manifestazioni più arcaiche, è difficile trovare una religiosità popolare
allo stato puro; è spesso intrisa di folklore, di elementi superstiziosi e
magici che necessitano di essere interiorizzati (contro la loro tendenza alla
esteriorità), liberalizzati (contro il do ut des o ricatto religioso),
riequilibrati cristologicamente e trinitariamente (contro la tendenza a fare
dei santi e della Vergine la mediazione pressoché unica delle grazie),
stilizzati (contro l'eccessiva proliferazione del miracoloso e del fenomenico).
f. armonizzazione. Essendo
profondamente radicata nell'animo del popolo, la religiosità popolare non può
essere né ghettizzata né esorcizzata; meglio dunque procedere a quel
discernimento-valorizzazione di cui abbiamo parlato, armonizzandola con altre
forme di religiosità. Soprattutto va armonizzata con la Liturgia secondo le
indicazioni di Sacrosanctum concilium al fine di rendere la Liturgia stessa più
accessibile, vissuta, festiva, partecipata [SC 13 suggerisce questo rapporto
tra Liturgia e religiosità popolare: la Liturgia resta la forma di preghiera di
gran lunga superiore; tuttavia non si deve né eliminare, né disprezzare la
religiosità popolare; inoltre non vi sia né concorrenza, né sovrapposizione, né
confusione; va piuttosto armonizzata
con la Liturgia tenendo conto delle sue leggi e dei tempi liturgici].
Una liturgia che
vuol essere inculturata ha molto da impegnarsi in questo humus fecondo della
religiosità popolare affinché, rigenerata, diventi essa stessa strumento
efficace di partecipazione attiva. La via più sicura resta sempre l' evangelizzazione:
mettere in contatto la religiosità popolare con la potenza rigeneratrice della
Parola di Dio. Dice infatti Catechesi
tradendae: la forza del Vangelo è dappertutto trasformatrice e
rigeneratrice. Allorché essa penetra una cultura (nel nostro caso la
religiosità popolare), chi si meraviglierebbe se ne rettifica non pochi
elementi? (CT 53).
Secondo le
indicazioni del CELAM su «Chiesa e religiosità popolare in America Latina», si
dovrà tendere ad «una religiosità che deve essere valutata, corretta nelle
ambiguità, purificata in certe espressioni e prospettive, e arricchita, perché
assuma armoniosamente l'insieme della fede e della missione ecclesiale, in una
prospettiva di evangelizzazione».[238]
Analogo discorso anche per le comunità cristiane di Asia dove si sta attuando
un grande impegno per «divenire veramente asiatici in tutto»; se la Chiesa
vuole conoscere e mostrare «il volto asiatico di Cristo», deve «essere
abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e
abbastanza coraggiosa da essere crocefissa sulla croce della povertà asiatica».[239]
PARTE X
INCULTURAZIONE E CATECHESI[240]
La Chiesa «esiste per evangelizzare» (EN 14), cioè per «portare la buona novella in tutti gli strati dell’umanità» (EN 18). Il mandato missionario di Gesù comporta vari aspetti, intimamente connessi fra loro: «annunciate» (Mc 16,15), «fate discepoli e insegnate» (Mt 28,19-20), «siate miei testimoni» (At 1,8), «battezzate» (Mt 28,19), «fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), «amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12). Annuncio, testimonianza, insegnamento, sacramenti, amore del prossimo, fare discepoli: tutti questi aspetti sono vie e mezzi per la trasmissione dell’unico Vangelo e costituiscono gli elementi dell’evangelizzazione.
L’evangelizzazione va concepita dunque come il processo attraverso il quale la Chiesa, mossa dallo Spirito Santo, annuncia e diffonde il Vangelo a tutte le genti, in tutto il mondo. Spinta dalla carità, dà testimonianza, proclama il Vangelo mediante il primo annuncio chiamando alla conversione, inizia alla fede e alla vita cristiana mediante la catechesi e i sacramenti di iniziazione, alimenta continuamente il dono della comunione, suscita continuamente la missione inviando tutti i discepoli di Cristo ad annunciare il Vangelo in tutto il mondo.
Il processo di evangelizzazione, di conseguenza, è strutturato in tappe o «momenti essenziali»: l’azione missionaria per i non credenti e per quelli che vivono nell’indifferenza religiosa; l’azione catechistico-iniziatica per quelli che optano per il Vangelo e per quelli che necessitano di completare o ristrutturare la loro iniziazione; e l’azione pastorale per i fedeli cristiani già maturi, nel seno della comunità cristiana (cf RMi 33.48).[241]
Anche la catechesi, come già si è visto per la liturgia, è pertanto un «momento essenziale» nell’opera di evangelizzazione. Dio, infatti, per rivelarsi alla persona umana, utilizza una pedagogia (cf DV 15): si serve di avvenimenti e di parole umane per comunicare il suo disegno; lo fa progressivamente e per tappe (cf Eb 1,1-2), per avvicinarsi meglio agli uomini.
Compito della catechesi è trasmettere i fatti e le parole della Rivelazione: deve proclamarli e narrarli e, nello stesso tempo, chiarire i profondi misteri che essi racchiudono. Essa, tuttavia, non solo ricorda le meraviglie di Dio operate nel passato, ma, alla luce della stessa Rivelazione, interpreta i segni dei tempi e la vita presente degli uomini e delle donne, giacché in essi si realizza il disegno di Dio per la salvezza del mondo.
Il ministero della Parola esercitato nella catechesi deve porre in risalto questa caratteristica fondamentale dell’economia della Rivelazione: l’entrare del Figlio di Dio nella storia degli uomini, l’assunzione di una vita pienamente umana. «Niente viene redento se non è assunto» (S. Atanasio).
Seminando il Vangelo di Gesù nel grande campo del mondo, la Chiesa sa che il seme penetra in terreni concreti e ha bisogno di assorbire tutti gli elementi necessari per poter fruttificare. Da qui la necessità di valorizzare e utilizzare le culture autoctone. Da qui la necessità di avere una «catechesi inculturata».[242]
La Parola di Dio si è fatta uomo, uomo concreto, situato nel tempo e nello spazio, radicato in una cultura determinata: « Cristo..., attraverso la sua incarnazione, si legò a determinate condizioni sociali e culturali degli uomini con cui visse» (AG 10). Questa è l'originaria «inculturazione» della parola di Dio e il modello di riferimento per tutta l'evangelizzazione della Chiesa, « chiamata a portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura e delle culture » (CT 53; cf EN 20).
L'«inculturazione» della fede, per la quale si assumono in un ammirevole interscambio[243] « tutte le ricchezze delle nazioni che a Cristo sono state assegnate in eredità» (AG 22), è un processo profondo e globale e un cammino lento (RMi 52). Non è un semplice adattamento esterno che, per rendere più attraente il messaggio cristiano, si limita a coprirlo in modo decorativo con una vernice superficiale.
Si tratta, al contrario, della penetrazione del Vangelo negli strati più reconditi delle persone e dei popoli, raggiungendoli «... in modo vitale, in profondità e fino alle radici » (EN 20) delle loro culture.
In questo lavoro di inculturazione, tuttavia, le comunità cristiane dovranno fare un discernimento: si tratta di « assumere» (LG 13), da un lato, quelle ricchezze culturali che siano compatibili con la fede; ma si tratta anche, dall'altro lato, di aiutare a «sanare» (LG 17) e «trasformare» (EN 19) quei criteri, modi di pensare o stili di vita che sono in contrasto con il regno di Dio. Questo discernimento deve essere retto da due principi di base: «la compatibilità col Vangelo e la comunione con la Chiesa universale» (RMi 54a). Tutto il popolo di Dio deve essere coinvolto in questo processo, che « ... ha bisogno di gradualità, in modo che sia veramente espressione dell'esperienza cristiana della comunità..» (RMi 54b)
In questa inculturazione della fede, per la catechesi si presentano in concreto diversi compiti. Fra questi occorre segnalare:
a. Considerare la comunità ecclesiale come principale fattore di inculturazione. Una espressione, e parimenti uno strumento efficace di questo compito, è rappresentato dal catechista che, assieme ad un profondo senso religioso, deve possedere una viva sensibilità sociale ed essere ben radicato nel suo ambiente culturale.[244]
b. Elaborare dei Catechismi locali che rispondano alle esigenze che provengono dalle differenti culture (CCC 24), presentando il Vangelo in relazione alle ispirazioni, interrogativi e problemi che compaiono nelle medesime.
c. Attuare una opportuna inculturazione nel Catecumenato e nelle istituzioni catechistiche, incorporando con discernimento il linguaggio, i simboli e i valori della cultura nella quale vivono i catecumeni e i catechizzandi.
d. Presentare il messaggio cristiano in modo che renda atti a dare «ragione della speranza» (1 Pt 3,15) coloro che devono annunciare il Vangelo in mezzo a culture spesso pagane e a volte post-cristiane. Una apologetica ben riuscita, che aiuti il dialogo fede-cultura, si rende oggi imprescindibile.[245]
e. Per l’inculturazione della catechesi si presenta anche una esigenza imprescindibile: il discorso catechistico ha per guida necessaria ed eminente la «regola della fede», illustrata dal Magistero ed approfondita dalla teologia. Sono sempre latenti i rischi del sincretismo e di altri malintesi.
2
Catechesi in
contesto socio-culturale.
«Della catechesi, come dell'evangelizzazione in generale, possiamo dire che è chiamata a portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura e delle culture» (CT 53). Questa esigenza è antica quanto la Chiesa. La storia della catechesi, specialmente al tempo dei Padri, è per tanti aspetti storia dell'inculturazione della fede e come tale merita che sia studiata e meditata.
Quali sono dunque i compiti e le sfide per la catechesi nell’attuale contesto socio-culturale? Quale metodologia di inculturazione occorre adottare perché l’annuncio sia efficace? Chi sono i responsabili del processo di inculturazione? Quali forme e quali vie privilegiate seguire? Quale linguaggio usare?
2.1. I compiti di una catechesi per l'inculturazione della fede possono essere così sinteticamente espressi:
a. conoscere in profondità la cultura delle persone e il grado di penetrazione nella loro vita;
b. riconoscere la presenza della dimensione culturale nello stesso Vangelo, affermando che questo non scaturisce da qualche humus culturale umano, e d'altra parte riconoscendo come il Vangelo non sia isolabile dalle culture in cui si è inserito al principio e si è espresso nel corso dei secoli;
c. annunciare il cambiamento profondo, la conversione, che il Vangelo, in quanto forza «trasformatrice e rigeneratrice» (CT 53), opera nelle culture;
d. testimoniare la trascendenza e il non esaurimento del Vangelo nella cultura, ed insieme discernere i germi evangelici che possono essere presenti in essa;
e. promuovere una nuova espressione del Vangelo secondo la cultura evangelizzata, mirando ad un linguaggio della fede che sia patrimonio comune tra i fedeli, e quindi fattore fondamentale di comunione;
f. mantenere integri i contenuti della fede della Chiesa e procurare che la spiegazione e la illustrazione delle formule dottrinali della Tradizione siano proposte tenendo conto della situazione culturale e storica dei destinatari, evitando sempre mutilazioni e falsificazioni dei contenuti.[246]
2.2. Possono essere anche individuate alcune piste metodologiche.
Per una corretta inculturazione della fede, la catechesi né manipola le culture né le giustappone semplicemente al Vangelo, ma si sforza piuttosto di andare alle radici della cultura proponendo un Messaggio in modo vitale, in profondità (EN 20). Un tale processo dinamico prevede:
a. sforzarsi di ascoltare, nella cultura della gente, come l'eco (presagio, invocazione, segno...) della Parola di Dio;
b. discernere ciò che è autentico valore evangelico o almeno aperto al Vangelo; purificare ciò che è sotto il segno del peccato (passioni, strutture di male...) o dell'umana fragilità;
c. fare breccia nelle persone stimolando un atteggiamento di conversione radicale a Dio, di dialogo con gli altri, di paziente maturazione interiore.
2.3. Responsabili del processo di inculturazione.
Secondo le indicazioni di Redemptoris missio, «L'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai perdere di vista. Essa va guidata e stimolata, ma non forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità e non frutto esclusivo di ricerche erudite» (RMi 54). La tensione all'incarnazione del Vangelo che è impegno specifico dell'inculturazione esige una partecipazione alla catechesi da parte di tutti coloro che vivono nello stesso contesto culturale: il clero, gli operatori pastorali (catechisti), mondo dei laici.
Sono pertanto le Chiese particolari il soggetto primo dell’inculturazione della catechesi, dovendo questa avvenire nella concretezza e nella specificità delle situazioni.
Spetta alle Conferenze episcopali e ai legittimi Pastori guidare la ricerca e la sperimentazione. Si potranno avviare ricerche-pilota, ma prima sarebbe opportuno predisporre Direttori catechistici e organizzare laboratori e centri di ricerca avvalendosi di personale specializzato oltre che dell’esperienza diretta dei catechisti e la partecipazione dello stesso popolo di Dio. Non dovrà neppure mancare un costante dialogo di ascolto, di comunione, di coordinamento, sia all’interno di Chiese locali che si riconoscono nella condivisione di comuni espressioni culturali etnico-linguistiche, sia tra queste Chiese e la Santa Sede.
2.4. Forme e vie privilegiate per l’inculturazione della catechesi.
Tra le forme più atte all'inculturazione della fede giova ricordare la catechesi dei giovani e degli adulti, per le possibilità di correlare più incisivamente fede e vita. L'inculturazione della fede non può essere disattesa nell’iniziazione cristiana dei piccoli proprio per le notevoli implicanze culturali di tale processo: acquisizione di nuove motivazioni di vita, educazione della coscienza, apprendimento del linguaggio biblico e sacramentale, conoscenza dello spessore storico del cristianesimo.
Via privilegiata è la catechesi liturgica, per la ricchezza di segni con cui viene espresso il messaggio e per l'accessibilità a tanta parte del popolo di Dio; vanno pure rivalorizzati i contenuti dei Lezionari, la struttura dell'Anno Liturgico, l'omelia domenicale ed altre occasioni di catechesi particolarmente significative (matrimoni, funerali, visite a malati, feste dei santi patroni, ecc.); centrale rimane la cura della famiglia, agente primario di avvio ad una trasmissione incarnata della fede; peculiare interesse riveste la catechesi in situazione multietnica e multiculturale, in quanto conduce ancora più attentamente a scoprire e a tenere conto delle risorse dei diversi gruppi nell'accogliere e riesprimere la fede.
2.5. Il linguaggio.
L'inculturazione della fede per certi aspetti è opera di linguaggio. Questo importa che la catechesi rispetti e valorizzi il linguaggio proprio del messaggio, anzitutto quello biblico, ma anche quello storico-tradizionale della Chiesa (Simbolo, liturgia) e il cosiddetto linguaggio dottrinale (formule dogmatiche); ancora, è necessario che la catechesi entri in comunicazione con forme e termini propri della cultura della persona cui si rivolge; infine, occorre che la catechesi stimoli nuove espressioni del Vangelo nella cultura in cui questo è stato impiantato.
Nel processo di inculturazione del Vangelo la catechesi non deve temere di usare formule tradizionali e termini tecnici della fede, ma darne il significato e mostrarne la rilevanza esistenziale; e d'altra parte è dovere della catechesi «trovare un linguaggio adatto ai fanciulli e ai giovani del nostro tempo in generale, come a numerose altre categorie di persone: linguaggio per gli intellettuali, per gli uomini di scienza; linguaggi per gli analfabeti o per le persone di cultura elementare; linguaggio per handicappati, ecc. (CT 59).[247]
Concludendo questa sezione è opportuno ricordare che il Vangelo sollecita una catechesi aperta, generosa e coraggiosa nel raggiungere le persone dove vivono, in particolare incontrando quegli snodi dell'esistenza dove avvengono gli scambi culturali elementari e fondamentali, come la famiglia, la scuola, l'ambiente di lavoro, il tempo libero.
E’ pure importante per la
catechesi saper discernere e penetrare in quegli ambiti antropologici nei quali
le tendenze culturali hanno maggior impatto per la creazione o diffusione di
modelli di vita, come il mondo urbano, il flusso turistico e migratorio, il
pianeta giovani ed altri fenomeni socialmente rilevanti...
Infine, «sono altrettanti settori da illuminare con la luce del Vangelo» (RMi 37) quelle aree culturali che sono denominate «areopaghi moderni», come l'area della comunicazione; l'area degli impegni civili per la pace, lo sviluppo, la liberazione dei popoli, la salvaguardia del creato; l'area di difesa dei diritti delle persone, soprattutto delle minoranze, della donna e del bambino; l'area della ricerca scientifica e dei rapporti internazionali.[248]
L'espressione «evangelizzare
la cultura/e» è relativamente nuova. Secondo la concezione tradizionale,
l'evangelizzazione è legata a territori particolari (AG 6) e si rivolge alle
persone non battezzate perché accolgano l'annuncio della buona notizia di Gesù
Cristo; solo una persona è capace di conversione, di adesione e quindi di
essere battezzata.
Oggi tuttavia, con l’ampliamento del concetto di
evangelizzazione (RN 19; RMi 37) si parla sempre più frequentemente di evangelizzazione delle culture intendendo,
con questo processo, raggiungere le persone nella loro mentalità, nei loro
atteggiamenti collettivi, nel loro modo di vita, nei loro
valori-modelli-simboli.
Il discorso diventa quantomai attuale a seguito della
recente Enciclica di Giovanni Paolo II Fides
et Ratio, là dove scrive «Non si può dimenticare, infine, il
ritrovato interesse per l'inculturazione della fede. In modo particolare la
vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di
pensiero, la presenza di molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò
costituisce un reale patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio,
tuttavia, delle usanze tradizionali deve andare di pari passo con la ricerca
filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere i tratti positivi della
saggezza popolare, creando il necessario collegamento con l'annuncio del
Vangelo».[250]
Nel mondo
moderno religione e cultura non vanno più di pari passo come nella società del
passato.[251] Per questo
motivo Giovanni Paolo II, in Redemptoris
missio, pone la «cultura»[252]
tra le aree culturali o areopaghi moderni
che devono essere evangelizzati con un linguaggio adatto e comprensibile: «E’ da ricordare, inoltre, il vastissimo
areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali
che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita. Conviene essere
attenti e impegnati in queste istanze moderne. Gli uomini avvertono di essere
come naviganti nel mare della vita, chiamati a sempre maggiore unità e
solidarietà: le soluzioni ai problemi esistenziali vanno studiate, discusse,
sperimentate col concorso di tutti. Ecco perché organismi e convegni
internazionali si dimostrano sempre più importanti in molti settori della vita
umana, dalla cultura alla politica, dall'economia alla ricerca. I cristiani,
che vivono e lavorano in questa dimensione internazionale, debbono sempre
ricordare il loro dovere di testimoniare il Vangelo» (RMi 37c).
Lo stesso
Pontefice, nel discorso inaugurale alla IV Conferenza generale dell’Episcopato
latinoamericano, si è così espresso: «l’evangelizzazione delle culture
rappresenta la forma più profonda e globale di evangelizzare una società,
poiché attraverso di essa il messaggio di Cristo penetra nelle coscienze delle
persone e si proietta nell’ethos di
un popolo, nelle sue attività vitali, nelle sue istituzioni e in tutte le
strutture ».[253]
Già Evangelii Nuntiandi, parlando della
complessità dell’azione evangelizzatrice (EN 17), aveva detto che «Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la
buona novella in tutti gli strati dell'umanità e, col suo influsso, trasformare
dal di dentro, rendere nuova l'umanità stessa: “Ecco io faccio nuove tutte le
cose” (Ap 21,5; cf 2 Cor 5,17; Gal 6,15). (EN 18)
La
conversione della coscienza individuale deve essere accompagnata anche dalla
conversione della coscienza collettiva, delle attività e dell'ambiente in cui
vivono le persone concrete (EN 18). Si parla allora di «evangelizzazione delle
culture», strettamente connessa con l’altro fenomeno ben più vasto che si
chiama «inculturazione del Vangelo».
Evangelizzazione
della cultura ed inculturazione del Vangelo si intrecciano nel compito
missionario della Chiesa e la coinvolgono concretamente nella costruzione di
una civiltà della verità e dell'amore.[254]
In forza del principio della comunione, capace di fondere la diversità
nell'unità, la Chiesa, senza facili adattamenti esteriori, è in grado di
accogliere in profondità quegli elementi positivi che incontra in ogni cultura,
li assimila e li integra nel cristianesimo, radicandolo così nelle diverse
culture.[255]
L'evangelizzazione
delle culture avviene con la mediazione delle persone che, accettando il
messaggio salvifico di Cristo nella loro vita individuale, sono poi disponibili
a trasformare anche la vita collettiva secondo questo ideale.
2.
Vangelo e cultura.
Dal momento
che un gruppo umano si caratterizza per i suoi tipici modi di pensare, di
comportarsi, di umanizzare, appare evidente che ogni forma di evangelizzazione
deve raggiungere gli uomini "non solo in fasce geografiche sempre più
vaste, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del
Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le
linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell'umanità che
sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza" (EN
19). Tenuto conto di questi non facili ma pur necessari rapporti tra
evangelizzazione e cultura, con Evangelii
nuntiandi occorre costatare che «la rottura tra vangelo e cultura è senza
dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi
fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura,
più esattamente delle culture. Esse devono essere rigenerate mediante
l'incontro con la buona novella. Ma questo incontro non si produrrà, se la buona
novella non è proclamata » (EN 20).
Nel
processo di evangelizzazione il
rapporto tra evangelizzazione e cultura ha conosciuto sorti alterne,[256]
a volte positive, a volte conflittuali:
* il
rapporto tra cristianesimo e cultura è stato generalmente concepito in termini
di correlazione e armonia, sul rapporto armonico che esiste tra grazia e
natura, secondo il celebre concetto gratia
non destruit sed supponit et perficit naturam;[257]
* il
Vangelo è creatore di cultura;[258]
anche la Chiesa ha la vocazione di «divenire creatrice di cultura nel rapporto
con il mondo»;[259]
* tutta
la tradizione della Chiesa attesta la fecondità del Vangelo nei campi
dell'architettura, pittura, poesia, musica, filosofia, diritto, per giungere
alla «cristianizzazione delle culture»;
* ci sono
stati tuttavia, anche in un recente passato, momenti in cui si è promossa e
spesso affermata una cultura «liberata da Dio» e caratterizzata dalla pretesa
di poter e di dover fare a meno di ogni riferimento a lui in nome della
promozione dell'uomo e della giustizia;
*
tutt’oggi la cultura prevalente presenta numerosi problemi e sfide: l'estrema
rapidità dei mutamenti culturali che portano a tendenze relativistiche e
nichilistiche, il consumismo, il professionalismo e il secolarismo, altrettante
tendenze che emarginano la religione; specializzazione crescente e
accentuazione pragmatica dello sviluppo tecnologico;
*
l’assenza dei valori cristiani fondamentali nella cultura della modernità ha
offuscato la dimensione del trascendente, portando molte persone all’indifferentismo
religioso; seguendo l’autonomia introdotta dal razionalismo, oggi si tende a
basare i valori soprattutto su consensi sociali soggettivi che, non di rado,
portano a posizioni contrarie persino all’etica naturale stessa; si pensi al
dramma dell’aborto, agli abusi nell’ingegneria genetica e agli attacchi alla
vita e alla dignità della persona;[260]
* il
Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura;
tuttavia il regno, che il vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente
legati a una cultura, e la costruzione del regno non può non avvalersi degli
elementi della cultura e delle culture umane; indipendenti di fronte alle
culture il Vangelo e l'evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili
con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna.
Nel
processo di inculturazione, pertanto, in dialogo tra Vangelo e cultura/e è
indispensabile condizione per l'accoglienza integrale del Vangelo e
l'edificazione autentica del Regno. "La missione non è mai una
distruzione, ma una riassunzione di valori, e una nuova costruzione, anche se
nella pratica non sempre vi è stata piena corrispondenza a un ideale così
elevato" (RMi 12). Se il Vangelo non si confonde con le culture e le
trascende, è chiamato però ad animarle e a impregnarle con un processo che sarà
necessariamente, al tempo stesso, di assunzione, purificazione e
trasfigurazione delle culture. Questa esigenza della missione, che non è
puramente metodologica, ma teologica, contrassegna essenzialmente l'impegno
missionario.[261]
«L’evangelizzazione
della cultura costituisce uno sforzo per comprendere la mentalità e gli
atteggiamenti del mondo attuale e animarli a partire dal Vangelo. E’ la volontà
di giungere a tutti i livelli della vita umana per renderla più degna».[262]
Facendo
riferimento a Santo Domingo si può
dire che «Annunciare Gesù Cristo in tutte
le culture è la preoccupazione centrale della Chiesa e oggetto della sua
missione. Ai nostri giorni ciò esige in primo luogo il discernimento delle
culture come realtà umana da evangelizzare, e, di conseguenza, l’urgenza di un
nuovo tipo di collaborazione fra tutti i responsabili dell’opera di
evangelizzazione».[263]
Un
forte incoraggiamento a far uso di tutte le risorse possibili, compresa la
filosofia, per una efficace inculturazione del Vangelo, viene oggi
dall’encilcica Fides et Ratio che
così si esprime: «Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree
culturali rimaste finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del
cristianesimo, nuovi compiti si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a
quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra
generazione.» (Fides et ratio 72).
3.
Vie e mezzi per evangelizzare le culture.
Di fronte
allo sviluppo di una cultura che si configura dissociata non solo dalla fede
cristiana, ma persino dagli stessi valori umani; come pure di fronte ad una
certa cultura scientifica e tecnologica impotente nel dare risposta alla
pressante domanda di verità e di bene che brucia nel cuore degli uomini, la
Chiesa è pienamente consapevole dell'urgenza pastorale che alla cultura venga
riservata un'attenzione del tutto speciale.
