LETTERE

Sant’Agostino

[Lettere 1-35]

 

LETTERA 1

Scritta alla fine del 386 o all'inizio del 387.

A. spiega a Ermogeniano perché gli Accademici usarono un linguaggio ermetico adatto al loro tempo (n. 1), ma presentemente pericoloso, poiché potrebbe indurre all'agnosticismo (n. 2); gli chiede infine un giudizio su quanto afferma alla fine del III 1. del dialogo Contra Academicos (n. 3).

AGOSTINO AD ERMOGENIANO

Perché gli Accademici occultarono la verità.

1. Io non oserei mai, nemmeno scherzando, attaccare gli Accademici; come potrebbe infatti non impressionarmi l'autorità di persone tanto grandi, se non ritenessi che essi la pensavano molto diversamente da come si è creduto di solito? Perciò li ho imitati, per quanto mi è stato possibile, piuttosto che tentare di confutarli, cosa che non sono affatto capace di fare. Mi pare infatti si addicesse perfettamente a quei tempi che, se qualcosa di puro sgorgava dal fonte Platonico, lo si facesse scorrere tra macchie oscure e piene di spine, così da servire di nutrimento a pochissimi uomini, piuttosto che, effondendosi per luoghi facilmente accessibili, non potesse in alcun modo conservarsi limpido e puro per l'irrompere in esso delle bestie da ogni parte e senz'ordine. Che v'è infatti che più si addica a una bestia del ritenere corporea l'anima? Contro individui di tal fatta io penso che sia stato utilmente escogitato quell'accorto metodo di nascondere la verità. Ma nell'età nostra, in cui non vediamo più filosofi salvo che nel mantello (e questi io in verità non li posso reputare degni di un nome così venerabile), mi sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità, se qualcuno l'opinione degli Accademici ne ha distolto con la sottigliezza dei loro discorsi dal cercare di comprendere le cose; affìnché quello che, date le circostanze, fu opportuno per estirpare degli errori profondamente radicati, non incominci ora ad essere di ostacolo nell'inculcare il sapere.

Il loro metodo può favorire l'agnosticismo.

2. Mi spiego: allora la passione per le ricerche filosofiche da parte delle varie scuole era così ardente che niente altro si doveva temere se non di prendere per vero il falso. Ognuno poi, distolto per quelle argomentazioni da ciò che di saldo e inconcusso aveva creduto di possedere, ricercava qualcosa di diverso con tanto maggiore costanza e cautela quanto più grande era lo zelo nel campo della morale e si riteneva che la verità si nascondesse quanto mai profonda e involuta nella natura e nelle menti. Ma ora così grande è la ripugnanza per la fatica e l'incuria per gli studi liberali che, non appena si sente dire che dei filosofi molto acuti hanno creduto che nulla si possa conoscere con certezza, gli uomini si perdono d'animo e rinunziano per sempre ai propri progetti. Non osano infatti ritenersi più acuti di quelli, sicché possa rivelarsi loro con chiarezza ciò che Carneade non è stato capace di trovare con tanto zelo, ingegno e tempo a disposizione; per di più con una cultura così vasta e molteplice e infine anche nel corso di una vita lunghissima. E se pure, resistendo un poco alla pigrizia, leggono i libri medesimi in cui pare sia dimostrato che alla natura umana è negata la conoscenza, si addormentano di un sonno così profondo che non si sveglierebbero neppure al suono della celeste tromba.

Agostino chiede il parere di Ermogeniano.

3. Perciò, essendo a me graditissimo il tuo sincero giudizio sui miei scritti, e tenendoti io in sì gran conto che, a mio avviso, l'errore non può trovare posto nella tua esperienza né la simulazione nella tua amicizia, più vivamente ti chiedo di esaminare con maggiore attenzione e poi di rispondermi se approvi quello che io, sulla fine del terzo libro, in modo forse più congetturale che certo, e tuttavia (a mio giudizio) con utilità maggiore di ciò che può esserci di inverosimile, ho pensato si debba credere. Effettivamente, qualunque sia il valore di quell'opera, mi compiaccio non tanto di aver vinto, come tu dici, gli Accademici (lo scrivi infatti mosso forse dall'affetto più che dal rispetto per la verità), quanto di essermi spezzato quell'odiosissimo freno per cui io ero tenuto lontano dal seno della filosofia per sfiducia di poter attingere la verità, che è il nutrimento dello spirito.

LETTERA 2

Scritta nello stesso tempo (386-7).

A. esprime a Zenobio la brama d'intrattenersi con lui anche di persona e di terminare la questione che avevano cominciato a discutere.

AGOSTINO A ZENOBIO

1. Siamo fra noi perfettamente d'accordo, come io penso, che tutte le cose che la nostra percezione fisica può attingere, non possono neppure per un istante rimanere nello stesso stato, ma passano, spariscono e non hanno nulla di attuale: cioè, per parlare chiaro, non hanno vera esistenza. Per questo la vera divina filosofia esorta a frenare e a sopire l'amore per esse, che è quanto mai funesto e fonte di moltissime pene; affinché l'anima, anche durante il tempo in cui guida questo corpo, con tutto il suo essere tenda e ardentemente aneli verso ciò che persiste sempre nel medesimo stato e non piace per una bellezza peregrina. Stando così le cose, e sebbene la mia mente ti veda in se stessa reale e schietto, come ti si può amare senza alcuna inquietudine, tuttavia confessiamo che quando ti diparti da noi fisicamente e sei in luoghi lontani, cerchiamo di incontrarti e di vederti e perciò lo desideriamo finché è possibile. Questo difetto, se ben ti conosco, senza dubbio non ti dispiace in noi, e, pur desiderando ogni bene per le persone a te più care ed intime, hai paura che esse ne siano guarite. Se poi tu hai una tale forza d'animo da poter riconoscere questa trappola e ridere di coloro che vi sono incappati, sei davvero grande e diverso. Io, per parte mia, desidero essere rimpianto nella misura in cui rimpiango un assente. Tuttavia faccio attenzione, per quanto posso, e mi sforzo di non amare nulla che possa essere lungi da me mio malgrado. Insieme con questo dovere io ti ricordo anche, qualunque sia la tua disposizione in proposito, che bisogna concludere la discussione iniziata con te, se abbiamo cura di noi stessi. Infatti non permetterei in nessun modo che si concludesse con Alipio, anche s'egli lo volesse. Ma non lo vuole, giacché l'educazione non gli permette ora d'adoprarsi meco per intrattenerti con noi col maggior numero possibile di lettere, dato che cerchi di evitarlo per non so quale necessità.

 

LETTERA 3

Scritta all'inizio del 387.

A. risponde a Nebridio che, ignorando molte cose, non può essere chiamato felice (n. 1). La vera felicità (n. 2); più che il corpo si deve amare l'anima (n. 3-4). Una questioncella grammaticale (n. 5).

AGOSTINO A NEBRIDIO

La felicità esclude l'ignoranza.

1. Resto incerto se io debba considerarlo effetto di non so quale tuo "blandiloquio", per così dire, oppure se la cosa stia veramente in questo modo: è infatti accaduto all'improvviso e non ho ancora chiarito abbastanza fino a che punto vi si debba credere. Tu attendi di sapere di che si tratti. Che cosa pensi? Tu mi hai quasi convinto, non che io sia beato (giacché un tale bene è possesso esclusivo del sapiente), ma certo quasi beato: come diciamo di uno che è "quasi uomo", paragonandolo alla immagine perfetta dell'uomo quale lo concepiva Platone, o diciamo "quasi rotonde" o "quasi quadrate" le cose che vediamo, sebbene siano molto lontane dal somigliare alle figure che pochi competenti vedono con gli occhi della mente. In verità ho letto la tua lettera al lume della lucerna, quando avevo già cenato; era vicino il momento di andarmi a riposare, ma non a dormire: e infatti, disteso nel letto, ho riflettuto a lungo tra me e me ed ho fatto, io Agostino, questi discorsi con Agostino: È dunque vero quello che pensa Nebridio, cioè che io sono felice? No di certo: giacché neppure lui osa negare che io sia ancora stolto. E se anche agli stolti potesse toccare una vita beata? È difficile: quasi che la stoltezza fosse una piccola miseria o vi potesse essere qualche altra miseria oltre ad essa. Perché dunque a lui è parso così? Forse che, dopo aver letto quei miei scritti, ha osato credermi anche sapiente? Non è così temeraria l'allegria, per quanto sia sfrenata, soprattutto in una persona che ben sappiamo con quanta ponderatezza proceda nelle sue considerazioni. È così, dunque: ha scritto quello che pensava mi avrebbe fatto molto piacere, poiché anche a lui ha fatto molto piacere tutto ciò che io ho messo in quello scritto; ed ha scritto in preda alla gioia, senza preoccuparsi di quello che conveniva affidare ad una penna trasportata dall'allegria. Che cosa sarebbe capitato, se avesse letto i Soliloqui ? La sua gioia sarebbe molto più grande e tuttavia non troverebbe un appellativo più elevato da darmi di quello di beato. Ha dunque avuto troppa fretta di spendere per me il nome più alto, e non si è riservato nulla da attribuirmi quando fosse più allegro. Vedi gli effetti dell'allegria!

In che consiste la felicità.

2. Ma dov'è questa vita beata dove, dove mai? Oh, se consistesse nel rigettare la dottrina di Epicuro sugli atomi! Oh, se consistesse nel sapere che in basso non vi è nulla ad eccezione del mondo! Oh, se consistesse nel sapere che i punti all'esterno di una sfera nuotano più lentamente del suo centro ed altre cose di questo genere che noi parimenti conosciamo! Ora invece, come ed in che grado posso essere beato io che non so perché il mondo sia grande così, mentre l'essenza delle figure che lo compongono non impedirebbe affatto che fosse più grande quanto si vuole? Oppure come non mi si obietterebbe, anzi non saremmo costretti ad ammettere che i corpi sono divisibili all'infinito, così da potersi ricavare come da una data base un numero determinato di corpuscoli in una determinata quantità? Perciò, mentre non si ammette che esista un corpo che sia il più piccolo possibile, come possiamo ammettere che ne esista uno grandissimo, tanto che non ve ne possa essere uno più grande? A meno che non abbia un grande valore quello che dissi una volta in gran segreto ad Alipio: poiché il numero intelligibile cresce all'infinito, ma non decresce all'infinito (infatti non è possibile scomporlo oltre la monade), al contrario il numero sensibile (che altro è infatti il numero sensibile se non qualcosa di materiale, vale a dire la quantità dei corpi?) può diminuire all'infinito ma non può crescere all'infinito. E per questo forse a ragione i filosofi pongono la ricchezza nelle cose intelligibili, la povertà in quelle sensibili. Che cosa v'è infatti di più miserabile che poter diminuire all'infinito? E quale ricchezza più grande che crescere quanto vuoi, andare dove vuoi, tornare indietro quando vuoi e fin dove vuoi ed amare grandemente ciò che non può diminuire? Infatti chi comprende tali numeri, ama nulla tanto quanto la monade. E non è strano, dato che è grazie ad essa che si arriva ad amare tutti gli altri. Ma ciononostante perché mai il mondo è grande così? Avrebbe infatti potuto essere o più grande o più piccolo. Non lo so: in realtà è così. E perché è qui piuttosto che là? Neppure di ciò si deve far questione, altrimenti si dovrebbe fare sulla posizione di qualsiasi cosa. Soltanto questo mi turbava molto, cioè che i corpi fossero divisibili all'infinito. Al che si è forse dato una risposta con la teoria della proprietà contraria del numero intelligibile.

Il mondo e le immagini fisiche.

3. Ma aspetta un istante; vediamo che cos'è questo non so che, che mi viene in mente: certamente si dice che il mondo sensibile è immagine di non so quale mondo intelligibile. Ora è singolare quello che vediamo nelle immagini riflesse dagli specchi. Infatti per quanto grandi siano gli specchi, non rendono le immagini più grandi di quello che sono i corpi, per quanto piccolissimi, messi loro davanti. Negli specchi piccoli invece, come nelle pupille degli occhi, anche se si mette davanti ad essi un gran volto, si forma un'immagine piccolissima, proporzionata alla misura dello specchio. Dunque è possibile diminuire anche le immagini dei corpi, usando specchi più piccoli, ma non si può aumentarle usando specchi più grandi. Qui senza dubbio c'è sotto qualcosa, ma adesso bisogna dormire. E infatti non è cercando che appaio beato a Nebridio, ma forse scoprendo qualcosa. E che cos'è questo qualcosa? È forse quel ragionamento che son solito accarezzare come mio particolare e di cui son solito rallegrarmi molto?

Si deve amare più l'anima che il corpo.

4. Di che cosa siamo composti? D'anima e di corpo. E di queste due parti qual è la migliore? L'anima, evidentemente. Che cosa si loda nel corpo? Nient'altro, vedo, che la bellezza. Che cos'è la bellezza fisica? La giusta proporzione delle parti, accompagnata da una certa vaghezza di colorito. Questa forma leggiadra è migliore dove è vera o dove è falsa? Chi oserebbe porre in dubbio che sia migliore dove è vera? Orbene, dove è vera? Nell'anima, naturalmente. Quindi l'anima si deve amare più del corpo. Ma in quale parte dell'anima si trova questa verità? Nella mente e nell'intelligenza. Che cosa offusca l'intelligenza? I sensi. Bisogna dunque resistere ai sensi con tutte le forze dell'anima? È evidente. E se le cose sensibili ci dilettano troppo? Si faccia in modo che non ci dilettino. Come si fa? Abituandoci a farne a meno e a desiderare cose migliori. E se l'anima muore? Allora anche la verità muore, o l'intelligenza e la verità non s'identificano, oppure l'intelligenza non ha sede nell'anima, oppure può morire una cosa in cui ha la sua sede alcunché d'immortale: ma che nessuna di queste eventualità possa verificarsi già è detto nei miei Soliloqui ed è sufficientemente dimostrato; ma per non so quale abitudine ai mali siamo atterriti e titubanti. Infine, anche se l'anima è soggetta alla morte, il che vedo assolutamente impossibile, tuttavia in questo periodo di riposo ho sufficientemente accertato che la vita beata non consiste nel godimento delle cose sensibili. Forse per queste e simili ragioni appaio al mio Nebridio, se non beato, almeno quasi beato. Potrei sembrarlo anche a me: che cosa ci perdo o perché dovrei rifiutare la buona stima? Questo mi dissi; poi, come al solito, mi misi a pregare e m'addormentai.

Una questioncella di prosodia.

5. Ecco quanto mi è piaciuto di scriverti. In verità mi allieta il fatto che tu mi ringrazi se non ti nascondo nulla di ciò che mi viene in bocca e sono contento di piacerti così. Con chi dunque dovrei scherzare più volentieri che con colui al quale non posso dispiacere? E se poi è in potere della fortuna che un uomo ami un altro uomo, vedi quanto sia fortunato io che godo tanto dei favori della fortuna e, lo confesso, desidero che tali beni mi crescano copiosamente. Ma i sapienti più autentici, che soli è lecito chiamare beati, non hanno voluto né che si temessero i beni della fortuna né che si desiderassero (cupi o cupiri? veditela tu). E questo è venuto a proposito. Desidero infatti che tu mi dia chiarimenti su tale coniugazione; giacché, quando coniugo verbi di questo tipo, sono molto incerto. Cupio, infatti, come fugio, sapio, iacio, capio, sono verbi affini; ma non so se l'infinito sia fugiri o fugi, sapiri o sapi. Potrei propendere per iaci e capi, se non temessi che mi prendesse e mi gettasse a suo capriccio, dove gli aggradi, chi riuscisse a convincermi che una cosa è iactum e captum, un'altra fugitum, cupitum, sapitum. Così pure ignoro parimenti se queste ultime tre forme si debbano pronunciare con la penultima lunga ed accentata oppure non accentata e breve. Vorrei indurti a scrivere una lettera più estesa; mi auguro di poterti leggere un po' più a lungo. Giacché non sono in grado di dire appieno quanto mi faccia piacere leggerti.

 

LETTERA 4

Scritta dopo la precedente.

Agostino annuncia a Nebridio i progressi, fatti durante il suo ritiro, nella conoscenza degl'intelligibili (n. 1) per cui è convinto che la mente è superiore ai sensi (n. 2).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Contemplazione delle cose eterne.

1. È assai strano quanto inaspettatamente mi sia accaduto che, mentre esaminavo a quali delle tue lettere mi fosse rimasto da rispondere, ne ho trovato una soltanto per cui ero ancora in debito, nella quale mi chiedi di informarti dei progressi che ho fatti nel discernere la natura sensibile e quella intelligibile, impiegando tutto il tempo che fra te credi o insieme con me desideri che io abbia. Ma io non penso che tu ignori che, se ciascuno tanto più si radica nelle false opinioni quanto più a lungo e familiarmente si immerge in esse, questo con molto maggior facilità accade alla mente in materia di verità. Però in tal modo progrediamo a poco a poco, come avviene per l'età. Giacché, sebbene grandissima sia la differenza tra un bambino ed un giovane, nessuno, se lo si è interrogato quotidianamente fin dalla puerizia, si dirà mai giovane.

La mente è superiore ai sensi.

2. Non voglio però che tu interpreti ciò in un senso tale da pensare che in questo campo io sia giunto, per così dire, ad una specie di giovinezza intellettuale per il vigoroso appoggio di una più sicura intelligenza. Sono infatti un bambino ma forse, come si suol dire, di belle speranze e non cattivo. Mi spiego: agli occhi della mia mente, stravolti e pieni di affanni per le violente impressioni prodotte dalle cose sensibili, solitamente procura respiro e sollievo quel modesto ragionamento, a te ben noto, che la mente e le facoltà intellettive sono superiori agli occhi e alla comune facoltà visiva. Il che non si verificherebbe se ciò che percepiamo per mezzo dell'intelligenza non fosse più reale di ciò che vediamo. Ti prego di esaminare attentamente con me se esista qualche valida obiezione a questo ragionamento. Intanto io, confortato da esso, allorché, invocato l'aiuto di Dio, ho cominciato a sentirmi elevare verso di Lui e verso le realtà assolutamente vere, in certi momenti sono preso da un così vivo pregustamento delle cose eterne, che talvolta mi meraviglio di aver bisogno di quel ragionamento per credere all'esistenza di cose che sono in noi tanto presenti quanto ciascuno è presente a se stesso. Controlla anche tu (giacché riconosco che in questo sei più preciso) se per caso io, senza saperlo, non sia ancora in debito di qualche risposta. Infatti non mi persuade il trovarmi così all'improvviso libero da un numero tanto grande di debiti di cui un giorno avevo fatto il conto: sebbene io non dubiti che tu abbia ricevuto da me delle lettere di cui non ho le risposte.

 

LETTERA 5

Scritta tra il 388 e il 391.

Nebridio si lamenta che i concittadini di A. ne disturbino la contemplazione coi loro affari e lo invita nella propria villa.

NEBRIDIO AD AGOSTINO

1. È dunque così, Agostino mio? Spendi energie e pazienza nelle faccende dei tuoi concittadini e non ti si restituisce ancora la sospirata tranquillità? Di grazia, chi ha il coraggio di importunare te che sei tanto buono? Credo quelli che non sanno quale sia l'oggetto del tuo amore e del tuo ardente desiderio. Non c'è nessuno dei tuoi amici che riveli loro le tue predilezioni? Né Romaniano né Luciniano? Ascoltino almeno me. Io proclamerò, io attesterò che tu ami Dio, vuoi servirlo ed essere a Lui unito. Vorrei attirarti nella mia casa di campagna e che ivi tu stessi tranquillo. Non avrò infatti paura d'essere chiamato seduttore dai tuoi concittadini che ami troppo e dai quali sei troppo amato.

 

LETTERA 6

Scritta nello stesso tempo (388-91).

Nebridio sottopone ad A. il problema della memoria la quale, a suo parere, è inseparabile dall'immaginazione (n. 1); questa poi ricava le sue immagini non tanto dai sensi quanto da sé medesima (n. 2).

NEBRIDIO AD AGOSTINO

Memoria e immaginazione.

1. Provo un grande piacere nel conservare le tue lettere come se si trattasse degli occhi miei. Infatti sono importanti non per l'estensione bensì per gli argomenti, e contengono importanti dimostrazioni di problemi importanti. Esse mi parleranno di Cristo, di Platone, di Plotino. Di conseguenza saranno per me piacevoli ad udirsi per la loro eloquenza, facili a leggersi per la loro brevità e salutari ad intendersi per la loro sapienza. Avrai cura perciò di farmi conoscere quello che a tuo parere sembrerà santo e buono. A questa lettera poi risponderai quando avrai esaminato più accuratamente il problema dell'immaginazione e della memoria. Io credo infatti che, sebbene non ogni immaginazione sia accompagnata dalla memoria, ogni ricordo tuttavia non possa verificarsi senza l'immaginazione. Ma tu mi obietti: che cosa accade quando ricordiamo di aver compreso o pensato qualche cosa? Contro questa osservazione io rispondo dicendoti che ciò si è verificato perché quando abbiamo percepito o pensato alcunché di corporeo e di soggetto al tempo, noi abbiamo prodotto una cosa che interessa la fantasia: infatti o abbiamo rivestito di parole le nostre percezioni e i nostri pensieri (e queste parole non sono indipendenti dal tempo e interessano i sensi o la fantasia), oppure il nostro intelletto o il nostro pensiero hanno subito una qualche impressione tale da poter lasciare una traccia nella fantasia. Queste cose io le ho dette senza averci pensato a lungo e in modo confuso, secondo il mio solito: tu le esaminerai e, rigettato ciò che vi è di falso, raccoglierai quello che c'è di vero in una lettera.

Le immagini della fantasia.

2. Senti un'altra cosa: perché, di grazia, non diciamo che la fantasia ricava tutte le immagini da se stessa, piuttosto che dai sensi? Infatti come l'intelletto è spinto dai sensi a vedere il mondo intelligibile, che gli è proprio, piuttosto che ricevere qualcosa da essi, così può darsi che anche la fantasia sia spinta dai sensi a contemplare le immagini che sono in lei piuttosto che attingere qualcosa da essi. Giacché può darsi che per questo avvenga che quello che i sensi non vedono essa tuttavia lo possa vedere: e questo è un indizio che ha in sé e da sé tutte le immagini. Anche su questo problema mi risponderai esponendomi il tuo pensiero.

 

LETTERA 7

Scritta nello stesso tempo (388-91).

A. risponde alla lettera precedente dicendo che la memoria può esistere anche senza l'immaginazione (n. 1); i fantasmi sono generati nell'anima attraverso i sensi (n. 2-3); essi sono di tre generi (n. 4); e possono influire nefastamente sull'anima (n. 5): risolve un'obiezione ed esorta Nebridio a resistere ai fantasmi prodotti dai sensi (n. 6-7).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Può darsi memoria senza immaginazione.

1. 1. Lascerò da parte i preamboli e comincerò prontamente a trattare quello che impazientemente desideri che io ti dica, tanto più che non arriverò presto alla fine. Tu credi che non possa esservi affatto memoria senza quelle immagini o rappresentazioni, che sono frutto di immaginazione, che hai voluto chiamare fantasie; io la penso diversamente. Bisogna dunque, innanzitutto, osservare che noi non ci ricordiamo sempre di cose che passano, ma per lo più di cose che durano. Perciò, sebbene la memoria rivendichi a sé il compito di ricordare fedelmente il passato, tuttavia è certo che essa in parte è memoria di cose che ci lasciano, in parte di cose che sono lasciate da noi. Infatti, quando mi ricordo di mio padre, evidentemente ricordo una cosa che mi ha lasciato ed ora non è più; quando invece mi ricordo di Cartagine, ricordo una cosa che esiste e che io ho lasciato. Tuttavia in entrambi questi casi la memoria conserva il ricordo del passato. Giacché tanto quell'uomo quanto questa città io li ricordo per quello che ho visto, non per quello che vedo.

La memoria e l'atto di ricordare.

1. 2. A questo punto tu forse domandi: a che mirano codeste tue considerazioni? Tanto più che osservi come entrambe queste cose non possano giungere alla memoria se non attraverso la visione fantastica. Ma a me basta avere intanto dimostrato che si può parlare di memoria anche a proposito di cose che non sono ancora passate. Procura comunque di ascoltare attentamente che vantaggio io ne tragga. Alcuni criticano, senza fondamento, quella celeberrima scoperta di Socrate per cui si sostiene che ciò che apprendiamo non s'imprime in noi come cosa nuova, ma è richiamato alla memoria per reminiscenza, e sostengono che la memoria riguarda le cose passate e che invece quello che noi apprendiamo per mezzo dell'intelligenza, per asserzione dello stesso Platone, dura sempre e non può perire e perciò non è passato. Costoro però non badano al fatto che è passata la visione durante la quale abbiamo un tempo contemplato con la mente queste cose; e poiché ci siamo allontanati da esse ed abbiamo cominciato a vedere altri oggetti in modo diverso, le rivediamo per reminiscenza, cioè per mezzo della memoria. Perciò se, per omettere altri esempi, l'eternità in sé dura sempre e non ha bisogno di alcuna immagine fantastica per servirsene quasi come veicolo per giungere alla nostra mente (e tuttavia non potrebbe giungervi se non la ricordassimo), si può avere memoria di certe cose senza alcuna immaginazione.

L'anima senza l'uso dei sensi non può avere immagini.

2. 3. Quanto poi alla tua opinione che l'anima possa immaginare oggetti corporei anche senza servirsi dei sensi, si dimostra falsa in questo modo: se l'anima, prima di far uso dei sensi per la percezione dei corpi, può con la fantasia rappresentarsi questi stessi corpi, e (cosa che nessuna persona sana di mente mette in dubbio) si trovava in uno stato migliore prima di essere impigliata in questi sensi ingannatori, si trovano in uno stato migliore le anime delle persone che dormono che le anime di quelle che sono deste, quelle dei frenetici che quelle di coloro i quali non sono affetti da una tale calamità: infatti sono colpite dalle stesse immagini da cui erano colpite prima di avere i sensi, questi messaggeri quanto mai fallaci; e allora o sarà più vero il sole che essi vedono di quello che vedono le persone sane e deste o le cose false saranno superiori a quelle vere. Se queste conclusioni sono assurde, come effettivamente lo sono, l'immaginazione, o mio Nebridio, non è altro che una ferita che giunge [all'anima] attraverso i sensi; per opera dei quali avviene non un'evocazione, come tu scrivi, in modo che si formino nell'anima siffatte visioni, ma l'azione stessa di introdurre o, per dirlo più precisamente, di imprimere [in essa] queste false immagini. Quanto poi alla tua osservazione, come sia possibile che immaginiamo dei volti e delle figure che non abbiamo mai viste, essa è acuta. Perciò farò una esposizione che renderà questa lettera più lunga del normale: non però ai tuoi occhi, cui nessuno scritto è più gradito di quello che mi reca a te più loquace del solito.

Le varie specie d'immaginazioni.

2. 4. Io vedo che tutte queste immagini che tu, con molti, chiami fantasie si dividono molto opportunamente e veracemente in tre categorie, la prima delle quali è stata impressa [in noi] dalle cose percepite attraverso i sensi, la seconda da quelle opinate e la terza da quelle trovate razionalmente. Esempi del primo tipo si hanno quando la mia mente si raffigura il tuo volto o Cartagine o il nostro defunto amico Verecondo e qualsiasi altra delle cose che esistono ancora o sono scomparse, che però io ho visto e sentito. Nella seconda categoria si devono mettere le cose che noi pensiamo siano state o siano in un determinato modo, ad esempio quando per esporre la nostra opinione su qualcosa facciamo volutamente delle supposizioni che non sono affatto di ostacolo per giungere alla verità, oppure quello che immaginiamo quando leggiamo la storia e quando ascoltiamo delle favole o le componiamo o le inventiamo. Io infatti mi immagino come mi piace e come mi viene in mente il volto di Enea, quello di Medea coi suoi serpenti alati legati al giogo, quello di un Cremete e di un Parmenone. A questa categoria appartengono anche quelle cose che hanno raccontato sia i saggi, adombrando qualche verità sotto tali figurazioni, sia, come verità, gli stolti fondatori delle svariate e false religioni: ad esempio il tartareo Flegetonte, le cinque grotte degli abitanti delle tenebre infernali, l'asse settentrionale che tiene insieme il cielo, e mille altre invenzioni fantastiche dei poeti e dei seguaci di false dottrine. Però diciamo anche nel corso di un ragionamento: supponi che vi siano uno sull'altro tre mondi fatti come lo è questo; e: supponi che la terra abbia forma quadrata, e cose di questo genere. Tutto ciò infatti noi immaginiamo e ipotizziamo a seconda delle circostanze in cui si svolge il nostro ragionamento. Quanto poi alle cose riguardanti la terza specie di immagini, si tratta soprattutto di numeri e di dimensioni. Ciò in parte trova riscontro in natura, ad esempio quando per via di ragionamento si trova la forma del mondo, e a questa scoperta segue, nella mente di colui che pensa, l'immagine; in parte nelle scienze che formano oggetto di insegnamento, come le figure geometriche, i ritmi della musica e l'infinita varietà dei numeri. Queste cose, per quanto vengano colte, come io penso, nella loro verità, tuttavia producono delle false immaginazioni cui l'intelletto stesso a stento riesce a sottrarsi; sebbene neppure in un ragionamento condotto con metodo rigoroso sia facile sottrarsi a questo inconveniente, quando nelle distinzioni e nelle conclusioni facciamo conto quasi di usare dei sassolini fatti per il calcolo (4 bis).

L'anima è soggetta alle falsità delle immagini.

2. 5. In tutta questa selva d'immagini, io sono convinto che tu non credi che la prima specie riguardi l'anima prima che sia connessa coi sensi, e su questo punto non c'è bisogno di indugiare a discutere. Sulle altre due si potrebbe ancora a buon diritto porre il quesito se non fosse palese che l'anima, quando ancora non è stata colpita da ciò che vi è di vano nelle cose sensibili e nei sensi, è meno soggetta ad ingannarsi: ma chi potrebbe mettere in dubbio che codeste immagini siano molto meno vere delle cose sensibili? Infatti ciò che pensiamo e crediamo oppure inventiamo è in ogni parte assolutamente falso, e certamente, come tu capisci, è molto più vero quello che vediamo e sentiamo. Infine, per la terza specie, qualsiasi spazio corporeo io mi rappresenti con la mente, sebbene il pensiero sembri averlo creato in base a rigorosi principi scientifici che non permettono il minimo errore, io dimostro irrefutabilmente che è falso poiché sono di nuovo questi stessi principi a provarlo. Perciò io non posso credere in nessun modo che l'anima quando ancora non percepiva attraverso il corpo, quando ancora non era stata colpita, tramite i sensi sommamente fallaci, da sostanza mortale e passeggera, giacesse in tanta e così vergognosa falsità.

Si risolve una obiezione.

3. 6. Donde ha dunque origine il fatto che noi ci rappresentiamo le cose che non abbiamo mai viste? Che cosa puoi pensare se non che vi è una facoltà di diminuire e di aumentare, insita nell'anima, che essa porta necessariamente con sé dovunque vada? Questa facoltà si può avvertire specialmente nel campo dei numeri. Per essa accade che, se ci si pone per dir così dinanzi agli occhi la figura di un corvo, per esempio, che cioè ci sia nota per averla già osservata, col togliere e con l'aggiungere ad essa qualcosa, si trasforma in una figura qualsivoglia assolutamente mai vista. Per essa accade che, indugiando abitualmente il nostro spirito in siffatte cose, figure di questo genere invadono quasi spontaneamente i nostri pensieri. È dunque possibile all'anima, servendosi dell'immaginazione, formare da quello che il senso ha introdotto in essa (togliendo, come si è detto, e aggiungendo qualche cosa) delle immagini che nessun senso riesce a cogliere nella loro totalità, ma che sono parti di ciò che aveva colto in questo o quell'oggetto. Così noi da fanciulli, pur nati ed allevati nell'entroterra, vedendo l'acqua anche solo in un piccolo bicchiere, potevamo già immaginarci il mare; mentre il sapore delle fragole e delle corniole in nessun modo ci sarebbe venuto in mente prima che le gustassimo in Italia. Da questo dipende il fatto che coloro che sono ciechi fin dalla tenera infanzia, quando vengono interrogati sulla luce e sui colori non sanno che cosa rispondere. Giacché nessuna immagine del colore possono avere quelli che non hanno mai percepito alcuna immagine.

Si deve resistere alle immaginazioni sensibili.

3. 7. Né devi stupirti come mai gli oggetti, che in natura hanno una forma e possono immaginarsi, non si trovino fin da principio insiti nell'anima che è in ciascuno, non avendoli essa mai percepiti dall'esterno attraverso i sensi. Infatti anche noi quando, per lo sdegno o la gioia e per gli altri sentimenti dell'animo di tal fatta, produciamo nel nostro corpo vari atteggiamenti e colori, il nostro pensiero non può concepire tali immagini prima che noi possiamo provocarle. Queste cose avvengono secondo quei mirabili procedimenti (che lascio alla tua meditazione), che si verificano quando nell'anima si agitano i numeri in essa nascosti senza alcuna falsa rappresentazione corporea. Di conseguenza io vorrei che tu, poiché avverti che vi sono tanti moti dell'anima privi di tutte le immagini su cui ora vai investigando, capissi che l'anima ha in sorte il corpo per qualsivoglia altro impulso piuttosto che per aver pensato a forme sensibili, che io ritengo non possa in alcun modo percepire prima di far uso del corpo e dei sensi. Pertanto per la nostra amicizia e per la fedeltà alla stessa legge divina, amico carissimo e amabilissimo, io vorrei caldamente raccomandarti di non stringere alcuna amicizia con codeste ombre infernali e di non indugiare a rompere quella che da te è stata stretta con esse. Giacché in nessun modo si resiste ai sensi, e questo è per noi il dovere più sacro, se accarezziamo le piaghe e le ferite da essi inferteci.

 

LETTERA 8

Scritta nello stesso tempo (388-91).

Nebridio chiede ad A. come mai le potenze celesti possano inviarci visioni e sogni durante il sonno.

NEBRIDIO AD AGOSTINO

1. Nessun proemio, nessun esordio mi sembra opportuno, data la mia impazienza di entrare in argomento. Come avviene, Agostino mio, o qual è la via di cui si servono le potenze superiori, intendo dire le celesti, quando piace loro farci vedere dei sogni mentre dormiamo? Qual è, dico, la via: cioè, in che modo fanno questo, con quale artifizio, con quali meccanismi, con quali strumenti o malie? Stimolano forse l'anima nostra per mezzo dei nostri pensieri cosicché anche noi, pensando, immaginiamo queste cose? Oppure ce le offrono e ce le fanno vedere dopo averle formate nel loro corpo o nella loro fantasia? Ma se le formano nel loro corpo, ne viene come conseguenza che anche noi, quando dormiamo, abbiamo altri occhi corporei interni per mezzo dei quali vediamo ciò che essi hanno formato nel loro corpo. Se invece per queste immagini non sono aiutati dal loro corpo, ma le dispongono nella loro fantasia e in questo modo giungono alla nostra e nasce la rappresentazione fantastica che è il sogno, perché io, ti domando, con la mia potenza fantastica non sono in grado di indurre la tua a generare quei sogni che io stesso prima mi sono formato in essa? Certamente anch'io ho la fantasia, ed ha la capacità di immaginare quello che voglio, sebbene non produca in te assolutamente alcun sogno; però m'accorgo che è il nostro stesso corpo a generare in noi i sogni. Infatti non appena esso ha avuto qualche cosa, per l'intimità che lo lega all'anima, c'induce a simulare la stessa cosa per mezzo dell'immaginazione in modi strani. Spesso, dormendo, quando abbiamo sete sognamo di bere; ed avendo fame ci par quasi di star mangiando, e lo stesso vale per molte altre cose di questo genere che, quasi per uno scambio, si trasferiscono dal corpo nell'anima attraverso la fantasia. Non meravigliarti se, data la loro oscurità e la mia imperizia, questi fenomeni sono stati spiegati con scarsa eleganza e precisione: cercherai di farlo tu per quanto ti sarà possibile.

 

LETTERA 9

Scritta dopo la precedente.

A. risponde alla precedente lettera di Nebridio dicendo che gli amici sono vicendevolmente presenti nello spirito (n. 1); egli accennerà solo qualche argomento per risolvere la difficile questione sui sogni inviati dalle potenze superiori (n. 2): che ciò sia possibile si dimostra con l'esempio delle passioni dell'anima, come l'ira, che traspaiono nel corpo (n. 3-4), infine esorta Nebridio a rileggere attentamente l'Ep. 7 ch'egli non ha capito (n. 5).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Gli amici sono vicendevolmente presenti nello spirito.

1. Sebbene tu conosca il mio animo, tuttavia forse non sai quanto vorrei godere della tua presenza. Ma un giorno o l'altro Dio mi concederà questo privilegio così grande. Ho letto la tua lettera, giustificatissima, in cui ti lamenti della solitudine e di un certo abbandono da parte dei tuoi familiari, con cui la vita è dolcissima. Ma che altro potrei dirti a questo proposito se non quello che sono convinto che fai? Rifugiati nella tua anima e innalzala a Dio per quanto puoi. Là infatti tu trovi più sicuramente anche noi, non attraverso immagini corporee, di.cui ora dobbiamo far uso nel nostro ricordo, ma mediante pensiero, per cui tu capisci che non è il vivere nello stesso luogo quello che ci unisce.

Una difficile questione.

2. Esaminando le tue lettere alle cui domande impegnative ho dato risposte non dubbie, mi ha assai spaventato quella in cui mi domandi come avvenga che dalle potenze superiori o dai demoni vengano immessi in noi dei pensieri e dei sogni. È infatti una cosa importante, alla quale anche tu per la tua esperienza ben vedi che si dovrebbe rispondere non con una lettera, ma o di presenza con una conversazione oppure con un trattato. Cercherò tuttavia, ben conoscendo il tuo ingegno, di dare qualche chiarimento preliminare su tale questione, affìnché o tu stesso possa inserire da solo il resto oppure non abbia affatto a disperare che si possa giungere ad una spiegazione probabile di un problema tanto importante.

Le passioni traspaiono nel corpo.

3. Ritengo infatti che ogni moto dell'animo produca qualche effetto sul corpo, e che esso giunga fino ai nostri sensi, così ottusi e lenti, quando più intensi sono i moti dell'animo: ad esempio quando ci adiriamo oppure siamo tristi o gioiosi. Da ciò è lecito arguire che anche quando noi facciamo qualche pensiero ed esso non si palesa a noi nel nostro corpo, può tuttavia palesarsi agli esseri viventi dell'aria o dell'etere, i cui sensi sono acutissimi e a confronto dei quali i nostri non si devono neppure considerare dei sensi. Quindi le impronte, per così dire, del proprio moto che l'animo stampa nel corpo, possono persistere e dare luogo quasi ad una caratteristica permanente; e quando esse siano state inconsciamente agitate e rimescolate, secondo la volontà di colui che le agita e le rimescola, suscitano in noi pensieri e sogni: e questo avviene con mirabile facilità. Se infatti è evidente che gli esercizi dei nostri corpi terreni e tardissimi (usando gli strumenti musicali o nei giochi dei funamboli e in tutti gli altri innumerevoli spettacoli di tal genere), sono giunti a dei risultati incredibili, non è per nulla assurdo che coloro, i quali per mezzo d'un corpo aereo o etereo agiscono in qualche modo nei corpi in cui penetrano senza violare l'ordine naturale, godano di una facilità di gran lunga maggiore per muovere tutto ciò che vogliono senza che noi ce ne accorgiamo e tuttavia subendo qualche effetto a seguito di tale azione. Infatti non ci accorgiamo nemmeno in che modo l'abbondanza del fiele ci spinga a scatti d'ira più frequenti, e tuttavia ci spinge, sebbene questa stessa abbondanza che ho detto si sia formata mentre noi ci adiravamo.

Che cos'è l'ira.

4. Ma tuttavia, se non vuoi accettare da me questo paragone alla leggera, esaminalo facendolo oggetto per quanto puoi della tua riflessione. Infatti se nell'animo si manifesta continuamente qualche difficoltà nell'agire e nel realizzare ciò che desidera, esso continuamente si adira. E l'ira, secondo la mia opinione, è il desiderio turbolento di togliere di mezzo le cose che impediscono la facilità della azione. Per questo nello scrivere di solito ci adiriamo non soltanto con gli uomini, ma con la penna e la urtiamo con violenza e la rompiamo; e i giocatori si adirano coi dadi e i pittori col pennello e chiunque con ogni strumento per colpa del quale crede di trovarsi in difficoltà. Ed anche i medici affermano che per questo continuo adirarsi la bile cresce. Per l'accrescimento della bile, poi, di nuovo e facilmente e quasi senza che esista alcuna ragione ci adiriamo. Così quello che l'animo ha provocato nel corpo col suo movimento, sarà in grado di agitarlo nuovamente.