Per
questo la Chiesa sollecita gli evangelizzatori ad essere presenti, all'insegna
del coraggio e della creatività intellettuale, nei posti privilegiati della
cultura, quali sono il mondo della scuola e dell'università, gli ambienti della
ricerca scientifica e tecnica, i luoghi della creazione artistica e della
riflessione umanistica. Tale presenza è destinata non solo al riconoscimento e
all'eventuale purificazione degli elementi della cultura esistente criticamente
vagliati, ma anche alla loro elevazione mediante le originali ricchezze del
Vangelo e della fede cristiana. Quanto il Concilio Vaticano II scrive circa il
rapporto tra il Vangelo e la cultura rappresenta un fatto storico costante ed
insieme un ideale operativo di singolare attualità e urgenza; è un programma
impegnativo consegnato alla responsabilità pastorale dell'intera Chiesa e in
essa alla responsabilità specifica degli evangelizzatori: «La buona novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura
dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali, derivanti dalla
sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la
moralità dei popoli... In tal modo la Chiesa, compiendo la sua missione, già
con questo stesso fatto stimola e dà il suo contributo alla cultura umana e
civile e, mediante la sua azione, anche liturgica, educa l'uomo alla libertà
interiore (GS 58) » (ChL 44).
L’evangelizzazione
della cultura richiede una presenza nei luoghi privilegiati della cultura al
fine di (ri)conoscerla, purificarla, elevarla, mediante le originali ricchezze
del Vangelo e della fede.
Possiamo
allora elencare alcuni spazi di azione in vista di un impegno profetico degli
evangelizzatori nell’evangelizzazione della cultura:
Il primo
compito di ogni evangelizzatore è l'annuncio positivo del messaggio liberante
di Gesù Cristo. L'evangelizzazione dovrà influenzare i settori chiave
dell'agire collettivo: il lavoro, la famiglia, la scuola, l’università,
l'economia e la stessa politica; si tratta di far conoscere che c'è un modo
cristiano di vivere queste realtà. La fede deve essere applicata alla vita; il
distacco tra fede e vita quotidiana è uno dei più gravi errori del nostro tempo
(GS 23)
Evangelizzare
è trasformare dal di dentro non solo le persone, ma anche la coscienza
collettiva; si tratta, in altre parole, di raggiungere l'êthos di un ambiente, cioè i codici di condotta comunemente
recepiti da un gruppo umano. Pur nel rispetto della giusta autonomia delle
realtà terrestri, evangelizzare una cultura significa far incontrare l'êthos di un popolo con l'etica
evangelica, in modo che la forza rinnovatrice e purificatrice del Vangelo porti
al superamento e all'eliminazione di quelle realtà spesso discordanti con tale
etica, come nel caso di società che permettono l'aborto, l'eutanasia, il
razzismo. Se il pilastro dei valori è l'anima di una cultura, si deve anche
dire che i valori fondamentali (verità, giustizia, libertà, ecc) sradicati
dalla religione sono come privati di fondamento, sono esautorati della loro
ascendenza, esposti all'arbitrio e alla manipolazione.
Evangelizzare
una cultura nei suoi valori significa permettere ad una cultura di raggiungere appieno
i suoi scopi: umanizzare l'uomo, promuovere una convivenza pacifica e la
solidarietà tra i cittadini, far crescere il benessere materiale e spirituale
della società.
Evangelizzare
la cultura in un mondo secolarizzato può significare anche porsi «controcorrente»
per denunciare quanto oscura le coscienze o indebolisce il senso morale, per
contrapporsi alle «lobby» del consumismo e della moda quando tendono a
disumanizzare la convivenza umana.
L'annuncio
cristiano comporta sempre una metanoia,
una conversione. Evangelizzare la cultura significa convertire le «strutture di
peccato» o le «colpe sociali» prodotte dalla cupidigia e dall'egoismo oltre che
dai pregiudizi collettivi.
Si tratta
di riaprire gli orizzonti della cultura al senso del trascendente e al mistero
di Dio. Nella certezza che solo a questa condizione l'uomo può essere davvero
rispettato nella sua integralità, è necessario mostrare come Dio e il Vangelo
non sono contro l'uomo, ma per la piena realizzazione della sua umanità
nell'amore e nella comunione. In questa ottica, una prima condizione
irrinunciabile per l'evangelizzazione della cultura è la testimonianza di una
comunità cristiana che vive nella comunione e che si «sbilancia» nell'amore
all'uomo a motivo del Vangelo.
La
necessità di un'ispirazione evangelica della cultura moderna, segnata dalla
scienza, mostrando l'accordo di ragione e fede e superando i pregiudizi
seminati da una certa cultura scientista e razionalista; il dialogo tra scienza
e fede dovrà creare un vero umanesimo cristiano; si tratta di dimostrare che la
scienza e la tecnica contribuiscono alla civilizzazione e all’umanizzazione del
mondo nella misura in cui sono permeate dalla saggezza di Dio.
L'importanza
da accordare all'opera educativa, riconoscendo in essa un elemento essenziale
di trasmissione della cultura.
La
riproposizione dei grandi valori etici, con particolare riferimento ai diritti
dell'uomo e al diritto alla vita.
L'approfondimento
della dottrina sociale della Chiesa e una sua integrazione più efficace nell'insegnamento
e nell'opera educativa della Chiesa.
Una
giusta considerazione degli aspetti etico-sociali riguardanti i fenomeni delle
migrazioni, con i doveri di accoglienza che gravano su tutti i cristiani.
La difesa
delle minoranze e della loro cultura; un'adeguata riflessione sui temi del
nazionalismo e dei diritti legittimi e dei doveri delle nazioni.
Il
contributo che la Chiesa, nell'ambito delle sue competenze e attraverso
un'opera di pace e di riconciliazione, può offrire allo sviluppo dei popoli
anche a livello sociale e politico.
Una
rinnovata e significativa presenza della Chiesa tra gli intellettuali e nel
mondo dell'arte, della musica, dell'architettura, della letteratura... .
Un'attenzione
intelligente e coraggiosa al mondo dei mezzi di comunicazione sociale e una
presenza in esso di cristiani preparati e competenti.[264]
Programmare
l'evangelizzazione negli ambienti universitari e culturali; provocare un nuovo
slancio di apostolato a favore della pastorale universitaria nel contesto più
ampio della evangelizzazione della cultura e delle culture sia per superare un
certo sentimento di scoraggiamento e di impotenza di fronte all'ampiezza ed
alla difficoltà di questo compito, sia per evitare di considerare come
realizzata questa responsabilità solo col possedere - o fondare - delle
università cattoliche; si tratta di realizzare una pastorale universitaria e
"intellettuale" coerente e più integrata nella pastorale d'insieme
diocesana e nazionale.[265]
Tale
dialogo può aver luogo all'interno delle università, quando la teologia e la
filosofia fanno parte dell'università stessa, come avviene nella maggior parte
delle università cattoliche, ma anche in un numero crescente di altre
istituzioni; dove però la teologia e la filosofia non sono facoltà delle università,
è possibile stabilire un dialogo tra le istituzioni, ad esempio tramite
professori invitati, o utilizzando gruppi di professori che s'incontrino per
discutere di problemi attuali.[266]
In
sintesi si può dire che l’impegno dei cristiani nella evangelizzazione della
cultura mira essenzialmente a forgiare una cultura che sia sempre aperta ai
valori della vita, all'originalità del messaggio evangelico, alla solidarietà
tra le persone; una cultura della pace e dell'unità che Cristo ha chiesto al
Padre per tutti coloro che credono in lui.
4.
Cultura e mass-media.
La via
attualmente privilegiata per la creazione e per la trasmissione della cultura
sono gli strumenti della comunicazione sociale. Se ne fa interprete Giovanni
Paolo II quando in Redemptoris missio
fa notare lo stretto rapporto esistente tra il mondo della comunicazione e
quello della cultura: «L'impegno nei mass-media, tuttavia, non ha solo lo scopo
di moltiplicare l'annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché
l'evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro
influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il
Magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa
“nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. E’ un problema complesso,
poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso
che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e
nuovi atteggiamenti psicologici » (RMi 37c).[267]
Anche il
mondo dei mass-media, pertanto, in seguito all'accelerato sviluppo innovativo e
all'influsso insieme planetario e capillare sulla formazione della mentalità e
del costume, rappresenta una nuova frontiera della missione della Chiesa.
«L’utilizzazione dei media è diventata essenziale all’evangelizzazione e alla
catechesi».[268] In
particolare, la responsabilità professionale dei fedeli laici in questo campo,
esercitata sia a titolo personale sia mediante iniziative ed istituzioni
comunitarie, esige di essere riconosciuta in tutto il suo valore e sostenuta
con più adeguate risorse materiali, intellettuali e pastorali.[269]
Dal
momento che la cultura di massa è in gran parte prodotta e trasmessa dai
mass-media, è necessario che gli operatori dell'evangelizzazione si pongano
dinanzi a questi strumenti con un atteggiamento che sia non solo di critica o
di discernimento, ma anche di servizio: evangelizzare i mass-media ed evangelizzare attraverso i mass-media,
producendo e diffondendo prodotti validi di cultura ispirata ai valori
cristiani.[270] Evangelizzare
attraverso i mass-media significa anche aiutare la Chiesa a rendere accessibile
il messaggio evangelico alle nuove culture, alle forme odierne di intelligenza
e sensibilità.[271]
Anche in questo ambito è dunque utile evidenziare alcuni
indicatori utili agli effetti della inculturazione: una più ampia
valorizzazione dei media secondo la loro specifica qualità comunicativa,
sapendo ben equilibrare il linguaggio dell'immagine con quello della parola; la
salvaguardia del senso religioso genuino nelle forme espressive prescelte; la
promozione della maturità critica dei recettori e lo stimolo
all'approfondimento personale di quanto recepito dai media; la produzione di
sussidi massmediali congrui allo scopo, soprattutto nell’ambiro della
catechesi; una proficua collaborazione tra agenti pastorali.[272]
Nell’impiego
e nella recezione degli strumenti di comunicazione urgono sia un’opera
educativa al senso critico, animato dalla passione per la verità, sia un’opera
di difesa della libertà, del rispetto alla dignità personale, dell’elevazione
dell’autentica cultura dei popoli, mediante il rifiuto fermo e coraggioso di
ogni forma di monopolizzazione e di manipolazione.[273]
5.
Evangelizzazione della modernità e del
postmoderno.
Per
modernità si intende oggi quel vasto movimento di pensiero che, rompendo con il
passato, tende ad introdurre il nuovo ed il progresso. Si basa su alcuni suoi
«valori»: l'egemonia dell'efficienza misurabile, la supremazia della struttura
sul contenuto e dell'immagine sul pensiero, la promozione della razionalità e
dell'attività a danno della saggezza e della contemplazione, la valorizzazione
del consenso e dell'opinione pubblica che ha il sopravvento sulla verità, la
salvaguardia dell'uomo dall'irrazionale e dal religioso. In questo senso si
parla anche di «postmoderno» inteso come sguardo critico e scettico verso i
risultati della tecnologia e della scienza e alla loro capacità di dare un
senso all'esistenza umana.
A seguito
della secolarizzazione, la modernità ha coinciso anche con un modo di pensare e
di vivere senza riferimento a Dio e alla sua Parola.
La Chiesa
è chiamata oggi ad evangelizzare anche questo tipo di cultura. Può farlo dal
momento che niente più del Vangelo è opposizione a ciò che è «l'uomo vecchio»;
anche il suo dinamismo interiore non deriva dai bisogni dell'uomo, ma dal
mistero stesso dell'amore di Dio; ogni uomo è un valore e nessuna conquista
scientifica può prevalere sulla dignità umana; e il Dio cristiano non è un dio
che opprime, ma nel rispetto dell’autonomia e della libertà umana si presente
con l'unico potere dell'amore e con l'unico diritto della grazia.[274]
Evangelizzare
dunque la modernità senza lasciarsi contaminare da essa. Non è infatti esente
il rischio di una evangelizzazione che si riduce a fenomeno sociale, a
movimento politico ed ideologico. In questo caso più che inculturazione del
vangelo si avrebbe una culturizzazione
del vangelo stesso. Ciò avviene quando i valori cristiani sono banalizzati nel
crogiolo della cultura moderna e pluralista; basti pensare al Natale consumista
o alle feste cristiane che sono solo occasione di evasione senza più alcun
messaggio di fede e di conversione. Evangelizzare la modernità significa
conservare al vangelo del suo annuncio profetico; preservare la Chiesa dal
ripiegarsi su una salvezza immanente, di esaurire il suo influsso entro
speranze terrene.
La Chiesa
che considera l’uomo come suo «cammino» (RH 14) deve saper dare una risposta
adeguata all’attuale crisi della cultura ; di fronte al complesso fenomeno
della modernità, è necessario dar vita a un’alternativa culturale pienamente
cristiana.
L’INCULTURAZIONE
NEI RECENTI SINODI CONTINENTALI[275]
L’evangelizzazione deve raggiungere non solo i singoli,
ma anche le culture. E l’evangelizzazione della cultura porta con sé l’inculturazione
del Vangelo. Quest’impegno, nella nuova situazione culturale in cui vengono a
trovarsi sia le Chiese di antica evangelizzazione, sia le giovani Chiese
recentemente evangelizzate, caratterizza non solo la modernità ma anche la
cosiddetta postmodernità, implica una sfida missionaria cui dobbiamo rispondere
il meglio possibile.
Questa esigenza, dell’evangelizzazione delle culture e
dell’inculturazione del messaggio della fede, è oggi fortemente sentita. È
questo un problema eminentemente pastorale che sta entrando con grande ampiezza
e sensibilità nella riflessione che le Chiese stanno facendo dinanzi
all’urgenza di una evangelizzazione non decorativa, a somiglianza di vernice
superficiale, ma portata in modo vitale fino alle radici della cultura dell’uomo
(EN 20). Ancora oggi in varie regioni del mondo la religione cristiana è
considerata come qualcosa di estraneo alle culture sia antiche sia moderne.
L’attenzione
a questo vasto problema ha trovato ampio riscontro nei recenti Sinodi
Continentali che si sono susseguiti in quest’ultimo decennio. Sarà utile
prendere atto di quanto lo Spirito ha detto alle Chiese su questo argomento.
1. Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi
(1991)
Giovanni
Paolo II ne annunciò la convocazione a Velehrad in Moravia il 22 aprile 1990 in
connessione con gli avvenimenti creatisi negli ultimi mesi dell’anno 1989 con
la caduta del muro di Berlino e con la fine del comunismo nei paesi orientali
dell’Europa.
Dal
santuario di Fatima lo stesso Pontefice inviò una lettera per la preparazione
del Sinodo per l’Europa nella quale tra l’altro diceva. «L’Europa possiede una
grande eredità di culture tra loro collegate, in diversi modi, dal fermento
dell’unica radice evangelica. Allo scopo di approfondire la consapevolezza di questo
fatto e trarne utili spunti per il sinodo stesso, sarà organizzato dal 28 al 31
ottobre prossimo in Vaticano un simposio presinodale sul tema: Cristianesimo e cultura in Europa: memoria,
coscienza, progetto, a cura del Pontificio consiglio della cultura, in
collaborazione con la Segreteria generale del Sinodo».[276]
L’Assemblea
speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi si è svolta a Roma dal 28 novembre
al 14 dicembre 1991 sul tema Siamo
testimoni di Cristo che ci ha liberato.
Nel
documento finale del Sinodo si richiamano gli stretti rapporti esistenti tra la
religione cristiana e le radici culturali e spirituali dell’Europa. «La cultura
europea è cresciuta da molte radici. […] Ma nessuno può negare che la fede
cristiana appartenga in modo decisivo al fondamento permanente e radicale
dell’Europa. È in questo senso che parliamo di radici cristiane dell’Europa, non già per sostenere una coincidenza
tra Europa e cristianesimo.
Si può
affermare che la religione cristiana ha dato forma all’Europa, imprimendo nella
sua coscienza collettiva alcuni valori fondamentali per l’umanità:
principalmente l’idea di un Dio trascendente e sovranamente libero ma anche
definitivamente entrato per amore nella vita degli uomini con l’incarnazione e
la pasqua del suo Figlio; il concetto nuovo e centrale della persona e della
dignità umana; la fondamentale fraternità umana come principio di convivenza
solidale nella stessa diversità degli uomini e dei popoli».
[277]
Da qui
l’impegno per una nuova evangelizzazione
che permetta all’Europa non solo di fare appello alla sua precedente eredità
cristiana, ma anche di decidere nuovamente sul suo futuro nell’incontro con la
Persona e il messaggio di Gesù Cristo.
2.
IV Conferenza Generale dell'Episcopato
Latinoamericano, Santo Domingo (12-28 ottobre 1992).
Questa
Conferenza è stata indetta per celebrare «Gesù Cristo, lo stesso ieri, oggi e
sempre» (Eb 13,8) ed anche per celebrare il radicamento della Chiesa, durante
cinque secoli, nel nuovo mondo dove ha dato frutti abbondanti di santità e di
amore.
Alla
luce di Gesù Cristo evangelizzatore vivente del Padre, sia i Discorsi di
Giovanni Paolo II, sia la riflessione dell’Assemblea, si sono concentrati su
tre temi principali: la nuova
evangelizzazione, la promozione umana,
la cultura cristiana.
Nel suo
Discorso inaugurale, Giovanni Paolo
II ha ricordato che «l’evangelizzazione
delle culture rappresenta la forma più profonda e globale di evangelizzazione
di una società, poiché attraverso di essa il messaggio di Cristo penetra nelle
coscienze delle persone e si proietta nell’ethos di un popolo, nelle sue
attività vitali, nelle sue istituzioni e in tutte le strutture. […] Annunciare
Gesù Cristo in tutte le culture è la preoccupazione centrale della Chiesa e
oggetto della sua missione» (n. 20).
Ed ha
proseguito: «Ai nostri giorni si rende
necessario uno sforzo e una sensibilità speciale per inculturare il messaggio
di Gesù, per far sì che i valori cristiani possano trasformare i diversi nuclei
culturali, purificandoli, se necessario, a rendendo possibile il consolidarsi
di una cultura cristiana che rinnovi, ampli e unifichi i valori storici passati
e presenti per rispondere così in modo adeguato alle sfide del nostro tempo»
(n. 21).
Giovanni
Paolo II, da Santo Domingo,. ha rivolto anche un messaggio agli indigeni
invitandoli a conservare e promuovere con legittimo orgoglio la cultura dei
loro popoli: le sane tradizioni e costumi, la lingua e i valori particolari.
Incoraggia poi tutte le iniziative pastorali che favoriscano una maggiore
integrazione e partecipazione delle comunità indigene alla vita ecclesiale: «Per questo bisognerà compiere un rinnovato
sforzo in ciò che concerne l’inculturazione del Vangelo, poiché una fede che
non diviene cultura è una fede non pienamente accolta, né totalmente pensata,
né fedelmente vissuta» (n. 6)
Anche
nel messaggio agli afroamericani Giovanni Paolo II ha esaltato la ricchezza
culturale di questi popoli affermando che la Chiesa non solo rispetta la loro
fedeltà al proprio patrimonio culturale, ma vuole anzi che sia incoraggiato e
incrementato. «L’opera di
evangelizzazione non distrugge, ma si incarna nei vostri valori, li consolida e
irrobustisce; fa crescere il seme sparso dal Verbo di Dio».
Nel
Documento finale, anche l’Assemblea di Santo Domingo ha offerto un’ampia riflessione
sul tema della cultura cristiana.
L’evangelizzazione
della cultura si manifesta nel processo di inculturazione, nel senso che i
valori autentici, riconosciuti e assunti dalla fede, sono necessari per
l’incarnazione in quella stessa cultura del messaggio evangelico (n. 228).
Dinanzi
all’attuale crisi culturale che vede la scomparsa di fondamentali valori
evangelici e persino umani, dinanzi alla scarsa presenza della Chiesa nel campo
dell’arte, del pensiero filosofico e antropologico-sociale e presso l’universo
dell’educazione (n.254), la Chiesa Latinoamericana si impegna nello sforzo di
una nuova evangelizzazione che si realizza anche mediante l’inculturazione del
Vangelo. «L’inculturazione del Vangelo è
un processo che suppone il riconoscimento dei valori evangelici mantenutisi più
o meno puri nella cultura odierna e il riconoscimento dei nuovi valori che
coincidono col messaggio di Cristo. Mediante l’inculturazione si mira a che la
società scopra il carattere cristiano di tali valori, e in questo senso li
apprezzi e li conservi» (n.230).
Tra le linee pastorali indicate da Santo
Domingo per una efficace inculturazione del Vangelo soprattutto nella culture
indigene, afroamericane e meticce, si segnalano:
Promuovere
una inculturazione della liturgia accogliendo con stima i loro simboli, riti ed
espressioni religiose compatibili con il chiaro senso della fede, conservando
il valore dei simboli universali e in armonia con la disciplina generale della
Chiesa;
Promuovere
tra i popoli indigeni i loro valori culturali autoctoni tramite una
inculturazione della Chiesa che sfoci in una più ampia realizzazione del Regno
(n. 248).
Intensificare
il dialogo tra fede e scienza, tra la fede e i grandi ambiti della cultura
moderna.
Curare
i segni e il linguaggio culturale che indicano la presenza cristiana e
permettono di introdurre l’originalità del messaggio evangelico nel cuore delle
culture, specie nel campo della liturgia (n. 254).
Da
Santo Domingo emerge dunque una Chiesa Latinoamericana desiderosa di suscitare
comunità cristiane che, in piena comunione con la Chiesa universale, siano allo
stesso tempo capaci di manifestare il loro culto a Dio con le proprie lingue e
le proprie risorse culturali permettendo al Vangelo di germogliare e portare
una gran luce e una forza di speranza al mondo intero.
3. Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi
(1994)
Annunciata
da Giovanni Paolo II il 6 gennaio 1989, si è tenuta a Roma dal 10 aprile all’8
maggio 1994 sul tema La Chiesa in Africa
e la sua missione evangelizzatrice verso l’anno 2000: “Sarete miei testimoni”
(At 1,8).
Durante
il suo viaggio in Africa dal 14 al 20 settembre 1995, Giovanni Paolo II firmava
a Yaoundé, il 14 settembre 1995, l’Esosrtazione apostolica post-sinodale dal
titolo Ecclesia in Africa.[278]
Anche nel
Sinodo per l’Africa il tema dell’inculturazione ha fortemente caratterizzato
sia la fase preparatoria,[279] sia la discussione in aula, sia i frutti del Sinodo raccolti
nell’Esortazione post-sinodale.
Nel Messaggio del Sinodo,[280] l’inculturazione è posta come un modo concreto di essere testimoni di
Cristo: «Come l’Incarnazione, l’inculturazione giunge al culmine del mistero
pasquale dove Cristo testimonia la verità fino a pagare con il suo sangue e
ricapitola sulla croce tutto quanto c’è di vero e di santo nelle culture per
farne il luogo della manifestazione della santa trinità. E’ il primo testimone»
(n. 16).
«Il
battezzato che riceve da Cristo risuscitato il mandato di andare fino in fondo
all'evangelizzazione e che a questo risponde, diventa a sua volta testimone.
Evangelizza le radici culturali della sua persona come della sua comunità e
rileva le sfide socioeconomiche e politiche per poter riprendere il messaggio
nei suoi stessi termini e in una dinamica nuova di vita che cambi la cultura e
la società». (n. 17).
Il Messaggio indica anche alcuni campi di inculturazione. «Il campo
dell'inculturazione è vasto e il Sinodo che ha così fortemente insistito sulla
sua dimensione spirituale, attraverso lo spazio concesso alla testimonianza,
chiede di non perdere di vista nessuna di queste dimensioni: quella teologica,
quella liturgica, catechetica, pastorale, giuridica, politica, antropologica,
comunicazionale. E tutta la vita cristiana che ha bisogno di essere
inculturata. Una speciale attenzione deve essere data all'inculturazione
liturgica e sacramentale, poiché essa concerne direttamente tutto il popolo che
vi porta già la sua partecipazione. Fra le altre condizioni fondamentali
affinché tocchi la vita del popolo, c'è la traduzione della Bibbia in ognuna
delle nostre lingue africane e la promozione di una lettura personale e
comunitaria nel contesto africano e nello spirito della Tradizione» (n. 18)
«Molti
settori concreti sono stati toccati da un'inculturazione preoccupata di
coinvolgere tutta la vita: la venerazione degli antenati, la salute, la
malattia e la guarigione con i nostri metodi tradizionali, il matrimonio, la
vedovanza e altri settori ancora» (n. 19).
L’Esortazione
post-sinodale di Giovanni Paolo II Ecclesia
in Africa, articolata in sette capitoli, dedica il terzo capitolo al tema
dell’Evangelizzazione e inculturazione.
A questo proposito si afferma che «Il Sinodo considera l’inculturazione come
una priorità e un’urgenza nella vita delle Chiese particolari per un reale
radicamento del Vangelo in Africa, un’esigenza dell’evangelizzazione, un
cammino verso una piena evangelizzazione, una delle maggiori sfide per la
Chiesa nel continente all’approssimarsi del terzo millennio» (EA 59).
Dopo
aver richiamato i fondamenti teologici dell’inculturazione (il mistero
dell’incarnazione, il mistero della redenzione, il mistero della pentecoste)
(EA 60-61), si indicano anche i criteri e gli ambiti dell’inculturazione: «È un
compito difficile e delicato, poiché pone in questione la fedeltà della Chiesa
al Vangelo e alla Tradizione apostolica nell'evoluzione costante delle culture.
Giustamente, quindi, i padri sinodali hanno osservato: “Circa i rapidi
cambiamenti culturali, sociali, economici e politici, le nostre Chiese locali
dovranno lavorare ad un processo d'inculturazione sempre rinnovato, rispettando
i due criteri seguenti: la compatibilità con il messaggio cristiano e la
comunione con la Chiesa universale [...]. In ogni caso si avrà cura di evitare
ogni sincretismo (Propositio 31)”»
(EA 62a).
«Come
cammino verso una piena evangelizzazione, l'inculturazione mira a porre l'uomo
in condizione di accogliere Gesù Cristo nell'integralità del proprio essere
personale, culturale, economico e politico, in vista della piena adesione a Dio
Padre e di una vita santa mediante l'azione dello Spirito Santo (Propositio 32)» (EA 62b).
«Nel
rendere grazie a Dio per i frutti che gli sforzi dell'inculturazione hanno già
portato alla vita delle Chiese del continente, particolarmente alle antiche
Chiese orientali d'Africa, il sinodo ha raccomandato “ai vescovi e alle
conferenze episcopali di tenere conto che l’inculturazione ingloba tutti gli
ambiti della vita della Chiesa e dell'evangelizzazione: teologia, liturgia,
vita e struttura della Chiesa. Tutto ciò sottolinea il bisogno di una ricerca
nell'ambito delle culture africane in tutta la loro complessità”. Proprio per
questo il sinodo ha invitato i pastori “a sfruttare al massimo le molteplici
possibilità che la disciplina attuale della Chiesa già accorda al riguardo (Propositio 32)”» (EA 62c).
«Non
solo il sinodo ha parlato dell'inculturazione, ma l'ha anche concretamente
applicata, assumendo come idea-guida per l'evangelizzazione dell'Africa quella
di Chiesa come Famiglia di Dio In
essa i padri sinodali hanno riconosciuto una espressione della natura della
Chiesa particolarmente adatta per l'Africa. […] È vivamente auspicabile che i
teologi elaborino la teologia della Chiesa-famiglia in tutta la ricchezza
insita in tale concetto, sviluppandone la complementarità mediante altre
immagini della Chiesa» (Propositio 8)»
(EA 63).
«Nella
pratica, senza alcun pregiudizio per le tradizioni proprie di ciascuna Chiesa,
latina o orientale, “dovrà essere perseguita l'inculturazione della liturgia, avendo cura che nulla cambi
quanto agli elementi essenziali, affinché il popolo fedele possa meglio
comprendere e vivere le celebrazioni liturgiche» (Propositio 34)”.
Il
sinodo ha inoltre riaffermato che, anche quando la dottrina è difficilmente
assimilabile nonostante un lungo periodo di evangelizzazione, o, ancora, quando
la sua pratica pone seri problemi pastorali, soprattutto nella vita
sacramentale, occorre restare fedeli all'insegnamento della Chiesa e, al tempo
stesso, rispettare le persone nella giustizia e con vera carità pastorale. Ciò
presupposto, il sinodo ha espresso l'auspicio che le conferenze episcopali, in
collaborazione con le Università e gli istituti cattolici, creino delle
commissioni di studio, specialmente per quanto riguarda il matrimonio, la
venerazione degli antenati e il mondo degli spiriti, al fine di esaminare a
fondo tutti gli aspetti culturali dei problemi posti dal punto di vista
teologico, sacramentale, rituale e canonico (cf Propositiones 35-37)”» (EA 64).
Per una
visione sintetica dei lavori del Sinodo circa l’inculturazione, si può citare
l’intervento del Card. Thiandoum: «Si può affermare che l’inculturazione è
emersa in questo Sinodo come grande preoccupazione. Essa riguarda ogni aspetto
della vita del cristiano in Africa; costituisce il matrimonio fra fede
professata e vita concreta. L’inculturazione non ha nulla a che fare con la
ricerca di una cristianità facile e a buon mercato, piuttosto il suo fine
ultimo è la santità in uno stile africano. La Chiesa universale dovrebbe
continuare a dare alle Chiese in Africa e nel Madagascar la libertà e la
fiducia necessarie per svolgere questo importante compito. In quest’area gli
Istituti teologici esistenti e altri centri di ricerca possono rivestire un
ruolo di guida; è stato riconosciuto il contributo particolare del serio dialogo
instauratosi con la religione tradizionale africana. E per questo la
religiosità rappresenta il serbatoio dei valori religiosi e culturali africani.
Sebbene l’inculturazione interessi tutta la vita, sono stati evidenziati alcuni
ambiti: formulazione della fede in una teologia cristiana africana autentica;
strutture ecclesiali che rappresentano la Chiesa come famiglia di Dio con
nuovi, adeguati ministeri; vita religiosa e monastica e loro espressione;
liturgia; gli antenati e la loro venerazione; vita morale, individuale e
sociale; vita pubblica, comportamenti».[281]
4. Assemblea speciale per l’America del Sinodo dei Vescovi
(1977)
«L’incontro con Gesù Cristo vivente, cammino
per la conversione, la comunione e la solidarietà in America». Questo è
stato il tema dell’Assemblea Speciale per l’America del Sinodo dei Vescovi,
celebrato in Vaticano dal 16 novembre al 12 dicembre 1997.
Al
termine dell’Assemblea, come già nei Sinodi precedenti, sono state redatte
delle Propositiones ed è stato
inviato un Messaggio.
Due delle
76 Propositiones sono dedicate
rispettivamente al rapporto «Vangelo e
cultura» (n. 17) e alle «Culture
indigene» (n. 18).
a. Vangelo e cultura.
«Poiché
il dramma del nostro tempo è la frattura tra la fede e la cultura (cf. Evangelii Nuntiandi n. 20), la nuova
evangelizzazione richiede uno sforzo lucido. serio e ordinato per
l’evangelizzazione della cultura. Giovanni Paolo II ha considerato questo come
lo scopo della nuova evangelizzazione.
Per la
sua incarnazione. il Figlio di Dio assume la natura umana. la purifica e la
porta a pienezza. e mediante il dono del suo Spirito riunisce nel suo amore i
diversi popoli e le diverse culture. Gesù Cristo dev'essere annunziato agli
uomini e alle donne dell'America come risposta a quello che essi sperano e
attendono: per gli intellettuali, per gli artisti, per quanti agiscono con
rettitudine, per coloro che hanno fame di giustizia, per coloro che si spendono
per la pace e l'unità dei nostri popoli.
Affinché
il Vangelo sia accolto, nel dialogo si adotti il linguaggio e la cultura di
coloro che ci ascoltano. La predicazione del Vangelo, perché sia davvero
universale (cf. Mt 28,19), dev'essere diretta a tutti i gruppi, anche a quelli
che hanno voluto estraniarsi dalla chiesa.
[…]Poiché
il pluralismo religioso e culturale, nel contesto in cui si compie la nostra
missione evangelizzatrice, si evolve in modo sempre più ampio, vediamo la
necessità della persuasione personale come mezzo primario
dell'evangelizzazione, usando al tempo stesso le forme culturali mediante le quali
la fede viene legittima mente espressa.
Seguendo
l'esempio della piena inculturazione che si esprime in santa Maria di
Guadalupe, Stella dell'evangelizzazione dell'America, auspichiamo che la nuova
evangelizzazione penetri il cuore degli uomini e delle donne d'America, giunga
al cuore delle loro culture e le trasformi dall'intimo» (Propositio n. 17).
b. Le culture indigene
«Nella
prima evangelizzazione, i popoli indigeni sul continente hanno incontrato il
Cristo come Redentore e Signore. Nel momento in cui intraprendiamo la nuova
evangelizzazione, riconosciamo gli aspetti sia negativi sia positivi
dell'incontro con la cultura europea e con le altre per i discendenti dei loro
popoli. Esprimiamo la nostra solidarietà con essi nella loro sete di giustizia
e di identità culturale.
Proponiamo:
a) di
compiere l'inculturazione dell'evangelizzazione dell'America tenendo presenti i
popoli indigeni e le loro culture, affinché i «semi del Verbo» giungano alla
loro pienezza in Cristo;
b) di
rispettare le loro terre, gli accordi e le altre necessità sociali (educazione,
salute, ecc.);
c) di
rinnovare la nostra dedizione pastorale, con speciale attenzione ai metodi già
«inculturati» della catechesi e della liturgia;
d) di
preparare con cura un numero sufficiente di missionari, e di promuovere
vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata fra i popoli indigeni;
di
proclamare la necessità della riconciliazione tra i popoli indigeni e la
società in cui vivono» (Propositio n. 18).
Anche
nel Messaggio finale del Sinodo non sono
mancati chiari riferimenti al tema dell’inculturazione. Salutando i «popoli
aborigeni e indigeni dell’America», il
Sinodo si impegna non solo ad annunciare il Vangelo di Gesù Cristo, ma si
impegna anche «a rispettare la vostra cultura e a sostenervi nella
conservazione delle vostre tradizioni» (n. 21).
5. Assemblea speciale per l’Asia del Sinodo dei Vescovi
(1998).
La
prima Assemblea speciale per l’Asia del Sinodo dei Vescovi si è svolta a Roma
dal 19 aprile al 14 maggio 1998. Il tema è stato «Gesù Cristo, il Salvatore, e la sua missione di amore e servizio in
Asia: “..perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)». I
temi privilegiati dagli interventi in aula sono stati: il dialogo
interreligioso (29%), inculturazione (26%), problemi sociali (26%),
evangelizzazione (22%), altri (215).
Nei
loro interventi, i Padri sinodali hanno espresso il convincimento che ancora
non siano valorizzate a sufficienza le risorse creative delle Chiese asiatiche.
In aula è stato più volte ricordato che la Chiesa latina è il frutto del
processo di inculturazione di una vita di fede nata in Asia (Minore).
Il
discorso sull’inculturazione ha toccato tre aspetti particolari: la liturgia,
la teologia, la spiritualità. Al termine dei lavori, nel Messaggio del Sinodo, si dice: «Abbiamo
messo in evidenza l’importanza dell’inculturazione affinché “la Chiesa diventi
segno più comprensibile di ciò che è e strumento più atto della missione”
(RMi 52)».[282]
Nella Proposizione n. 43 inviata al Santo
Padre in vista dell’elaborazione della Esortazione post-sinodale, è stato
riassunto per sommi capi il lavoro sinodale relativo alla inculturazione:
«L'opera di radicamento del Vangelo nelle
diverse culture dell'Asia esige molta riflessione e molto discernimento,
soprattutto nella società in cui la cultura secolare e la religione
tradizionale sono intimamente intrecciate. Bisogna trovare percorsi e approcci
idonei, creativi e dinamici per promuovere l'inculturazione nei campi della
teologia. della liturgia. della religiosità popolare, ecc. Occorrono persone
specializzate a un tempo in teologia e in scienze umane per portare avanti
questo processo.
Questo sinodo annette molta importanza
all'inculturazione dell'annuncio di fede e incoraggia il proseguimento di
ricerche teologiche per opera sia dei teologi in particolare. sia di ogni
Chiesa in generale. Tale impegno teologico deve essere mantenuto con coraggio.
con fedeltà alle Scritture e alla tradizione della Chiesa. in comunione col
magistero e con piena conoscenza delle situazioni pastorali.
La liturgia è uno strumento primario
dell'evangelizzazione. Nelle Chiese orientali. essa ha salvato la fede ed è
stata inculturata con successo. Essa deve toccare il cuore dei membri della
Chiesa locale ed essere suggestiva. Per molti cattolici asiatici. la liturgia
ufficiale è spesso percepita come estranea e non tocca il loro cuore. Ciò
manifesta la necessità di inculturare la liturgia in modo tale che divenga più
significativa e feconda nel contesto delle loro culture (cf. Evangelii
Nuntiandi 48)
Di conseguenza, le chiese locali devono avere
l'autorità e la libertà di inculturare la liturgia adattandola alle culture
locali, pur riconoscendo la necessità del dialogo e della comunione con la
Santa Sede. principio dell'unità nella Chiesa.
Il sinodo chiede alla Congregazione per il
culto divino e la disciplina dei sacramenti di concedere alle conferenze
episcopali e alle conferenze regionali dei vescovi l'autorità o la competenza
di approvare le traduzioni dei testi liturgici in lingua vernacolare, che infine
devono essere trasmesse allo stesso dicastero.
Bisogna riconoscere che l'inculturazione
della liturgia, pur necessaria, è un compito delicato che non può e non
dovrebbe compromettere l'essenziale della liturgia e della fede cristiana».[283]
6. Assemblea
speciale per l’Oceania del Sinodo dei Vescovi (1998).
Auspicata
da Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente (TMA 38), già ha avviato il suo iter
con la pubblicazione dei Lineamenta,[284] e dell’Instrumentum laboris.[285]
a. Lineamenta. Tra i temi principali indicati dai Lineamenta
c’è il rapporto tra Vangelo e cultura, cui è dedicato il capitolo secondo della
prima parte (nn.9-14) dal titolo: «La via per molte culture». «Il processo di
inculturazione fa parte dell’opera evangelizzatrice della Chiesa in tutte le
culture dell’Oceania» (n.11). L’inculturazione è intesa come una via per la
crescita e la maturità della Chiesa locale. Il processo di inculturazione dovrà
permettere alla fede di esprimersi attraverso gli autentici valori culturali.
«Applicando il metodo dell’inculturazione, la Chiesa cercherà di incorporare
elementi della cultura locale dentro la sua liturgia, nella religiosità
popolare, nella catechesi, nell’arte sacra» ( n.11). E’ auspicata anche una
inculturazione del linguaggio teologico: la verità di Cristo predicata dalla
Chiesa può essere espressa mediante un modo nuovo e locale (n. 11). «La Chiesa
ha profondo rispetto per ogni cultura» (n. 9).
b. Instrumentum laboris. Anche questo secondo documento per la preparazione immediata del
Sinodo dell’Oceania, dedica il secondo capitolo della prima parte a «Il Vangelo
e le molte culture» (nn. 10-15).
Il
Vangelo ha una forza per trasformare non solo la vita delle persone, ma anche
le loro culture. Però anche le culture sono in grado di offrire i loro valori
positivi che possono arricchire il modo con cui il Vangelo è predicato e la
vita cristiana è vissuta nelle comunità locali (n.12).
E’
soprattutto nell’ambito della liturgia che si sono fatti i passi maggiori di
inculturazione. Sotto la guida pastorale dei Vescovi, la liturgia è stata
arricchita mediante l’introduzione delle lingue locali nelle preghiere e nelle
letture. Sono stati introdotti nei riti anche gesti, danze, musiche e canti
tradizionali. Gli edifici sacri e le pitture sono stati prodotti da artisti
locali. I riti del matrimonio e dei funerali utilizzano simboli indigeni. La
religiosità popolare (pellegrinaggi, devozione mariana) è stata arricchita con
numerosi simboli e costumi locali. Nel rito della riconciliazione sono stati
introdotti gesti tradizionali. Tutto questo è stato possibile perché la cultura
tradizionale è fortemente impregnata del senso del sacro.
La
catechesi è stata resa più viva mediante l’utilizzazione di racconti,
drammatizzazioni e poesie tradizionali.
Ricca di risultati è pure la traduzione della Bibbia nei linguaggi locali
(indigeni), mediante una efficace collaborazione ecumenica.
Il
processo di inculturazione, tuttavia, ha procurato un certo disagio negli
anziani che avevano visto la prima evangelizzazione lottare contro certi
costumi tradizionali che attualmente vengono invece recuperati. Si dovrà
seguire la via della diversità culturale senza perdere il vincolo dell’unità
nella Chiesa.
Un
problema tutto particolare è quello della «cultura dei giovani» (n. 15), più
orientati verso i modelli occidentali che su quelli tradizionali. I giovani
vanno educati e difesi contro l’invadenza dei «media» sempre più aggressivi e
portatori di messaggi violenti e immorali.
7. Conclusione
In
questo capitolo abbiamo cercato di leggere l’attuale interesse dei Sinodi
Continentali verso le culture e l’inculturazione. Sempre più va imponendosi la
convinzione che non è possibile oggi evangelizzare alcun popolo senza tener
conto della cultura nella quale è inserito, ma piuttosto far ricorso ad
elementi positivi presenti nella loto tradizione religiosa quale «via» per
annunciare ed esprimere la verità perenne del Vangelo e della fede cristiana.
Per
motivi di spazio non abbiamo preso in considerazione gli altri Sinodi, dedicati
alle «persone». Tuttavia, per completezza di informazione, va detto che in
ciascuno di questi Sinodi non è mai mancata l’attenzione alla formazione delle
singole categorie di persone perché siano operatori di «cultura» e attenti
fruitori delle culture intese come «via» necessaria per una efficace
evangelizzazione.
Così il
Sinodo del 1990 dedicato alla «Formazione dei sacerdoti nelle circostanze
attuali» ha potuto esprimere, nell’Esortazione post-sinodale Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo
II,[286] questo suggerimento: «l’esigenza, oggi fortemente sentita,
dell’evangelizzazione delle culture e dell’inculturazione del messaggio della
fede, deve entrare con maggiore ampiezza e sensibilità nella formazione dei
candidati al sacerdozio. […]Il problema dell’inculturazione può avere un
interesse specifico quando i candidati al sacerdozio provengono essi stessi da
antiche culture: avranno bisogno, allora, di vie adeguate di formazione, sia
per superare il pericolo di essere meno esigenti e di sviluppare un’educazione più
debole ai valori umani, cristiani e sacerdotali, sia per valorizzare gli
elementi buoni e autentici delle loro culture e tradizioni» (PdV 55).
Anche
il Sinodo del 1994 dedicato alla vita consacrata, ha espresso, nella
Esortazione post-sinodale Vita consecrata
di Giovanni Paolo II,[287] la necessità di continuare, da parte degli Istituti di vita
consacrata, ad influire nella formazione e nella trasmissione della cultura.
«Il bisogno di contribuire alla promozione della cultura, al dialogo fra
cultura e fede, è avvertito oggi nella Chiesa in modo tutto particolare. I
consacrati non possono non sentirsi interpellati da questa urgenza. Anch’essi
sono chiamati a individuare, nell’annuncio della Parola di Dio, metodi più
appropriati alle esigenze dei diversi gruppi umani e dei molteplici ambiti
professionali, perché la luce di Cristo penetri ogni settore umano ed il
fermento della salvezza trasformi dall’interno il vivere sociale, favorendo
l’affermarsi di una cultura permeata di valori evangelici» (VC 98).
La missione evangelizzatrice che è propria della Chiesa,
esige non soltanto che il Vangelo sia predicato in fasce geografiche sempre più
vaste ed a moltitudini umane sempre più grandi, ma che siano anche permeati
della virtù dello stesso Vangelo il loro modo di pensare, i criteri di
giudizio, le norme d'azione. In una parola, è necessario che tutta la cultura
dell'uomo sia penetrata dal Vangelo ( Cf. EN 19-20).
L'ambiente culturale, infatti, nel quale l'uomo vive,
esercita un notevole influsso sul suo modo di pensare e conseguentemente sul
suo modo di agire; perciò il distacco tra fede e cultura costituisce un grave
impedimento all'evangelizzazione, mentre al contrario la cultura informata da
spirito cristiano è un valido strumento per la diffusione del Vangelo.
Inoltre, il Vangelo di Cristo che è diretto a tutti i popoli
di ogni età e regione, non è legato in modo esclusivo ad alcuna cultura
particolare, ma è capace di permeare tutte le culture così da illuminarle con
la luce della grazia divina e purificare e rinnovare in Cristo i costumi degli
uomini.
E questa la ragione per cui la Chiesa cerca di portare la
buona novella a tutti i ceti dell'umanità in modo da poter convertire la
coscienza personale e quella collettiva, tutta la loro vita, come pure l'intero
contesto sociale nel quale essi sono impegnati. In questo modo la Chiesa,
promuovendo anche l'umana civiltà, adempie la sua missione evangelizzatrice (EN 18; GS 58).
Alle soglie del terzo millennio, per la Chiesa risuona
ancora la verità e la forza del mandato missionario affidatole da Cristo nella
potenza della sua croce e della risurrezione, quando ordinò di predicare il
Vangelo ad ogni creatura (Mc 16,15),
di andare e ammaestrare tutte le nazioni (Mt
28,19). Questo mandato missionario oggi deve tener conto de]la situazione
particolare in cui la Chiesa contemporanea si trova a dover annunciare il
Vangelo. Una attuazione drammatica che vede la rottura tra Vangelo e cultura;
da qui il continuo interrogarsi e ricercare della Chiesa missionaria per vedere
quali siano gli sforzi migliori in vista di una generosa evangelizzazione delle
culture dei popoli. La Chiesa infatti è consapevole che il dialogo con le
culture ha un'importanza vitale per l'avvenire della Chiesa e del mondo; per la
Chiesa questo dialogo è assolutamente indispensabile perché altrimenti
l'evangelizzazione resterebbe lettera morta. Da qui un continuo e coraggioso
processo di inculturazione, cioè di quel lavoro particolare che permette al
Vangelo di penetrare l'anima delle culture viventi e allo stesso tempo di
accogliere nel tessuto vivente della Chiesa
quelle espressioni che possono arricchire la Chiesa stessa.
Se in passato, per mezzo dei suoi missionari, la Chiesa ha
compiuto un'opera incomparabile nel portare il Vangelo in mezzo alle culture
dei popoli, tuttavia bisogna dire che questo lavoro della missione non può
dirsi mai compiuto: sia perché a volte questo incontro con le culture è stato
solo superficiale, sia soprattutto perché, essendo in costante trasformazione,
le culture richiedono un incontro continuato e rinnovato.
Mentre la Chiesa ripete a se stessa l'impegno
dell'evangelizzazione, deve darsi anche un impulso vigoroso nel porsi in
ascolto dell'uomo moderno, non tanto per approvarne i suoi comportamenti,
quanto piuttosto per scoprire le sue speranze e le sue aspirazioni, in modo che
l'annuncio del Vangelo non avvenga in una maniera esteriore o decorativa a
somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità fino alle
radici.
Per la Chiesa missionaria non è questo il tempo di chiudersi
nel ghetto della paura e dell'ozio, né tantomeno di diluire le proprie
convinzioni fino a farle svanire per renderle maggiormente accettabili;
tuttavia prendendo consapevolezza dell'ampiezza e della gravità dei problemi che
vengono posti all'evangelizzazione dall'emergenza delle nuove culture spesso e
volentieri in contraddizione, in contrasto o in opposizione al messaggio
evangelico, occorre ridare rinnovato slancio all'azione evangelizzatrice
consapevoli che per seminare il seme del Vangelo occorre arare intensamente,
coraggiosamente e in profondità la durezza di questo terreno così difficile
qual è il terreno delle culture dei popoli.
«Il dialogo della
Chiesa con le culture del nostro tempo è dunque un campo vitale nel quale è in
gioco il destino del mondo in questo scorcio del secolo XX»[288].
Sorretta e confortata dagli insegnamenti del Concilio, la Chiesa è consapevole
dell'importanza fondamentale della cultura per il pieno sviluppo dell'uomo ed è
pure consapevole dei molteplici legami tra il messaggio della salvezza e la
cultura dei popoli. La Chiesa sa anche che il Vangelo e quindi
l'evangelizzazione non si identificano certo con la cultura e sono indipendenti
rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno che il Vangelo annunzia è
vissuto da uomini profondamente legati ad una cultura e la costruzione del
Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane.
Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l'evangelizzazione non sono
necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte senza
asservirsi ad alcuna (cfr. EN 20). La Chiesa sa che è possibile un reciproco
arricchimento della Chiesa e delle diverse culture nella comunione storica con
le varie civiltà. E conosce pure la necessità di comprendere a fondo il modo di
pensare e di sentire degli altri uomini del proprio tempo, come si esprimono,
come vivono, perché l'evangelizzazione sia efficace e fruttuosa.
«Una fede che non
diventa cultura, è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata,
non fedelmente vissuta»[289].
Come ebbe a dire Paolo VI davanti all'assemblea generale
delle Nazioni Unite: «La Chiesa è esperta
in umanità» (4.10.1965)[290];
questa esperienza impone ad essa l'urgenza di intrecciare un dialogo con tutte
le culture, comprese quelle agnostiche od ostili alla tradizione cristiana o
anche dichiaratamente atee, affinché l'uomo d'oggi possa scoprire che Dio, ben
lungi dall'essere rivale dell'uomo, gli dona di realizzarsi pienamente a sua
immagine e somiglianza.
Per la Chiesa missionaria questo dialogo con le culture, che
oggi si suol comunemente chiamare «inculturazione», non è un lusso, non è una
opzionalità, ma è piuttosto una necessità che viene illustrata e giustificata
dal mistero stesso dell'incarnazione sull'esempio del Logos, il Verbo di Dio
fatto carne, che pianta la sua tenda in mezzo a noi, assume una natura umana in
tutta la sua debolezza, per poter in questo modo comunicare a questa natura
quella divinizzazione che le mancava per ricomporre il disegno sapiente di Dio
Creatore[291]. Da questo
meraviglioso incontro delle culture con il Vangelo avverrà quell'azione
creatrice che permetterà alle culture stesse di essere fecondate dalla sapienza
di Dio e in questa maniera più facilmente assunte e assimilate nel contesto
vitale della Chiesa stessa.
Tutto questo richiede alla Chiesa missionaria un coraggio
chiaroveggente. La Chiesa del dialogo deve valutare le compatibilità e le
incompatibilità, ciò che nelle culture è conciliabile con la fede, ciò che è
evangelizzabile e ciò che invece si contrappone radicalmente. Per fare questo,
è indispensabile la fedeltà al dato rivelato. Nel dialogo il Cristiano non
potrà mai mettere in dubbio o sottacere la minima parte autentica del dogma e
fare delle concessioni in materia di morale o d'azione, altrimenti
l'evangelizzazione sarà una menzogna, una concessione inammissibile, anche se
ispirata dal buon cuore.