Nebridio rimediti l'Ep. 7.

5. Questi fenomeni si potrebbero trattare con grande ampiezza e portare ad una conoscenza più sicura e più piena con testimonianze di molti fatti. Ma a questa lettera tu aggiungi quella sulle immaginazioni e sulla memoria, che ti ho mandato di recente, ed esaminala con maggiore attenzione; giacché dalla tua risposta m'è parso che tu non l'abbia compresa pienamente. Quando dunque a questa, che leggi adesso, avrai aggiunto dall'altra ciò che è stato detto là su una certa facoltà naturale dell'anima che diminuisce ed aumenta col pensiero qualsiasi cosa, forse non ti stupirà più perché avvenga che, pensando o sognando, possano delinearsi in noi anche le forme dei corpi che non abbiamo mai visti.

 

LETTERA 10

Scritta dopo la precedente.

Agostino spiega la difficoltà di convivere saltuariamente con Nebridio, data la necessità di continui viaggi (n. 1-2). La vera tranquillità si trova nel proprio intimo e nell'unione con Dio (n. 3).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Come poter essere insieme?

1. Nulla mai, nelle questioni da te mosse, mi ha tenuto, mentre vi pensavo, così agitato come quello che ho letto nella tua ultima lettera, in cui ci accusi di trascurare di adoperarci perché ci sia possibile vivere insieme. Grave colpa, e, se non fosse falsa, assai pericolosa! Ma poiché un ragionamento probabile sembra dimostrarci che noi possiamo passare il tempo secondo le nostre intenzioni qui piuttosto che a Cartagine od anche in campagna, sono veramente incerto, o mio Nebridio, come debba comportarmi con te. Ti si deve mandare il mezzo di trasporto che è più adatto per te? Infatti il nostro Luciniano garantisce che in lettiga coperta tu puoi viaggiare senza danno. Ma penso che tua madre, dal momento che non sopportava la tua assenza quando eri sano, la sopporterà molto meno adesso che sei malato. Verrò io in persona da voi? Ma qui ci sono alcuni che non potrebbero venire con me e che non ritengo lecito abbandonare. Tu infatti puoi dimorare piacevolmente anche in compagnia del tuo spirito; si richiede invece un grande sforzo perché essi possano fare la stessa cosa. Dovrò forse andare e tornare frequentemente e stare ora con te ora con loro? Ma questo non è né vivere insieme né secondo i nostri progetti! Infatti il viaggio non è breve, ma addirittura tanto lungo che addossarsi spesso la fatica di compierlo non significherebbe aver raggiunto la desiderata tranquillità. A ciò si aggiunge l'infermità del mio corpo, per cui anch'io - come sai - non sono in grado di fare ciò che voglio se non cesso assolutamente di voler fare più di quello che posso.

La tranquillità dell'anima necessaria alla meditazione.

2. Pertanto pensare per tutta la vita a partenze che tu non possa compiere tranquillamente ed agevolmente non è da uomo che pensi a quell'ultima e sola che si chiama morte, alla quali anzi tu comprendi che bisogna unicamente pensare sul serio. È ben vero che Dio concesse ad alcuni pochi, che volle fossero i reggitori delle chiese, non solo di attenderla intrepidamente ma anche di desiderarla ardentemente e di sobbarcarsi senza alcuna inquietudine alle fatiche di affrontare quelle altre; ma né coloro che a siffatti ministeri sono trascinati dal desiderio dell'onore mondano, né d'altra parte a quelli che, pur essendo privati cittadini, desiderano una vita affaccendata, reputo sia concesso questo bene così grande, di raggiungere, in mezzo agli strepiti e agli affanni delle riunioni e andirivieni, quella familiarità con la morte che noi cerchiamo: nella tranquillità infatti sarebbe stato possibile sia agli uni che agli altri di indiarsi. Se invece questo è falso, io sono, per non dire il più stolto, certo il più indolente di tutti gli uomini, io che, se non raggiungo una tranquillità priva di preoccupazioni, non sono capace di gustare ed amare quel bene genuino. Credimi, occorre un grande isolamento dal tumulto delle cose passeggere perché si realizzi nell'uomo un'assenza completa di timore non dovuta a insensibilità, audacia, desiderio di vanagloria e superstiziosa credulità. Di qui infatti deriva anche quel solido gaudio, da non paragonarsi neppure minimamente con nessun altra gioia.

La tranquillità è nell'anima unita a Dio.

3. Che se un tal genere di vita non è realizzabile nella condizione umana, perché questa tranquillità qualche volta si verifica? Perché si realizza tanto più frequentemente quanto più ciascuno adora Dio nei penetrali del suo spirito? Perché per lo più una siffatta tranquillità perdura anche nell'agire umano, se da quei penetrali si passa all'azione? Perché talvolta, quando parliamo, non sentiamo la paura della morte e, quando non parliamo, la desideriamo persino? Lo dico a te, giacché non direi questo a chiunque; lo dico a te, di cui ben conosco i progressi verso le cose superne; tu, pur avendo frequentemente sperimentato quanto piacevolmente viva l'animo quando muore all'amore del corpo, vorrai dunque negare che tutta la vita dell'uomo possa diventare intrepida, così da essere a buon diritto chiamata saggia? Oppure oserai affermare di aver mai provato un simile stato d'animo, che è conforme a ragione, eccetto quando ti raccogli nel tuo dramma interiore? Così stando le cose, tu vedi che non rimane altro se non che anche tu decida con me in modo che possiamo vivere insieme. Infatti come bisogni agire con tua madre, che certo tuo fratello Vittore non abbandona, tu lo sai molto meglio di me. Non ho voluto scriverti altro per non distoglierti da questo pensiero.

 

LETTERA 11

Scritta dopo la precedente.

Fra le tante questioni di Nebridio A. sceglie la più difficile (n. 1), il rapporto fra Incarnazione e Trinità (n. 2-3). L'Incarnazione fu un esempio di umiltà perché l'uomo ascenda a Dio (n. 4).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Un quesito assai difficile.

1. Mentre mi teneva in grande pensiero la questione, postami da te già da un pezzo anche con un certo tono di amichevole rimprovero, sulle misure da prendere per poter vivere insieme, e avevo deciso di risponderti e di chiederti risposta solo su questo e di non usare la penna per nessun altra cosa inerente ai nostri studi finché non fosse risolto tra noi questo problema, mi ha tranquillizzato di colpo un'osservazione brevissima e oltremodo rispondente a verità della tua ultima lettera: cioè che non dobbiamo darci pensiero di questo, perché o noi verremo da te sicuramente non appena ne avremo la possibilità, oppure quando potrai verrai tu da noi. Perciò, reso tranquillo, come ho detto, su questo punto, mi son messo ad esaminare con attenzione tutte le tue lettere, per vedere a quante io debbo ancora rispondere. Ma in esse ho trovato tante questioni che, se anche si potessero risolvere facilmente, per il loro stesso cumulo sarebbero eccessive per l'ingegno e il tempo a disposizione di qualsiasi individuo. E per giunta sono così ardue che, anche se me ne fosse stata proposta una sola, non esiterei a dichiararmi sovraccarico. Questa premessa mira a far sì che tu smetta per un po' di tempo di pormi nuovi quesiti finché mi sia interamente liberato del debito, e mi risponda soltanto per farmi conoscere il tuo parere. E questo pur sapendo quale danno sia per me, che, sia pure per questo breve periodo, cesso d'essere messo a parte dei tuoi sublimi pensieri.

L'Incarnazione.

2. Ascolta dunque il mio pensiero sulla mistica Incarnazione, che la religione cui siamo stati iniziati ci propone a credere e a conoscere come avvenuta per la nostra salvezza. Questo quesito, cui ho scelto di dare una risposta a preferenza degli altri, non è certo il più facile di tutti, ma mi è parso più di ogni altro meritevole che vi dedicassi l'attività del mio pensiero. Infatti le questioni che riguardano questo mondo non mi sembrano abbastanza pertinenti al conseguimento della felicità e, se pure procurano qualche soddisfazione quando vengono esaminate, tuttavia c'è da temere che occupino del tempo che dovrebbe essere impiegato per qualcosa di meglio. Perciò, per quanto concerne il problema che mi son proposto di trattare adesso, mi stupisco innanzitutto che ti colpisca il fatto che si dica che l'Incarnazione appartiene non solo al Padre e al Figlio ma anche allo Spirito Santo. Questa Trinità infatti dalla fede Cattolica viene presentata e creduta talmente inseparabile (e tale viene compresa anche da pochi santi e beati) che, qualsiasi cosa venga da Essa compiuta, si deve ritenere compiuta insieme dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo. E niente fa il Padre che non facciano anche il Figlio e lo Spirito Santo, niente fa lo Spirito Santo che non facciano anche il Padre e il Figlio, niente fa il Figlio che non facciano anche il Padre e lo Spirito Santo. Ne consegue evidentemente che l'Incarnazione appartiene a tutta la Trinità: infatti se si è incarnato il Figlio ma non si sono incarnati il Padre e lo Spirito Santo, essi fanno qualcosa di diverso e d'indipendente l'uno dall'altro. Perché dunque nei nostri misteri e nei nostri riti sacri l'Incarnazione si celebra attribuendola al Figlio? Questo problema nella sua totalità è così arduo e verte su un argomento così importante che la sua spiegazione non può essere qui abbastanza facile né la sua dimostrazione abbastanza sicura. Ma, poiché scrivo a te, io oso ciononostante accennare, piuttosto che spiegare, il mio pensiero, affinché tu possa ricavare il resto da solo, dato il tuo ingegno e la familiarità che v'è tra noi, per la quale tu mi conosci a fondo.

Le proprietà delle Persone divine.

3. Non v'è, o mio Nebridio, nessuna natura e nessuna sostanza assolutamente che non abbia in sé e non riveli questi tre elementi: in primo luogo di essere; in secondo luogo di essere questo o quello; in terzo luogo di rimanere per quanto può nello stato in cui si trova. Il primo ci rivela il principio stesso della natura da cui derivano tutte le cose; il secondo la forma in virtù della quale vengono create e in certo modo plasmate tutte le cose; il terzo, per esprimerci così, è il permanere di tutte le cose nello stato ad esse proprio. Ora, se è possibile che esista qualcosa che non sia questo o quest'altro e non conservi le proprie caratteristiche; o che sia questo o quello senza avere l'esistenza e senza conservare le proprie caratteristiche quanto più può; oppure che conservi le sue caratteristiche per quanto lo concedono le potenze che ha in sé, e ciononostante non esista e non sia questo o quello, è anche possibile che nella Trinità una Persona faccia qualcosa separatamente dalle altre. Ma se comprendi che qualunque cosa esista deve necessariamente e al tempo stesso essere questo o quello e mantenere la propria natura per quanto può, evidentemente le tre Persone non fanno nulla indipendentemente l'una dall'altra. Vedo che di questa questione io ho esposto finora la parte per causa della quale la soluzione diventa difficile; ma ho voluto soltanto farti vedere in poche parole (se pure ho realizzato il mio proposito) con quanto acume e verità venga intesa nella Chiesa Cattolica l'inseparabilità di questa Trinità divina.

Perché il Verbo si è incarnato.

4. Ora ascolta come la difficoltà che colpisce la tua mente possa perdere la sua forza. La caratteristica che è attribuita in proprio al Figlio si può estendere anche al metodo e a una certa tecnica (se usiamo appropriatamente questo termine in cose di tal genere) e all'intelligenza dalla quale la mente stessa è plasmata mediante la conoscenza delle cose. Poiché dunque mediante l'Incarnazione si è ottenuto l'effetto di suggerirci, sotto la maestà evidente di certi principi, una norma di vita ed un esempio di adempimento dei precetti, non senza ragione tutto questo è attribuito al Figlio. Infatti in molte cose (che io lascio alla tua considerazione e alla tua prudenza di pensare), pur essendo insite molte qualità, tuttavia una si distingue e in maniera tale che non senza ragione acquista la denominazione di proprietà specifica di quell'oggetto. Ad esempio, nei tre generi di questioni sopra accennate, anche se si domanda se una cosa esiste, è implicita altresì la domanda: che cos'è? - giacché certamente non può essere senza essere qualche cosa -; ed anche la domanda se sia buona o cattiva: infatti qualsiasi cosa esista merita una valutazione; perciò quando si domanda di un oggetto che cosa sia, esso deve necessariamente esistere ed essere oggetto di valutazione. Allo stesso modo quando si domandano le qualità di una cosa, essa, evidentemente, è anche qualche cosa. Così, pur essendo tutti i particolari indissolubilmente uniti fra di loro, tuttavia la questione non prende il nome da tutti, ma a seconda dell'intenzione di colui che pone il quesito. Era dunque necessaria agli uomini una norma, dalla quale fossero permeati e formati come si conviene. Tuttavia non possiamo dire che questo stesso effetto, che si verifica negli uomini per mezzo di tale regola, non esista o non si debba desiderare. Ma prima cerchiamo di apprendere i mezzi per giungere alla conoscenza e per rimanerci. Bisognava dunque prima additarci qualche norma e regola di vita. E questo si ottenne attraverso il disegno divino dell'Incarnazione che si deve attribuire propriamente al Figlio, in modo che, per mezzo del Figlio, derivasse la conoscenza del Padre stesso (cioè dell'unico principio da cui derivano tutte le cose), ed una certa soavità e dolcezza interiore e ineffabile nel permanere in questa conoscenza e nel disprezzare tutte le cose mortali: e questo è il dono e il compito che si attribuisce propriamente allo Spirito Santo. Perciò, sebbene tutte le cose vengano compiute in perfetta comunione ed unità [dalle tre Persone], bisognava tuttavia farcele vedere separatamente, a causa della debolezza di noi che siamo caduti dalla unità nella molteplicità. Nessuno infatti riesce ad elevare un altro alla condizione in cui egli si trova se non discende in qualche modo nella situazione in cui si trova l'altro. Hai qui una lettera che non è tale da aver posto fine alla tua inquietudine su questo argomento, ma è forse tale da aver fornito un punto di partenza preciso per le tue speculazioni; sicché tu possa col tuo ingegno, a me ben noto, investigare il resto e giungere a darne una spiegazione con l'aiuto della pietà, su cui bisogna soprattutto fondarsi.

 

LETTERA 12

Scritta tra il 389 e il 391.

A. ritorna sul quesito relativo all'Incarnazione, che aveva cominciato a discutere nell'Ep. precedente; ma la lettera ci è giunta in minima parte.

AGOSTINO A NEBRIDIO

1. Tu mi scrivi d'avermi inviato più lettere di quante io ne abbia ricevute: eppure né io posso non prestar fede a te né tu a me. Mi spiego: anche se nel risponderti io non riesco ad essere alla pari con te, tuttavia le tue lettere io le conservo con una cura non minore della frequenza con cui mi sono inviate da te. Che tu poi ne abbia ricevute da me non più di due piuttosto lunghe, siamo d'accordo, giacché non te ne ho inviata una terza. Ora, controllando le minute, mi sono accorto d'aver risposto press'a poco a cinque tuoi quesiti; senonché una questione ivi trattata (per dir così) di passaggio, pur essendo stata affìdata non avventatamente alla tua intelligenza, tuttavia non ha forse soddisfatto appieno la tua avidità. Ma bisogna che tu la freni un poco e accetti di buon grado qualche trattazione sommaria; naturalmente col patto che se, risparmiando le parole, io riesco incomprensibile in qualche cosa, tu non mi risparmi affatto, ma mi chieda tutto ciò che ti è dovuto in forza di quel diritto [dell'amicizia], di cui vi potrebbe essere per me forse qualcosa di più efficace, se potesse esserci qualcosa di più piacevole. Perciò tu potrai annoverare questa lettera tra le mie minori, ma non ho potuto permettere che non diminuisse per nulla il mucchio dei miei debiti. Poiché nemmeno tu me ne invii alcuna, anche se di proporzioni minori, che non contribuisca ad accrescere questo medesimo mucchio. Pertanto comprenderai molto facilmente quello che mi domandi riguardo al Figlio di Dio, cioè perché si dica che Lui ha assunto la natura umana anziché il Padre, pur essendo entrambi inseparabili, se ricordi le nostre conversazioni in cui, per quanto ho potuto (giacché è una cosa innegabile, ho cercato di spiegare che cosa sia il Figlio di Dio, al quale siamo uniti per la natura da Lui assunta. E per fare qui solo un breve cenno di ciò, si chiama Figlio la stessa norma e forma di Dio per cui sono state fatte tutte le cose che sono state fatte. E tutto ciò che è stato compiuto da Lui tramite la natura umana assunta, è stato fatto per la nostra istruzione e per la nostra formazione.

 

LETTERA 13

Scritta nel medesimo tempo (389-91).

Premessa la futilità della questione se l'anima abbia un altro corpo più sottile (n. 1-2), A. espone il concetto di intelligibile e di sensibile e i rispettivi oggetti (n. 3-4).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Lettera scritta di notte.

1. Scriverti le solite cose non mi è gradito, scriverti cose nuove non mi è consentito. Vedo infatti che delle due cose l'una non si addice a te, per l'altra non trovo il tempo. Giacché, da quando ti ho lasciato, non ho avuto mai l'occasione, mai un momento di calma per meditare e discutere fra me sulle questioni che siamo soliti trattare tra noi. Le notti invernali sono molto lunghe, è vero, e non vengono da me trascorse interamente a dormire, ma quando ho del tempo libero mi si presentano piuttosto dei pensieri di cose necessarie che fanno perdere la tranquillità. Che debbo dunque fare? Essere muto o silenzioso con te? Né tu né io vogliamo l'una cosa o l'altra. Mettiti dunque all'opera e prendi quello che ho potuto tirar fuori da me nell'ultimo tratto della notte in cui è stata scritta questa lettera, per tutta la sua durata.

Il così detto "veicolo" dell'anima.

2. Bisogna che tu richiami alla mente il problema che abbiamo spesso agitato e che ci ha agitati facendoci affannare ed accalorare, cioè di una specie di corpo o quasi corpo dell'anima (che la accompagna sempre) e che alcuni - lo ricordi certamente - chiamano suo veicolo. Questo corpo, se è vero che cambia posizione, è chiaro certamente che non è intelligibile. E tutto ciò che non è intelligibile è impossibile arrivare a conoscerlo con l'intelletto. Ma di ciò che sfugge all'intelletto se non sfugge per lo meno ai sensi, non si può negare in modo assoluto di poter dare un giudizio verosimile. Invece quello che non è possibile percepire né con l'intelletto né coi sensi dà luogo ad un'opinione troppo avventata e puerile, e l'oggetto di cui trattiamo è di questo genere, se pur esiste. Perché dunque, ti chiedo, non lasciamo da parte questa questioncella e, invocato l'aiuto di Dio, non cerchiamo di elevarci fino alla quiete somma della Natura che possiede la vita in grado sommo?

Corpo sensibile e corpo intelligibile.

3. A questo punto tu forse mi dirai che, sebbene i corpi non possano essere conosciuti per mezzo dell'intelligenza, tuttavia molti aspetti pertinenti al corpo li possiamo percepire per via dell'intelligenza, per esempio il fatto che il corpo esiste. Chi lo negherebbe infatti, o chi oserebbe affermare che questo sia verosimile piuttosto che vero? Così, pur essendo il corpo in sé conosciuto in modo verosimile, tuttavia che esista in natura una tale realtà è assolutamente vero. Dunque il corpo è una cosa sensibile, ma l'esistenza del corpo è intelligibile: sarebbe infatti impossibile conoscerla altrimenti. Così quel non so che su cui verte la nostra indagine, cioè quel corpo su cui si pensa che l'anima si sostenga per passare da un luogo all'altro, sebbene sia percepibile, se non dai nostri sensi da altri molto più acuti, tuttavia se esista lo si può conoscere per un atto dell'intelligenza.

Conoscenza sensibile e conoscenza intelligibile.

4. Ma se sosterrai questo, richiama alla tua mente che l'atto che chiamiamo intendere, avviene in noi in due modi: o per un atto dell'intelletto e della ragione che deriva da essi ed in essi rimane, per esempio quando comprendiamo che esiste l'intelletto stesso, o per un'impressione che riceviamo dai sensi, ad esempio nel caso di cui abbiamo parlato, cioè quando comprendiamo che il corpo esiste. Nel primo caso noi giungiamo alla conoscenza sotto l'ispirazione di Dio per mezzo di noi stessi, vale a dire partendo da ciò che è in noi; nel secondo, sempre sotto l'ispirazione di Dio, giungiamo alla conoscenza partendo da ciò che ci viene comunicato dal corpo e dai sensi. Se queste premesse sono valide, nessuno può sapere se quel corpo esista tranne colui al quale i sensi ne abbiano dato notizia. E se pure vi è qualcuno che si trovi nel numero di tali esseri, dato che ben vediamo che noi non facciamo parte di esso, io credo risulti provato anche ciò che avevo cominciato a dire più sopra, cioè che tale questione non è di nostra pertinenza. Vorrei che tu vi tornassi sopra con insistenza ed avessi cura di farmi conoscere il risultato delle tue riflessioni.