Sull'esempio di Gesù che si aggrega al cammino dei due
discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,13-35),
anche la Chiesa, pellegrinante verso il regno, deve aggregare alla sua marcia
tutti i popoli e le culture che incontra offrendo loro il messaggio e la vita
del Signore Risorto. Mentre offre questi tesori preziosi e insostituibili,
dovrà anche accogliere i doni che le genti portano a Cristo (cfr. LG 13 che
cita il Salmo 71,10; Isaia 60,4-7; Apocalisse 21,24).
Da questo scambio meraviglioso la cultura e le culture dei
popoli sono assunte nella Chiesa mentre la Chiesa si troverà arricchita da
queste ricchezze che il Padre stesso ha seminato nei popoli per assegnarle a
Cristo in eredità (AG 22).
Avanzando nel secolo presente alla ricerca della città
futura e permanente (cfr. Ebrei 13,14)
la Chiesa nel suo impegno missionario è riempita dello Spirito del Signore
Risorto ed è fornita dei mezzi adatti per divenire l'unione visibile di tutti i
popoli della terra; infatti Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede
a Cristo, autore della salvezza, principio di unità e pace, e ne ha costituito
la Chiesa perché essa per tutti e per i singoli sia sacramento visibile di
questa unità salvifica[292].
Poiché per vocazione essa si deve estendere a tutta la terra, deve anche
entrare nella storia degli uomini pur trascendendone i tempi e i confini. Essa
non si nasconde le difficoltà di questo processo di inculturazione, guardando
con fiducia alle difficoltà con cui lo stesso Verbo di Dio si incarnò nella
nostra natura umana; pertanto, tra le tentazioni e le tribolazioni del suo
cammino, la Chiesa continua il suo ruolo di evangelizzazione, consapevole di
essere sostenuta dalla forza e dalla grazia di Dio a lei promesse dal Signore
risorto, affinché per l'umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà,
ma resti degna Sposa del suo Signore e non cessi di rinnovarsi sotto l'azione
dello Spirito Santo, finché, attraverso la croce, giunga alla luce che non
conosce tramonto (cfr. LG 9).
Come s. Paolo ad Atene, la fede offre una lettura nuova e
creatrice delle culture ancestrali; le sottopone alla legge purificatrice della
morte e risurrezione di Cristo; al «tempo dell'ignoranza» fa seguito il «tempo
del ravvedimento» (At 17,30-31); al Dio ignoto fa posto Colui che è risuscitato
dai morti (At 17, 23.31). Se Dio aveva parlato in modi e tempi diversi in
queste culture ancestrali, oggi ha parlato a noi nel Figlio (cf Eb 1,1-2)
1.
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WELZ-GOTTWALD E., The interculturality of mysticism. In: Studies in Spirituality 7 (1997) 217-227.
INDICE GENERALE
INTRODUZIONE
PARTE IV - IL
FONDAMENTO TEOLOGICO DELL'INCULTURAZIONE
3.1.
Nicea (325):
3.2.
Costantinopolitano I (381):
3.3.
Efeso (431):
3.4.
Calcedonia (451).
1
Adattamento o
inculturazione?
2
Motivazioni,
esigenze, obiettivi, condizioni dell'inculturazione liturgica.
PARTE VI - PRINCIPI
DELL'INCULTURAZIONE LITURGICA
1
Introduzione.
2
Importanza e
necessità dell'inculturazione.
3
Criteri per
l'inculturazione.
3.1.
Criterio di fede.
3.2.
riterio liturgico.
3.3.
Criterio
ecclesiologico.
3.4.
Criterio
antropologico.
PARTE VII - L'ADATTAMENTO
NEI NUOVI “PRAENOTANDA”
PARTE VIII - INCULTURAZIONE
E CREATIVITA' LITURGICA
PARTE
IX - INCULTURAZIONE E RELIGIOSITA' POPOLARE
PARTE
X - INCULTURAZIONE E CATECHESI
PARTE
XI - EVANGELIZZAZIONE DELLA CULTURA
1 La
cultura come campo di evangelizzazione.
2
Vangelo e cultura.
3.
Vie e mezzi per evangelizzare le culture.
4.
Cultura e mass-media.
5.
Evangelizzazione della modernità e del postmoderno.
PARTE
XII - L’INCULTURAZIONE NEI RECENTI
SINODI CONTINENTALI
1. Assemblea speciale per l’Europa del Sinodo dei
Vescovi (1991)
2.
IV Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano, Santo Domingo (12-28
ottobre 1992).
3. Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei
Vescovi (1994)
4. Assemblea speciale per l’America del Sinodo
dei Vescovi (1977)
5. Assemblea speciale per l’Asia del Sinodo dei
Vescovi (1998).
6. Assemblea speciale per l’Oceania del Sinodo
dei Vescovi.
7. Conclusione
CONCLUSIONE
GENERALE
BIBLIOGRAFIA
GENERALE
INDICE
GENERALE
[1] Esattamente nell’Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II Catechesi tradendae n. 53, del 16.10.1979.
[2] Bibliografia: AA.VV. Chiesa locale e inculturazione nella missione, EMI Bologna 1987; AZEVEDO M., Challenges to Inculturated Evangelization, in: JENKINSON W. & O'SULLIVAN H. (Editors), Trends in Mission toward the Third Millennium. Essays in celebration of twenty-five Years of SEDOS, Orbis Books, Maryknoll, New York, 1991, pp. 134-142; BUTSELAAR G.J. van, Gospel and culture: the new focus for mission, in Exchange 23 (1994) 163-171; GEFFRÉ C., Mission et inculturation, in: Spiritus, 109 (1987), pp.406-427; GIGLIONI P., Inculturazione e missione, in AA.VV. Chiesa locale e inculturazione nella missione, EMI Bologna 1987, 76-130; KAROKARAN A., Mission, monoculturalism and murder of cultures. In: Ishvani Documentation and Mission Digest 14 (1996) N. 2 p. 87-97; LINGENFELTER S.G., Transforming Culture. A Challenge for Christian Mission, Baker Book House, Grand Rapids 1992; MVENG, E., De la mission à l'inculturation, in NDI-OKALLA J., (edt.), Inculturation et conversion, Karthala, Paris, 1994, pp.11-19; MYERS B. L., The new context of world mission, MARC Monrovia, , 1996; ODIGBO G., Mission and inculturation, in Sedos Bulletin, 26 (1994) 75-77; POUPARD P., La nouvelle évangélisation. L'inculturation au coeur de la mission, in Esprit et Vie 102 (Langres 1992) 225-233; ROEST CROLLIUS A., Missione e inculturazione. Incarnare l'Evangelo nelle culture dei popoli, in AA.VV., Cristo Chiesa Missione. Commento alla “Redemptoris Missio”, Urbaniana University Press, Roma 1992, 293-305; SARAIVA MARTINS J., Missione e cultura, Urbaniana University Press, Roma 1986.
[3].
Cfr. PAOLO VI, Messaggio per la giornata
missionaria mondiale 1967, in Insegnamenti,
V (1967), p. 517.
[4].
Cfr. PAOLO Vl, Costituzione Apostolica Evangelii
Nuntiandi, n. 14.
[5]
Cfr. PAOLO Vl, Messaggio per la giornata
missionaria mondiale 1977, in Insegnamenti,
XV (1977), p. 541.
[6]
Cfr. PAOLO VI, Messaggio per la giornata
missionaria mondiale 1971, in Insegnamenti,
IX (1971), p. 566.
[7]
PAOLO Vl, Enciclica Ecclesiam Suam
[38], in AAS 56 (1964), 609-659 (cfr. «Tutte
le Encicliche dei Sommi Pontefici», Ed. Dall'Oglio, Milano 1979, pp.
1685-1721).
[8] Ibìdem n.37
[9] Ibìdem n.49
[10]
Ibìdem
[11]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del
Pontificio Consiglio per la Cultura, in Insegnamenti
VI,1 (1983) 147-154. 19.1.1983, p. 1.
[12] Ibìdem p.2. Lo stesso Giovanni Paolo II, indirizzando
al Card. A. Casaroli una lettera con cui istituiva il Pontificio Consiglio per
la Cultura, ribadiva questo pressante pensiero: «Fin dall'inizio del mio
pontificato, ho ritenuto che il dialogo della Chiesa con le culture del nostro
tempo fosse un campo vitale, nel quale è in gioco il destino del mondo in
questo scorcio del secolo XX». Infatti, proprio nel «Discorso ai Cardinali» il
9 novembre 1979, aveva detto: «Su questo campo vitale si gioca il destino della
Chiesa e del mondo in questo scorcio finale del nostro secolo» (in Insegnamenti II,2 (1979) 1089-1093.
[13] Bibliografia: AA.VV., Inculturazione, concetti, problemi, orientamenti, Roma, Centrum Ignatianum Spiritualitatis 1979; AMATO A., Inculturazione - Contestualizzazione - Teologia di contesto: Elementi di bibliografia scelta, in Salesianum 45 (1983) 79-111; BEDNARSKI A.F., La cultura. Riflessione teologica, Marietti, Torino 1981; CARRIER H., Lexique de la culture pour l'analyse culturelle et l'inculturation, Desclée, Tournai 1992; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e inculturazione, in EV 11, 1347-1424; La Civiltà cattolica 134 (1989) I/3326, pp.158-177; Regno Documenti 5, 1989, 275-282; Doc. Cath. 1980 (1989); MONDIN B., Cultura, in AA.VV., Dizionario di Missiologia, EDB, Bologna 1993, pp.167-175; ROEST CROLLIUS A., Inculturazione, in AA.VV., Dizionario di Missiologia, EDB, Bologna 1993, 281-286; ROEST CROLLIUS A.. - NKERAMIHIGO T., Whot is So New About Inculturation, Gregorian University Press, Roma 21991; POUPARD P., Culture et inculturation: essai de définition, in Seminarium 32 (Città del Vaticano 1992) 19-34.
[14]
EN 20: «Occorre evangelizzare... la cultura e le culture dell'uomo»; CT 53:
«L'evangelizzazione... è chiamata a portare la forza del Vangelo nel cuore
della cultura e delle culture».
[15] L’uso del termine «cultura», nel senso socio-storico come lo intendiamo oggi, è abbastanza recente; fino agli inizi di questo secolo si preferiva parlare di «civiltà»; se si usava il termine «cultura» lo si intendeva in senso intellettuale ed estetico, classico o umanistico: l’erudizione, l’affinamento dello spirito, il progresso artistico e letterario; era applicato alle persone dette di cultura, alle categorie colte. Solo più recentemente si è dato al termine «cultura» un senso sociologico e storico o antropologico: è l’universo umanizzato che una collettività si crea, le sue istituzioni, le sue creazioni, le sue abitudini, le sue credenze, i suoi comportamenti caratteristici e qualificanti per l’identificazione.
[16]
È interessante notare le analogie che esistono tra la definizione della cultura
in Gaudium et Spes (n. 53) e quella
adottata dall'Unesco, in Messico, nel 1982, durante la Conferenza Mondiale
sulle Politiche Culturali: «In un senso
più ampio la cultura può oggi essere considerata come l'insieme dei tratti
distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi, che
caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa coinvolge, oltre alle arti
e alle lettere, i modi di vita, i diritti fondamentali dell'essere umano, i
sistemi di valori, le tradizioni e i credi. La cultura concede all'uomo la
capacità di riflettere su se stesso. È la cultura che fa di noi esseri
specificamente umani, razionali e critici ed eticamente impegnati. Grazie alla
cultura discerniamo i valori ed effettuiamo delle scelte. L'uomo si esprime per
mezzo della cultura, prende consapevolezza di se stesso, si riconosce come un
progetto incompiuto, rimette in questione le sue realizzazioni, ricerca instancabilmente
nuovi significati e crea opere che lo trascendono»: MONDIACULT, Bilan d une Conférence, Présence Catholique (Paris,
Centre Catholique International pour l'Unesco, 1982), 3‑4.
[17]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso all'UNESCO, [2.6.1980], in Insegnamenti III,1 (1980), p. 1636.
[18]
Lo stesso Kluckhohn, nel volume Il
concetto di cultura pubblicato insieme a Kroeber (1952), prende in esame
ben 164 definizioni di cultura.
[19] Citato in The Evangelical – Roman Catholic Dialogue on Mission (1977-1984). A
Report (by MEEKING B. – SCOTT J. – EERDMANS W.B., The Paternoster Press,
Grand Rapids (USA) 1986 [in italiano: Enchiridion
Oecumenicum 3, 1176).
[20]
Ne consegue che una evangelizzazione inculturata non avviene semplicemente con
il trasferimento o la modificazione di linguaggi e metodi, di riti e simboli,
di organizzazione e norme, di modi esterni di fare e di esprimersi. Essa deve
spingersi oltre questa «vernice» (EN 19) e andare alle radici della cultura, ai
suoi sensi e criteri di giudizio, alla sua visione del mondo, per ottenere una
trasformazione storica del suo êthos
socio-culturale.
[21]
In rapporto a questi valori si può dire che una cultura è sana e quindi fattore
di civiltà nella misura in cui essa sa assolvere i suoi compiti fondamentali:
l'umanizzazione dell'uomo, la realizzazione della persona, la promozione della
convivenza pacifica e della solidarietà tra i cittadini, la crescita del
benessere materiale e spirituale della società
[22]
Tuttavia tra «cultura» e «civiltà» vi è ugualmente distinzione. Per «civiltà»
si intende solo una cultura che ha già raggiunto un notevole grado di sviluppo;
per «cultura» invece si intende la forma spirituale di qualsiasi popolo sia
esso progredito oppure ancora primitivo [cf MONDIN B., Cultura, in AA.VV., Dizionario
di Missiologia, EDB, Bologna 1993, pp. 167-175]
[23]
Per un ulteriore approfondimento della questione si rimanda a BAUSOLA A., Analisi critica del concetto di cultura, in
AA.VV., Cristianesimo e cultura, ed.
Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 16-35; ROSSI P. (a cura di), Il concetto di cultura, ed. Einaudi,
Torino 1972; KROEBER A. L. - KLUCKHOHN C., Culture.
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and Culture, London 1948; (tr. it., Religione
e Cultura, ed. Paoline, Torino); NIEBUHR R., Christ and Culture, New York 1956; MATHlEU V., «Cultura», in Enciclopedia Filosofica, ed. Sansoni, Firenze 1957, vol. I, col.
1369 ss.
[24]
Secondo alcuni autori [es. J.O.Buswell] questo termine sarebbe stato coniato da
un missionario protestante [G.L.Barney, 1973] con il significato di
accoglienza-interpretazione di componenti sovraculturali [transculturali] da
una cultura in una nuova cultura.
In senso missiologico il termine inculturazione viene usato per la prima
volta da SEGURA D., “L'initiation, valeur
permanente en vue de l'inculturation”. Mission et cultures non
chrétiennes. Rapports et compte
rendu de la XXIXe Semaine de Missiologie. Lovain
1959 (DDB 1959) 219-235.
Nel 1975 fu usato nella 32a Congregazione
Generale dei Gesuiti dove «inculturazione» è l'equivalente latino del termine
«enculturazione» [in latino non esiste la forma -en]; il termine inculturazione
compare quindi come traduzione di enculturazione la quale nel gergo
antropologico sta per socializzazione [cf R. CROLLIUS, 1978]. Alcuni autori
continuano ad usare enculturazione col significato di inculturazione [es.
Claver, Amalorpavadass]; altri esprimono questo fenomeno con
«contestualizzazione» [Luzbetak, 1981] inteso come sinonimo di inculturazione
[Füllembach, 1981]. Nell'ambito missiologico alcuni equiparano inculturazione
con evangelizzazione: l'inculturazione è l'evangelizzazione stessa [Amaladoss,
1980] che cerca di cambiare-trasformare significati e valori di una cultura per
renderli compatibili con i valori evangelici. Nei documenti del Magistero il
termine inculturazione compare per la prima volta nel 1977 [Messaggio al popolo
di Dio, n.5 [28.10.1977]: “nuntium
christianum oportet ut in culturis humanis radices agat assumendo eas atque
transformando. Hoc sensu dicere licet catechesim quoddam instrumentum
«inculturationis» esse. Quod significat eam evolvere et insimul ab intra
illuminare vitae formas illorum ad quos sese dirigit. Fides christiana per
catechesim in ipsas culturas inserenda est. Vera «incarnatio» fidei per catechesim supponit non solum
processum «dandi» sed etiam «accipiendi»”: [EV 6,385: Da
notare che il testo italiano del Messaggio traduce il latino «inculturationis»
con «acculturazione».Dal canto suo Giovanni Paolo II nell’Esortazione
Apostolica Catechesi tradendae (1979)
continua ad usare come sinonimi «acculturazione» e «inculturazione» (CT 53)
intesa come l'atto di portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura ad
imitazione del grande mistero della incarnazione. Più preciso invece in Slavorum apostoli n. 21: «inculturazione
è l'incarnazione del Vangelo nelle culture autoctone ed insieme l'introduzione
di esse nella vita della Chiesa»].
[25]
Così si esprime Giovanni Paolo II nel discorso ai membri della Commissione
Biblica: «il termine acculturazione, o inculturazione, pur essendo un
neologismo, esprime molto bene una delle componenti del grande mistero
dell'Incarnazione»: in AAS 71 (1979) 606-609, 607; questo testo è poi ripreso
in CT 53.
[26]
Si usa anche il termine transculturazione
che denota o la presenza di determinati elementi culturali attraverso varie
culture, o il trasferirsi etnocentrico e unidirezionale di elementi culturali
da una cultura dominante a un'altra cultura, in genere subalterna).
[27]
Il termine contestualizzazione
diventa abituale in teologia verso gli anno 1970 ad opera di Elwood D.J. - P.L.
Magdamo, Christ in Philippine Context,
Quezon City 1971. Questo termine è usato soprattutto dai Teologi del Terzo
Mondo dopo la loro costituzione in Associazione ecumenica avvenuta a Dar es
Salaam nel 1976; indica lo sforzo intenzionale e riflesso, fatto soprattutto da
coloro che appartengono ad un contesto, di fare teologia in e per un
determinato contesto, prendendo le distanze da una teologia «europea» o
«atlantica», ritenuta troppo compromessa nel quadro della colonizzazione e
sfruttamento del «Terzo Mondo». E' stata chiamata anche la «teologia dei
missionari». Segue il metodo «induttivo». Si è espressa nella cosiddetta Teologia africana e indicato spesso con
il termine Indigenizzazione (che
provoca però resistenze); si vuol fare del cristianesimo una religione indigena
di una determinata società, e per questo capace di creare un dialogo tra il
sistema di pensiero del contesto in cui si pone e il messaggio cristiano. Tale
dialogo prevede una traslazione o
integrazione di elementi tradizionali della cultura nella prassi ecclesiale
(liturgia, catechesi). Le scuole della teologia contestuale si rifanno in parte
al pensiero di K. Rahner e si sono poi espresse nella Teologia politica in ambito tedesco (J.B. Metz e J. Moltmann negli
anni '60) e nella Teologia della
liberazione in America Latina (G. Gutierrez 1971); rientra tra le teologie
in contesto anche la Teologia negra
(J. Cone Black Theology and Black Power
1969) e la Teologia femminista (M.
Daly, The Church and the Second Sex
1968). [cf CHAPPIN M., Teologia in
contesto, LATOURELLE R. - FISICHELLA R., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi
1990, pp.1288-1294].
[28]
GIOVANNI PAOLO II, Epistula encyclica Slavorum
apostoli ad episcopos, sacerdotes religiosos omnesque christifideles:
memoria recolitur, undecimo transacto saeculo, operis evangelici sanctorum
Cyrilli et Methodii [2 iunii 1985] n.21: AAS 77 (1985) 779-813, [qui 802s]; EV
9, 1554-1614. Lo stesso Pontefice, però, in RMi 52 segue la definizione data
dall'Assemblea straordinaria del Sinodo 1985, e cioè: «l'intima trasformazione
degli autentici valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il
radicamento del cristianesimo nelle varie culture”.
[29]
Cf Catechesi Tradendae 53; Slavorum apostoli 21; Redemptoris missio 52. La liturgia romana e l'inculturazione 4.
[30]
SINODO STRAORDINARIO PER IL XX ANNIVERSARIO DELLA CONCLUSIONE DEL CONCILIO
VATICANO II, Relazione finale votata dai Padri [7.12.1985], II D 4, in L’Osservatore Romano 10.12.1985, p.7.
[31]
Il Vangelo, accolto e compreso, viene tradotto secondo il modo di essere, di
agire e di comunicare di persone concrete che vivono e si riconoscono in una
determinata cultura.
[32]
AZEVEDO M. DE, Inculturazione:
problematica, in LATOURELLE R. - FISICHELLA R., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi
1990, pp.576-577.
[33]
ROEST CROLLIUS A., Inculturazione, in
AA.VV., Dizionario di missiologia,
EDB, Bologna 1993, 281-286.
[34]
Nel caso di paesi di tradizione cristiana, la cui cultura è segnata
dall’indifferenza o dal disinteresse per la religione, più che di
inculturazione si deve parlare di nuova evangelizzazione e di formazione
liturgica (SC 19 e 35,3).
[35] Bibliografia: BEAUCHAMP, P., Bible and Inculturation (Rome,
Pontifical Gregorian University, 1983); BEDA RIGAUX, Bible et culture, in AA.VV., Evangelizzazione
e culture, I, Atti del Congresso Internazionale scientifico di Missiologia,
Pontificia Università Urbaniana, Roma 1976, 3-24; CHUPUNGCO A., L'adattamento della liturgia tra culture e
teologia, Piemme, Casale Monferrato 1985 [ed. inglese: Cultural adaptation of the Liturgy, Paulist Press, NY 1982]. Id., A Historical survey of liturgical adaptation,
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e inculturazione, [3-8 ottobre 1988];
EV 11/1347-1424; La Civiltà cattolica 134 (1989) I/3326,
pp.158-177; Regno Documenti 5, 1989, 275-282;
Doc. Cath. 1980 (1989);
MUGARUKA MUGARUKIRA N., La traduction de
la Bible comme moment d’inculturation du message révélé: application à la
version shi de Mt 5,1-2, in Revue
Africaine de Théologie 16 (1992) 5-31; PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Fede e cultura alla luce della Bibbia – Foi
et culture à la lumière de la Bible, LDC, Torino 1981; PONTIFICIA
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198-216.
[36]
Già la tradizione biblica si è trovata di fronte a tale problema; si veda in
proposito l'interessante studio di BEDA RIGAUX, Bible et culture, in AA.VV., Evangelizzazione
e culture, I, Atti del Congresso Internazionale scientifico di Missiologia,
Pontificia Università Urbaniana, Roma 1976, 3-24. Lo stesso Giovanni Paolo II
in Catechesi Tradendae 53 riconferma
questo principio quando scrive: «Il messaggio evangelico non è puramente e
semplicemente isolabile dalla cultura nella quale esso si è da principio
inserito (l'universo biblico e, più concretamente, l'ambiente culturale, in cui
è vissuto Gesù di Nazareth).. (CT 53).
[37]
Si può vedere l'esperienza di Israele: ha saputo incorporare nella propria
fede-prassi religiosa non pochi elementi mutuati da altre culture-religioni; li
ha purificati alla luce della Parola del Dio dell'alleanza [cf COMMISSIONE
TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e
inculturazione, in EV 11, 1347-1424]. Il mondo giudaico incontrandosi con
la sapienza greca ha dato luogo ad una forma di inculturazione: la traduzione
della Bibbia in greco ha introdotto la parola di Dio in un mondo che le era
chiuso ed ha suscitato, sotto l'ispirazione divina, un arricchimento delle
Scritture [cf La liturgia romana e
l'inculturazione n. 9.].
[38]
Cf Mt 20,1-16: i vignaioli infedeli ed omicidi; il servo perseguitato e non
politico; chi vuol essere grande si deve fare servo degli altri; Lc 18,9-14: il
fariseo e il pubblicano; Gal 3,12-14: al regime della legge subentra la legge
dello Spirito [non solo permette di conoscere il peccato, ma dona anche la
forza per combatterlo: Rm 7,18 e 8,2]. Prende le distanze dal Tempio (Gv 2,13-22); dal culto (Gv 4,21), dal sabato (Gv 5,18..39; 9,14); dalla legge (Gv 7,19).
[39]
«Poiché è stata integrale e concreta,
l'incarnazione del Figlio di Dio è stata un'incarnazione culturale (AG 10);
legato alle tradizioni religiose, al lago, alla campagna..«L'ulivo buono non ha perduto i propri privilegi a vantaggio
dell'oleastro, che è stato innestato su di lui» (Rm 11,24) [Cf Fede e inculturazione II. 17].
[40]
Vedere GS 22 alla nota 22 che cita il Concilio di Calcedonia, sull'unità delle
due nature in Cristo: inconfuse,
immutabili, indivise, inseparabili.
[41]
Cf E. TESTA, La missione e la catechesi
nella Bibbia, «Studia Urbaniana» n. 14, Urbaniana University Press, Roma
1981, pp. 395-456.
[42]
Cf. I discorsi di Pietro, capo della Chiesa madre (Atti 1, l5b-22; 11,1-18,
15,7-11). I discorsi di Paolo, apostolo delle genti (Atti 14,26; 15,3.4.12;
20,17-35). I discorsi ai giudeo-cristiani (Atti 15,1-5.14-21.23-29, 21,15-25).
[43]
Cfr. I discorsi di Pietro ad Hebraeos
(Atti 3,11-26, 4,8b-12.19, 5,29-32). Il discorso di Stefano al sinedrio (Atti
7,2-53). La catechesi di Paolo ad
Hebraeos (Atti 13,16-41; 17,3-4; 19,1-7; 22,1-21.30-33; 25,23-26.32;
28,17-21.22-28).
[44]
Cfr. I due discorsi di Pietro (Atti 2,14-36, 10,34-43). Il discorso di Filippo
(Atti 8,30-38). I discorsi dell'apostolo delle genti (Atti 13,16.26.43.44-49;
14,15-16 16,20-21.30.32.35-39; 17,22-31; 24,10-23.24-27; 25,1-12; 27,21-26;
28,30-31).
[45]
TESTA E., La missione e la catechesi
nella Bibbia op. cit., p.455.
[46]
“I quattro Vangeli...nell'unità fondamentale della stessa missione, attestano
un certo pluralismo, che riflette esperienze e situazioni diverse nelle prime
comunità cristiane” (RMi 23).
[47]
“I missionari hanno proceduto lungo
questa linea, tenendo ben presenti le attese e speranze, le angosce e
sofferenze, la cultura della gente per annunziarle la salvezza in Cristo. I
discorsi di Listra e di Atene (cf. At 14, 15-17; 17, 22-31) sono riconosciuti
come modelli per l'evangelizzazione dei pagani: in essi Paolo « entra in
dialogo » con i valori culturali e religiosi dei diversi popoli. Agli abitanti
della Licaonia, che praticavano una religione cosmica, egli ricorda esperienze
religiose che si riferiscono al cosmo; con i Greci discute di filosofia e cita
i loro poeti (cf. At 17, 18. 26-28). Il Dio che vuol rivelare è già presente
nella loro vita: è lui, infatti, che li ha creati e dirige misteriosamente i
popoli e la storia; tuttavia, per riconoscere il vero Dio, bisogna che
abbandonino i falsi dèi che essi stessi hanno fabbricato e si aprano a colui
che Dio ha inviato per colmare la loro ignoranza e soddisfare l'attesa del loro
cuore. Sono discorsi che offrono un esempio di inculturazione del Vangelo”
(RMi 23).
[48]
T. KLAUSER, La liturgia nella Chiesa
occidentale, LDC, Leumann (TO) 1971.
[49]
CHUPUNGCO A., L'adattamento della
liturgia tra culture e teologia, Piemme, Casale Monferrato 1985 [ed.
inglese: Cultural adaptation of the
Liturgy, Paulist Press, NY 1982]. Id., A
Historical survey of liturgical adaptation, in Notitiae 174 (1981) 28-43. Altri studi: TRIACCA A.M., Adattamento: dalla "Sacrosanctum
Concilium” agli altri documenti del Vaticano II, in Rivista Liturgica 2-3 (1985)189-208;
[50]
Abbiamo pressoché gli stessi riti, gli stessi gesti; tuttavia non più in
ricordo dell'antico esodo, ma del passaggio nuovo da questo mondo al Padre per
la salvezza del genere umano che Cristo, nuovo Mosè, nuovo Agnello pasquale,
compie [Cf JEREMIAS J., Le parole
dell'ultima cena, «Biblioteca di cultura religiosa» n. 23, Brescia 1973].
[51]
I riti praticati da Giovanni e dalla comunità di Qumran furono adottati anche
da Cristo e dalla Chiesa primitiva come un segno di partecipazione alla vita
della Trinità nel cui nome deve essere celebrato. Con questo rito ci si immerge
nelle acque liberatrici non più dalla schiavitù dell'Egitto, ma dalla schiavitù
del peccato. Si entra a far parte, non del popolo di Israele, ma della nuova ekklesìa, il popolo che Cristo ha costituito con la sua morte e risurrezione
[Cf CHELKLE K. H., La Comunità di Qumran
e la Chiesa del Nuovo Testamento, Roma 1970]. Vedere Catechismo della Chiesa Cattolica nn. 1093-1096.
[52] Didaché
VIII, in AUDET J. P., La didaché, Instructions des Apôtres, Paris, Gabalda 1958.
[53] BOTTE B., Les
origines de la Noel et de l'Epiphanie, Louvain, Mont César 1932.
[54]
A seguito di questo discernimento sono rifiutati: la circoncisione (Gal 5,1-6),
il sabato (Mt 12,8), i sacrifici del tempio (Eb 8,10).
[55]
Si può vedere la reazione di san Paolo ai culti pagani degli «idolotiti» in 1
Cor 8-10: vi sono azioni che possono essere di per sé insignificanti, ma, se
tali azioni nuocciono alla carità, è meglio non praticarle (1 Cor 8, 11-13); la
carità deve superare la libertà del proprio giudizio (1 Cor 9,1-27). Sulla
rinuncia agli idoli, alle mitologie, alle superstizioni, cf At 19,18-19; 1 Cor
10,14-22; Col 2,20-22; 1 Gv 5,21.
[56]
Ingiunzione del digiuno in giorni diversi dagli ipocriti e di recitare 3 volte
al giorno il Pater al posto della preghiera delle 18 benedizioni.
[57]
Vedere però più avanti la nota 52. Il Vaticano II introdurrà l’importante
distinzione tra parti «mutabili» e parti «immutabili» nella liturgia (SC 21).
[58]
In epoca di eresie si incomincia a sentire l'importanza della lex orandi: la preghiera è considerata
l'espressione e la testimonianza di fede della Chiesa: poiché da sempre si è
pregato così [lex orandi], significa
che da sempre si è creduto e si deve credere anche così [lex credendi]. Autore di questo «indiculus» sarebbe Prospero di Aquitania, un contemporaneo di S.
Agostino, che visse tra il 390 e il 460.
[59]
Nel V sec. papa Leone Magno formulerà questo principio: su tutta la terra,
nello stesso giorno, i cristiani celebrano uno stesso mistero del Signore. Papa
Gregorio Magno dirà: «In una fide, nihil
officit sanctae Ecclesiae consuetudo diversa».
[60]
La parola «definitivo» di per sé non ha senso nella storia della liturgia: lo
stesso Gregorio anticipa il Pater al
termine del Canone (era prima della comunione), papa Sergio (687-701) introduce
l'Agnus Dei. Per quanto riguarda il metodo missionario di Gregorio Magno (ma
con risvolti anche per l'adattamento liturgico), si veda l'interessante
articolo di FURIOLI A., San Gregorio Magno e l'evangelizzazione degli
anglosassoni. Ambiente, storia e metodologia di un'azione missionaria, in
«Euntes Docete» XLII/3 (1989) 471-494. Nella lettera all'abate Mellito, [Epistula ad Mellitum, Reg. XI, 59: CCL
140A, 961-962; PL 77,1215-1217] Gregorio dà questa istruzione: i templi non
vanno distrutti, ma consacrati al vero Dio: «fana idolorum destrui in eadem gente minime debeat, sed ipsa quae in
eis sunt idola destruantur. Aqua benedicta fiat, in eisdem fanis aspergatur,
altaria construantur, reliquiae ponantur, quia si fana eadem bene constructa
sunt, necesse est ut a cultu daemonum in obsequium veri Dei debeant commutari,
ut dum gens ipsa eadem fana non videt destrui, de corde errorem deponant et,
Deum verum cognoscens ac adorans, ad loca quae consuevit familiarius concurrat»
[in sintesi: distruggete gli idoli, ma non i templi; purificateli con acqua
benedetta e, se sono ben fatti, si trasformino dal culto ai demoni al culto del
vero Dio; la gente si convertirà più facilmente e andrà più volentieri in questi
templi che già conosce]. Sempre lo stesso Gregorio aggiunge che un tale
processo di «adattamento» va fatto con gradualità: «qui locum summum ascendere nititur, necesse est ut gradibus vel
passibus, non autem saltibus elevetur» [chi vuol salire una vetta non fa
salti, ma procede per gradi].
[61]
Dal greco parà-ôikos presso-la-casa,
cioé colui che abita non più nel presbiterio col vescovo, ma presso le case dei
fedeli. [Un'altra etimologia vorrebbe farlo derivare da pará-échein, approvigionatore, colui che fornisce dei servizi].
Vedere tuttavia 1 Pt 1,17 dove paroichías chronon è il tempo del
pellegrinaggio, cioè il tempo nel quale i cristiani sono «esuli» su questa
terra, sono in mezzo ad un mondo pagano.
[62] Cf ALBERIGO G., Dalla uniformità liturgica del Concilio di
Trento al pluralismo del Vaticano II, in Rivista Liturgica 5 (1982) 604-619.
[63]
Il testo e la traduzione italiana dell'istruzione si possono trovare in
MARCOCCHI M., Colonialismo, cristianesimo
e culture extra-europee. L'istruzione
di Propaganda Fide ai vicari apostotici dell'Asia orientale (1659), Jaca
Book, Milano 1982 [anche in Collectanea
S.C. de Propaganda Fide, 1, p.42, n.135]. Ulteriori notizie in METZLER J., Il nuovo corso missionario iniziato con la
fondazione della Sacra Congregazione di Propaganda Fide nei confronti delle
culture locali, in AA.VV., Evangelizzazione
e culture, vol. II, Urbaniana University Press, Roma 1976, pp. 374-400.
[64]
KOWALSKY N., Riti (Questione dei), in
CHlOCCHETA P., Dizionario Storico
Religioso, Ed. Studium, Roma 1966, p. 893.
[65]
Ibidem, p. 890-893, cfr. anche
BORTONE F., I gesuiti alla corte di
Pechino 1601-1613, ed Desclée y Co., Roma 1969 pp. 141-184.
[66]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al popolo
cinese, 18.2.1981, in Insegnamenti,
IV, 1 (1981), p. 382.
[67]
Fede e cultura sono due realtà distinte [la fede in Cristo non è un prodotto della cultura, né si identifica con alcuna di esse, anzi se ne
distingue proprio perché viene da Dio]; ma tale distinzione non comporta
necessariamente dissociazione. Anzi
la fede è veramente vissuta solo quando riesce a permeare dei suoi valori le
mentalità e i comportamenti della cultura di un popolo.
[68]
Cf GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai
partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura
(17.01.1987), n.5: AAS 79 (1987) 1204-1205; La
Liturgia romana e l'inculturazione
n.5.
[69]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Congresso
Internazionale di studi su Mattco Ricci all'Università Gregoriana,
27.10.1982 in L'Osservatore Romano
27.10.1982. CASAROLI A. Discorso
all'Università St. Thomas di Manila: «E' un dovere per la Chiesa dialogare
con le culture», in L'Osservatore Romano,
19-20.9.1983, p. 7.
[70]
«Tutto ciò costituiva ante litteram il complesso problema della inculturazione
che è posto di fronte alla Chiesa e che oggi è più che mai sentito come una
nessità e come un dovere», CASAROLI A., E'
un dovere per la Chiesa dialogare con le culture, op. cit. p. 7.
[71]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Congresso
Internazionale di studi su Matteo Ricci all'Università Gregoriana, op.cit.,
pp.1-2.
[72] Cf ANCHUKANDAM Th., Roberto de Nobili’Spirito responsio (1610) a vindication of inculturation and adaptation, Kristu Jyoti Publications, Bangalore 1996.
[73]
Cfr. METZLER J., Il nuovo corso
missionario iniziato con la fondazione della Sacra Congregazione di Propaganda
Fide nei confronti delle culture locali, op. cit, p. 393.
Ciò che contradistingue la cultura del nuovo
popolo di Dio da tutte le altre è che i suoi elementi culturali fondamentali
non sono invenzioni o creazioni dell'uomo (come succede nelle altre culture),
ma sono un dono di Dio: dono di Dio sono infatti le verità (simboli), i riti
(sacramenti), le norme (il mandatum novum),
le istituzioni (ministeri), i valori evangelici. Pertanto la cultura della
chiesa non è un mantello che essa può togliersi o mettersi a piacimento, ma fa
parte del suo stesso essere. L'inculturazione, pertanto, è sì una incarnazione,
ma non di una realtà spirituale de-culturata, bensì di una realtà spirituale
già inculturata; proprio per questo l'inculturazione è un processo lungo e difficile
(cf RMi 52).
[74]
Cfr. «L’Osservatore Romano, 4-5
ottobre 1937 p. 1; si veda inoltre KAYITAKIBGA M., Le Saint-Siège et les Religions Afticaines, in Religions Africaines et Christianisme, «Atti del Colloque
International de Kinshasa», Faculté de Theologie Catholique de Kinshasa 1979,
139-156 (pubblicato anche in Bulletin,
Secretariatus pro non Christianis, 1978-X111/2, Città del Vaticano, 94-113).
[75]
La ricerca dell'inculturazione non ha per oggetto la creazione di nuove
famiglie rituali; rispondendo ai bisogni di una determinata cultura essa giunge
a degli adattamenti, che fanno sempre parte del Rito romano [Cf La liturgia romana e l'inculturazione,
n. 36].
[76]
Cfr.CHUPUNGCO A., L'adattamento della
liturgia tra culture e teologia, ed. Piemme, Casale Monferrato 1985. Del
resto questa convinzione della Chiesa di non imporre neppure nella liturgia una
rigida uniformità rispettando così le doti d'animo delle varie razze e dei vari
popoli, è un dato acquisito in tutta la tradizione ecclesiastica; basti ricordare
quanto S. Ambrogio scriveva circa il pluralismo necessario all'interno della
comunione ecclesiale: «Io desidero seguire la Chiesa romana in tutto, ma anche
noi siamo uomini e abbiamo il nostro modo di sentire. Perciò i riti che gli
altri seguono giustamente altrove, noi li seguiamo anche giustamente qui» (De Sacramentis III, 5).
[77] Seguiamo qui le indicazioni fornite da LUZBETAK L.J., Chiesa e culture, EMI, Bologna 1991 [titolo originale: The Church and Cultures. New perspectives in Missiological Antropology, Orbis Books, Maryknoll 1988] e COMBY J., Duemila anni di evangelizzazione, SEI, Torino 1994.
[78] Lavare i piedi è un fatto, una forma, un portatore di significato. Gesù, nell’ultima cena, ha dato un significato a questo fatto (di per sé polivalente) del lavare i piedi: il servizio umile verso i fratelli, il valore dell’«ultimato». Un tale gesto è diventato così un simbolo.
[79]
Cf CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni
aspetti della Chiesa intesa come comunione, 28.05.1992: AAS 85 (1993) 838-850;
EV 13/1774-1807.
[80] Ogni atteggiamento critico verso la metodologia missionaria, oltre che antistorico, sarebbe anche ingiusto tenuto conto della gran quantità di martiri che hanno dato la loro vita per l’opera di evangelizzazione.
[81] Un altro domenicano, Ricoldo da Montecroce (1243-1320) scrive un Trattatello per le nazioni dell’Oriente e un Vademecum per i missionari. Anche Pietro il Venerabile (1092-1156), abate di Cluny, sosteneva che per confutare l’Islam bisogna conoscere il Corano. Le stesse opere di S. Tommaso d’Aquino si inquadrano in simile contesto.
[82] Solo nel 1622 Gregorio XV fondò la Congregazione per la diffusione della fede (Congregatio de Propaganda Fide).
[83] Giovanni da Montecorvino, in Cina (1307), tradusse tutto il Nuovo Testamento in cinese e in questa lingua celebrava pure la Messa e faceva cantare l’Ufficio divino.
[84] Di questa convinzione era lo stesso S. Vincenzo de’ Paoli, che amava definirsi «indegno prete della missione».
[85] Secondo una concezione medioevale, il Papa aveva sul mondo un potere universale; lui lo delegava ai prìncipi in vista della salvezza dei popoli destinati a divenire loro sudditi; ma per diventare sudditi dovevano prima diventare cristiani; da qui la necessità di battezzare il maggior numero possibile di indigeni.
[86] Con la partenza di Francesco Saverio per l’Estremo Oriente, nel 1540, anche i gesuiti entrano nell’evangelizzazione; anzi proprio con loro prende senso tecnico la parola «missione» e «missionario»: l’inviato da un superiore con lo specifico compito dell’evangelizzazione.
[87] Le bolle di crociata del 1455 legittimarono la riduzione in schiavitù: era un’occasione offerta ai prigionieri per diventare cristiani (la maledizione dei discendenti di Cam secondo Genesi 9,25); prima d’essere imbarcati per le Americhe, i Negri venivano battezzati. San Pietro Claver in Colombia fu l’apostolo degli schiavi.
[88] Nel suo libro Il predicatore (1536) denuncia le violenze della conquista coloniale ed invita ad una evangelizzazione pacifica.
[89] Viene così a terminare quella mentalità di crociata che ancora impregnava i documenti pontifici anteriori, come ad esempio la bolla Romanus Pontifex del papa Nicola V (8 gennaio 1455). La mentalità di «crociata» consisteva nel concedere ai prìncipi cristiani il diritto di conquista di un territorio abitato da non cristiani con l’impegno di diffondere il Vangelo e di fornire e mantenere sacerdoti che si preoccupassero della salvezza delle anime perdute. Anche negli scritti di Cristoforo Colombo si spiega la conquista nelle nuove terre con l’intento di «convertire quei popoli alla nostra santa fede», oltre ad acquisire ricchezze che permettessero la riedificazione di Gerusalemme e del Monte Sion.
[90] I Francescani non erano dello stesso avviso: mossi dalla prospettiva escatologica (la prossima fine del mondo prevista per il 1656) occorreva affrettarsi a battezzare di Indios; ritardare la conquista significava compromettere la loro salvezza.
[91] Istituito da Alessandro VI nel 1493. I re cattolici della Spagna e del Portogallo si impegnavano a fornire missionari e il loro sostentamento nelle terre loro concesse come colonie. Questo sistema portò a molti abusi e finì molto tempo dopo l’Istituzione di Propaganda Fide.
[92] Era la spartizione delle terre degli Indios tra i signori spagnoli in vista della loro evangelizzazione; in pratica riduceva a schiavi coloro che dovevano essere civilizzati ed evangelizzati.
[93] Dal canto loro le altre potenze coloniali che si affacciarono all’orizzonte della conquista, soprattutto Inglesi ed Olandesi, di religione protestante (Luterani e Calvinisti), fecero un uso senza scrupoli della tratta degli schiavi per le piantagioni del Nord America, del Caribe e della costa atlantica dell’America del Sud.
[94] Non va dimenticata la presenza missionaria femminile.
[95] Si calcola che nel solo XVI secolo siano partiti per l’America Latina oltre 5000 missionari (francescani [1501], domenicani [1510], mercedari [1519-1589], agostiniani [1532], gesuiti [1566]). Non mancarono le donne missionarie già dal 1525: in due secoli furono fondati 130 monasteri femminili. Nel 1639 arrivarono nel Québec le missionarie Ospedaliere di Dieppe e le Orsoline di Tours
[96] In Messico i missionari studiarono 11 gruppi linguistici con 150 idiomi e 70 dialetti.
[97] Solo in Messico nel secolo XVI vennero pubblicati 81 catechismi, alcuni in pictogrammi aztechi (come quello del fratello francescano Pedro de Gante). Altri catechismi da ricordare, quale efficace tentativo di inculturazione della fede cristiana, sono quelli preparati dal III Concilio di Lima (1854) in tre lingue (spagnolo, quechua, aymara).
[98] Dal XVI al XVIII secolo furono fondati 48 collegi universitari e 25 università ( a Santo Domingo, Lima, Messico, già nel 1551); nel 1534 a Città del Messico viene aperta la prima tipografia del Nuovo Mondo; solo in Messico nel sec. XVI vennero fondati 149 ospedali.
Anche la struttura ecclesiastica fu molto curata: dal 1524 al 1771 si celebrarono 89 sinodi e 14 concili (regionali e provinciali).
[99] Cf GONZALEZ FERNANDEZ F., Storia della missione in America Latina, in KAROTEMPREL S. (ed.), Seguire Cristo nella missione. Manuale di missiologia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996, pp. 252-266.
[100] Difficoltà per la formazione di un clero locale erano: studio del latino, celibato. Tuttavia nel 1614 già c’erano a Nagasaki 14 sacerdoti (sette gesuiti e sette secolari), oltre a numerosi catechisti e altri laici capi di confraternite.
[101] La mancata conoscenza della lingua provocava spiacevoli equivoci: cristiano era tradotto con prangui, che però era inteso come equivalente di «portoghese»; pertanto, quando si diceva: vuoi diventare prangui?, la gente capiva «vuoi diventare Portoghese, europeo?».
[102] Alla base di queste incomprensioni e conflitti tra missionari sta anche il fatto che, mentre i gesuiti erano sotto il regime del padroado portoghese, gli altri missionari erano sotto i vicari apostolici dipendenti da Propaganda Fide. Gli uni e gli altri ricevevano ordini di obbedienza alle rispettive autorità e si rifiutavano di riconoscere gli atti compiuti dalla controparte.
[103] Nel 1663 viene fondato a Parigi, sempre per interessamento del Rhodes, il seminario per le Missioni Estere (MEP) che avrebbe formato preti secolari destinati alla missione Ad gentes.
[104] A quanto pare a nulla era servita la disputa già presente nelle prime comunità cristiane e risolta con il Concilio di Gerusalemme (At 15,28: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori delle cose necessarie»). Nella missione è sempre latente il rischio della «sinagoga».
[105] Restarono solo alcuni gesuiti a Pechino a motivo dei servizi scientifici che rendevano all’imperatore. La riabilitazione dei riti cinesi avvenne mediante una Istruzione di Propaganda Fide nel 1939 dove si riconosce che le manifestazioni in onore di Confucio hanno solo una valenza civile e non religiosa.
[106] In tutto il XVIII secolo le Missioni estere di Parigi inviarono in missione non più di 200 missionari. Nel 1780 fra India e Cina ne rimasero appena 35. In Austria Giuseppe II (1765-1790) sopprime più di 1300 monasteri di Ordini contemplativi
[107] La volontà di favorire vocazione indigene di fatto non aveva portato frutti.
[108] Il secolo XVIII è il secolo dell’Illuminismo: fine del dogmatismo religioso a favore della ragione; libertà dello spirito, libera critica, tolleranza religiosa, culto del progresso e della tecnica. Nel 1717 nasce in Inghilterra, su ideali illuministici, l’associazione segreta internazionale dei Massoni.
[109] A una richiesta di preti per le colonie, alcuni vescovi francesi risposero: «Le nostre Indie sono qui» (1815) e poco dopo (1822) il Vescovo di Tryes diceva: «Ormai possiamo considerarci un paese di missione».
[110] Nel 1823 il presidente degli Stati Uniti, Monroe, formula il principio «l’America agli Americani».
[111] Padri di Picpus (Sacri Cuori), le Suore di S. Giuseppe di Cluny, le Dame del Sacro Cuore, gli Oblati di Maria Immacolata, I Padri e i Fratelli Maristi, i Pallottini, i Missionari del Santissimo Cuore di Maria, Lazaristi la Congregazione dello Spirito Santo, PIME, Missioni Africane di Lione, Salesiani, Scheut. Mill Hill, Comboniani, Padri Bianchi, Verbiti. Anche gli antichi ordini missionari come i francescani, domenicani, gesuiti, riorganizzano le loro missioni.
Il sec. XIX è soprattutto il secolo della nascita degli Istituti missionari femminili (salvo sporadiche eccezioni precedenti): La Società delle Figlie del Cuore di Maria, Suore di Picpus, Suore missionarie della Società di Maria, Suore Bianche, Suore di Nostra Signora degli Apostoli, Suore Francescane Missionarie di Maria, Comboniane.
[112] Il pensiero missionario protestante, espresso in questa epoca soprattutto dal pastore Henry Venn (1769-1873), era basato sulla «triplice autonomia»: finanziaria, amministrativa, missionaria. Distingueva la funzione del missionario, dedito alla prima evangelizzazione, e quella del pastore, dedito alla cura pastorale della comunità cristiana indigena. Questa comunità evangelizzata doveva provvedere ai propri catechisti e pastori: perché non apparissero agenti di una Chiesa straniera. Evangelizzavano predicando la Bibbia, fondando scuole, offrendo aiuti materiali e sanitari; andavano marito e moglie per dare testimonianza di monogamia contro l’imperante poligamia. Non si tenne in sufficiente considerazione (lo stesso per la metodologia missionaria cattolica) della tradizione «orale» dei popoli indigeni. Non sempre le culture locali furono rispettate (nonostante la benemerenza di molti missionari che furono anche etnologi e antropologi che contribuirono alla fissazione scritta di lingue mediante la composizione di grammatiche e vocabolari).
[113] Il p. Francis Aupiais (1877-1945), delle Missioni africane di Lione, ebbe a dire: «I barbari siamo noi, che per secoli li abbiamo braccati, comprati, venduti, usati in maniera disumana».
[114] L’istituzione del «patronato» è ormai in crisi. Gregorio XVI (1831-1846) inaugurò il sistema dello «ius commissionis»: ad una Congregazione missionaria viene affidata la cura di un determinato territorio (purtroppo svincolato dalla giurisdizione del Vescovo locale); lo ius commissionis verrà abolito dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli nel 1969.
A Kandy (Ceylon) si costruisce un seminario pontificio per la formazione del clero indigeno per tutta l’India.
Agli inizi del secolo XX Propaganda Fide ha circa 7.000 preti e 13.000 religiose e fratelli laici nelle missioni (più della metà in Asia).
[115] Gregorio in Armenia, Patrizio in Irlanda, Agostino tra gli Anglosassoni, Colombano tra gli Scozzesi, Willibrord in Olanda, Bonifacio presso i Germani, Cirillo e Metodio tra gli Slavi, Bartolomé de Las Casas in America Latina, Francesco Saverio in India e Giapppone.
[116] L’esposizione, visitata da oltre un milione di persone, formò il Museo etnologico missionario (dapprima al Laterano, oggi nei Musei Vaticani).
[117] Il protestante Gustav Warnek (1834-1910), il cattolico Joseph Schmidlin (1876-1910) e Robert Streit (1875-1930) fondatore, insieme a Dindinger, della Biblioteca missionum. Dal 1933 ebbe inizio la pubblicazione annuale della Bibliografia missionaria (ad opera di G. Rommerskirchen).