 

LETTERA 14

Del medesimo tempo (389-91).

A. sebbene occupatissimo, risponde a Nebridio che gli aveva chiesto perché mai il sole è differente per grandezza ed effetti dagli altri astri (n. 1-2); accennando poi all'Uomo-Dio tocca l'altro quesito se la Somma Sapienza contiene l'idea di ciascun uomo (n. 3-4).

AGOSTINO A NEBRIDIO

Agostino risponde pur essendo occupatissimo.

1. Ho preferito rispondere alla tua lettera più recente non perché non tenga in nessun conto i tuoi quesiti precedenti o perché mi siano piaciuti meno, ma perché per rispondere io faccio sforzi più grandi di quelli che tu puoi immaginare. Infatti, sebbene tu mi abbia avvisato che devo mandarti una lettera più lunga della più lunga che ti ho mandato, io non ho però tanto tempo a disposizione quanto pensi tu e quanto sai che io ho sempre desiderato e desidero di avere. E non chiedermi perché sia così. Infatti mi sarebbe più facile esporre gli impedimenti che ho che non indicarne il perché.

Il sole e gli altri astri.

2. Mi dici perché io e tu, pur essendo due individui distinti, facciamo molte cose identiche e invece il sole non fa ciò che fanno le altre stelle. Mi sforzerò di rendere ragione della cosa. Infatti se noi compiamo le stesse azioni, anche il sole ne ha molte in comune con gli altri astri; se non lo fa lui, non lo facciamo nemmeno noi. Io cammino ed anche tu cammini; lui si muove ed anch'essi si muovono; io sono sveglio e lo sei anche tu; lui brilla ed anch'essi brillano; io discuto e discuti anche tu; lui ruota ed anch'essi ruotano; per quanto un'azione spirituale non si dovrebbe in alcun modo mettere a confronto con ciò che è visibile. Se poi, come è giusto, paragoni intelligenza a intelligenza, si deve osservare che gli astri, se in loro vi è un'intelligenza, nel pensare o contemplare (o altro termine più proprio che usar si voglia per esprimere un'azione simile) sono fra loro più concordi che gli uomini. D'altra parte nei movimenti fisici, se guardi la cosa con diligente attenzione secondo il tuo solito, nulla assolutamente di identico può esser fatto da due persone. Forse che tu pensi che noi, quando passeggiamo insieme, compiamo un'azione senz'altro identica? Lungi dalla tua intelligenza un pensiero simile. Giacché quello di noi due che cammina più vicino al Nord o sorpassa necessariamente l'altro (se cammina col suo stesso passo), ovvero deve camminare più lentamente: eppure ne l'una né l'altra cosa è avvertibile coi sensi. Ma tu, se non m'inganno, vuoi sapere quello che avvertiamo con l'intelligenza, non coi sensi. E se ci dirigiamo da settentrione a mezzogiorno, camminando quanto più è possibile uniti a fianco a fianco, e poggiamo i piedi su del marmo o dell'avorio levigato e perfettamente piano, il nostro movimento non può essere identico, come non lo sono le pulsazioni, la figura e l'espressione del volto. Metti al nostro posto i figli di Dauco : non risolverai niente. Giacché anche questi due somigliantissimi gemelli dovranno necessariamente muoversi in maniera autonoma come necessariamente nacquero separati.

Il Cristo, Uomo-Dio.

3. Sì, ma questo - dirai - è chiaro e manifesto soltanto alla ragione, mentre la differenza fra il sole e gli astri lo è anche ai sensi. Se è alla grandezza di essi che vuoi che io rivolga l'attenzione, tu sai quanto siano vari i pareri sulla distanza che li separa, e perciò a quanta incertezza dia luogo la suaccennata evidenza. Ma anche se ammetto che sia così come appare (anch'io infatti la penso in questo modo), ai sensi di chi mai è sfuggita l'altezza di Nevio, superiore di un piede a quella degli uomini più alti, che è di sei piedi? Ed io credo che tu abbia cercato anche troppo un uomo della sua statura, e che, non avendone trovato nessuno, abbia voluto far allungare la mia lettera fino a raggiungere le sue dimensioni! Perciò, dato che un fatto di questo genere si riscontra anche sulla terra, penso non ci si debba affatto stupire per il cielo. Se poi ti colpisce il fatto che nessun astro, eccetto il sole, riempie il giorno della sua luce, chi, ti chiedo, è apparso agli uomini tanto grande quanto quell'uomo che Dio assunse ben diversamente da quanto abbia fatto con tutti gli altri Santi e sapienti? E se tu lo metti a confronto con gli altri uomini, essi sono molto più lontani da Lui di quanto lo siano gli altri astri nei confronti del sole. Osserva dunque attentamente questa analogia; data la tua superiore intelligenza è possibile che abbiamo risolto di passaggio una questione sulla umanità di Cristo che mi era stata proposta da te.

La Somma Sapienza e gli archetipi degli esseri.

4. Mi poni anche il quesito se quella somma verità, somma sapienza, forma delle cose, per cui tutte le cose sono state fatte, che la nostra santa religione dichiara Figlio unigenito di Dio, contenga in sé l'idea universale di uomo oppure anche quella individuale di ciascuno di noi. Questione ardua. Ma a me pare che per quanto concerne la creazione dell'uomo, vi fosse là solo l'idea di un uomo, non quella della mia persona o della tua; per quanto concerne invece tutta la estensione del tempo le varie forme dei singoli uomini sussistano tutte in quella forma semplicissima. Ma, essendo questo molto oscuro, non so con quale paragone si potrebbe rendere chiaro, a meno che non si debba ricorrere a quelle arti e scienze che vivono nel nostro intelletto. Infatti in geometria l'idea di angolo è unica ed unica è l'idea di quadrato. Perciò tutte le volte che voglio descrivere un angolo non mi si presenta che un'unica idea di angolo; ma non potrei in nessun caso disegnare un quadrato se non avessi in mente l'idea di quattro angoli assieme; così ogni singolo uomo è stato fatto secondo un'unica idea generale di uomo; ma affinché diventi moltitudine, sebbene l'idea sia anch'essa unica, tuttavia non è l'idea di un singolo uomo, ma di più uomini. Se dunque Nebridio è parte di questo tutto, come lo è in realtà, ed ogni tutto consta di parti, Dio creatore del tutto, non poté non avere l'idea delle singole parti. Perciò il fatto che ivi c'è l'idea di moltissimi uomini, questo non riguarda il singolo uomo, sebbene poi tutto si riduca in modo misterioso ad unità. Ma tu ci penserai con più comodo. Intanto ti prego di accontentarti di questo, quantunque io abbia già superato la misura di Nevio.

 

LETTERA 15

Scritta nel 390-91.

Agostino promette a Romaniano, carissimo suo concittadino d'inviargli il libro da lui scritto sulla Vera religione (n. 1) e l'esorta ad occupare il tempo libero nell'acquisto dei beni eterni (n. 2).

AGOSTINO A ROMANIANO

Agostino annuncia la pubblicazione del libro Sulla vera religione.

1. Questa lettera non denuncia la mia povertà di carta in modo da provare, se non altro, che mi abbonda la pergamena. Le tavolette d'avorio a mia disposizione le ho mandate con una lettera a tuo zio. Tu, infatti, mi perdonerai più facilmente questo pezzetto di pergamena, poiché quello che gli ho scritto non si poteva rimandare, e nello stesso tempo ho pensato che non fosse affatto il caso di non scriverti. Ma ti prego di mandarmi le mie tavolette, se costì ce n'è qualcuna, perché mi servono in casi di questo genere. Ho scritto qualcosa sulla religione cattolica, quello che il Signore s'è degnato d'ispirarmi, ed ho intenzione di mandartelo prima della mia venuta costì, se nel frattempo non mi mancherà la carta. Ti accontenterai infatti di quella scrittura che può venir fuori dal laboratorio di Maggiorino. Quanto ai codici me ne sono completamente dimenticato, eccetto i libri De oratore. Ma non avrei potuto risponderti altro che di prendere tu stesso quelli che ti piace, ed ora sono dello stesso avviso. Infatti, essendo lontano, non trovo che altro possa fare di più.

Mentre si ha il tempo, si faccia il bene.

2. Ti sono sommamente grato perché nell'ultima tua lettera mi hai voluto mettere a parte della tua gioia domestica. Ma vuoi che io non conosca l'aspetto del mare tranquillo e le placide onde 1? certo, né lo vuoi da me né tu stesso lo ignori. Perciò, se t'è stata concessa un po' di tranquillità per pensare a qualcosa di meglio, approfitta della grazia di Dio! Quando ci toccano questi doni, infatti, non con noi stessi dobbiamo congratularci, ma con coloro per opera dei quali ci vengono elargiti, poiché una amministrazione dei beni temporali giusta, conforme al dovere e, per quanto lo permette la sua natura, più pacifica e tranquilla, procura il merito per ottenere i beni eterni, purché non possieda mentre la si possiede, non impacci quando diventa più complessa, non ci travolga mentre si cerca di renderla tranquilla. Giacché per bocca della stessa Verità è stato detto: ...Se non siete stati fedeli nell'altrui, chi vi darà ciò che è vostro? 2 Perciò, lasciate andare le cure delle cose passeggere, cerchiamo i beni duraturi e sicuri, innalziamoci al di sopra delle nostre ricchezze terrene. Infatti non senza motivo l'ape ha le ali pur nell'abbondanza del miele, poiché questo uccide chi gli rimane attaccato.

 

LETTERA 16

Scritta forse nel 390.

Massimo, insegnante di grammatica a Madaura (città non lontana da Tagaste) cerca di difendere il politeismo dei pagani affermando che sotto diversi nomi essi adorano un solo Dio (n. 1-4). Si sdegna che si preferiscano uomini morti agli dèi pagani e schernisce certi nomi punici forse di martiri venerati dai Cristiani biasimandone il culto (n. 2): li critica altresì perché non ammettono profani ai loro riti sacri (n. 3).

MASSIMO DI MADAURA AD AGOSTINO

I pagani paragonano i loro dèi alle membra dell'unico Dio.

1. Desiderando essere spesso allietato dalle tue lettere e dallo stimolo delle tue parole, con cui di recente mi hai così piacevolmente colpito senza danno per l'amicizia, non ho voluto cessare di ricambiarti, affinché tu non considerassi come segno di rincrescimento il mio silenzio. Ma se tu riterrai che queste mie parole siano deboli come le mie membra senili, ti prego d'accoglierle indulgentemente con benevolo orecchio. Che il monte Olimpo sia la sede degli dèi, la Grecia lo racconta senza sicura certezza. Che però la piazza della nostra città sia abitata da un gran numero di divinità salutari, noi lo vediamo e lo sperimentiamo. E parimenti che il Dio sommo sia unico, senza inizio né prole naturale in quanto Padre grande e magnifico, chi potrebbe essere tanto stolto e dissennato da negare che sia cosa certissima? Le manifestazioni della sua potenza, diffuse nell'universo creato, noi le invochiamo con molti nomi, poiché tutti evidentemente ignoriamo il vero nome di Lui; Dio, infatti, è un vocabolo comune a tutte le religioni. Per conseguenza appare certamente chiaro che, mentre ne onoriamo separatamente, per così dire, le membra con vari riti, lo adoriamo tutto intero.

Secondo i pagani è nefando il culto di uomini morti.

2. Ma non riesco a nascondere che sono incapace di sopportare un errore così grave: chi infatti potrebbe tollerare che a Giove, che scaglia le folgori, si preferisca un Migdone; che a Giunone, a Minerva, a Venere ed a Vesta si preferisca una Sanae, e - orrore! - a tutti quanti gli dèi immortali il martire dei martiri Nanfamone ? E tra questi viene accolta con culto non minore anche Lucita ed altri innumerevoli (nomi odiosi agli dèi e agli uomini) i quali, coscienti delle proprie azioni nefande, sotto apparenza d'una morte gloriosa aggiungendo in realtà ai loro delitti nuove scelleratezze, hanno trovato, coperti d'infamia, una morte degna dei loro costumi e delle loro azioni. Intorno alle tombe di costoro, se la cosa merita d'essere ricordata, s'affollano gli stolti, dopo avere abbandonato i templi e trascurato i Mani dei loro antenati, sicché diventa chiaro il presagio del poeta sdegnato per una tale follia: E nei templi dei suoi dèi Roma giurerà per delle ombre 1. Mi sembra anzi in certo modo che in questo momento sia scoppiata una nuova guerra Aziaca, in cui i mostri Egiziani osino scagliare contro gli dèi di Roma dardi che non avranno effetti duraturi.

Perché mai i Cristiani adorano Dio di nascosto?

3. Ma ti chiedo, uomo sapientissimo, che, messo completamente da parte il vigore dell'eloquenza, per la quale sei famoso presso tutti, tralasciate anche le argomentazioni di Crisippo (con cui solevi combattere), e abbandonata per un poco la dialettica, la quale lottando con tutte le sue forze cerca di non lasciare a nessuno alcuna certezza, mi dimostri concretamente chi sia questo dio che voi cristiani rivendicate come vostra esclusiva proprietà e fingete di veder presente in luoghi nascosti. Poiché noi adoriamo i nostri dèi con pie preghiere alla luce del giorno, visti ed ascoltati da tutti gli uomini, ce li propiziamo con vittime fragranti e cerchiamo che questi atti siano visti e approvati da tutti.

Il Dio pagano padre degli uomini e degli dèi.

4. Ma, vecchio e invalido, io evito di continuare ulteriormente questa battaglia, e volentieri accetto la massima dello scrittore di Mantova: Ciascuno è guidato dal proprio piacere 2. Dopo questo io non dubito, o esimio signore che ti sei allontanato dalla mia religione, che questa mia lettera scomparirà o bruciata o in un altro qualsiasi modo, dopo esserti stata furtivamente sottratta da qualcuno. Ma, se anche questo accadrà, andrà perduta la carta, non il mio discorso, il cui contenuto resterà sempre vivo in tutti coloro che sono veramente religiosi. Ti conservino quegli dèi, sotto il cui nome noi tutti mortali quanti siamo sulla terra, in mille modi ma con una varietà che mira ad un identico fine, veneriamo il padre comune a loro e a tutti gli uomini.

 

LETTERA 17

Scritta forse prima della legge contro il culto pagano del 28 febbr. 391.

A. risponde confutando le idee del grammatico Massimo sulla religione pagana e cioè che gli dèi siano membra dell'unico Dio (n. 1); allo scherno mosso contro certi nomi punici di eroi cristiani oppone nomi molto più ridicoli di divinità pagane, le quali non sono altro che uomini morti (n. 2-3); confuta l'accusa del culto segreto dei Cristiani ed invita a discussioni serie (n. 4-5).

A MASSIMO DI MADAURA

Che cosa pensare degli dèi.

1. Trattiamo fra noi qualcosa di serio o vogliamo scherzare? Giacché, visto il tenore della tua lettera, non so se dipenda dalla debolezza della causa in se stessa o dalla giovialità del tuo temperamento il tono più scherzoso che impegnato che hai preferito assumere. Innanzi tutto c'è il paragone tra il monte Olimpo e la vostra piazza, che non so quale scopo abbia eccetto quello di ricordarmi che Giove pose su quel monte il suo accampamento quando faceva guerra a suo padre, come racconta quella storia che i vostri correligionari chiamano addirittura sacra, e che in codesta piazza vi sono due statue di Marte (uno nudo e l'altro armato) e di fronte ad esse una statua d'uomo con tre dita protese per frenare il loro potere demoniaco, funesto per la città. Potrei dunque mai credere che tu, facendo menzione di questa piazza, abbia voluto rinnovare in me il ricordo di tali divinità se non avessi inteso scherzare piuttosto che fare sul serio? Ma, per venire proprio alla tua affermazione che siffatti dèi sono come le membra dell'unico e sommo Dio, ti raccomando, poiché me lo permetti, di astenerti con la massima cura da siffatte sacrileghe facezie. Se veramente intendi per unico Dio quello intorno al quale, come è stato detto dagli antichi, sono d'accordo i dotti e gli indotti, osi tu chiamare membra di Lui coloro dei quali l'immagine di un uomo morto basta a frenare la crudeltà o (se lo preferisci) la potenza? Potrei dilungarmi su questo: tu vedi infatti, data la tua saggezza, quanto ampiamente questo punto [della tua lettera] offra il fianco alla critica. Ma mi freno spontaneamente, perché da te non si pensi che combatto con le armi della retorica piuttosto che con quelle della verità.

Nomi punici dei Cristiani e nomi di dèi pagani.

2. Non so infatti se debba fermarmi a confutare oppure passare sotto silenzio il fatto che tu hai raccolto alcuni nomi punici di defunti per i quali hai ritenuto di dover lanciare delle ingiurie, divertenti a tuo giudizio, contro la nostra religione. Se queste cose sembrano alla tua serietà tanto futili quanto lo sono realmente, io non ho molto tempo per scherzare; se al contrario ti sembrano importanti io mi meraviglio come, colpito dalla bizzarria dei nomi, non ti sia venuto in mente che tra i vostri sacerdoti ci siano gli Eucaddiri e tra i vostri dèi gli Abaddiri. Io non penso che non te ne ricordassi mentre scrivevi: hai voluto piuttosto, secondo il tuo carattere affabile e faceto, richiamarmi alla memoria quanto vi sia di ridicolo nella vostra superstizione, per divertirmi un po'. Non avresti infatti potuto dimenticarti di te stesso, fino al punto da ritenere di dover criticare dei nomi punici tu, africano, nell'atto di scrivere ad africani e vivendo noi tutti e due in Africa. Giacché se vogliamo dare una interpretazione di quei nomi, cos'altro vuol dire Namfamone se non uomo dal piede propizio, cioè il cui arrivo è portatore di felicità: allo stesso modo che siamo soliti dire che è entrato con piede propizio colui al cui arrivo è seguito un avvenimento favorevole? E se questa lingua è disapprovata da te, nega che nei libri punici siano state tramandate molte cose sagge, come è attestato da uomini dottissimi: davvero dovrebbe dispiacerti di essere nato là dove è la culla di questa lingua e ne rivivono i nomi! Se invece è assurdo che ci dispiaccia il suono di essa e riconosci che è esatta l'interpretazione che ho dato di quel vocabolo, hai motivo di prendertela col tuo Virgilio che invita in questo modo Ercole al sacrificio celebrato in suo onore da Evandro: Avvicinati a noi e alle tue sacre cerimonie ben disposto con piede propizio 1. [Il poeta] desidera che venga con piede propizio: dunque desidera che venga Ercole Namfamone, a causa del quale ti diverti molto ad insultarci. Ma in verità, se hai voglia di ridere, trovi presso di voi grande materia di facezie: il dio Stercuzio, la dea Cloacina, Venere calva, il dio Timore, il dio Pallore, la dea Febbre ed innumerevoli altri di questo genere, ai quali i Romani antichi, adoratori di idoli, innalzarono templi e stabilirono che si dovevano onorare: se tu li trascuri, trascuri gli dèi di Roma. Da ciò si comprende che non sei iniziato ai sacri riti romani e tuttavia disprezzi e disdegni i nomi punici, come se fossi dedito al culto dei numi dei Romani.

Gli dèi sono uomini morti.

3. Ma mi pare, in verità, che tu - forse ancor più di noi - non tenga in nessun conto quei riti; ma da essi ricavi un certo qual divertimento per passare [più gradevolmente] questa vita, dato che non hai esitato a ricorrere anche a Marone, come risulta da ciò che mi scrivi, e a citare in tuo soccorso il suo verso in cui dice: Ciascuno è guidato dal proprio piacere 2. Giacché, se accetti l'autorità di Marone, come mostri di accettarla, tu accetti senza dubbio anche questo: Per primo Saturno venne dall'etereo Olimpo fuggendo le armi di Giove e profugo dopo esser stato privato del suo regno 3, e tutti gli altri passi con cui vuol significare che quel dio ed altri vostri dèi di questo genere furono uomini. Infatti egli aveva letto molte storie rese autorevoli dalla loro antichità, e le aveva lette anche Tullio 4, che nei suoi dialoghi richiama il medesimo pensiero più di quanto avremmo osato sperare e cerca, per quanto quei tempi lo permettevano, di portarlo a conoscenza di tutti.