[118] L’Ateneo “de Propaganda Fide” era stato fondato da Urbano VIII nel 1627 con la Bolla Immortalis Dei Filius, con le due facoltà di Teologia e Filosofia. Il 1 settembre 1933 viene eretto nell’Ateneo Urbaniano il Pontificio Istituto Missionario scientifico con diritto di conferire i gradi accademici nelle discipline missiologiche e giuridiche. Nel 1962, con il Motu Proprio Fidei Propagandae, Giovanni XXIII decorò l’Ateneo con il titolo di Pontificia Universitas Urbaniana. Il 25 luglio 1986 le due sezioni, missiologica e giuridica, del Pontificio Istituto Missionario Scientifico, vengono elevate a rango di Facoltà.
[119] L’esperienza di Matteo Ricci, ormai lontana, sembra non aver insegnato nulla e non aver lasciato alcuna traccia. Si ricordi che solo in questi anni viene risolta la polemica sui riti cinesi; forse troppo tardi.
[120]
PIO XII, Enciclica Summi Pontificatus, in
AAS 31 (1939), p. 429
[121]
PIO XII, Enciclica Evangelii Praecones, in
AAS 43 (1951), pp. 521-528.
[122] Cf GIGLIONI P., 1957-1997: 40° anniversario dell’enciclica “Fidei donum” di Pio XII, in Omnis Terra 50 (1997)33-38.
[123]
Questa espressione di Giovanni XXIII fu poi ripresa quasi alla lettera da GS
58: «Parimenti la Chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse,
si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio
cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo e
approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della
multiforme comunità dei fedeli. Ma, nello stesso tempo, inviata a tutti i
popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo, la chiesa non si lega in modo
esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo
di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria
tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in
grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione
arricchisce sia la chiesa stessa sia le varie culture» (GS 58, EV 11/1511-1512).
Stesso concetto si trova anche in CT 53 «Converrà, tuttavia, tener presenti due
cose: da una parte, il messaggio evangelico non è puramente e semplicemente
isolabile dalla cultura, nella quale esso si è da principio inserito
(l'universo biblico e, più concretamente, l'ambiente culturale, in cui è
vissuto Gesù di Nazaret), e neppure è isolabile, senza un grave depauperamento,
dalle culture, in cui si è già espresso nel corso dei secoli; esso non sorge
per generazione spontanea da alcun "humus" culturale; esso da sempre
si trasmette mediante un dialogo apostolico, che è inevitabilmente inserito in
un certo dialogo di culture» (CT 53, EV 6/1886).
[124]
In questo modo la Chiesa anticipava il movimento politico di indipendenza nei
territori delle giovani Chiese.
[125]
GIOVANNI XXIII, Discorso alla Societé
Africaine de Culture, in AAS 51 (1959), 259-260.
[126] PAOLO VI, Discorso in apertura del secondo periodo del Concilio, in EV 1/183*
[127] GIOVANNI PAOLO II, Lettera di fondazione del Consiglio Pontificio per la Cultura, AAS 74 (1983) 683-688.
[128] Bibliografia: CARRIER H., Evangile et cultures, Libreria Editrice Vaticana 1987; Id., Vangelo e culture: da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Città del Vaticano-Paris 1987 [tr fr.: L'Eglise et cultures de Léon XIII à Jean-Paul II, Città del Vaticano-Paris 1987]; Id., Evangélisation et Développement del Cultures, Roma 1990; Id., Il contributo del Concilio alla cultura, in LATOURELLE R. (ed), Vaticano II. Bilancio e prospettive, II, Cittadella, Assisi 1987, pp. 1435-1453; GREMILLION J. (ed.), The Church and Culture since Vatican II, Notre Dame 1985; LUZBETAK L.J., Chiesa e culture, EMI, Bologna 1991 [titolo originale: The Church and Cultures. New perspectives in Missiological Antropology, Orbis Books, Maryknoll 1988]; MARRANZINI A., Il magistero al servizio della inculturazione, in GENERO B. (ed.) Inculturazione della fede. Saggi interdisciplinari, Edizioni Dehoniane, Napoli 1981, pp.129-173; MULLER K., Accomodation and Inculturation in the Papal Documents, in Verbum/SVD 24 (1983) 347-360; POUPARD P., Fede e cultura nel Concilio Vaticano II, in Rivista di Scienze Religiose 6 (Molfetta 1992) 371-388.
[129] Il termine «cultura» ricorre 91 volte nei documenti del Vaticano II.
[130]
Nei documenti conciliari si parla anche di accomodatio
(in SC 11.62.67.75.89). Nei libri liturgici rinnovati con il termine accomodatio si indicherà
quell'adattamento che spetta alla competenza di ciascun ministro nella scelta
dei testi liturgici già predisposti per adattarli alle particolari assemblee,
tenuto conto delle persone, dei tempi e dei luoghi in accordo alle prescrizioni
contenute negli stessi libri liturgici (sia nei Praenotanda, che nello stesso Rituale).
[131]
Cfr. CHUPUNGCO A., L'adattamento della
liturgia tra culture e teologia, op. cit., p. 109. Secondo questo Autore,
si può parlare di almeno tre livelli di accomodamento: il primo è l'accomodatio ed interessa gli elementi
celebrativi effettuati al momento nell'ambito di una assemblea liturgica; il
secondo tipo è di natura culturale e consiste in un cambiamento o modificazione
del carattere del rito romano; in questo caso si parla di aptatio e può corrispondere a quella che abbiamo chiamato
«acculturazione», cioè di adattamento del rito romano alla cultura presso la
quale questo rito viene celebrato; infine, un terzo tipo, anch'esso di natura
culturale, consiste nella reinterpretazione e trasformazione del rito
precristiano alla luce della fede cristiana, quando questo rito viene
introdotto nella liturgia romana; questo tipo di adattamento può chiamarsi aptatio, ma per «inculturazione».
Per ulteriori indicazioni circa l'applicazione
di SC 40 si veda La liturgia romana e
l'inculturazione nn.63-69.
[132]
S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In Io, Hom
65,1: PG 59, 361.
[133]
Cfr. CONGAR Y. M., L'assunzione dei
popoli e delle culture, in Mysterium
Salutis, VII, ed. Queriniana, Brescia 1972.
[134]
Si riscontra qui in Ad Gentes n. 9
quanto aveva già detto Lumen Gentium
n. 17. Cfr. AA.VV., Le missioni nel
decreto Ad Gentes, in Euntes docete
19 (1966) 1291; CROLLIUS A. R., What is
so New about Inculturation?, in Working
Papers on Living Faith and Cultures, n. 5, Rome 1984, pp. 1-18; SEUMOIS A.,
Théologie missionnaire, vol IV, Eglise mussionnaire et facteurs
socio-culturels, Roma 1978; 2a ed. 1983.
[135]
CARRIER H., Il contributo del Concilio
alla cultura, in LATOURELLE R. (ed), Vaticano
II. Bilancio e prospettive, II, Cittadella, Assisi 1987, pp. 1447-48.
[136] Ibìdem, p. 1448.
[137] Bibliografia: AZEVEDO M. DE, Inculturazione: problematica, in LATOURELLE R. - FISICHELLA R., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 1990, pp.576-587; COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Documento Commissio Theologica su Fede e inculturazione, in EV 11/1347-1424; La Civiltà cattolica 134 (1989) I/3326, pp.158-177; Regno\Doc 5, 1989, 275-282; Ed franc.: Doc. Cath. 1980 (1989); Ed. Ingl.: Faith and Inculturation, (Oct. 1988), in Omnis Terra, 198(5/1989)]; ECKHOLT M., Inculturación y teologia: Reflexiones metodológicas y eclesiológicas”, in Revista Teologica Limense 29 ( Lima 1995 ) 1, 76-107; ONWUBIKO O. A., Theology and Practice of Inculturation, Enugu (Nigeria) 1992; POUPARD P., Teologia dell'evangelizzazione delle culture, in Regno Documenti 5 (1986)150-156; SALVATIERRA A., Inculturación y teología, in Lumen 42 (1993) 504-547; SHORTER A., Toward A Theology of Inculturation, Orbis Book, Maryknoll 1988.
[138] CASAROLI A., E' un dovere per la Chiesa dialogare con le culture, in «L'Osservatore Romano, 19-20 settembre
1983, p. 7.
[139]
AG 22: “Per raggiungere questo scopo [la diversità nell'unità] è necessario che,
nell'ambito di ogni grande territorio socio-culturale, come comunemente si
dice, venga promossa la ricerca teologica, per cui, alla luce della Tradizione
della Chiesa universale, i fatti e le parole rivelati da Dio che si trovano
nella Sacra Scrittura e sono spiegati dai Padri e dal Magistero ecclesiastico,
siano riesaminati. Si comprenderà meglio allora secondo quali criteri la fede,
tenendo conto della filosofia e del sapere dei popoli, può incontrarsi con la
ragione, ed in quali modi le consuetudini, la concezione della vita e la
struttura sociale possono essere conciliati con il costume espresso nella
rivelazione divina. Ne risulteranno quindi chiari i criteri da seguire per un
più profondo adattamento della vita cristiana nel suo complesso. Cosi facendo
sarà esclusa ogni forma di sincretismo e di falso particolarismo, la vita
cristiana sarà commisurata al genio ed all'indole di ciascuna civiltà', e le
tradizioni particolari insieme con le qualità specifiche di ciascuna comunità
nazionale, illuminate dalla luce del Vangelo, saranno assunte nell'unità
cattolica. Infine le nuove Chiese particolari, arricchite dalle proprie
tradizioni, avranno il proprio posto nella comunione ecclesiale, restando
intatto il Primato della Cattedra di Pietro, che presiede all'assemblea
universale della carità “.
E' dunque desiderabile, anzi sommamente
conveniente, che le Conferenze Episcopali si riuniscano insieme nell'ambito di
ogni grande territorio socio-culturale, per poter realizzare, in piena armonia
tra loro ed in uniformità di decisioni, questo piano di adattamento” (AG 22).
Si fa qui notare la ricchezza del testo latino rispetto alla traduzione
italiana: “...ad instar oeconomiae Incarnationis, Ecclesiae novellae...in
admirabile commercium assumunt omnes
divitias nationum quae Christo date sunt in haereditatem” [in EV 1/1168].
[140]
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Temi
scelti di ecclesiologia, in occasione del XX anniversario della conclusione
del Concilio Ecumenico Vaticano II, 07.10.1985, n.4.2: CivCatt 136 (1985) 446-482; EV 9, 1668-1765; Regno\doc 1/1986, 32-45.
[141]
Si confronti il testo di LG 13 con il Catechismo
Della Chiesa Cattolica 830-856: la missionarietà della Chiesa deriva dalla
sua «cattolicità».
[142]
PAOLO VI, Enciclica Ecclesiam Suam,
n. 38, in AAS 56 (1965), 609-659, cfr. «Tutte
le Encicliche dei Sommi Pontefci, Ed. Dell'Oglio, Milano (1979), pp.
1685-1721.
[143]
Ibìdem n.49
[144]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Pontificio
Consiglio per la Cultura, in Insegnamenti
VI, 1 (1983)147-154. Già in precedenza, parlando ai Vescovi dell'Asia, Giovanni
Paolo II incoraggiava ed elogiava il dialogo iniziato tra Vangelo e cultura:
«Siamo giustamente soddisfatti della consapevolezza esistente nella Chiesa di
oggi - grazie all'azione dello Spirito di Dio nei nostri tempi - della necessità
di portare il Vangelo ad avvalersi di tutte le culture, di incarnarlo nella
vita di tutti i popoli, di presentare il messaggio cristiano, in maniera che
sia sempre più efficace. E' un fine nobile, un fine delicato; un fine al quale
la Chiesa è fermamente impegnata... In tutti i vostri sforzi, cari confratelli
Vescovi, per perseguire questo fine durante il periodo post-conciliare siate
certi dell'appoggio della Chiesa universale che abbraccia ogni nazione sotto il
cielo e annunzia lo stesso Cristo ad ogni popolo e ad ogni generazione»
(GIOVANNI PAOLO II, Discorso
all'Episcopato filippino e asiatico, Manila, 17.2.1981, in Insegnamenti, IV,1 (1981) p.348ss).
[145]
Cf CTI, Fede e inculturazione, III,
18 [che cita H. de Lubac, Esegesi
medioevale, Jaca Book, Milano 1986, pp.348-251].
[146]
Cf GS 22, che alla nota 22 cita i concili che si sono occupati del rapporto tra
natura umana e natura divina nell'unica Persona del Verbo:
* Concilio Costantinopolitano II, can.7 [anno
553: DS 219 (428)];
* Concilio Costantinopolitano III [anno 681:
DS291 (556)];
* Concilio di Calcedonia [anno 451: DS 148
(302)]: “in duabus naturis inconfuse,
indivise, inseparabiliter agnoscendum”.
Anche la liturgia esprime questo concetto
quando, nell'antifona del Natale, canta: «Id
quod erat permansit, quod non erat assumpsit» (ant. Nativitatis). Secondo
questa legge dell'incarnazione si può dire che l'inculturazlone consiste nel
«conservare» ciò che esiste di positivo, e nel conferire ciò che manca (la luce
del Verbo, la forza del Vangelo).
[147]
GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Catechesi tradendae 53; EN 20.
[148]
S. ATANASIO, Epistola a Epitteto, 7:
PG 26,1060 cfr. AG 3, nota 15; AG 10. Per la recente ricerca teologica cfr.
ARANDA LOMENA, El Verbo encarnado
principio normativo de la indigenizacion, in «Estudios de Misionologia» 3
(1978) 67-98.
[149]
L'evangelizzazione trasmette un insegnamento che è stato arricchito da
generazioni di credenti, di pensatori, di santi, il cui contributo è parte
integrante del patrimonio cristiano. E' proprio questa identità essenziale e
fondatrice che l'evangelizzazione è chiamata a trasmettere alle culture umane
in termini a tutte accessibili. Secondo Dei
verbum la Rivelazione cristiana è congiuntamente espressa sia nella Parola
scritta sia nella Tradizione vivente della Chiesa; l'evangelizzazione, quindi,
non accetta il principio luterano della «sola Scriptura»: l'Evangelo è sia
quello scritto, sia quello vissuto nella fede viva del popolo cristiano.
[150]
PAOLO VI, Omelia tenuta nello Stadium di
Jakarta, il 3.12.1970,in Insegnamenti
VIII (1970), p.1382
[151]
PAOLO VI, Messaggio ai popoli dell'Asia, 29.11.1970, in Insegnamenti VIII
(1970) p.1245. Lo stesso concetto è stato ripetuto più volte anche da Giovanni
Paolo II. Parlando ai Vescovi del Pacifico il 13.2.1984 diceva: «Il Vangelo è
stato portato per integrare le nobili culture dei vostri popoli, e continua ad
offrire il suo originale contributo alla società, elevando il senso della vita
e indirizzando verso un destino più alto tutto ciò che in esse vi è di
prezioso, come l'amore umano, il matrimonio e la famiglia. Questa
inculturazione del Vangelo, nonostante le imperfezioni e le limitazioni,
significa che Cristo è diventato a tutti gli effetti, attraverso i suoi membri,
micronesiano, polinesiano e melanesiano. Cristo è vivo in tutti coloro che
vivono nella Sua Grazia- è vivo in tutte le comunità fondate sul Suo Vangelo e
disseminate nel vostro immenso oceano» (in L'Osservatore
Romano, 4.3.1984). Recentemente ai Vescovi del Giappone in visita «ad
limina» ha detto: «Noi sappiamo come Cristo stesso desideri veramente divenire
nei membri del suo corpo, una sola cosa con loro. E perché questo accada,
Cristo deve diventare Giapponese in questa Chiesa» (in L'Osservatore Romano, 2-3 settembre 1985, p.5).
[152]
Questa unità non si basa sulla uniformità di un unico paradigma culturale,
eventuale mediatore preferenziale o esclusivo della fede, indebitamente imposto
di fatto alle varie culture. E' invece una unità che si costruisce sulla
diversità cosciente delle culture, impregnate però del medesimo vangelo e da
esso configurate in modo nuovo alla luce della gratuità del dono.
[153]
Cfr. AG 10: «La Chiesa deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti
con lo stesso movimento con cui Cristo stesso, attraverso la sua incarnazione,
si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini in mezzo ai quali
visse».
[154] Prefazio di Natale, III; anche i Padri hanno
ripreso e sviluppato questo concetto, come, ad esempio, S. Gregorio Nazianzeno:
«Il Verbo stesso di Dio viene in aiuto
alla sua propria immagine e si fa uomo per amore dell'uomo. Assume un corpo per
salvare il corpo e per amore della mia anima accetta di unirsi ad un'anima
dotata di umana intelligenza. Così purifica colui al quale si è fatto simile.
Ecco perché è divenuto uomo in tutto come noi, tranne che nel peccato. Fu
concepito dalla Vergine, già santificata dallo Spirito Santo nell'anima e nel
corpo per l'onore del suo Figlio e la gloria della verginità. Dio, in un certo
senso, assumendo l'umanità, la completò quando riunì nella sua persona due
realtà distanti fra loro, cioè la natura umana e la natura divina. Questa
conferì la divinità e quella la ricevette. Colui che dà ad altri la ricchezza
si fa povero. Chiese in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco
della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino
all'annudamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria,
perché io partecipi della sua pienezza. Oh sovrabbondante ricchezza della
divina bontà!» (dai «Discorsi» di S. Gregorio Nazianzeno, vescovo [Disc.
45,9.22.28; PG 36,634-635.662]).
[155]
Redemptoris Missio 52; In Familiaris consortio 10, si pongono due
condizioni precise ad una corretta inculturazione: «la compatibilità col
Vangelo e la comunione con la Chiesa
universale» [AAS 74 (1982) 91, citato in RMi 54).
[156]
Che questo sforzo non sia facile lo dimostra, con una certa acutezza, il testo
dei Lineamenta per l'Assemblea
speciale del Sinodo africano; si fa osservare che mai la Chiesa ha evitato di
affrontare i problemi posti e di risolverli anche quando tali problemi nascono
da «malcontento» (At 6,1) e dopo « opposizioni risolute e discussioni animate»
(At 15,2).
[157]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi
dello Zaire a Kinshasa, 3 maggio 1980, 4-6: AAS 72 (1980) 432-435.
[158]
AG 11 usa l'espressione «Semina Verbi,
germi del Verbo» ripresa poi da EN 53 (cf LG 17); per le fonti patristiche di
questa espressione si veda la nota 74 di EN 53, che rimanda a s. Giustino e a
Clemente Alessandrino.
[159] Questa sarebbe la logica conseguenza se il dogma cristiano della divinità di Cristo fosse dovuto all’ellenismo filosofico e non alla rivelazione divina (cf COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE (CTI), Documentum Questio de Jesu Christo. Quaestiones selectae de christologia (Sessio plenaria 1979, relatio conclusiva) 20 octobris 1980, n. II.2: Gregorianum 61 (1980) 609-632; CivCatt 1 nov. 1980, 259-278 (con adattamenti); EV 7, 631-694]
[160] La maggior parte dei termini usati a Nicea provengono dal linguaggio filosofico greco; un lungo e rigoroso ripensamento critico ha permesso di adattarne il senso fino a renderli veicolo per inculturare la verità rivelata fino ad allora trasmessa dal solo linguaggio biblico. Ad esempio: il termine hypostasis aveva un significato originario di sostanza, essenza; più tardi, a seguito delle controversie trinitarie e cristologiche, ricevette il significato di persona, identità personale, relazione sussistente. Da qui la difficoltà di «inculturare» adeguatamente il messaggio biblico in categorie che venivano lette in maniera differente a seconda delle culture (es. Antiochena-Siriaca, Alessandrina-Romana). Stessa difficoltà di linguaggio quando queste stesse categorie di linguaggio greche dovettero essere tradotte in categorie di linguaggio latine.
[161] I filosofi greci non potevano accettare l’idea di una incarnazione divina: i platonici, ma anche gli stoici, la ritenevano impensabile. Ario è l’esempio di ciò che può significare una «teologia compromessa»: piegare la rivelazione alle esigenze della cultura. Per Ario, Cristo è un Dio secondario (deúteros theós) o intermedio; è il «demiurgo» dei platonici.
[162] Si scontrarono a Efeso due scuole di pensiero: quella Alessandrina (guidata da Cirillo, che accentuava l’unità di Cristo) e quella Antiochena (guidata da Nestorio, più divisionista e sensibile a sottolineare la vera e integrale umanità di Cristo).
[163] Dal greco hypóstasis [= sostanza o persona]: è il principio e il modo di sussistenza. In Cristo c’è un’unica ipòstasi-persona in due nature [physis], umana e divina; in Dio c’è un’unica essenza in tre ipostasi o persone.
[164] La grazia non è una sostanza autosussistente; è piuttosto il libero e benevolo agire di Dioha nella natura che diventa pertanto il presupposto logico e metafisico della grazia. Pur diversa quanto a natura, la grazia ha una speciale relazione di corrispondenza con la natura umana: sopravvenendo, non la distrugge, bensì la purifica e la completa, portandola al suo pieno compimento. L’uomo, pur mantenendo la sua condizione di creatura, nella grazia ha accesso a una reale partecipazione alla natura divina (2 Pt 1,4: consortium divinae narurae); la «deificazione» è dovuta al fatto che «in Cristo Dio si è fatto uomo, affinché l’uomo fosse fatto Dio» (Atanasio di Alessandria: U 373); lo stesso Atanasio affermava: «non fu redento quello che da Cristo non fu assunto» (citato in AG 3, nota 15), richiamando così il pensiero paolino che dice di Cristo «si è fatto povero, pue essendoricco, per arricchire noi della sua povertà» (2 Cor 8,9: citato in AG 3).
[165]
PAOLO VI, nell'Ecclesiam suam riprendeva
questi concetti e scriveva «Bisogna ancor prima di parlare, ascoltare la voce,
anzi il cuore dell'uomo, comprenderlo e per quanto possibile, rispettarlo e
dove lo merita assecondarlo», in EV 2,
199-298. Anche Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata missionaria
mondiale del 1979 scriveva: «L'azione evangelizzatrice deve mirare a dare
rilievo e sviluppare quel che di valido e sano è presente nell'uomo
evangelizzato. Con un metodo attento e discreto di educazione, essa farà
emergere e maturare dopo averli purificati dalle incrostazioni e dai sedimenti
accumulatisi nel tempo, gli autentici valori di spiritualità, di religiosità,
di carità che, quali semi del Verbo e segni della presenza di Dio, aprono la
via all'accettazione del Vangelo», [in Insegnamenti
II, 1979, 1549-1555].
E nel suo terzo viaggio in terra d'Africa, lo
stesso Pontefice incontrando gli Intellettuali e gli Universitari nel palazzo
dei congressi a Yoaunde (Cameroun) diceva: «...è importante andare sino in
fondo nella riflessione sulla volontà d'essere allo stesso tempo appieno
cristiani e appieno africani. E' una ricerca difficile, ed io auspico che
continuiate ad andare avanti in questa strada con obiettività, saggezza e
profondità, in unione con i Vescovi del vostro Paese..».[in L'Osservatore Romano 15.08.1985].
[166]
PAOLO VI, Messaggio ai Popoli dell'Asia, in Insegnamenti,
VIII (1970), p. 1254.
[167]
PAOLO VI, Discorso al Simposio dei
Vescovi africani, Kampala 1969, in Insegnamenti
VII (1969) p. 535.
[168]
GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Catechesi
tradendae 53.
[169]
Giovanni Paolo II, fin dal suo primo messaggio per la giornata missionaria
mondiale, nel 1979, si preoccupava di definire l'evangelizzazione come una
seminagione, e non come uno sradicamento dei valori. Scrive a tale proposito:
«La Chiesa nella sua opera di evangelizzazione dovrà porsi di fronte alle
culture in atteggiamento di attenta e rispettosa riflessione preoccupandosi di
non soffocare mai, bensì di salvare e sviluppare, tutti quei beni accumulati
nel corso di tradizioni secolari. L'atteggiamento di fondo in coloro che
portano il lieto annuncio del Vangelo alle genti è di proporre e non già di
imporre la verità cristiana, infatti la missione non è distruzione di valori,
ma piuttosto elevazione purificazione, fecondazione di tutto quanto di positivo
Dio stesso ha posto nelle culture umane come semi del Verbo. Il rispetto per
l'uomo e per la sua cultura, deve essere dunque un principio basilare per ogni
retta attività missionaria intesa come prudente, tempestiva, operosa, seminagione
evangelica, non già come sradicamento di ciò che, essendo autenticamente umano,
ha un intrinseco e positivo valore» (GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la giornata missionaria mondiale 1979, in Insegnamenti», II (1979), p. 1549.).
[170]
GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptor hominis
12: «Grazie a questa unione apostolica e missionaria... ci accostiamo a tutte
le culture, a tutte le concezioni ideologiche, a tutti gli uomini di buona
volontà, ci avviciniamo con quella stima, rispetto e discernimento che sin dai
tempi degli apostoli, contrassegnava l'atteggiamento missionario e del
missionario... l'atteggiamento del missionario inizia sempre con un sentimento
di profonda stima di fronte a ciò che c'è in ogni uomo (Gv 2,25). per ciò che
egli stesso, nell'intimo del suo spirito, ha elaborato riguardo ai problemi più
profondi e più importanti; si tratta di rispetto per tutto ciò che in lui ha
operato lo Spirito, che soffia dove vuole (Gv 3,8). La missione non è mai
distruzione, ma è una riassunzione di valori e una nuova costruzione, anche se
nella pratica non sempre vi è stata corrispondenza a un ideale così elevato. E
la conversione, che da essa deve prendere inizio, sappiamo bene che è opera
della grazia, nella quale l'uomo deve ritrovare pienamente se stesso».
Si veda anche quanto detto dallo stesso
Pontefice nella sua Epistola enciclica Slavorum
apostoli [2.6.1985] circa l'inculturazione (n.21) e come i santi Cirillo e
Metodio proprio in questo siano da considerare modelli di ogni missione e degli
stessi missionari (n.11).
[171]
Giovanni Paolo II, parlando ai Vescovi dello Zaire, si faceva premura di
richiamare anche l'attenzione con cui deve avvenire il dialogo tra Vangelo e
culture; se da una parte si sottolinea la forza lievitante del Vangelo,
dall'altra si richiede anche lucidità, saggezza e prudenza in questo dialogo.
«Lo Spirito Santo ci chiede di credere che effettivamente il lievito del
Vangelo, nella sua autenticità, ha la forza di suscitare cristiani nelle
diverse culture con tutte le ricchezze del loro patrimonio, purificate e
trasfigurate...».
E nella sua visita in Togo [1985] ha detto:
«Avendo ricevuto la fede cristiana, approfonditela, traetene tutte le
conseguenze, costruite con essa una civiltà cristiana originale, che attinga a
quanto vi è di meglio nelle vostre tradizioni e che si rimetta, nello stesso
tempo, all'esperienza della Chiesa universale. Non è il Vangelo che deve
cambiare, sono le culture che devono sforzarsi di assimilare meglio i germi di
vita e di salvezza portati da Gesù Cristo. E' importante perseguire questa
evangelizzazione in profondità, secondo gli orientamenti del Concilio Vaticano
II, alla luce e con la forza dello Spirito Santo. Sono certo che potete
preparare, con la grazia di Dio, un bell'avvenire per la vostra Chiesa, se
coltivate con perseveranza il seme autentico del Vangelo seminato nella vostra
terra, e se vigilate sulla sua crescita. Così, la vostra comunità cattolica
darà essa stessa la sua ricchezza nel concerto della Chiesa universale e, in
questo paese, in armoniosa relazione con tutti i cittadini, essa contribuirà al
progresso della nazione» (in L'Osservatore
Romano 11.8.1985, p. 5).
[172]
Cf. Discorso all'Udienza generale del 13 aprile 1988: Insegnamenti, XI/1 (1988), 877-881.
[173]
Esort. ap. Familiaris consortio (22
novembre 1981), 10, in cui si tratta dell'inculturazione « nell'ambito del
matrimonio e della famiglia »: AAS 74 (1982), 91.
[174]
Cf. PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 63-65: l.c., 53-56.
[175]
CONC. ECUM. VAT. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 17. Per la Commissione Teologica Internazionale, nel
processo di inculturazione: * va evitata ogni forma di “nestorianesimo ecclesiale” [nessun rapporto tra elemento divino e
elemento umano] e ogni forma di “monofisismo
ecclesiale” [tutto sarebbe divinizzato, senza limiti, senza errori, senza
deficienze; cfr Temi scelti di
ecclesiologia 6.1]; * la grazia rispetta la natura, ma nello stesso tempo
la guarisce, la corrobora, la eleva ad una pienezza di perfezione, quella dell'immagine di Dio Creatore [Cf Fede e inculturazione 1-11].
[176]
Giovanni Paolo II, nell'omelia della Messa a Salvador da Bahia, mette in
guardia che l'adattamento non si trasformi in tradimento del Vangelo:
«Cristo è la luce che, integrata nelle più
diverse culture, le illumina e le eleva da dentro; la vera fede non è in
contraddizione nemmeno con i valori religiosi della religione di ogni popolo
perché rivela loro il vero volto di Dio che è Padre. La fede cristiana rispetta
le espressioni culturali di qualunque popolo, purché siano veri ed autentici
valori. Ma tralasciare di trasmettere a tutti gli uomini l'integro deposito
della fede, sarebbe una infedeltà alla stessa missione della Chiesa.
Equivarrebbe non riconoscere agli uomini un loro fondamentale diritto: il
diritto alla verità.
E' chiaro che l'annuncio della fede suppone un
adattamento alla mentalità di coloro che sono evangelizzati, ma in nessun modo
però questo adattamento implica un'espressione e un annuncio del Vangelo
incompleti. Siamo custodi della Parola di Dio e quindi non abbiamo il diritto
di mutilarla nelle nostre predicazioni a chiunque siano dirette (GIOVANNI PAOLO
II, Omelia della Messa a Salvador da
Bahia, Brasile, 7.7.1980), in Insegnamenti III, 2 (1980), p. 170.
Si riecheggia qui quanto con fermezza aveva già
detto Evangelii Nuntiandi: «Inviata
ed evangelizzata, la Chiesa, a sua volta, invia gli evangelizzatori... Ma non a
predicare le proprie persone e le loro idee personali, bensì un Vangelo di cui
né essi, né essa sono padroni e proprietari assoluti per disporne a loro
arbitrio, ma ministri per trasmetterlo con estrema fedeltà» (EN 15).
«Insistevamo sulla grave responsabilità che ci
incombe... di conservare inalterabile il contenuto della fede cattolica che il
Signore ha affidato agli Apostoli: anche se tradotto in tutti i linguaggi,
questo contenuto non deve essere né intaccato, né mutilato; pur se rivestito
dei simboli propri di ciascun popolo, esplicitato mediante formulazioni
teologiche che tengano conto degli ambienti culturali, sociali ed anche
razziali diversi, deve restare il contenuto della fede cattolica quale il
magistero ecclesiale l'ha ricevuto e lo trasmette» (EN 65).
[177]
PAOLO VI, Discorso al Sacro Collegio
durante l'udienza per gli auguri onomastici del 21.6.1976, in Insegnamenti, XIV (1976) p, 499.
[178]
PAOLO VI, Discorso al Simposio dei
Vescovi africani, Kampala 1969, in Insegnamenti
VII (1969) p. 535.
[179]
PAOLO Vl, Discorso al Simposio dei
Vescovi africani, Kampala, 31.7.1969, in Insegnamenti, VII (1969ì, p. 535 ss. Undici anni dopo anche
Giovanni Paolo Il, recandosi in Africa, invitava l'Episcopato dello Zaire a
proseguire l'opera di inculturazione del Vangelo, ma allo stesso tempo,
ricordava l'urgenza di rimanere in unione e in accordo con la Chiesa universale
ed in particolare con le leggi stabilite dalla Santa Sede.
«Nell'ambito della catechesi devono e possono
essere fatte presentazioni più consone all'anima e alla cultura dei popoli, pur
tenendo conto degli scambi culturali sempre più frequenti con il resto del
mondo. E' semplicemente necessario vigilare perché lo studio sia svolto in
collaborazione e controllato dall'episcopato, di modo che l'espressione sia
corretta e tutta la dottrina sia presentata. Nell'ambito dei gesti sacri e
della liturgia è possibile tutto un arricchimento (cfr. SC 37-38) a condizione
che il significato del rito cristiano sia sempre ben conservato e che l'aspetto
universale e cattolico della Chiesa appaia chiaramente («Sostanziale unità del
rito romano») in unione con le altre Chiese locali e in accordo con la Santa
Sede» (GIOVANNI PAOLO II, Incontro con i
Vescovi dello Zaire, 3 5 1980, in Insegnamenti
III,1 (1980) p. 1082.
[180]
“ In virtù della comunione cattolica, che unisce tutte le Chiese in una
medesima storia, le giovani Chiese considerano il passato delle Chiese che
hanno dato loro la nascita come una parte della propria storia”; riconoscere
questa «anteriorità» delle sorelle maggiori significa essere tributarie della
Tradizione nella quale la fede si è attestata; significa riconoscersi,
nell'uguale dignità, quali membra vive che formano la pienezza del mistero di
Cristo (Cf CTI, Fede e inculturazione, III,16).
[181]
Il linguaggio deve sempre rivelare, insieme alla verità di fede, anche la
grandezza e la santità dei misteri celebrati [cf La liturgia romana e l'inculturazione 39].
[182]
Cf Messale Romano, Istitutio generalis,
Proemium n.2.
[183]
Giovanni Paolo II, nella sua Epistola Enciclica Slavorvm Apostoli, oltre a proporre i Santi Cirillo e Metodio come
veri modelli per tutti i missionari, parla della loro fedeltà alla Chiesa, e
scrive: «La perfetta comunione nell'amore preserva la Chiesa da qualsiasi forma
di particolarismo o di esclusivismo etnico o di pregiudizio razziale, come da
ogni alterigia nazionalistica. Tale comunione deve elevare e sublimare ogni
legittimo sentimento puramente naturale del cuore umano» (GIOVANNI PAOLO II, Slavorum Apostoli n. 11)
All'inaugurazione dell'Istituto Cattolico Superiore dell'Africa Orientale,
Nairobi, ha detto: «Il successo delle Chiese locali nell'incarnare il Vangelo
di Gesù Cristo nel ricco terreno delle vostre culture africane dipenderà dalla
misura in cui le vostre fatiche di evangelizzazione e catechesi saranno
solidamente radicate nel patrimonio teologico della Chiesa universale» (in L'Osservatore Romano 20.8.1985, p. 4).
[184]
PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi
20.
[185]
Ibìdem.
[186]
“L'inculturazione, compatibile col messaggio di Cristo, sia incoraggiata come
un processo costante nella Chiesa universale; che sia lasciato nelle Chiese
locali un raggio più ampio di azione nel promuovere e sviluppare le loro
culture nel servizio al Vangelo, sempre nel rispetto dell'unità della Chiesa e
in comunione con le altre Chiese locali e la Chiesa di Roma; che da parte delle
Chiese locali siano compiuti sforzi congiunti... per studiare, ricercare,
esaminare e comprendere sempre più profondamente la loro cultura, così che
possa più perfettamente essere espressa nella liturgia e nei vari aspetti della
vita dei fedeli” [Documento del gruppo inglese A. al Sinodo straordinario dei
Vescovi su Verifica e promozione del
Concilio (24 novembre- 8 dicembre 1985) in Regno Doc. 1 (1986) 19. Vedere
anche la Relazione finale approvata dall'assemblea, n. 4, “Inculturazione”, Ibidem, p. 26..
L'importanza e l'urgenza dell'inculturazione nel
contesto più ampio della Missio ad gentes,
è sottolineato dai Lineamenta
preparati dal Consiglio del Segretariato Generale del Sinodo dei Vescovi in
vista dell'Assemblea speciale per l'Africa [Città del Vaticano 1990], che si
terrà nel 1994. Il capitolo II di questi Lineamenta
[nn 44-53], dedicato appunto all'inculturazione, insiste su questa idea chiave:
occorre imitare l'avvenimento fondante della Pentecoste (cf At 2,1-11) dove in
maniera esemplare lo Spirito ha creato armonia e salvaguardato l'unità nella
diversità, la particolarità nell'universalità; si veda anche COMMISSIONE
TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Fede e
inculturazione, La Civiltà Cattolica
140 (1989) I/3326, 158-177; EV 11/1347-1424; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA
DELLA FEDE, Lettera Communionis notio ai
Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come
comunione, 28.05.1992: AAS 85 (1993) 838-850; EV 13/1774-1807
[187]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai membri del Pontificio Consiglio per la Cultura,
in L’Osservatore Romano 19.01.1983.
Quale bibliografia essenziale sull'argomento citiamo: COMMISSIONE TEOLOGICA
INTERNAZIONALE, Fede e inculturazione, op. cit.; POUPARD Card. P., Eglise et culture. Jalons
pour une pastorale de l'intelligence, ed. SOS, Paris 1980; Id., Evangélization
et nouvelles cultures, “Nouvelle Revue Théologique” 109 (1977) 532-549;
Id., Teologia dell'evangelizzazione delle
culture, in «Regno/Doc» 5(1986)150-156.
[188]
Il particolare mandato di studiare il problema dell'inculturazione è stato
affidato da Giovanni Paolo Il alla Pontificia Università Urbaniana in occasione
della sua visita compiuta il 19 ottobre 1980. Riconoscendo come specifica
caratteristica di questa Università la «missionarietà» affidava a questa
Università uno specifico compito di studiare il rapporto tra messaggio
cristiano e culture diverse: «La facoltà di Teologia, con le sue varie
discipline, l'Istituto missionario scientifico, e l'Istituto di Catehesi
Missionaria, canonicamente eretto alcuni mesi or sono, dovranno approfondire
con rigore scientifico il problema dell'acculturazione del Vangelo e dovranno
formare adeguatamente i futuri Araldi che in tutte le nazioni sappiano
diffondere il messaggio di Cristo senza adulterarlo o svuotarlo, ma portandolo
nel cuore stesso della vita e delle tradizioni dei vari popoli per elevarli a
Cristo, via, verità e vita dell'uomo» (cfr. Gv 14,6) [GIOVANNI PAOLO II, Visita alla Pontificia Università Urbaniana,
19.10.1980, in Insegnamenti, III, 2 (1980), p. 927].
Stesso obbligo va alle Conferenze Episcopali e
ai Dicasteri della Curia Romana: «Si dovrà proseguire nello studio,
particolarmente delle Conferenze Episcopali e dei Dicasteri competenti della
Curia Romana, e nell'impegno pastorale perché questa “inculturazione” della
fede cristiana avvenga sempre più ampiamente» (Familiaris Consortio, 10)
[189]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai Vescovi
dello Zaire a Kinshasa, 3 maggio 1980, 4-6: AAS 72 (1980) 432-435. Si
vedano però le indicazioni di “La
liturgia romana e l'inculturazione”, n.39.
[190] Bibliografia: CHUPUNGCO A., L'adattamento della liturgia tra cultura e teologia, ed. Piemme, Casale Monferrato 1985 [ed. inglese: Cultural adaptation of the Liturgy, Paulist Press, NY 1982]; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Varietates Legitimae: La liturgia romana e l’inculturazione. IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla Sacra liturgia (nn. 37-40), [25.01.1994]: AAS 87 (1995) 288-314; EV 14/66-157; Notitiae 332 (1994) 80-115 [in francese: 116-151]; Regno Documenti 9 (1994) 262-270; GIGLIONI P., Salvezza, Liturgia e inculturazione, in AA.VV., La salvezza oggi, Atti del Congresso Internazionale di Missiologia, UUP, Roma 1989, 383-396 [anche in Euntes Docete 3 (1989) 461-472]; LUKKEN G.M., Inculturation et avenir de la liturgie, in Questions Liturgiques 75 (1994) 113-134; PISTOIA A. - TRIACCA A.M., Liturgia e adattamento. Dimensioni culturali e teologico-pastorali, C.L.V., Edizioni Liturgiche, Roma 1990; ROCHA P., Liturgia e inculturazione, in AA.VV., Inculturation. Gospel and Culture, Studia Missionalia, vol. 44 /1995, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1995, 149-168; RUSSO R., La inculturación de la liturgia, in Medellin 20, n. 79 ( Bogota 1994 ) 357-395; TRIACCA A.M., Adattamento: dalla «Sacrosanctum Concilium» agli altri documenti del Vaticano II, in Rivista Liturgica 2-3 (1985) 189-208; UZUKWU E.E., Inculturation and the Liturgy (Eucharist), in GIBELLINI, R. (edt.), Paths of Africa Theology, SCM Press, 1994, pp. 95-114.
[191]
Cf Decreto Orientalium Ecclesiarum 2:
«La varietà (dei riti) nella Chiesa non solo non nuoce alla sua unità, ma anzi
la manifesta». E in Sacrosanctum
Concilium si afferma: «la santa Madre Chiesa considera su una stessa base
di diritto e di onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in
avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati» (SC 4). Si veda
anche il Catechismo della Chiesa
Cattolica, nn.1200-1206, in particolare nn. 1204-1206.
[192]
GIOVANNI PAOLO II, Lettera apostolica Vicesimus
quintus annus nel XXV anniversario della Costituzione conciliare
«Sacrosanctum concilium» sulla sacra liturgia [4.12.1988]: AAS AAS 81 (1989)
898-918; EV 11,1567-1597; Notitiae
274 (1989) [387-404:latino] [405-423: italiano] Regno\Doc 11,1989,322-327;
Riv\lit 4,1989,429-442.
[193]
GIOVANNI PAOLO II, Epist. enc. Slavorum
Apostoli (2 giugno 1985), n. 21: AAS 77
(1985), 802-803; cf Discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio
Consiglio per la Cultura (17 gennaio 1987), n. 5: AAS 79 (1987), 1204-1205; Lett. enc. Redemptoris Misio (7 dicembre 1990), n. 52: AAS 83 (1991), 300.
[194] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Varietates Legitimae: La liturgia romana e l’inculturazione. IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla Sacra liturgia (nn. 37-40), [25.01.1994], n. 5: AAS 87 (1995) 288-314; EV 14/73.
[195]
Altre motivazioni di tipo “pastorale” ricorrono anche in CD 17c, 18b, 22b; PC
9a, 10, 17 20a; AA 29b; PO 7a, 22b; GS 4a, 44c;.
[196]
Per una corretta interpretazione del significato di «pastorale» dato al
Concilio, si può vedere quanto è autorevolmente detto in Gaudium et spes alla nota n.1. Però si tenga conto di quanto aveva
già anticipato GIOVANNI XXIII, Discorso
di apertura del Concilio, in EV 1/55*: “e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose, che più
corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale”.
Questo impegno «pastorale» spinge la Chiesa ad incarnarsi nel tempo e nella
storia degli uomini nei quali essa vive, senza tuttavia confondersi con il
mondo; la spinge a rendere credibile il messaggio evangelico per una sua vitale
recezione.
[197]
Cf ROEST CROLLIUS A., Inculturazione,
in AA.VV., Dizionario di missiologia,
EDB, Bologna 1993, 281-286 [283].
[198]
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Communionis notio ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni
aspetti della Chiesa intesa come comunione, [28.05.1992], nn.7-10: AAS 85
(1993) 838-850 [qui 842-844]; EV 13/1774-1807; si veda anche RMi 53-54.
[199]
Per ortodossia del culto si intende non solo salvaguardia dagli errori, ma
anche trasmissione integrale della fede. L’espressione lex orandi – lex credendi è
attribuita a Prospero di Aquitania [un discepolo di s. Agostino, vissuto tra il
390 e il 460] e significa: «La legge (= norma) del pregare stabilisce la legge
del credere»: la fede regola la preghiera e la preghiera regola la fede; se si
prega bene e soprattutto con contenuti esatti, anche la fede sarà salda e senza
eresie. Per l'azione dello Spirito, fede e preghiera sono inseparabilmente
unite: la preghiera vera scaturisce dalla fede e la fede trova la sua espressione
più ricca nella preghiera della Chiesa. A seguito di questa convinzione, da
sempre la Chiesa ha controllato le espressioni della Liturgia evitando che i
singoli possano introdurre o cambiare qualcosa di loro iniziativa (cf SC 22 §
3). La liturgia è celebrata nella fede della Chiesa. Per la documentazione, cf Missale Romanum, Institutio generalis,
Proemium n.2.
[200]
Questo concetto è ben espresso nella Istituzione
Generale del Messale Romano n.11: “«Spetta
ugualmente al sacerdote, nel suo ufficio di presidente dell'assemblea radunata,
proferire le monizioni e le formule di introduzione e di conclusione previste
nel rito. Per loro natura queste monizioni non richiedono di essere pronunziate
alla lettera, nella formulazione presentata nel Messale; per cui potrà essere
opportuno l'adattarle in qualche modo, almeno in alcuni casi, alle reali
condizioni della comunità.
Così
pure spetta al sacerdote che presiede annunziare la parola di Dio e impartire
la benedizione finale. Egli può inoltre intervenire con brevissime parole,
prima di dar inizio alla celebrazione, per introdurre i fedeli alla Messa del
giorno; alla liturgia della Partola, prima delle letture; alla Preghiera
eucaristica, prima di iniziare il prefazio; prima del congedo, a conclusione
dell'intera azione sacra» (IGMR 11).
[201] Cf SC 22; 26; 28; 40, 3; 128; CIC
2.
[202] Cf SC 22,1; CIC 838, 1.2.; Pastor bonus, 62.64; Vicesimus
quintus annus n.19.
[203]
Nei documenti del Vaticano II il termine accomodatio
(e derivati) ricorre 60 volte (di cui 12 in SC); è accompagnato da verbi
“incitativi” a sottolineare il dovere-necessità-urgenza (come in SC
11.62.67.75.89); cf OCHOA X., Index
verborum cum documentis Concilii Vaticani II, Roma 1976.
[204]
Il termine aptatio è presente più di
100 volte (di cui 21 in SC); anche per la aptatio è sottolineata la
necessità-urgenza [accomodatio e aptatio sono a volte accompagnati da inciso:
“pro opportunitate” o “si necesse est”; altre volte si fa capire la
necessità-convenienza di introdurre l'adattamento (cfr SC 89b, 90b, 108, 120b);
non è semplicemente riducibile ad “aggiornamento”, ma esige di vivificare,
ri-creare, essere tempestivi; non intende neppure una novità “ex-toto”, ma
piuttosto una “continuità” con il passato nel rinnovamento all'oggi per essere
credibili, protesi al futuro; rendere la Chiesa vitalmente inserita nel tessuto
sociale-culturale degli uomini del nostro tempo e presentare ad essi in modo
intelligibile e credibile il mistero di Cristo.
[205]
E' in parte previsto da SC 65 che dice: “Nei luoghi di Missione sia consentito
accogliere, accanto agli elementi propri della tradizione cristiana, anche
elementi della iniziazione in uso presso ogni popolo, nella misura in cui
possono essere adattati al rito cristiano, a norma degli art. 37-40 di questa
Costituzione”.
[206]
SACRA CONGREGATIO PRO CULTU DIVINO, Instructio tertia ad Constitutionem de
sacra Liturgia recte exsequendam Liturgicae
istaurationes, 5 septembris 1970: AAS 62 (1970) 692-704; Notitiae 7 (1971)
10-26 (con commento); EV 3, 2757-2802; EDIL 2171-2186; 4 Rivista Liturgica 1971) 540-550; Liturgia 89 (1970) 722-740 (con commento)
[207]
“L'inculturazione deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni
esperti, poiché è noto che il popolo riflette quel genuino senso della fede che
non bisogna mai perdere di vista. Essa va sì guidata e stimolata, ma non
forzata, per non suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere
espressione di vita comunitaria, cioè maturare in seno alla comunità, e non
frutto esclusivo di ricerche erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è
effetto di una fede matura» (RMi 54).
[208] CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONEM DE SACRA
LITURGIA, Instruction Comme le prévoit
sur la traduction des textes liturgiques pour la célebration avec le peuple,
25 janvier 1969, in Notitiae 5 (1969)
n.1-2, 3-12.
[209] Bibliografia: DEPARTAMENTO EPISCOPAL POR LA LITURGIA [DELC/CELAM], Adaptaciones en la Liturgia, in Medellin 9/36 (1983) 554-570 [tr.it. in «Rivista Liturgica» 2-3 (1985) 384-364]; CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Varietates Legitimae: La liturgia romana e l’inculturazione. IV Istruzione per una corretta applicazione della Costituzione conciliare sulla Sacra liturgia (nn. 37-40), [25.01.1994]: AAS 87 (1995) 288-314; Notitiae 332 (1994) 80-115 [in francese: 116-151]; Regno Documenti 9 (1994) 262-270.
[210]
La liturgia romana e l'inculturazione,
n.22.
[211] Ibid. n.26.
[212] CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONEM DE SACRA
LITURGIA, Instruction Comme le prévoit
sur la traduction des textes liturgiques pour la célebration avec le peuple, 25
janvier 1969, in Notitiae 5 (1969)
n.1-2, 3-12; EDIL 1200-1242; EV 3, 748-790; Rivista
Liturgica 5-6 (1969) 681-691; vedere il commento di J. GELINEAU in La Maison Dieu 98 (1969) 156-162. Sul
problema del linguaggio vedere anche SACRA CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO,
Lettera ai Presidenti delle Conferenze Episcopali sull'introduzione delle
lingue parlate nella liturgia [5.VI.1976], in Notitiae 12 (1976) 300-302; EV 5, 1305-1309; Rivista Liturgica 2 (1977) 272-274; EDIL 2, 3481-3487.
[213]
Si veda, ad esempio, il Direttorio per le Messe con i fanciulli (= DMP n. 51).
[214]
Cf La liturgia romana e l'inculturazione
n.40-42.
[215]
Ibid. nn. 43-44.
[216] Bibliografia: CUVA A., La
creatività rituale nei libri liturgici ai vari livelli di competenza, in Ephemerides Liturgicae 89(1975)54-99; PISTOIA
A., L'adattamento nei «Praenotanda» dei
libri liturgici di rito romano, in Rivista
Liturgica 2-3(1985)209-226; SODI M., Competenze
liturgiche delle Conferenze Episcopali nei nuovi “Ordines”, in Rivista Liturgica 5(1982)658-701; TRIACCA
A.M., Adattamento: dalla «Sacrosanctum
Concilium» agli altri documenti del Vaticano II, in Rivista Liturgica 2-3 (1985) 189-208.
[217] Per una esatta comprensione del termine “pastorale” si veda la nota n.1 di GS
[218] La stessa Istruzione su La liturgia romana e l’inculturazione non offre indicazioni concrete su questo punto, ma si limita ad indicare la procedura che devono seguire le Conferenze episcopli che volessero procedere su questa forma più profonda di inculturazione (nn. 63-69).
[219]
Per gli adattamenti già effettuati si possono vedere i Rituali
canadese-francofono, messicano, africano, indiano (in Rivista Liturgica 2-3 1985).