I misteri di Libero e i baccanali.

4. Quanto poi alla tua affermazione che i vostri riti sono superiori ai nostri per il fatto che voi adorate i vostri dèi in pubblico mentre noi facciamo le nostre riunioni in gran segreto, innanzitutto ti chiedo come abbia potuto dimenticarti di quel Libero che voi ritenete di dover sottoporre agli occhi di pochi iniziati. Poi tu stesso riconosci di non aver avuto altra intenzione, ricordando la pubblica celebrazione dei vostri riti, se non che noi avessimo davanti agli occhi, come uno spettacolo, i decurioni e i capi della città che nei baccanali folleggiano per le piazze della vostra città. Ma se in tale festa siete posseduti da un dio, certamente vedete che razza di dio possa essere quello che toglie il senno. E se fingete, che cosa significano questi vostri misteri anche in pubblico, o quale scopo si prefigge una così turpe menzogna? E perché poi, se siete vati, non predite nulla di ciò che avverrà? O perché mai spogliate i circostanti, se siete sani di mente?

Occorre discutere seriamente!

5. Poiché dunque con la tua lettera ci hai fatto ricordare questi fatti ed altri che ora ritengo conveniente tralasciare, perché mai non dovremmo deridere i vostri dèi che chiunque conosca il tuo ingegno e legga la tua lettera, vede essere elegantemente presi in giro anche da te? Perciò se in questo campo vuoi che trattiamo fra noi qualcosa che si addica alla tua età ed alla tua saggezza e che infine, secondo il nostro proposito, possa essere desiderato dai nostri amici più cari, cerca qualcosa che meriti la nostra discussione; e cerca di dire in difesa dei vostri dèi delle cose per cui noi non abbiamo a giudicarti un falso difensore della tua causa, che voglia insegnarci quello che si può dire contro di essi piuttosto che dire qualcosa in loro difesa. Sappi ad ogni modo, per finire, affinché questo fatto non ti sfugga e non ti trascini per ignoranza a sacrileghe calunnie, che dai Cristiani cattolici, di cui nella vostra città esiste anche una chiesa, non si rende culto a nessun morto, ed infine non viene adorato come una divinità niente che sia stato fatto e creato da Dio, ma unicamente quel Dio che ha fatto e creato tutte le cose. Si tratterà di questo argomento più diffusamente, coll'aiuto dell'unico vero Dio, quando mi accorgerò che tu vuoi fare sul serio.

 

LETTERA 18

Scritta tra il 389 e il 390.

A. chiede a Celestino di restituirgli i propri libri contro i Manichei (n. 1) quindi tratta assai brevemente delle tre specie di sostanze (Dio, gli spiriti, i corpi) e delle loro proprietà.

AGOSTINO A CELESTINO

Agostino chiede gli siano restituiti i libri contro i Manichei.

1. Oh se potessi continuamente dirti qualche cosa! E questo qualcosa è di spogliarci delle cure inutili e di immergerci in cure che siano utili. Giacché quanto alla mancanza di esse non so se si debba nutrire qualche speranza in questo mondo. Ho scritto e non ho ricevuto nessuna risposta. Ho mandato i libri contro i Manichei che potevo mandare, in quanto già pronti e corretti, ma non mi è stato reso noto nulla circa il vostro giudizio e la vostra impressione su di essi. Ormai è tempo che io ve li richieda e voi li restituiate. Vi prego dunque di non tardare a rimandarli con una risposta, attraverso la quale desidero conoscere che uso ne fate o di quali armi ritenete di avere ancora bisogno per trionfare di quell'errore.

Tre specie di sostanze e loro proprietà.

2. Comunque, poiché ti conosco, eccoti qualcosa d'importante e di breve. V'è una natura mutabile per quanto concerne il luogo e il tempo, cioè il corpo. E vi è una natura per nulla mutevole riguardo al luogo ma, solo per quanto concerne il tempo, anch'essa mutevole, cioè l'anima. E vi è una natura che è immutabile sia per il luogo che per il tempo, cioè Dio. Ciò che qui ho indicato come mutevole sotto qualunque aspetto si chiama creatura; ciò che è immutabile, Creatore. Ora, poiché qualsiasi cosa noi diciamo esistente, la diciamo tale in quanto sussiste e in quanto costituisce un'unità e, d'altra parte, l'unità è il principio d'ogni bellezza, tu vedi certamente che cosa, nelle predette categorie di nature, possegga l'esistenza in grado sommo; che cosa la possegga in grado infimo, e pure esista; che cosa la possegga in grado medio e sia superiore all'essere infimo e inferiore all'essere sommo. L'essere sommo è la beatitudine stessa; l'essere infimo quello che non può essere né felice né infelice; l'essere intermedio, se tende a ciò che è infimo, ha una vita infelice, se si volge all'essere sommo, vive felice. Chi crede in Cristo, non si abbandona all'amore di ciò che è infimo, non insuperbisce nello stato intermedio e così diviene capace di unirsi all'essere sommo. E questo è tutto ciò che ci viene ordinato e consigliato di fare e di cui ci viene instillato l'amore.

 

LETTERA 19

Scritta nello stesso periodo (389-90).

A. inviando i suoi libri a Caio (da lui forse convertito alla Chiesa Cattolica), lo esorta a perseverare nella fede e nei buoni propositi.

AGOSTINO A CAIO

1. È impossibile esprimere quanta dolcezza mi abbia invaso e spesso ancora mi invada al tuo ricordo dacché ti ho lasciato. Infatti rammento come la misura nella disputa non fosse turbata dal tuo ardore nella ricerca [della verità] per quanto fosse meraviglioso. Giacché non potrei facilmente trovare uno che ponga le domande con maggiore passione e che ascolti con maggiore calma. Vorrei perciò discorrere molto con te: infatti il colloquio con te non sarebbe mai abbastanza lungo, per quanto durasse. Ma poiché è difficile, che bisogno c'è di cercarne i motivi? È davvero difficile: un giorno forse sarà facilissimo - Dio lo voglia! - Ora certo la cosa sta diversamente. Perciò ho dato incarico al fratello latore della presente lettera di consegnare tutti i miei scritti alla tua prudentissima carità perché li possa leggere. Nulla di mio egli ti darà che non ti faccia piacere; so infatti quanto siano benevoli i sentimenti che nutri nei miei confronti. Se, dopo averli letti, li troverai meritevoli di approvazione e li giudicherai conformi alla verità, non considerarli cosa mia se non in quanto mi sono stati elargiti, ed elevati a Colui dal quale è stata data anche a te la capacità di giudicarli degni di approvazione. Nessuno infatti riesce a scorgere la verità di ciò che si legge nel libro stesso o in colui che lo ha scritto, ma piuttosto in sé, quando sia stata impressa nella sua mente una luce di verità che non abbia la purezza di quella comune e sia totalmente scevra dalle impurità del corpo. Se al contrario vi troverai qualcosa di falso e indegno di approvazione, sappi che è frutto della cecità umana e consideralo veramente mio. Ti esorterei a pormi delle questioni se non mi sembrasse di vedere, per così dire, spalancate le fauci del tuo cuore. Ti esorterei anche a conservarti fermamente fedele alle verità che hai conosciuto, se tu non mostrassi evidentissima la forza del tuo animo e dei tuoi propositi. Infatti ciò che vive in te mi si è in breve tempo palesato interamente, come se si fosse dissolto l'involucro del corpo. La misericordiosissima provvidenza di nostro Signore non permetta in nessun modo che un uomo tanto retto e assennato come tu sei sia separato dal gregge cattolico di Cristo.

 

LETTERA 20

Scritta nello stesso periodo (389-90).

A. ringrazia Antonino dell'amicizia e buona stima che ha di lui (n. 1-2) ed esprime il desiderio di vedere tutta la sua famiglia concorde nella fede e nella pietà (n. 3).

AGOSTINO AD ANTONINO

Una risposta breve ma ampliata dalla viva voce del latore.

1. Due essendo le persone che dovevano scriverti, per una parte sei stato più che pienamente soddisfatto, poiché vedi presente uno di noi. E, dato che dalla sua bocca tu ascolti anche me, avrei potuto non rispondere, se non lo avessi fatto su espressa richiesta di colui per la cui partenza mi sembrava inutile quello che ho fatto. Perciò io parlo con te forse più fruttuosamente che se ti fossi vicino, dal momento che leggi la mia lettera e ascolti colui nel cui cuore tu sai benissimo che io vivo. Con somma gioia ho esaminato e ponderato la lettera della tua Santità, giacché essa rivela il tuo animo cristiano senza alcuno degli orpelli che sono propri di questa età iniqua e inoltre pieno di amicizia per me.

Agostino si congratula con Antonino del suo buon cuore e lo ringrazia.

2. Mi congratulo con te e rendo grazie al nostro Dio e Signore per la tua fede, speranza e carità, e a te davanti a Lui perché hai di me una così buona opinione da ritenermi servo fedele di Dio e perché proprio questo ami in me con perfetta sincerità di cuore. Quantunque, anche a questo proposito, bisognerebbe congratularsi per la tua buona disposizione verso il bene piuttosto che ringraziarti. Infatti a te giova amare la bontà di per se stessa, e indubbiamente la ama chi ama colui che crede buono, tanto nel caso che lo sia realmente quanto nel caso che sia diverso da quel che si crede. A questo proposito uno solo è l'errore da cui bisogna guardarsi, cioè di giudicare diversamente da ciò che esige la verità non riguardo all'uomo ma riguardo a quello che è il bene vero dell'uomo. Tu però, fratello carissimo, che non sbagli affatto credendo o sapendo che è un grande bene servire Dio di buon grado e con purezza di cuore, quando ami un uomo qualsiasi perché lo ritieni partecipe di questo bene, possiedi già il tuo frutto, anche se egli non lo è. Pertanto con te bisogna congratularsi in questo; con lui invece non nel caso che sia amato per il motivo suddetto, ma nel caso che sia tale quale lo ritiene colui dal quale proprio per questo motivo è amato. Quale dunque io sia e quali progressi abbia fatto verso Dio lo vedrà Colui il cui giudizio non può errare non solo per quanto concerne il bene dell'uomo ma anche l'uomo stesso. A tale riguardo per te è sufficiente a procurarti la ricompensa della beatitudine eterna il fatto che, ritenendomi tale quale dev'essere un servo di Dio, mi circondi con tutto l'affetto del tuo cuore. Ti ringrazio poi vivamente perché, quando mi lodi come tale, tu mi stimoli in maniera particolare a desiderare di esserlo; e ancor più ti ringrazio se non solo ti raccomandi alle mie preghiere ma non cessi altresì di pregare per me. Infatti più gradita a Dio è la preghiera innalzata per un fratello quando si offre il sacrificio della carità.

La famiglia di Antonino goda dell'unità di fede, di pietà, di timor di Dio.

3. Saluto vivamente il tuo bambino e faccio voti che cresca secondo i precetti salutari del Signore. Anche per la tua casa io auguro e invoco l'unità della fede e la vera pietà, che è solo quella cattolica. A tal fine, se ritieni ancora necessaria l'opera mia, non esitare a chiederla confidando nel nostro comune Signore e nei diritti della carità. Tuttavia vorrei esortare la tua religiosissima prudenza a ispirare o ad alimentare nella tua consorte, che è come un vaso più fragile 1, un timore non irrazionale di Dio con la lettura dei libri sacri e con elevati discorsi. Infatti non vi è quasi nessuno, sollecito dello stato della propria anima e perciò zelante nel ricercare senza ostinazione la volontà del Signore, il quale con l'aiuto d'una buona guida non riesca a distinguere che differenza vi sia fra una qualsiasi sètta scismatica e l'unica Chiesa Cattolica.

 

LETTERA 21

Scritta prima della Pasqua del 391.

A., ordinato prete della chiesa d'Ippona (inizio del 391) soprattutto per predicare la parola di Dio, e perciò di fronte alle difficoltà e ai pericoli che presenta tale ufficio (n. 1) e a causa dei quali egli pianse durante l'ordinazione sacerdotale (n. 2), prega e scongiura il vescovo Valerio di concedergli un periodo di ritiro al fine di ben prepararsi al ministero sacerdotale (n. 3-4), dovere di cui dovranno rispondere a Dio stesso A. e il vescovo (n. 5-6).

AGOSTINO PRETE SALUTA NEL SIGNORE IL BEATISSIMO E VENERABILE SIGNORE VESCOVO VALERIO, AL COSPETTO DEL SIGNORE PADRE SINCERAMENTE CARISSIMO

Difficoltà e pericoli del ministero sacerdotale.

1. Innanzitutto io prego la tua religiosa prudenza di considerare che in questa vita e soprattutto in questo tempo non v'è nulla di pìù facile, piacevole e gradito agli uomini della dignità di vescovo o di prete o di diacono, ma nulla di più miserabile, funesto e riprovevole davanti a Dio se lo si fa negligentemente e con vile adulazione. E che parimenti non v'è nulla in questa vita, e soprattutto in questo tempo, di più difficile, faticoso e pericoloso, ma nulla è più felice agli occhi di Dio, della dignità di vescovo o di prete o di diacono se si assolva a questa milizia nel modo prescritto dal nostro capitano 1. Quale sia questo modo io non lo appresi né da fanciullo né da adolescente; e, nel tempo in cui avevo cominciato ad apprenderlo mi fu fatta violenza a causa dei miei peccati (non so infatti a che altro debba pensare) per assegnare il secondo posto al timone a me, che non sapevo tenere il remo in mano.

Il pianto di A. durante l'ordinazione sacerdotale.

2. Ma io penso che il mio Signore abbia voluto in questo modo correggermi perché, prima di aver sperimentato quali siano i compiti di tale ufficio, osavo riprendere le colpe di molti nocchieri quasi fossi più dotto e migliore di loro. E così, dopo che fui lanciato in mezzo al mare, allora cominciai a comprendere l'avventatezza delle mie riprensioni, sebbene anche prima giudicassi molto pericoloso questo ministero. E di qui derivavano quelle lacrime che alcuni fratelli mi videro versare in città al tempo della mia ordinazione; e non conoscendo le ragioni del mio dolore mi consolarono, pur con buone intenzioni, con i discorsi di cui furono capaci ma che non avevano nulla a che vedere con la mia ferita. Ma vi ho fatto un'esperienza molto più pesante e più vasta di quello che pensavo; non perché abbia visto dei nuovi flutti o delle tempeste che prima non avessi conosciuto o di cui non avessi sentito parlare o non avessi letto o che non avessi immaginato; bensì perché non sapevo affatto di quali capacità e forze disponessi per evitarle o sopportarle, e perciò le tenevo in qualche conto. Ma il Signore mi ha irriso e ha voluto rivelarmi a me stesso con l'esperienza stessa delle cose.

Improrogabile necessità di studiare la sacra Scrittura.

3. E se ha fatto questo non per condanna ma per misericordia (lo spero infatti fermamente, almeno ora che ho conosciuto la mia infermità), debbo accuratamente ricercare tutti ì rimedi contenuti nelle sue Scritture, e pregando e leggendo fare in modo di ottenere per l'anima mia uno stato di salute adeguato a incombenze così pericolose: cosa che non ho fatto prima anche perché non ne ho avuto il tempo. Infatti fui ordinato proprio quando pensavo di impiegare il tempo libero per conoscere le divine Scritture e volevo regolare le cose mie in modo da avere libertà di attendere a questo lavoro. E in verità non sapevo ancora che cosa mi mancasse per un compito quale è quello che ora mi tormenta e mi consuma. Che se io pertanto ho appreso che cosa sia indispensabile a un uomo che amministra al popolo i Sacramenti e la parola di Dio a contatto con la realtà stessa, cosicché non ho più la possibilità di conseguire ciò che mi sono accorto di non possedere, vuoi dunque ch'io muoia, o padre Valerio? Dov'è la tua carità? Mi ami davvero? Ami davvero la Chiesa stessa di cui hai voluto ch'io fossi ministro in tale stato? Eppure io sono certo che ami tanto me quanto Lei, ma mi giudichi idoneo, mentre io mi conosco meglio; e tuttavia nemmeno io mi conoscerei se non avessi imparato attraverso l'esperienza.

Chiede un po' di tempo per attendere alla preghiera e allo studio.

4. Ma forse la Santità tua obietta: "Vorrei sapere che cosa manca alla tua istruzione". Ma son tante queste cose, che io potrei enumerare quelle che posseggo più facilmente di quelle che desidero possedere. Infatti oserei affermare che so e ritengo con fede piena quello che importa per la nostra salvezza; ma proprio ciò come potrei dispensarlo per la salvezza degli altri, non ricercando quello che è utile a me, ma quello ch'è utile a molti perché si salvino 2? E vi sono forse, anzi non c'è dubbio che si trovino scritte nei Libri sacri delle norme, conoscendo e assimilando le quali un uomo di Dio può attendere più ordinatamente agli affari ecclesiastici o per lo meno vivere con più retta coscienza tra le schiere malvage oppure morire per non perdere quella vita a cui sola sospirano i cuori cristiani umili e mansueti. E come può realizzarsi questo se non, come dice il Signore, chiedendo, cercando, bussando 3; cioè mediante la preghiera, la lettura e le lacrime? A questo scopo io ho voluto impetrare, per mezzo di alcuni fratelli, dalla tua sincerissima e venerabile Carità ed ora voglio impetrarlo con queste preghiere un breve periodo di tempo, ad esempio fino alla Pasqua.

Dio chiederà severo conto al sacerdote privo della scienza sacra.

5. Che potrò infatti rispondere al Signore, mio giudice? "Non potevo più chiedere questo essendo impedito dalle mansioni ecclesiastiche"? Egli però potrebbe dirmi: "Servo cattivo 4, se qualcuno tentasse d'impadronirsi con la frode del podere della chiesa, per la raccolta dei cui frutti si impiega grande alacrità, trascurando il campo che io ho irrigato col mio sangue, forse che tu, se potessi fare qualcosa per esso presso il giudice terreno, non ti affretteresti col consenso di tutti ed anche per ordine e costrizione di qualcuno, e, se venisse pronunziata una sentenza a te sfavorevole, non saresti pronto a recarti anche al di là del mare? E in tal caso nessuna lagnanza si leverebbe a far cessare la tua assenza anche se durasse un anno o ancor più, per ottenere che un altro non possedesse la terra necessaria non al nutrimento dell'anima ma del corpo dei poveri: eppure i miei alberi viventi, se venissero coltivati con diligenza, potrebbero saziare la loro fame in maniera molto più agevole e a me più accetta. Perché dunque adduci come pretesto la mancanza di tempo libero per imparare a coltivare il mio campo?. Dimmi, ti prego, che cosa potrei rispondere? Vuoi forse che io dica: "Il vecchio Valerio, essendo convinto ch'io fossi istruito in tutto, quanto più mi ha amato tanto meno mi ha permesso di imparare queste cose"?

Reiterata istanza.

6. Rivolgi la tua attenzione a tutto questo, venerando Valerio, ti supplico per la bontà e per la severità di Cristo, per la Sua misericordia e per la Sua giustizia, per Colui che t'ispirò tanta carità per me, che neppure per vantaggio dell'anima mia io oserei offenderti. Tu poi mi chiami Dio e Cristo come testimone della purezza d'intenzione, della carità e dell'affetto sincero che nutri nei miei confronti, come se io non potessi farne giuramento davanti a tutti. Perciò io supplico questa stessa tua carità ed affetto perché tu abbia misericordia di me e mi conceda, per lo scopo per cui l'ho richiesto, il periodo di tempo che ho richiesto; e mi soccorra inoltre con le tue preghiere in modo che il mio desiderio non sia vano e la mia assenza non sia infruttuosa per la Chiesa di Cristo e per l'utilità dei miei fratelli e conservi. So che il Signore non disdegna codesta carità se prega per me, soprattutto in una causa di tal genere, ed accettandola come un soave sacrificio mi renderà pronto coi saluberrimi ammaestramenti tratti dalle sue Scritture in un tempo forse più breve di quello che ho chiesto.

 

 

LETTERA 22

Scritta nell'anno 392.

A. ringrazia Aurelio per la premura dimostrata verso la comunità religiosa di Tagaste (n. 1) e per deplorare vizi e disordini vergognosi (n. 2-3), da eliminarsi con decreti conciliari o con l'esempio della Chiesa primaziale usando moderazione nel reprimerli e istruendo i fedeli (n. 4-6); si lamenta poi dell'ambizione e del fariseismo e delle brighe diffuse anche tra il clero (n. 7-8), infine chiede ad Aurelio d'indurre Saturnino a intrattenersi qualche tempo con lui (n. 9).

AGOSTINO PRETE AL VESCOVO AURELIO

A. è grato ad Aurelio per la sua benevolenza verso i suoi frati.

1. 1. Dopo lunga esitazione poiché non riuscivo a trovare adeguate espressioni di riconoscenza per rispondere alla lettera della tua Santità (giacché tutte le superava l'affetto del mio animo che, già spontaneamente prorompente, la lettura della tua lettera ha assai più ardentemente stimolato), mi sono tuttavia affidato a Dio affinché, per quanto lo consentono le mie forze, mi determinasse a rispondere ciò che è conveniente a ciascuno di noi per il servizio del Signore e il ministero ecclesiastico, tenendo conto della tua posizione di superiore e della mia di collaboratore. E in primo luogo, per ciò che concerne il fatto che tu credi di essere aiutato dalle mie preghiere, non solo io non mi sottraggo, ma anzi accetto volentieri. Così infatti nostro Signore mi esaudirà anche se non per le mie, almeno per le tue. Poiché tu hai accolto assai benevolmente il fatto che il fratello Alipio sia rimasto in nostra compagnia per essere d'esempio ai nostri fratelli che desiderano evitare le cure di questo mondo, io ti rendo grazie quali mai a parole potrei riuscire ad esprimere: Iddio ricompensi ciò a vantaggio dell'anima tua. Tutta la comunità dei fratelli, adunque, che ha cominciato a radunarsi presso di noi, è legata a te da un privilegio così grande che tu hai pensato a noi che viviamo in luoghi tanto distanti, come se tu fossi presentissimo in ispirito. Preghiamo quindi con tutte le nostre forze che il Signore si degni di sostenere insieme con te il gregge affidato alle tue cure, e di non abbandonarti in nessun caso, ma di assisterti col suo aiuto nelle necessità dimostrando, nei confronti della sua Chiesa, mediante il tuo ministero sacerdotale, una misericordia 1 quale gli uomini che vivono secondo lo spirito, con lacrime e gemiti lo scongiurano di mostrare.

Vergognose abitudini dei Cristiani africani.

1. 2. Sappi dunque, signore beatissimo e degno di essere venerato con la più perfetta carità, che noi non disperiamo, anzi fortemente speriamo che il Signore e Dio nostro per mezzo dell'autorità connessa alla carica che eserciti, e che confidiamo sia stata impressa non nella tua carne ma nel tuo spirito, e mediante l'autorità suprema dei Concili e quella tua personale, possa guarire le numerose sconcezze carnali e le infermità di cui la chiesa africana soffre in molti suoi membri ma di cui pochi si addolorano. Infatti, sebbene l'Apostolo abbia raccolto in breve in un unico passo i tre generi di vizi che bisogna detestare ed evitare, dai quali nasce una messe di vizi innumerevoli, uno solo di questi, quello che Egli mise al secondo posto, viene punito molto energicamente nella Chiesa; i due rimanenti invece, cioè il primo e l'ultimo, agli uomini sembrano tollerabili, sicché a poco a poco può accadere che non vengano neppure più considerati vizi. Dice infatti il Vaso di elezione: Non tra gozzoviglie ed ubriachezze, non in lussurie e dissolutezza, non in risse e gelosie; rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non abbiate per la carne tutte quelle attenzioni che ne favoriscono le concupiscenze 2.

Banchetti e crapule nelle chiese e nei cimiteri.

1. 3. Di questi tre vizi, dunque, sensualità ed impudicizia vengono considerate un delitto così grave che nessuno, il quale si sia macchiato di tale colpa, appare degno non solo del ministero ecclesiastico ma della stessa partecipazione ai Sacramenti. E con piena ragione. Ma perché questo solo? Le gozzoviglie e le ubriachezze infatti si considerano permesse e lecite al punto che si celebrano persino in onore dei beatissimi martiri, non solo nei giorni solenni (e chi mai non vede che ciò è deplorevole, purché non osservi siffatte cose solo con gli occhi della carne?) ma anche quotidianamente. Se questa bruttura fosse soltanto vergognosa e non anche sacrilega, potremmo considerarla come una prova da sopportarsi con tutte le forze della tolleranza. Per quanto, dove lo mettiamo il passo in cui lo stesso Apostolo, dopo aver enumerato molti vizi - tra cui ha posto l'ubriachezza - concluse dicendo di non mangiare neppure il pane con siffatti individui 3? Ma tolleriamo questo in mezzo al lusso e alla corruzione di una casa privata e di quei conviti che si tengono fra le pareti domestiche e riceviamo pure il Corpo di Cristo insieme a coloro coi quali ci viene inibito di mangiare il pane; ma una vergogna così grande si tenga lontana almeno dai sepolcri dove riposano i corpi dei santi, almeno dai luoghi in cui si amministrano i Sacramenti e dalle case destinate alla preghiera! Chi osa infatti vietare in privato quello che, quando lo si fa pubblicamente nei luoghi santi, viene chiamato culto dei martiri?

Come si debbano estirpare.

1. 4. Se l'Africa per prima cercasse di eliminare siffatti disordini meriterebbe di essere degna d'imitazione da parte di tutti gli altri paesi: e invece noi, mentre nella maggior parte dell'Italia e in tutte o quasi tutte le altre chiese transmarine essi non esistono (in parte perché non si sono mai verificati, in parte perché o, appena sorti o già inveterati, sono stati cancellati ed eliminati, per la diligenza e la condanna da parte di vescovi santi e veramente pensosi della vita futura) ... in qual modo possiamo ancora esitare di correggere un'usanza così abominevole, pur essendoci stato dato un esempio così diffuso? E noi abbiamo altresì un vescovo di quelle parti, e ne ringraziamo grandemente Iddio; per quanto egli è uomo di tale discrezione e mitezza e inoltre di tale prudenza e sollecitudine nel Signore che, quand'anche fosse africano, facilmente lo si persuaderebbe, con argomenti tratti dalle Scritture, della necessità di curare la piaga che una consuetudine licenziosa e frutto di una male intesa libertà ha inferto. Ma il contagio di questo male è tanto grave che - a mio avviso - non lo si potrà pienamente sanare se non con l'autorità d'un concilio. Se però la cura deve essere incominciata da una chiesa, come sembra un atto di audacia cercar di mutare quello che la Chiesa Cartaginese mantiene, così è segno di grande impudenza voler mantenere ciò che la Chiesa Cartaginese ha corretto. E quale altro vescovo si dovrebbe desiderare per questo fine se non colui che da diacono detestava siffatti disordini?

Occorrono provvedimenti moderati e istruzione religiosa.

1. 5. Ma quello che allora si doveva deplorare, ora si deve eliminare, non con durezza ma, come sta scritto, con spirito di dolcezza e mansuetudine 4. Infatti la tua lettera, indizio di sincerissimo affetto, mi dà fiducia sicché io oso parlare con te come con me. Ordunque, non con l'asprezza, per quanto io ritengo, non con la durezza, non con maniere imperiose si eliminano simili cose, ma più ammaestrando che comandando, più ammonendo che minacciando. Giacché con la moltitudine bisogna agire così, la severità invece deve essere usata per i peccati di pochi. E se facciamo qualche minaccia, si faccia con dolore, minacciando la punizione futura secondo le Scritture, affinché non noi siamo temuti per nostra autorità ma Dio per il nostro discorso. Così si scuoteranno dapprima le persone che vivono secondo lo spirito o i più vicini ad esse, in modo che per la loro autorità e i loro rimproveri, fatti invero con grande dolcezza ma anche con grande insistenza, venga piegato il resto della moltitudine.

Come si debbano venerare i martiri e suffragare i defunti.

1. 6. Ma poiché dalla plebe ignorante e che vive secondo la carne codeste ubriachezze e dissoluti conviti nei cimiteri sogliono essere considerati non solo di onore per i martiri ma anche di conforto per i morti, mi pare che si possa più facilmente dissuaderli da una tale sconcezza e turpitudine se la si proibisca basandosi sull'autorità delle Scritture e se le offerte per le anime dei defunti sulle tombe stesse, che bisogna credere portino davvero qualche giovamento, non siano sontuose e vengano fatte a tutti quelli che le chiedono, senza arroganza ed alacremente; però, non si vendano: ma se qualcuno per devozione vorrà offrire denaro, lo eroghi ai poveri all'istante. Così non avranno l'impressione di trascurare le tombe dei loro cari (cosa che potrebbe causare non lieve dolore al loro animo) e nella Chiesa si celebrerà un rito conforme alla pietà e all'onestà. Questo intanto basti riguardo ai bagordi e alle ubriachezze.

Unico rimedio contro l'ambizione e le rivalità ecclesiastiche: l'umiltà.

2. 7. Quanto poi alle rivalità e alle gelosie, che cosa devo dire, dato che codesti vizi sono più gravi non nella plebe ma fra noi? La madre di queste infermità è la superbia e il desiderio smodato della lode degli uomini, che spesso genera anche l'ipocrisia. A questa non si resiste se, ricorrendo a frequenti prove tratte dai Libri Santi, non si ispira il timore e l'amore di Dio: se però colui che lo fa offra se stesso come modello di pazienza e d'umiltà, prendendosi meno di quello che gli viene offerto; ma purtuttavia non accettando interamente l'onore da quelli che glielo rendono e nemmeno rifiutandolo interamente, e a condizione che quel po' di lode o d'onore che si accetta, venga accettato non per lui, che deve vivere interamente al cospetto di Dio e disprezzare le cose umane, ma per coloro ai quali non può essere utile se perde il prestigio abbassandosi troppo. A ciò infatti si riferisce l'espressione: Che nessuno debba disprezzare la tua giovane età 5, poiché l'ha pronunziata Colui che in un altro punto dice: Se volessi piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo 6.

Qual conto e uso fare delle lodi umane.

2. 8. È una gran cosa non compiacersi degli onori e delle lodi degli uomini, ma evitare ogni inutile pompa e, nel caso se ne conservi una parte in quanto necessaria, impiegarla totalmente per il vantaggio e la salvezza di quelli che ci onorano. Giacché non invano è stato detto: Dio spezzerà le ossa di coloro che vogliono piacere agli uomini 7. Che cosa v'è infatti di più debole e così privo di stabilità e robustezza, raffigurate dalle ossa, quanto un uomo che la lingua dei maldicenti riesce ad abbattere, sebbene egli sappia che ciò che si dice è falso? Ma se l'amore della lode non spezzasse le sue ossa, il dolore per questo fatto in nessun modo ne strazierebbe le parti più riposte dell'anima. Ho grande fiducia nella forza del tuo animo; perciò queste cose, di cui parlo con te, le dico a me: tuttavia, credo, vorrai degnarti di considerare con me quanto siano gravose, quanto siano difficili. Infatti le forze di questo nemico non le conosce se non chi gli abbia dichiarato guerra; perché, se è facile per uno vivere senza lode finché gli viene negata, è difficile che non se ne compiaccia quando gli viene offerta. Eppure la nostra mente deve tendere a Dio con tanta forza da correggere quelli che possiamo - se veniamo lodati immeritatamente - affinché non ritengano o che ci sia in noi quello che non c'è o che sia nostro ciò che è di Dio, oppure lodino quello che, sebbene non manchi in noi o ci sia anche in abbondanza, tuttavia non è affatto lodabile, quali sono tutti i beni che abbiamo in comune con le bestie o con i malvagi. E se siamo lodati meritamente per causa di Dio, congratuliamoci con coloro ai quali piace il vero bene; non però con noi per il fatto che piacciamo agli uomini, ma se siamo tali quali ritengono che siamo, e purché questo bene non venga attribuito a noi ma a Dio, di cui sono doni tutte le cose che ottengono una lode conforme alla verità e al merito. Questo ricanto a me stesso ogni giorno, o meglio me lo ricanta Colui dal quale provengono tutti i salutari precetti che o si trovano nei Libri Sacri o vengono suggeriti nel profondo del nostro cuore. E tuttavia, pur combattendo energicamente contro il demonio, spesso ricevo da lui delle ferite, quando non sono capace di allontanare da me il piacere per la lode che mi è data.

A. brama d'intrattenersi col venerando Saturnino.

2. 9. Queste cose ho scritto affinché, se non sono più necessarie alla tua Santità (sia perché di siffatti pensieri ne fai tu stesso in maggior numero e più utili, sia perché questa medicina non è necessaria alla tua Santità), siano però a te noti i miei mali e sappia che cosa tu debba avere la bontà di chiedere a Dio per la mia infermità. Che tu lo faccia con ogni cura io ti supplico per la umanità di Colui che ci ha dato il precetto di aiutarci a vicenda a portare i nostri fardelli 8. Molte sono le cose riguardanti la nostra vita e le nostre abitudini che desidererei deplorare e non vorrei giungessero alla tua conoscenza per lettera, se tra il mio cuore e il tuo vi fossero altri mezzi di comunicazione oltre la mia bocca e le tue orecchie. Ma se il vecchio Saturnino, per noi venerabile e con tutta sincerità a tutti noi carissimo (la cui benevolenza e il cui affetto veramente fraterni nei tuoi confronti io ho potuto constatare quando ero presso di te) si degnerà, quando gli sembrerà opportuno, di venire da noi, qualunque colloquio potremo con spirituale affetto avere con la sua Santità, non vi sarà nessuna o non vi sarà una grande differenza che se lo avessimo con la tua onorevole persona. E ti supplico, con tante preghiere quante le parole non bastano ad esprimere, di degnarti di chiedergli con noi questo favore e di ottenerlo. Infatti gli Ipponesi temono molto, anzi troppo, che io mi assenti per andare in un luogo tanto lontano, e non vogliono in nessun modo fidarsi di me sicché anch'io possa vedere il campo che tramite Partenio, nostro santo fratello e conservo, abbiamo appreso essere stato donato dalla tua previdenza e liberalità ai nostri fratelli, prima ancora di ricevere la tua lettera; da lui abbiamo saputo molte altre cose che desideravamo sapere. Il Signore farà sì che si compiano anche tutte le altre che ancora desideriamo.

 

LETTERA 23

Scritta tra il 391 e il 395.

Esprimendo stima per il vescovo Donatista Massimino, accusato di aver ribattezzato un diacono cattolico, A. lo invita ad una chiarificazione (n. 1-4), invitandolo a pacifiche discussioni per ricomporre l'unità della Chiesa (n. 5-8).

AGOSTINO PRETE DELLA CHIESA CATTOLICA, SALUTA NEL SIGNORE MASSIMINO, SIGNORE DILETTISSIMO E ONORABILE FRATELLO

Titoli di deferenza usati verso il vescovo scismatico.

1. Prima di venire all'argomento, su cui mi sono proposto di scrivere alla tua Benevolenza, renderò conto in breve dell'intestazione di questa lettera, perché non meravigli te o alcun altro. Ho scritto: "Signore" poiché sta scritto: Voi, o fratelli, siete stati chiamati alla libertà; soltanto non usate della libertà come occasione per vivere secondo la carne, ma servitevi l'un l'altro nella carità 1. Poiché dunque persino nell'assolvere il compito di scriverti questa lettera io servo te nella carità, non inopportunamente ti chiamo "signore", a causa dell'unico e vero nostro Signore che ci ha dato questo precetto. Quanto poi all'aver io usato l'espressione Dilettissimo, Dio sa che non solo ti amo, ma ti amo come me stesso, dal momento che ho piena coscienza di desiderare per te i beni che desidero per me. Per quanto poi concerne l'aggiunta Onorabile non l'ho fatta per onorare il tuo episcopato; per me infatti tu non sei vescovo; e non considerare questo come detto ingiuriosamente, ma secondo la disposizione d'animo per cui sulla nostra bocca ci deve essere Sì, sì; no, no 2. Infatti né tu né alcun altro di coloro che ci conoscono, ignora che tu non sei mio vescovo né io tuo prete. "Onorabile" dunque volentieri io ti chiamo secondo il principio per cui io so che tu sei uomo, e so che l'uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio 3 e collocato al posto di onore dallo stesso ordine e dallo stesso diritto naturale, purché, comprendendo quello che dev'essere compreso, sappia conservare il suo onore. Poiché sta scritto: L'uomo collocato al posto d'onore non lo ha compreso, si è messo alla pari dei bruti privi di ragione ed è divenuto simile ad essi 4. Perché dunque non dovrei io chiamarti onorabile in quanto sei uomo, tanto più che io non oso disperare della tua salvezza e della tua emendazione finché sei in questa vita? Di chiamarti fratello poi tu sai che ci è stato prescritto da Dio, sicché noi diciamo: "siete nostri fratelli" anche a coloro che dicono di non essere nostri fratelli. E questo ha gran peso per la causa per cui ho voluto scrivere alla tua Fraternità. Ora infatti, dopo che ho chiarito il motivo per cui ho aperto la lettera in questo modo, ascolta con spirito sommamente pacifico quel che segue.

Ribattezzare è una colpa mostruosa.

2. Esprimendo io nei termini più energici possibili la mia esecrazione per l'abitudine lacrimevole e deplorevole, invalsa nella nostra regione, di individui che, pur gloriandosi del nome di Cristiani, non esitano a ribattezzare altri Cristiani, non mancarono di quelli che parlarono bene di te, affermando che tu non lo facevi. Lo confesso, dapprima non ci credetti. In seguito, considerando che è possibile che il timore di Dio s'impadronisca dell'anima di un uomo che pensi alla vita futura per cui si astenga da un crimine così evidente, ci ho creduto, rallegrandomi che, comportandoti così, tu abbia voluto essere non troppo lontano dalla Chiesa Cattolica. Cercavo appunto l'occasione di parlare con te per eliminare, se fosse possibile, la piccola diversità di vedute che era rimasta tra noi, quand'ecco, pochi giorni or sono, mi è stato riferito che tu avevi ribattezzato un nostro diacono di Mutugenna. Mi sono fortemente addolorato tanto per la miserevole caduta di lui quanto per il tuo inatteso crimine, fratello mio. So infatti quale sia la Chiesa Cattolica. Le genti costituiscono l'eredità di Cristo e il dominio di Cristo si estende fino ai confini della terra 5. Lo sapete anche voi o, se non lo sapete, prestate attenzione: si può molto facilmente comprendere quando si vuole. Orbene, ribattezzare un eretico il quale abbia ricevuto quel carattere di santità, che è stato tramandato dalla dottrina cristiana, è indubbiamente una colpa, ma ribattezzare un cattolico è delitto mostruoso. Tuttavia, non credendo ancora che la cosa stesse così, poiché avevo nei tuoi confronti una buona opinione fermamente radicata in me, mi recai di persona a Mutugenna e, a dire il vero, non riuscii a vedere quello sventurato, ma appresi dai suoi genitori che è già stato fatto anche vostro diacono. E tuttavia io conservo ancora una così buona opinione circa i tuoi sentimenti, da non credere che egli sia stato ribattezzato.

Non si deve agire per rispetto umano.

3. Ti supplico dunque, fratello carissimo, per la divinità e l'umanità di nostro Signore Gesù Cristo, di degnarti di rispondermi chiarendo com'è andata la cosa, e di farlo tenendo conto che voglio leggere pubblicamente in Chiesa la tua lettera ai nostri fratelli. Questo ho voluto scriverti per non offendere la tua carità facendo in seguito quello che non ti saresti atteso che facessi e perché tu non avessi a muovere nei miei confronti giusta lagnanza presso i nostri comuni amici. Non vedo dunque che cosa possa impedirti di rispondermi. Infatti, se ribattezzi, non hai nessuna ragione di temere i tuoi compagni di comunione rispondendomi che fai quello che essi ti ordinerebbero di fare quand'anche tu non volessi. Quando poi, con tutte le prove a tua disposizione, sosterrai che si deve fare, non solo non si sdegneranno, ma anzi ti loderanno. Se invece non ribattezzi, àrmati, fratello mio Massimino, àrmati della libertà che si addice ad un cristiano, te ne supplico; sotto gli occhi di Cristo non temere il biasimo e non paventare la potenza di nessuno. Passano l'onore e il fasto di questo mondo. Nel futuro giudizio di Cristo né i troni posti su alte gradinate né i seggi drappeggiati né le schiere delle vergini consacrate a Dio, che vengono incontro cantando, potranno essere addotti a difesa quando le nostre coscienze cominceranno ad accusarci e l'arbitro delle coscienze a giudicarci. Le cose che qui onorano là ònerano; quelle che qui son di sollievo là sono d'aggravio. Gli onori, che vengono tributati temporaneamente alle nostre persone per utilità della Chiesa, saranno forse giustificati dalla nostra buona coscienza, ma non potranno mai giustificarla se cattiva.