[220] CONSILIUM AD EXSEQUENDAM CONSTITUTIONEM DE SACRA
LITURGIA, Instruction Comme le prévoit
sur la traduction des textes liturgiques pour la célebration avec le peuple, 25
janvier 1969, in Notitiae 5 (1969)
n.1-2, 3-12; EV 3, 748-790;
[221])
E' il caso di richiamare ancora una volta le indicazioni di Redemptoris Missio 54: «L'inculturazione
deve coinvolgere tutto il popolo di Dio, non solo alcuni esperti, poiché è noto
che il popolo riflette quel genuino senso della fede che non bisogna mai
perdere di vista. Essa va sì guidata e stimolata, ma non forzata, per non
suscitare reazioni negative nei cristiani: dev'essere espressione di vita comunitaria,
cioè maturare in seno alla comunità, e non frutto esclusivo di ricerche
erudite. La salvaguardia dei valori tradizionali è effetto di una fede matura».
[222])
Cf SACRA CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Direttorio
per le messe con la partecipazione dei fanciulli [1.11.1973]: AAS 66 (1974)
30-46.
[223] Bibliografia: COMMISSIONE EPISCOPALE SPAGNOLA DI LITURGIA, Creatività nella fedeltà. Documento pastorale, in Notitiae 243,1986,783-798; Rivista Liturgica 3 (1988) 414-424; CUVA A., La creatività rituale nei libri liturgici ai vari livelli di competenza, in Ephemerides Liturgicae 89 (1975) 54-99; GONZALEZ R., Adaptación, inculturación creatividad. Planteamiento, problematicas y perspectivas de profundizaciòn, in Phase 158 (1987) 129-152; THURIAN M., Creatività e spontaneità nella liturgia, in Unitas 29/1 (1974) 8-16; VEGAS L., La creatività liturgica. Aspetti storici, dottrinali e pastorali, in Rivista Liturgica 4(1977)451-499; La Maison Dieu 111(1972): La creatività liturgica; Rivista di Pastorale Liturgica 135(1986): Adattamento e creatività nelle celebrazioni; Phase 103(1978) Adattamento-Creatività; Ephemerides Liturgicae 89 (1975): De creativitate liturgica.
[224]
Queste indicazioni sono state poi ampliate e specificate nella Lettera della
Sacra Congregazione per il Culto Divino Eucaristiae
partecipationem del 27 aprile 1973, nn.14.16.
[225]
Questo tipo di adattamento prevede: * scegliere una Messa rituale o per varie
necessità [IGMR 314-316], o per gruppi particolari, o per i fanciulli; *
scegliere tra i vari formulari delle Messe [memoria o feria, obbligo o
facoltativo: IGMR 313-316]; scegliere le letture [IGMR 318-320; OLM 78-88];
scegliere i prefazi, le preghiere eucaristiche, le orazioni [IGMR 321-324];
scegliere tra il Credo apostolico o il Credo niceno-costantinopolitano;
analogamente questo è previsto anche per gli altri Ordines.
[226]
Questa distinzione è necessaria, altrimenti vi sarebbe contraddizione con SC
23.3 che fa assoluto divieto, anche ai presbiteri, di
aggiungere-togliere-mutare alcunché in materia liturgica. Ad ogni modo: questo
è un chiaro esempio della maturazione progressiva del concetto di
adattamento che si è avuta tra la
pubblicazione della Costituzione liturgica (1963) e la pubblicazione dell'Ordo
Missae (1969) ed ancor più negli Ordines successivi.
[227]
I casi previsti sono: le formule di introduzione [al Padre nostro, al segno
della pace] e di congedo; l'atto penitenziale.
[228]
I casi previsti sono: accoglienza dei fedeli; prima delle letture; prima della
prece eucaristica; prima del congedo [IGMR 11]. Questa «creatività» non ha
niente a che fare con una malintesa «spontaneità»: mentre la creatività
risponde ad esigenze «obiettive» dell’assemblea liturgica e della stessa
liturgia, la spontaneità è invece dettata da esigenze pressoché «soggettive» [e
quindi molto rischiosa perché potrebbe non rispettare né le esigenze
dell'assemblea con inutili imposizioni, né le esigenze della liturgia che segue
sempre regole ben precise secondo la «lex orandi»].
[229]
Da qui l'attenzione a non sovrapporre significati alternativi [come fare
dell'Eucaristia una semplice cena fraterna dove si sperimenta la liberazione
dell'uomo].
[230]
Si ricordi l'insistenza di Sacrosanctum concilium circa la partecipazione
«attiva-piena-consapevole-fruttuosa» dei fedeli alla liturgia: SC 11.14.21.43.48;
per raggiungere questo scopo a poco servono i cambiamenti dei testi-riti se non
si persegue una educazione liturgica (SC 14), se non si alimenta la fede, la
preghiera, la coerenza col mistero celebrato (SC 10), la cooperazione con la
grazia divina (SC 11) [cf Inter
oecumenici 5].
[231]
In pratica significa scegliere parole-gesti-segni che di volta in volta diano
solennità e vitalità all'azione liturgica. Alcuni di questi gesti sono
introdotti con varietà di espressioni: de
more [di per sé, generalmente, in ogni celebrazione: es. la preghiera dei
fedeli IGMR 45-46]; expedit,
laudabiliter, valde commendatur [conviene, è lodevole, molto
raccomandabile: riti non obbligatori, ma di cui si consiglia l'uso: omelia
nelle ferie di avvento-quaresima (IGMR 42-43), processione delle offerte (IGMR
49.101), partecipazione alla comunione con ostie consacrate nella stessa Messa
e comunione sotto le due specie (IGMR 56h.240)]; ad libitum, pro opportunitate, si casus fert [a scelta, secondo le
circostanze e i casi: uso dell'incenso [IGMR 27.51.82a.85.93.95.
105.129.131.133.163.235-236]; candele e croce per l'ingresso [IGMR 79.82.143];
la processione al Vangelo [IGMR 94]; l'uso del campanello [IGMR 109].
[232]
Questa opportunità è prevista espressamente dal Rito del matrimonio
[Praenotanda n. 9: in qualche circostanza è consigliabile omettere la
celebrazione dell'Eucaristia] che cita l'Istruzione Inter oecumenici n.70.
[233]
Questo è significato dalla «epiclesi di comunione» nella terza prece
eucaristica; si veda anche S. ILARIO, Dal trattato sulla Trinità [La naturale
unità dei fedeli in Dio mediante l'incarnazione del Verbo e il sacramento
dell'Eucaristia]: Lib. 8, 13-16; PL 10, 246-249 [Liturgia delle Ore: mercoledì
IV di Pasqua].
[234] Bibliografia: AA.VV., Liturgia e religiosità popolare, proposte di analisi e orientamenti, Bologna, EDB 1979; AA.VV., Religiosidad popular y evangelisation universal, Burgos 1978; AA.VV., Ricerche sulla religiosità popolare nella bibbia, nella liturgia, nella pastorale, EDB, Bologna 1979; ALLENDE LUCO J., Religiosidad popular en Puebla, in Medellin 17-18 (1979) 91-114; CELAM, Chiesa e religiosità popolare in America latina. Documento sulla religiosità popolare [Bogotà 1976], in L. SARTORI (a cura di) Religiosità popolare e cammino di liberazione, EDB, Bologna 1978, pp.357-408; CHANG SE-HYUN M., La religiosità popolare come una via dell'evangelizzazione, Tesi Pont. Univ. Urbaniana, Roma 1990; CHUPUNGCO A., Liturgical Inculturation: Sacramentals, Religiosity, and Catechesis, The Liturgical Press, Collegeville, 1992; SECONDIN B., Religiosità popolare, in Dizionario di spiritualità dei laici, II, O.R., Milano 1981, 211-224.
[235]
Per religiosità popolare si intende l'unione della fede e della pietà cristiane
con la cultura vivente e con elementi religiosi preesistenti di un popolo. Si
tratta di quelle numerose devozioni con cui alcuni cristiani esprimono il loro
sentimento religioso nel linguaggio semplice della festa, del pellegrinaggio,
della danza, del canto [cf Fede e
inculturazione III.2; EN 48; Puebla 448]
[236]
Cf La liturgia romana e l'inculturazione
n.45.
[237]
PAOLO VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi,
48 (vedere anche i nn. 18.20; 53.55.63); cf CT 54 (e 17.59.79).
[238]
CELAM, Chiesa e religiosità popolare in
America latina. Documento sulla religiosità popolare [Bogotà 1976], in L.
SARTORI (a cura di) Religiosità popolare
e cammino di liberazione, EDB, Bologna 1978, pp.357-408.
[239] PIERIS A., L'Asie
non semitique face aux modèles occidentaux d'inculturation, in «Lumière et
Vie» 33 (1984) 50-62].
[240] Bibliografia: COINCAT, La catechesi degli adulti nella comunità cristiana. Alcune linee e orientamenti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1990; Regno Documenti 17 (1990) 525-534; CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi [15.08.1997], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Guida per i catechisti. Documento di orientamento in vista della vocazione, della formazione e della promozione dei Catechisti nei territori di missione che dipendono dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, 3.12.1993, Città del Vaticano 1993; EV 13, 3285-3485; GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae circa la catechesi nel nostro tempo, 16.10.1979: AAS 71 (1979) 1277-1340; OR 26 ott. 1979; EV 6, 1764-1939.
[241] Cf CONGREGAZIONE PER IL
CLERO, Direttorio Generale per la
Catechesi [15.08.1997], nn.46-49, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1997.
[242] Catechesi di inculturazione
o inculturazione tramite la catechesi o catechesi inculturata sono qui sinonimi
per indicare il processo di inculturazione della fede o del Vangelo mediante il
servizio della catechesi.
[243] L’admirabile commercium di cui parla la liturgia natalizia (cf Prefazio di Natale III).
[244] Cf CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI, Guida per i catechisti. Documento di orientamento in vista della vocazione, della formazione e della promozione dei Catechisti nei territori di missione che dipendono dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, 3.12.1993, n. 12, Città del Vaticano 1993; EV 13, 3285-3485.
[245] Cf DGC 109-110.
[246] Cf DGC 202-203.
[247] Cf DGC 204-208.
[248] Cf DGC 211
[249] Bibliografia: AA.VV., Cristianesimo e culture: un arricchimento reciproco?, in Concilium 30 (1994) 1-176 [monografia]; AA.VV., Evangelizzazione e culture, 3 voll., Atti del Congresso Internazionale Scientifico di Missiologia [Roma, 5.12 ottobre 1975], Roma, Pont. Univ. Urbaniana 1976; AA.VV., Inculturation. Gospel and Culture, Studia Missionalia PUG, vol. 44 (1995); ABRAHAM KURUVILLA C., Globalization: A Gospel and culture perspective, in International Review of Mission 85, n. 336 ( 1996 ) 85-92; CARRIER H., Evangelizing the culture of modernity, Orbis Books, Maryknoll (NY) 1993; CARRIER H., Evangelizzazione della cultura, in LATOURELLE R. - FISICHELLA R., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 1990, pp.415-421; CARRIER H., Vangelo e culture, da Leone XIII a Giovanni Paolo II, Città Nuova, Roma 1990; CARVALHO AZEVEDO, M., Inculturation and Challenges of Modernity (Rome, Centre "Culture and Religions" Pontifical Gregorian University, 1982); POUPARD P., Eglise et culture. Jalons pour une pastorale de l'intelligence, Ch. IV, “Evangélisation et nouvelles cultures”, ed. SOS, Paris 1980; POUPARD P., Teologia dell'evangelizzazione delle culture, in Regno Documenti 5(1986)150-156; GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Fides et ratio ai Vescovi della Chiesa cattolica circa i rapporti tra fede e ragione, 14.09.1998, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998.
[250] GIOVANNI PAOLO II, Lettera
enciclica Fides et ratio ai Vescovi
della Chiesa cattolica circa i rapporti tra fede e ragione, 14.09.1998,
Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998. Nella citazione si fa
riferimento a GS 44.
[251]
Secondo un eminente fenomenologo della religione, G. van der Leew, «Il culto si
trova all'origine di ogni cultura [...] Ciò che noi chiamiamo cultura o
civilizzazione non è che un culto secolarizzato» (G. VAN DER LEEW, La religion dans son essence et ses
manifestations. Phénoménologie de la religion, Paris 1948, 333).
[252] La cultura deve ritenersi come il bene comune di ciascun popolo, l'espressione della sua dignità, libertà e creatività; la testimonianza del suo cammino storico. In particolare, solo all'interno e tramite la cultura la fede cristiana diventa storica e creatrice di storia. Alla IV Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, Santo Domingo, si è parlato di cultura in questi termini: «La cultura è il luogo specifico dell’esistenza umana, in cui ogni gruppo sociale costruisce comunitariamente nella storia la propria vita, il luogo della resistenza permanente contro la morte e della lotta per la vita, il luogo dell’identità di ciascun gruppo sociale, il luogo in cui si riconosce l’alterità e, di conseguenza, la molteplicità delle possibilità di vita » (S. DOMINGO, Conclusioni della commissione n.26).
[253]In effetti queste espressioni sono una citazione di un precedente Discorso agli intellettuali e al mondo universitario, tenuto da Giovanni Paolo II a Medellin il 5.7.1986, n.2.
[254] « si tratta di un'azione indispensabile e urgente per la sua missione evangelizzatrice. E' intimamente e inseparabilmente legata alla proclamazione della buona novella della salvezza » (cf SINODO DEI VESCOVI: ASSEMBLEA SPECIALE PER L'AFRICA, L'Eglise en Afrique et sa mission evangelisatrice vers l'an 2000 «Vous serez mes temoins» (Actes 1,8), Lineamenta n.27, Cité du Vatican 1990, in EV Supplementi 28.
[255]Cf SINODO DEI VESCOVI (SEGRETERIA GENERALE), Instrumentum laboris per il Sinodo dei Vescovi sul tema «Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo», n.47, [22.4.1987]: EV 10/1690.
[256] Su questo aspetto si veda la sintesi espressa in Gaudium et spes al n. 58. Secondo R. Niebuhr, nel corso dei secoli il rapporto tra cristianesimo e cultura è stato affrontato in almeno 5 maniere: 1) esclusione reciproca (Tertulliano, Porfirio, Marx, Nietzsche); 2) conversione della cultura al cristianesimo (s. Agostino); 3) sintesi (s. Tommaso); 4) identificazione: il cristianesimo come apice della cultura (Hegel); 5) polarità o correlazione (Tillich, Guardini) [cf R. NIEBUHR, Christ and Culture, New York 1956].
[257] Sconosciuto come tale all’epoca patristica, l’assioma trova una sua espressione chiara nell’epoca scolastica (già con Guglielmo di Auvergne [+ 1249] e poi soprattutto con Tommaso d’Aquino [+1274] e Bonaventura da Bagnoregio [+ 1274]) ed è poi largamente usato, con accentuazioni diverse, nelle polemiche sulla grazia. L’assione intende dire che la grazia, pur essendo qualitativamente diversa, ha con la natura umana una speciale relazione di corrispondenza, per cui, sopravvenendo, non la distrugge, bensì la purifica e la completa, portandola al suo pieno compimento.
[258] Si veda il discorso di Giovanni Paolo II all'UNESCO [2.6.1980] e quanto dice dei Santi Cirillo e Metodio nella Epistola enciclica Slavorum apostoli.
[259] GIOVANNI PAOLO II, Discorso al Pontificio Consiglio per la cultura, 16.1.1984, in Doc. Cat. (1984) 1868, pp.189-190.
Come s. Paolo ad Atene, la fede offre una lettura nuova e creatrice delle culture ancestrali; le sottopone alla legge purificatrice della morte e risurrezione di Cristo; al «tempo dell'ignoranza» fa seguito il «tempo del ravvedimento» (At 17,30-31); al Dio ignoto fa posto Colui che è risuscitato dai morti (At 17, 23.31). Se Dio aveva parlato in modi e tempi diversi in queste culture ancestrali, oggi ha parlato a noi nel Figlio (cf Eb 1,1-2)
[260] GIOVANNI PAOLI II, Discorso inaugurale, S. Domingo, cit., n.21.
[261] Cf CEI, Commissione episcopale per la cooperazione tra le Chiese, L'impegno missionario della Chiesa italiana. Documento pastorale [21.4.1982] in ECEI 3/965.
[262] GIOVANNI PAOLO II, Discorso al mondo della cultura, Lima 15.05.1988, n.5.
[263] GIOVANNI PAOLO II, Discorso inaugurale, n.20, Santo Domingo, 12.10.1992.
[264] Cf ASSEMBLEA SPECIALE PER L'EUROPA DEL SINODO DEI VESCOVI, [Roma, 10 novembre 1991], Sommario nn.21-22, in EV Supplementi 225-226.
[265] Cf CONGREGAZIONE PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA, La pastorale universitaria, [15.07.1976], in EV 5/2096.
[266] Cf PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA CULTURA - PONTIFICIO CONSIGLIO PER I LAICI - CONGRAGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, Rapporto di sintesi Chiesa e cultura universitaria, 25.03.1988: CivCatt 139 (1988), II, 364-374; EV 11/325-377 [qui 343].
[267] Qui l’enciclica sembra far riferimento alla teoria di McLuhan secondo cui il medium (il mezzo) è il messaggio; in altre parole: il messaggio assume identità diversa (specifica) a seconda del mezzo che lo trasmette; in effetti questa teoria va alquanto ridimensionata dal momento che l’identità del messaggio dipende non tanto dal medium con cui viene trasmesso, quanto piuttosto dal codice con cui lo si forma e dal codice con cui lo si interpreta (cf CROVI R. - SALVI R., Comunicazione audiovisiva, in DEMARCHI F., ELLENA A., CATTARINUSSI B., Nuovo dizionario di sociologia, ed. Paoline,Cinisello Balsamo (MI) 1987, p. 455.
[268] PONTIFICIO CONSIGLIO DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Aetatis novae. Documento pastorale sulle comunicazioni sociali, 22.02.1992: AAS 84 (1992) 447-468; EV 13, 1002-1105; Regno/Doc 7 (1992) 206-213. Ancora valido il documenti conciliare Decreto Inter mirifica sui mezzi di comunicazione sociale, 4.12.1963: AAS 56 (1964) 145-157; EV 1/245-283
[269] Circa l’impegno dei laici nell’ambiro della comunicazione sociale, quale campo proprio della loro attività evangelizzatrice, si può vedere quanto dice Evangelii nuntiandi 70, citato da Christifideles laici 23.
[270] CONGREGAZIONE PER L'EDUCAZIONE CATTOLICA, Orientamenti per la formazione dei futuri sacerdoti circa gli strumenti della comunicazione sociale (Dio sommo bene) [19.3.1986]: EV 10/75-195.
[271] FLICK M., ALSZEGHY Z., L'evangelizzazione
come comunicazione, in DHAVAMONY M. (ed.), Evangelization, PUG, Roma 1975;
DE NAPOLI G.S., Inculturation as
Communication, in ROEST CROLLIUS A (Ed.), Inculturation: Working Papers On Living Faith And Cultures, N.IX,
Gregorian University Press, Rome 1987, 71-98.
[272] Cf DGC 209
[273] Cf ChL 44.
[274] Cf PROVECHER N., Modernità, in LATOURELLE R. - FISICHELLA R., Dizionario di teologia fondamentale, Cittadella Editrice, Assisi 1990, pp.813-816.
[275]
ASSEMBLEA SPECIALE PER L’AFRICA, Sinodo e
inculturazione, in Regno Documenti
5 (1994) 181-185; MATEKA MICHAEL N. R. K., The
African Synod and inculturation, in Grace and Truth 12 ( Hilton/South Africa
1995 ) 3, 15-20; BOKA di MPASI, L., Quand l'Africain dit
"Inculturation", in: Telema,
63-64 (1990), pp.39-65; Telema, 65
(1991), pp.15-37; BROOKMAN-AMISSAH J. - ANYANWU J.E. - OWAN K.J. (Eds), Inculturation and the mission of the Church
in Africa. Proceedings of the Third Theology Week of the
Catholic Institute of West Africa, CIWA Press, Port Harcourt 1992; BUJO B., Africa e morale cristiana. Un processo di inculturazione, Città
nuova, Roma 1994; CASTI J., Inculturation
in Asia: Religious and Cultural Aspects, in Indian Missiological Review 7 (1985), 217-253; CHARLES E.T., Inculturating
the Gospel in Africa: From Adaptation to Incarnation, Tipografia
Poliglotta della Pontificia Università
Gregoriana, Roma, 1996; DANANDJAJA J., The role of local cultures in inculturation: An Indonesian case, in
East Asian Pastoral Review
30 ( Quezon Ciy/Philip.1993 ) 3/4, 283-294; ODIGBO G., Mission and inculturation, in Sedos Bulletin, 26 (1994) 75-77;
HINFELAAR H.F., Evangelization and
inculturation, in African Ecclesial
Review 36 (1994) 2-18.
[276] GIOVANNI PAOLO II, Lettera Dal santuario di Fatima circa la preparazione del sinodo per l’Europa, [13.05.1991], EV 13, 266-274.
[277] SEGRETERIA GENERALE DEL
SINODO DEI VESCOVI (Assemblea speciale per l’Europa, 1991), Dichiarazione Ut testes simus Christi qui nos liberavit,
[13.12.1991], EV 13, 605-677.
[278] GIOVANNI PAOLO II,
Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia
in Africa [14.09.1995], in L’Osservatore
Romano 16.09.1995; Regno-doc 17
(1995) 521-552 [si citerà EA].
[279] Cf Lineamenta (1990), nn. 47-53; Instrumentum laboris (1993) nn. 49-74.
[280] ASSEMBLEA SPECIALE PER L’AFRICA DEL SINODO DEI VESCOVI, Messaggio del Sinodo [6 maggio 1994), nn. 16-19, L’Osservatore Romano, 07-05.1994.
[281] THIANDOUM Card. Hyacinthe, Relatio
post disceptationem [22.04.1994], L’Osservatore
Romano 23.04.1994. Per una bibliografia essenziale cf. GOURDET S. R., Identification in the intercultural
communication of the Gospel, in Missionalia
24 ( Menlo Park/South Africa 1996 ) 3, 399-409; GRASSO E., The process of inculturation in the light of the Apostolic Exhortation
“Ecclesia in Africa”, in Ominis Terra 29, n. 262 ( 1995 )
436-442.
[282] Per ulteriori
napprofondimenti si suggerisce la seguente bibliografia: AMALADOSS M., Becoming
Indian: The Process of Inculturation (Bangalore: Dharmaram Publications,
1992). ANAND S., Inculturation
in India: Yesterday, Today and Tomorrow, in Indian Missiological Review, 19 (1997), 19-34. CASTI J., Inculturation in Asia: Religious and
Cultural Aspects, in Indian
Missiological Review 7 (1985), 217-253. DINH DUC DAO J, Inculturation of the prayer-life of the
Church in Asia. The case of Zen meditation, in: ROEST CROLLIUS A. (Edited
by), Building the Church in Pluricultural
Asia, Inculturation, Working papers on living faith and cultures VII, Rome,
1986, pp. 145-171. DINH
DUC DAO J., Evangelizzazione e cultura in
Asia: problemi e prospettive, in Omnis Terra 12 (1994) 51-60. MATTAM, A., Inculturation of the Liturgy in the Indian
Context (Oriental Institute of Religious Studies, India Publications),
Kottayam: Kerala, 1991. METZLER J., Storia della Missione
e Inculturazione in Asia, in: AA.VV., Missiologia
Oggi, PUU, Roma, 1985, pp. 359-381. NEMET
L., Inculturation in the FABC documents,
in East Asian Pastoral Review 31 (Quezon City/Philip.1994 ) 1/2, 77-94. PINTO J.P., Inculturation throurgh Basic Communities. An
Indian Perspective, Asia Trading Corp:, Bangalore 1985. PROKSH, G., Music, Dance and Inculturation, in Indian Missiological Review, 5 (1988),
187 - 200. PUTHANAGNADY, P., Inculturation
of Liturgy in India, in Word and
Worship 23 (1990), 188-198.
[283] SYNODUS EPISCOPORUM, Bollettino n. 27, 13-05.1998, Città del Vaticano 1998.
[284]
SINODO DEI VESCOVI. ASSEMBLEA
SPECIALE PER L’OCEANIA, Jesus Christ and
the peoples of Oceania: Walking His Way, Telling His Truth, Living His Life,
Lineamenta, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997.
[285] Id., Instrumentum laboris, Vatican City 1998.
[286] GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. post-sinodale Pastores dabo vobis, circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali [25.03.1992]: AAS 84 (1992) 657-804; EV 13/1154-1553; Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.
[287] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Vita consecrata circa la vita consacrata e la sua missione nella Chiesa e nel mondo [25.03.1996), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996.
[288]
GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Card.
Agostino Casaroli per l'istituzione del Pontificio Consiglio per la Cultura,
in L'Osservatore Romano 21-22.5.1982.
[289]
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai
partecipanti al Congresso Nazionale del Movimento Ecclesiale di impegno
culturale, 16.1.1982. Nel suo viaggio in Corea, rivolgendosi al mondo della
cultura a Seoul, ha detto: «La Chiesa deve adattarsi a tutti i popoli. Ci
attende un lungo e importante processo di inculturazione per far sì che il
Vangelo possa penetrare proprio nel cuore delle culture attuali» (in L'Osservatore Romano 6.5.1984).
[290]
PAOLO VI, Discorso all'Assemblea Generale
delle Nazioni Unite, 4.10.1965, in EV 1962-1965, p.221ss.
[291]
S. Agostino esprime con molta chiarezza questo grande mistero quando scrive:
«Dio si è fatto uomo, perché l'uomo diventasse Dio. Perché l'uomo mangiasse il
pane degli angeli, il Signore degli angeli si è fatto uomo» (dai «Discorsi» di
S. Agostino, vescovo: Disc. 13; PL
39, 1097-1098).
[292]
Cf S. Cipriano, Epistola 69,6: PL
3,1142 B.