Il carattere indelebile del battesimo.

4. Perciò quello che fai con animo così pio e religioso (se, beninteso, lo fai) di non ripetere il battesimo della Chiesa Cattolica ma anzi di approvarlo come quello dell'unica e verissima Madre, la quale offre il suo seno a tutte le genti che devono essere rigenerate e, dopo averle rigenerate, trasfonde in esse il latte delle sue mammelle, come quello dell'unico possedimento di Cristo che si estende sino ai confini della terra 6, se davvero lo fai, perché non lo proclami con voce libera ed esultante? Perché celi sotto il moggio lo splendore così salutare della tua lucerna 7? Perché, stracciate e gettate via le vecchie pelli della servitù timorosa e rivestito invece della libertà cristiana, non esci fuori e non dichiari: "Io conosco un solo battesimo amministrato ed impresso come sacramento in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quando trovo questa formula devo necessariamente approvarla: io non distruggo ciò che riconosco come appartenente al Signore, non abbatto la bandiera del mio re"? Anche coloro che si divisero la veste di Cristo non la lacerarono 8; eppure essi non credevano ancora che Cristo sarebbe risorto, anzi lo vedevano morente. Se dai persecutori non fu divisa in varie parti la veste di Chi pendeva dalla croce, perché mai da Cristiani viene distrutto il sacramento di Chi è assiso nel cielo? Se io fossi stato un giudeo al tempo dell'antico popolo [di Dio], non potendo essere altro di meglio, avrei senza dubbio ricevuto la circoncisione. Questo simbolo della giustizia della fede 9 ebbe in quel tempo, prima di essere abolito dall'avvento del Signore, un valore così grande che l'Angelo avrebbe soffocato il figlio ancora infante di Mosè, se la madre, afferrata una selce affilata, non avesse circonciso il bambino e con questo sacramento non avesse scongiurato l'imminente sventura 10. Questo medesimo sacramento arrestò il corso del Giordano e lo fece risalire verso la sorgente 11. Questo sacramento il Signore stesso, sebbene lo abbia annullato con la Crocifissione, tuttavia lo ricevette alla sua nascita 12. Infatti quei segni non furono condannati, ma cedettero il posto ad altri, più opportuni, che li sostituivano. Giacché come il primo avvento del Signore abolì la circoncisione, così il secondo avvento abolirà il Battesimo. Come adesso infatti, dopo che è giunta la libertà della fede ed è stato rimosso il giogo della schiavitù, nessun cristiano viene circonciso nella carne, così allora, quando i giusti regneranno col Signore e gli empi saranno stati condannati, nessuno sarà battezzato, ma durerà in eterno ciò che questi due segni sacri prefigurano, cioè la circoncisione del cuore e la purezza della coscienza. Facciamo dunque l'ipotesi ch'io fossi stato un Giudeo di quel tempo e fosse venuto da me un Samaritano e avesse voluto [farsi Giudeo] - dopo aver rinunciato all'errore che anche il Signore ha condannato dicendo: Voi adorate quello che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei 13 - nella ipotesi dunque che un Samaritano, che i Samaritani avevano circonciso, avesse voluto farsi Giudeo, certamente sarebbe mancato il coraggio di effettuare la ripetizione e saremmo stati costretti non a ripetere ma ad approvare ciò che era stato fatto presso degli eretici, poiché Dio lo aveva comandato. Ora, se nella carne di un uomo circonciso non avrei trovato un posto in cui ripetere la circoncisione, poiché quel membro è uno solo, molto meno in un cuore solo è possibile trovare un posto in cui si possa ripetere il battesimo di Cristo. Pertanto voi che volete raddoppiare [il battesimo] è assolutamente necessario che andiate a cercare dei cuori doppi.

I Donatisti lacerano l'unità dei battezzati.

5. Proclama dunque che fai bene se non ribattezzi e rispondimi su questo punto non solo senza trepidazione ma anche con gioia. Nessun conciliabolo dei tuoi ti atterrisca, o fratello. Infatti se questo è loro dispiaciuto, non sono degni di averti [con loro]; se invece è riuscito loro gradito, noi crediamo che per la misericordia del Signore (che non abbandona mai quelli che temono di dispiacergli e cercano di piacergli) presto tra voi e noi ci sarà la pace, affinché non succeda che per colpa delle nostre dignità, carico di cui si deve render un conto pieno di rischi, le misere plebi che credono in Cristo abbiano comuni i cibi nelle loro case e non possano avere comune la mensa di Cristo. Non deploriamo forse il fatto che marito e moglie, per unire i loro corpi con un patto di sicura fedeltà, si fanno per lo più reciproco giuramento nel nome di Cristo e poi, con la diversità di comunione, lacerano il corpo di Cristo stesso? Se per la tua modestia, per la tua prudenza e per l'affetto che dobbiamo a Colui che ha versato il suo sangue per noi, saranno eliminati in queste regioni questo così grave scandalo, questo così grave trionfo del diavolo, questa così grave rovina delle anime, chi potrebbe esprimere a parole quale palma ti prepara il Signore perché da te venga un esempio di medicina tanto degno di imitazione per risanare le altre membra che in tutta l'Africa giacciono miseramente travagliate dalla corruzione? Quanta paura ho che tu pensi ch'io ti parli insultandoti piuttosto che con affetto, dal momento che tu non puoi vedere il mio cuore! Ma senza dubbio non trovo che cosa possa fare di più che presentare a te le mie parole e a Dio il mio animo, affinché vengano giudicati.

Si discuta pacificamente per eliminare lo scisma.

6. Togliamo di mezzo gli inutili rimproveri che le due parti sogliono scagliarsi contro reciprocamente per ignoranza e tu non rinfacciarmi i tempi di Macario come io non ti rinfaccerò la crudeltà dei Circoncellioni. Se questo fatto non ricade su di te, nemmeno l'altro ricade su di me. L'aia del Signore non è ancora stata vagliata : non può essere senza paglia. Noi per parte nostra preghiamo e facciamo quanto è in nostro potere per essere frumento! Io non posso tacere sulla ripetizione del battesimo a un nostro diacono, perché so quanto mi sarebbe pernicioso il silenzio. Infatti non penso di passare il tempo nelle cariche ecclesiastiche soddisfacendo la mia vanità, ma penso che renderò conto al principe di tutti i pastori delle pecore che mi furono affidate. Se per caso non ti facesse piacere che io ti scriva queste cose, tu, fratello, devi perdonare il mio timore. Infatti ho una gran paura che, se taccio e fingo di non sapere, altri ancora vengano da voi ribattezzati. Ho deciso pertanto di trattare questa causa conformemente alle forze e alla capacità che il Signore si degna di concedermi, in modo tale che attraverso le nostre pacifiche discussioni tutti coloro che hanno rapporti con noi comprendano quanto la Chiesa Cattolica si differenzi dalle comunità eretiche o scismatiche e quanto sia necessario stare in guardia contro il flagello sia delle zizzanie che dei sarmenti recisi dalla vite del Signore. Se accetterai di buon grado questa discussione con me con l'intesa che, con pieno accordo tra noi, le lettere di entrambi vengano lette al popolo, esulterò d'ineffabile letizia; ma se non lo accetti serenamente, che potrò fare, fratello, se non leggere al popolo cattolico le nostre lettere anche contro la tua volontà, affinché possa essere più istruito? Se poi non ti degnerai di rispondermi, ho deciso di leggere almeno la mia, affinché, se non è possibile altrimenti, si vergognino di farsi ribattezzare, una volta conosciuta la scarsa fiducia che voi avete della vostra causa.

 

LETTERA 24

Scritta prima dell'inverno dell'anno 394.

S. Paolino scrive al vescovo Alipio d'aver ricevuto una sua lettera piena di carità ed affetto cristiano (n. 1), insieme con le cinque opere di S. Agostino contro i Manichei, scusandosi del ritardo nell'inviargli la Storia universale di Eusebio di Cesarea (n. 2-3); esprime il vivo desiderio di conoscere meglio la vita di lui e soprattutto i suoi rapporti col vescovo Ambrogio di Milano mentre gli dà qualche notizia sulla propria vita (n. 4); gli chiede infine preghiere e corrispondenza epistolare inviandogli un pane in segno di comunione (n. 5-6).

PAOLINO E TERASIA PECCATORI AL MERITATAMENTE ONOREVOLE SIGNORE E BEATISSIMO PADRE ALIPIO

La carità soprannaturale, origine di ogni bene e di gioia

1. È vera carità, è perfetto amore quello che hai mostrato di nutrire in te nei confronti delle nostre umili persone, o signore veramente santo e meritamente beatissimo ed amabile. Infatti tramite il nostro domestico Giuliano, di ritorno da Cartagine, abbiamo ricevuto una lettera che ci arrecava una così chiara prova della tua Santità, che ci pareva non di ricevere un primo segno bensì la conferma della tua carità; poiché davvero questa carità è emanazione di Colui che dall'origine del mondo ci ha predestinati a Sé 1, nel quale siamo stati creati prima di essere nati, giacché Lui ci ha fatti e non noi stessi 2, Lui che ha fatto le cose che sono destinate ad essere. Pertanto, plasmati dalla prescienza e dall'opera di Lui in conformità di propositi e nell'unità della fede, ovvero nella fede dell'unità, siamo stati uniti dalla carità che precede la conoscenza, così da conoscerci vicendevolmente per rivelazione dello spirito prima di esserci visti col corpo. Perciò ci felicitiamo e ci gloriamo nel Signore, che, solo ed identico in ogni parte della terra, suscita in coloro che gli appartengono il suo amore per opera dello Spirito Santo che ha riversato su ogni uomo 3, colmando di letizia con le impetuose correnti del fiume la propria città 4. Tra i cui cittadini egli ha meritamente collocato te come principe tra i principi del suo popolo 5 su di un seggio apostolico, ed anche noi (che, caduti, ha rialzato e, mendichi, ha sollevato da terra) ha voluto fossimo annoverati nella vostra condizione. Ma ci rallegriamo maggiormente per questo dono del Signore: che ci ha posti ad abitare nel tuo cuore e si è degnato di farci penetrare così profondamente nelle tue viscere, che noi possiamo osare di contare con particolare fiducia sulla tua carità, dopo essere stati spinti a rivaleggiare con te da tali prove di affetto e da tali servigi, che non ci è possibile amarti con diffidenza o superficialmente.

Le opere di A. contro i Manichei.

2. Abbiamo infatti ricevuto un segno particolare del tuo affetto e della tua sollecitudine, l'opera di un uomo santo e perfetto in Cristo Signore, il nostro fratello Agostino, composta in cinque libri, per la quale proviamo tanta ammirazione e rispetto, da considerare le sue parole dettate da Dio. Perciò, confidando nella tua venerabile e fraterna carità per noi, abbiamo osato scrivere anche a lui mentre abbiamo fiducia che per mezzo tuo verremo scusati per la nostra imperizia e raccomandati alla sua Carità, così come a tutti i santi, con i cui saluti, benché essi siano lontani, ti sei degnato di allietarci, pronto senza dubbio a ricambiarli per parte nostra, accompagnati dal nostro ossequio, ai collaboratori della tua Santità nelle funzioni ecclesiastiche e a coloro che nei monasteri cercano di emulare la tua fede e la tua virtù. Infatti, sebbene tu viva fra le genti e sovrintendendo al popolo [di Dio], guidando con sollecite cure come vigile pastore le pecore del gregge del Signore 6, tuttavia, rinunciando al mondo e respingendo le sollecitazioni della carne e del sangue, ti sei creato tu stesso un deserto, separato dai molti e eletto fra i pochi.

La Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea.

3. Per parte mia, come dono che ricambi almeno parzialmente il tuo, sebbene io sia in tutto inferiore a te, ti ho procurato, come tu mi avevi ingiunto, la famosa Storia Universale di Eusebio, venerabile vescovo di Costantinopoli. Ma c'è stato un ritardo nell'esecuzione dell'ordine per il fatto che, non possedendo io questa opera, secondo le tue istruzioni l'ho dovuta rintracciare a Roma presso il nostro veramente santissimo parente Domnione, il quale senza dubbio nel rendermi questo servigio mi ha ubbidito più prontamente avendogli io rivelato che doveva essere mandata a te. In ogni modo, poiché ti sei compiaciuto di comunicarmi anche i luoghi in cui potevi trovarti, secondo quanto tu stesso mi hai consigliato ho scritto al padre nostro Aurelio, tuo venerabile collega nell'episcopato, in modo che, se tu attualmente ti trovi ad Ippona, egli abbia la cortesia d'inviarti costà la nostra lettera e il manoscritto dopo averlo fatto trascrivere a Cartagine. Ed abbiamo anche pregato Comite ed Evodio, i santi uomini che abbiamo conosciuto attraverso le tue parole rivelatrici della loro carità, di prendersi cura di scrivergli questo affinché il nostro parente Domnione non rimanesse troppo tempo privo del suo codice e quello a te trasmesso potesse restare a tua disposizione senza necessità di restituirlo.

Rapporti con Ambrogio, vescovo di Milano.

4. E, poiché hai voluto colmare con grandi dimostrazioni d'affetto da parte tua me che non le meritavo e non me le aspettavo, io ti chiedo in maniera particolare questo: che, in cambio di questa Storia Universale, tu mi racconti tutta la storia della Santità tua, in modo da spiegarmi minutamente da quale famiglia e in quale casa 7 tu abbia avuto i natali e sia stato chiamato da un così potente Signore e come, prescelto fin dal seno di tua madre e dopo aver rinnegato la famiglia della carne e del sangue, tu sia inizialmente passato alla madre dei figli di Dio, che si allieta della sua prole, e sia stato chiamato a far parte della famiglia di coloro che sono insigniti della dignità regale dei sacerdozio 8. Confesso infatti che vorrei conoscere accuratamente quello a cui tu hai accennato, cioè di aver sentito il nome della mia umile persona a Milano, allorché ricevevi colà la prima iniziazione [al Cristianesimo], per conoscerti interamente, per rallegrarmi maggiormente se tu sei stato chiamato alla fede o consacrato al sacerdozio dal nostro padre Ambrogio, al quale io debbo particolare venerazione, per cui pare che colui che ci ha chiamati alla vita sia identico per entrambi. Infatti io pur essendo stato battezzato a Bordeaux da Delfino e consacrato [sacerdote] a Barcellona in Spagna da Lampio per la costrizione fattagli dal popolo improvvisamente infiammato, tuttavia sono stato sempre nutrito nella fede ed ora sono sostenuto nell'ordine sacerdotale dall'amore di Ambrogio. Egli infine ha voluto rivendicare la mia appartenenza al suo clero, cosicché, pur vivendo in luoghi diversi, sono considerato un suo prete.

Desidera l'aiuto della preghiera e della corrispondenza epistolare.

5. Ma perché tu nulla ignori di me, sappi che questo vecchio peccatore, da non molto tempo tratto dalle tenebre e dall'ombra della morte 9, ha cominciato a respirare il soffio dell'aura vitale e da non molto tempo ha messo mano all'aratro 10 ed ha preso su di sé la croce del Signore: possano le tue preghiere aiutarciaffinché abbiamo la forza di portarla fino alla fine. Ai premi che ti sei meritato si aggiungerà anche questo se col tuo intervento avrai alleviato i nostri pesi. Infatti il santo che aiuta colui che soffre (non osiamo dire fratello) sarà esaltato come una grande città 11. E tu invero sei la città edificata sul monte o la lucerna accesa sul candelabro 12, che brilla nello splendore della luce settiforme; noi siamo, per così dire, nascosti sotto il moggio dei nostri peccati. Visitaci con le tue lettere e portaci nella luce in cui tu ti trovi a brillare agli occhi di tutti sugli aurei candelabri. Le tue parole saranno luce per il nostro cammino 13, e il nostro capo sarà unto dall'olio 14 della tua lucerna. E si accenderà la nostra fede quando dal soffio della tua bocca avremo attinto il cibo della mente e la luce dell'anima.

Invia un pane, simbolo d'unione.

6. La pace e la grazia di Dio siano con te e ti sia conservata in quel giorno la corona di giustizia, o signore e padre meritamente dilettissimo, venerabile e ardentemente desiderato. Ti preghiamo di salutare con grande affetto ed ossequio i benedetti compagni ed imitatori della Santità tua e nostri fratelli nel Signore (se lo permettono) che a Cartagine, a Tagaste, a Ippona e in tutte le tue parrocchie e in tutti i luoghi dell'Africa da te conosciuti servono il Signore nella fede cattolica. Se riceverai il manoscritto stesso appartenente al santo Domnione, avrai la bontà di rimandarcelo una volta trascritto. Ti prego di scrivermi quale mio inno tu abbia conosciuto. Per testimoniare la nostra unione abbiamo mandato alla tua Santità un pane in cui è simboleggiata l'unità della Trinità. Se ti degnerai d'accettarlo, farai di questo pane una eulogia.

 

LETTERA 25

Scritta nello stesso tempo (c. 394).

S. Paolino di Nola fa grandi elogi ad A. per i cinque libri in difesa della fede Cristiana contro i Manichei, libri da lui chiamati "Pentateuco", ricevuti per il tramite di Alipio e chiede altre eventuali opere contro le eresie (n. 1-2); lo supplica di essere sua guida e suo maestro nell'ascesa cristiana, iniziata tardi, nel praticare la quale egli è ancora molto imperfetto (n. 3-4). Gli invia un pane in segno di concordia (n. 5).

PAOLINO E TERASIA PECCATORI AD AGOSTINO, SIGNORE E FRATELLO VENERABILE, COL QUALE SONO UNITI IN COMUNIONE DI SPIRITO

Il "Pentateuco" di A. contro i Manichei

1. La stessa carità di Cristo, che ci incalza 1 e pur lontani ci unisce mediante l'unità della fede, mi ha dato il coraggio di scriverti mettendo da parte il pudore e ti ha profondamente impresso nel mio cuore attraverso l'opera tua che, ricca dei tesori della cultura e della dolcezza che proviene dal miele celeste, tengo attualmente come medicina e nutrimento dell'anima nei cinque libri che per dono del nostro Alipio, benedetto e venerabile vescovo, abbiamo ricevuto non per la nostra istruzione soltanto, ma anche per l'utilità della Chiesa di molte città. Questi libri dunque io ho attualmente a disposizione per la lettura, di essi mi delizio, da essi traggo il mio cibo, non quello che perisce 2, ma quello che dà la garanzia della vita eterna mediante la nostra fede, per la quale veniamo a far parte del corpo di Gesù Cristo nostro Signore: giacché la nostra fede che, trascurando le cose visibili, anela a quelle invisibili 3, mediante la carità (che tutto crede 4 conforme alla verità di Dio Onnipotente) è corroborata dagli scritti e dagli esempi dei fedeli. O vero sale della terra 5, dal quale i nostri cuori vengono premuniti contro la corruzione, affinché, pur vivendo a contatto con gli errori di questo mondo, non possano abbandonarsi alla dissipazione! O lucerna degnamente posta sopra il candelabro 6 della Chiesa che ampiamente effondendo sulle città cattoliche la luce alimentata dall'olio letificante della settiforme lampada, dissipi (per quanto dense esse siano) le tenebre degli eretici e con lo splendore della tua parola chiarificatrice fai brillare la luce della verità dalla confusione delle tenebre!

Chiede altre opere di A. contro le eresie.

2. Tu vedi, o fratello che formi con me un'anima sola, ammirabile ed amabile in Cristo Signore, quanto intimamente io ti conosca, con quanto stupore ed ammirazione io ti consideri, di quanto affetto ti circondi io che ogni giorno godo del colloquio coi tuoi scritti e mi pasco del soffio di spiritualità che esce dalla tua bocca. Giacché a buon diritto io potrei dire che la tua bocca è un canale d'acqua viva ed una vena della sorgente eterna, poiché Cristo è diventato in te una sorgente d'acqua zampillante per la vita eterna 7. Per il cui desiderio l'anima mia ha sete di te 8, e la mia terra brama d'essere inebriata dall'abbondanza del tuo fiume 9. Perciò, dopo avermi con questo tuo Pentateuco sufficientemente armato contro i Manichei, se hai preparato qualche difesa anche contro gli altri nemici della fede cattolica (poiché il nostro nemico, che ha mille astuzie per nuocerci 10, dev'essere vinto con armi tanto varie quanto lo sono le insidie con cui ci assale) non rifiutarti ti prego, di trarle fuori per me dal tuo arsenale e di fornirmele come armi di giustizia. Sono infatti un peccatore, ancora adesso travagliato sotto un grave carico, veterano nel numero dei peccatori ma fresco coscritto nella spirituale milizia dell'eterno re. Finora io, infelice, ho ammirato la sapienza del mondo, ed a causa di questi inutili studi letterari e di questa falsa saggezza sono stato stolto 11 e muto per quanto riguarda Dio. Ma dopo essere invecchiato fra i miei nemici 12 ed aver vaneggiato nei miei ragionamenti 13, ho alzato i miei occhi ai monti 14, guardando ai precetti della legge e ai doni della Grazia, donde m'è giunto l'aiuto da parte del Signore il quale, non retribuendomi secondo le mie iniquità 15, ha illuminato la mia cecità, ha sciolto le mie catene 16, ha umiliato la mia malvagia superbia, per innalzarmi dopo avermi santamente umiliato.

Supplica A. di essere la sua guida spirituale.

3. Seguo pertanto con passi ancora ineguali le grandi orme dei giusti per vedere se possa raggiungere coll'aiuto delle vostre preghiere la meta cui sono destinato per la misericordia di Dio che mi ha chiamato a sé. Sorreggi dunque questo fanciulletto che striscia ancora per terra e insegnagli a camminare seguendo i tuoi passi. Non voglio infatti che tu giudichi la mia età dalla nascita del mio corpo anziché da quella del mio spirito. Giacché la mia età secondo la carne è ormai quella che aveva colui che fu risanato dagli Apostoli presso la porta "Bella" 17 in virtù della parola divina. Ma quanto alla nascita spirituale ho ancora l'età di quegl'Infanti che, immolati dalle spade dirette a colpire Cristo 18, col loro degno sangue anticiparono la vittima dell'Agnello e furono presagio della passione del Signore. Pertanto educa con le tue parole me che, come un bambino ancora infante per quanto riguarda la parola di Dio e lattante per la vita spirituale, ardentemente anelo alle mammelle della fede, della sapienza e della carità. Se consideri il nostro comune ministero, tu sei mio fratello; se [invece consideri] la maturità del tuo spirito e della tua intelligenza tu sei mio padre (anche se forse sei più giovane di età) poiché una veneranda saggezza ti ha elevato pur giovane ad una piena maturità di meriti e all'onore che è proprio degli anziani. Nutri dunque e fortifica nelle sacre Lettere e negli studi spirituali me che da poco tempo, come ho detto, mi ci dedico, e perciò, dopo lunghi pericoli e molti naufragi, privo di esperienza a fatica emergo dai flutti di questo mondo: tu, che stai già saldamente sulla terraferma, accoglimi nel tuo grembo sicuro affinché, se me ne ritieni degno, possiamo navigare insieme nel porto della salvezza. Intanto, mentre cerco di sfuggire ai pericoli di questa vita e all'abisso dei peccati, sostienimi con le tue preghiere come su d'una tavola affinché, spoglio di tutto, possa scampare da questo mondo come da un naufragio.

Desiderio di perfezione.

4. Infatti proprio per questo ho avuto cura di spogliarmi dei carichi e degli abiti che mi aggravavano: per potere cioè, libero da ogni rivestimento carnale e da ogni preoccupazione per il domani 19, secondo l'ordine e l'aiuto di Cristo, salvarmi nuotando al di sopra di questo mare tempestoso che ci separa da Lui a causa dei peccati che latrano tra noi e Dio. Né io mi glorio di aver condotto a termine questo disegno; giacché anche se potessi gloriarmene, lo farei nel Signore 20 cui appartiene di condurre a compimento quello che è alla nostra portata di volere 21; ma la mia anima ancora brama desiderare i precetti di Dio 22. Vedi dunque quando potrà realizzare la volontà di Dio colui che ancora desidera [avere] lo stesso desiderio. Tuttavia, per quanto sta in me, io ho amato lo splendore della casa santa 23 e, per quanto fu in me, io avevo scelto d'essere all'ultimo posto nella casa del Signore 24. Ma a Quello stesso, cui piacque di prescegliermi fin dal seno di mia madre 25 e di trarmi alla Sua grazia distogliendomi dagli affetti della carne e del sangue, è piaciuto sollevare dalla terra 26 e dall'abisso della miseria e trarre fuori dal fango dell'impurità me 27, sebbene privo di ogni merito, per collocarmi tra i principi del suo popolo 28 e mettermi a parte della tua sorte, in modo che, associato a te per dignità, fossi messo sullo stesso tuo piano, per quanto tu sia superiore per meriti.

Invia un pane in segno di cristiana concordia.

5. Non dunque per mia presunzione, ma poiché così è piaciuto a Dio nei suoi provvidenziali disegni, rivendicando per me il vincolo della tua fratellanza io mi ritengo degno d'un onore così grande, sebbene non lo sia; perché so con certezza che tu, data la tua santità, non hai un concetto superbo di te, ma ti adatti agli umili 29: e questa è sapienza unita a verità. E perciò spero che accetterai prontamente e dal profondo del cuore l'affetto nutrito per te dalla nostra umile persona, affetto che in verità confido che tu abbia già accettato tramite il beatissimo vescovo Alipio, nostro padre, poiché di tanto ci degna. Giacché Egli ti ha dato indubbiamente nella sua persona l'esempio di un amore per noi anteriore alla conoscenza diretta e superiore ai nostri meriti; lui che, per lo spirito della vera carità, che dovunque penetra e si effonde, ha potuto vedere mediante l'affetto e raggiungere con le sue parole noi a lui sconosciuti e divisi da un così grande tratto di terra e di mare. Egli, attraverso il prezioso dono dei libri, di cui sopra ho parlato, ci ha dato la prima prova del suo affetto e il primo pegno della tua carità. E crediamo che, con uno zelo pari a quello con cui s'è adoperato in modo che noi non potessimo amare fiaccamente la tua Santità (conosciuta non soltanto attraverso le sue stesse parole ma più pienamente attraverso la tua eloquenza e la tua fede), egli si sia adoperato perché tu ci ami a tua volta moltissimo a somiglianza di lui. Ci auguriamo che la grazia di Dio rimanga per sempre con te come ora, o fratello unanime in Cristo Signore, venerabile ed amatissimo: salutiamo con affetto unanime, ardentissimo e fraterno tutta la tua casa e ogni cooperatore ed imitatore nel Signore della tua santità. Ti preghiamo di benedire accettandolo un pane che abbiamo mandato alla tua Carità come segno di unità di spirito.

 

LETTERA 26

Scritta nel 394.

A. esorta il nobile e istruito giovane Licenzio, già suo discepolo, a seguire la sapienza e a disprezzare il mondo (n. 1-2). A questo punto gli editori inseriscono un poemetto di Licenzio col quale questi invoca l'aiuto di A. nelle difficoltà dei suoi studi e gli chiede i libri De musica (n. 3). A., prendendo spunto dai versi di Licenzio, gli rimprovera la vita disordinata e lo scongiura di far servire a Dio e non alle passioni il brillante ingegno, ricordandogli che la verità è Cristo, il cui giogo è soave (n. 4-6).

AGOSTINO A LICENZIO

A. risponde, pur essendo molto occupato.

1. Ho a stento trovato il momento per scriverti: chi lo crederebbe? Ma tuttavia bisogna che Licenzio mi creda. Non voglio che tu ricerchi cause e motivi che, anche se sarebbe possibile addurli, io non debbo alla fiducia che hai in me, per la quale tu mi credi. Infatti anche la tua lettera non l'ho ricevuta tramite persone per mezzo delle quali potessi mandarti risposta. Quanto a quello che mi hai pregato di chiedere, mi sono occupato, in una lettera, di tutto ciò che mi pareva opportuno esporre; ma che cosa abbia ottenuto lo vedrai tu. E se non si è ancora ottenuto nulla, tornerò alla carica con maggiore energia quando lo saprò o quando tu mi avviserai di nuovo. Ma basti ciò che ho detto fin qui per quanto riguarda le catene di questa vita che ci fanno udire il loro continuo strepito; ora ascolta in poche parole la penosa inquietudine del mio cuore riguardo alla speranza non fuggevole ch'io ho concepito di te, in che modo ti si possa aprire la via verso Dio.

I legami della sapienza e quelli delle passioni.

2. Io temo, o mio Licenzio, che tu, che respingi ostinatamente e temi i vincoli della sapienza, sia inceppato con grande forza e danno tuo dalle cose mortali. La sapienza infatti coloro che in un primo tempo avrà avvinti e domati con certe fatiche fatte a scopo di esercizio, in seguito li scioglierà e, una volta che siano stati liberati, si dona loro in godimento; e quelli che prima avrà educati con vincoli temporanei poi avvincerà con amplessi eterni; vincolo di cui non si può immaginare nulla di più piacevole né di più saldo. I primi legami riconosco che sono un po' duri: ma gli ultimi non li potrei dire né duri, perché sono dolcissimi, né deboli perché sono saldissimi. Che cosa [sono] dunque se non ciò che non si può esprimere ma tuttavia si può credere e sperare ed amare? I vincoli di questo mondo hanno in sé un'asprezza vera, una dolcezza falsa; un dolore certo, una voluttà incerta; un duro travaglio, una quiete timorosa; una realtà piena di miseria, una speranza vuota di beatitudine. E in questi tu introduci e collo e mani e piedi, quando brami di sottoporti al giogo di onori siffatti e ritieni le tue azioni non altrimenti fruttuose e desideri stare dove non saresti dovuto andare, non solo se fossi stato invitato, ma neppure se fossi stato costretto? A questo punto tu forse mi darai la risposta del servo di Terenzio: Olà, tu qui spargi parole da sapiente? 1 Accoglile dunque, in modo che io le sparga anziché disperderle. In caso contrario, se io canto ma tu balli seguendo un'altra voce, neppure in questo caso io mi pento. Giacché una canzone ha in sé una sua piacevolezza anche quando non regola su di esso i suoi movimenti colui per il quale si canta con una modulazione piena di affetto. Nella tua lettera non mi sono piaciute alcune espressioni, ma ho ritenuto inopportuno trattarne quando mi tormenta il pensiero delle tue azioni e di tutta la tua vita.

VERSI DI LICENZIO AD AGOSTINO

Versi di Licenzio ad A., suo maestro.

3. "Mentre cerco d'indovinare la via misteriosa e profonda seguita da Varrone (1- bis), la mente si smarrisce e rifugge atterrita dalla luce che la colpisce. Non c'è da stupirsi; vana riesce l'applicazione e la cura che impiego nel leggere, dal momento che tu non sei qui a darmi una mano e il mio spirito ha paura di elevarsi da solo. Appena il tuo affetto mi consigliò di svolgere e leggere le oscure e concise esposizioni d'un autore sì grande e a penetrare i significati misteriosi ch'egli assegnò all'armonia dei numeri ed espose che il cosmo modula dei suoni in onore del Tonante e mette in moto i movimenti regolari degli astri, il mio cuore fu avvolto da una tenebrosa caligine e l'aspra difficoltà degli argomenti riversò una specie di nebbia nell'animo mio. Cerco quindi come insensato le forme essenziali delle cose descritte senza l'aiuto della geometria e incappo in altre tenebre ancora più dense, cioè il problema riguardante l'origine degli astri e le loro luminose rivoluzioni, di cui quel grande mostra il sito in mezzo alle nuvole.

In tal modo col mio passo vacillante caddi tanto in basso come non sarebbe caduto né colui che ci proibisce di conoscere i segreti del cielo né chi giace in fondo alle caverne dei morti. Proteo, come raccontano le antiche favole dei Greci 2, quando non vuole svelare il futuro a coloro che ne sono ansiosi, si trasforma in cinghiale pieno di bava o in acqua corrente o in leone ruggente o in serpente sibilante: ma a me che sono angosciato per angustie molto più gravi, che cerco per il mio spirito tutto quello che v'è d'attraente, ogni specie di dolce alimento, a me rimangono nascosti i segreti di Varrone. A chi potrei chiedere aiuto coi miei versi di supplice? A quale ninfa o a qual fiume potrei chiedere soccorso? Non dovrei forse invocare te, che il Signore del luminoso Olimpo ha preposto alle sorgenti, cui possono attingere i giovinetti, e ha ordinato di spandere fuori dell'animo che n'è pieno i fiumi nascosti?

Accorri immediatamente in mio aiuto, mio caro maestro, non abbandonare le mie forze vacillanti, ma comincia a rivoltare con me queste sacre zolle poiché, se le umane vicende non mi ingannano, il tempo trapassa e ci trascina verso la vecchiaia. Il nostro Apollo riempie il tuo cuore e ti rende propizio il proprio Padre (ch'è anche il padre degli dèi) e ti mostra la giusta legge e la pace armata e, rimovendo il velame, ti scopre [il segreto di] ogni cosa. Avevi infatti forse compiuto venti volte il lungo giro del sole, allorché fosti affascinato dalla conoscenza teoretica dell'universo, che vale più della potenza ed è più dolce d'ogni nettare; essa diede un orientamento preciso al tuo animo esitante e ti pose nel centro da cui potessi rivolger lo sguardo su tutte le cose. Tu dunque, o valente maestro, avanza pure con gli anni arrivando a fastigi ognora nuovi nella proporzione in cui la sapienza tanto più cresce quanto più si ama; avanza per la strada per cui ti guida il magnifico figlio di Giove tonante appianando tutti gli ostacoli 3.E quando [l'ultima] sera [della vita] avrà trasferito il tuo spirito nell'aurora [sempre] luminosa e avrà benedetto il santo fulgore, ricordati di me. Voi però che applicate l'avido orecchio 4 alle leggi eterne, battetevi [allora] il petto con le avide mani, prosternatevi a terra, scoppiate in giuste lacrime, ma tenetevi lontani da tutto ciò che è empio 5, la legge di Dio è uguale per tutti: ce lo ricorda il sacerdote, ci atterriscono i fulmini futuri 6. Oh se l'aurora ancora una volta con le sue ruote apportatrici di gioia mi riportasse i giorni passati che trascorremmo nel centro dell'Italia su per gli alti monti 7 anelando insieme con te alle occupazioni dello spirito e alle immacolate leggi dei buoni! Oh, allora né i rigori del freddo coi loro bianchi ghiacci, né la furiosa tempesta degli Zèffiri, né le raffiche della Bora mi tratterrebbero dal calcare le tue orme con passi solleciti. Basta che tu me lo ordini; anche se mi dovessi bagnare di sangue le membra, arriverò fino ai Neuri [Sciti] durante il solstizio, seguirò il corso dell'Istro nel cuor dell'inverno e l'ignoto Garamante 8 spezzerà i vincoli che mi legano alla mia gente. [Verrò dove] il fiume Ipani, fuggendo i laghi di Sampe, risuona spumeggiante sino alle spiagge scitiche dei Callipidi. Andrò fìno alla regione dei Leuci che si estende fino all'oriente. Per seguire i tuoi consigli mi recherò nell'altopiano deserto del vasto Casso, i cui dirupi eguagliano quelli di Epidamno, e del quale potrei contemplare la placida aurora e i cavalli del sole sciolti dal cocchio e il giorno assopito nel mezzo della notte, poiché non mi atterrisce alcuna fatica né alcuna paura, dal momento che Dio ascolta le preghiere innalzate dagl'innocenti con schiettezza di cuore.

Fin d'ora lascerei le dimore, gli orgogliosi palazzi dei Romani, le loro case echeggianti di grida gioiose e di vano trambusto e verrei una volta per sempre e senza riserve nel tuo cuore, se non mi trattenessero dal partire i preparativi per il matrimonio. O dotto maestro credi ai miei guai e al mio sincero dolore: senza di te le vele non m'assicurano alcun porto e io vado errando lontano per il mare tempestoso della vita. I nocchieri che abbatte il furioso vento del Sud e le raffiche mugghianti dell'Euro, son fatti precipitare come avvolti in dense nebbie e dal turbine vengono privati dei piloti 9: ben tosto vengono sbattuti qua e là, miserelli, dai marosi scatenati: non il ponte o la prua, non le vele possono oltre resistere alle procelle e il pilota non sa più guidare, stordito com'è ed abbattuto 10. Allo stesso modo sono anch'io sballottato dal vento e travolto dalla bufera delle passioni nel mare che apporta la morte, né alcuna terra si presenta subito in mio aiuto.Io però, mio caro maestro, ben considerando le tue schiette parole son convinto che occorre crederti quando tu parli: [è vero], nelle cose umane risiede malizia ed inganno: esse tendono reti all'anima nostra. Io, d'altronde, dimentico dei giorni passati, volgo lo sguardo solo al presente; adesso io, mio caro maestro, sono cancellato dall'animo tuo 11. Ahimè, in qual luogo andare, d'onde aprirti - come vorrei - il mio cuore? Ma le palombe cercheranno per il loro amore un asilo sotto l'Egeo e gli alcioni, cambiando abitudine, costruiranno i loro nidi sugli alberi; la leonessa, sebbene affamata, nutrirà i vitelli che la seguiranno senza paura; la lupa da lungo tempo digiuna allatterà gli agnelli, e i buoi, lasciando le regioni del mondo loro assegnato, andranno a pascolare tra i Barcei e i sauri nell'Ircania; il giorno, interrompendo il suo corso perché sbigottito da un nuovo banchetto di Tieste, tornerà indietro verso l'Oriente 12 e svanirà; le piogge daranno origine al Nilo, i daini voleranno nel cielo, i monti canteranno e i fiumi applaudiranno prima ch'io mi ponga dietro le spalle i tuoi doni, o mio maestro.

Me lo impedisce il comune amore per l'onestà che ci tiene uniti. È qui che regna l'amicizia nella sua bellezza dopo che sia stato messo in fuga il nemico. Poiché non per mezzo delle ricchezze fragili come il vetro né dell'oro ch'è fomite di discordia i nostri cuori si sono stretti in amichevole affetto; ad unirci non è stata la cieca sorte, che nelle difficoltà separa la gente comune, ma è stata la difficile ricerca dei segreti da te scoperti nella tua anima e pubblicati nei tuoi libri, è stata la nobile dottrina da te insegnata e le valide esposizioni contro le opinioni [errate].

Quantunque poi la mia mente sia presa da sgomento al considerare da presso l'altezza della tua personalità e si nasconda il volto nel trattare futili argomenti, tuttavia il nostro vincolo spirituale, il nostro ideale legame non potrebbe né romperlo né impedirlo minimamente, data la sua saldezza, neppure colui che infranse [la barriera delle] Alpi 13, malgrado le rocce delle loro vette, e pose l'assedio fin sotto le mura delle città italiche.

Voi, acque dell'Osso, correte lontano, ribollendo attraverso gole, a separare con la vostra larga corrente i monti Rifei dagli Arenfei o le città del Caspio dalle case dei Cimmèri; le regioni dei Meoti, cui bagna l'Ellesponto, allarghino pure la linea di separazione tra l'Europa e l'Asia. Non è forse vero che Dodona, la quale stimola armenti di buoi su entrambi i fianchi, separa i Molossi dalla regione di Talaro e gli Arabi loro consanguinei? Neppure durò il patto d'amicizia e di pace stabilito tra gli abitanti di Sidone e il regno dei Pelopei e i sacrileghi Frigi, sebbene nelle varie occasioni fosse stato asilo comune per tutti. Perché infine dovrei cantare la discordia e le lotte dei fratelli e le busse date a ragione dai genitori, le escandescenze delle madri e l'orgoglio di figli?

Perfino tra gli dèi c'è un'armonia discorde e nascono tante usanze quante sono le leggi e le opinioni né tutti sono uniti da un unico amore. Anche se Borea mi desse cento fragori e altrettanti soffi, anche se la lingua [divenuta] dura come l'acciaio potesse emettere suoni cupi attraverso cento bocche, non sarei in grado di ricordare la quantità di luoghi che la Natura ai suoi primordi aveva unito e poi separò, che la ghiaia sottrasse al mondo rotondo. Lascio da parte il fatto che noi siamo oriundi di una stessa città, congiunti per lo stesso sangue di generazioni, legati dalla stessa fede Cristiana; cionondimeno noi siamo divisi da uno spazio immenso, un vasto tratto di mare si frappone tra noi tenendoci lontani l'un dall'altro; ma l'amore sfida ogni ostacolo. L'amore non dà importanza alla gioia derivante dalla vista dell'amico e perciò ne gode anche s'egli è assente, poiché nasce dalle profondità del cuore e vede la sua sorgente nelle più riposte fibre del cuore.

Nel frattempo riceverò tutti i tuoi scritti ripieni di nobili consigli e di salutari argomenti, paragonabili anch'essi ai primi per la loro dolcezza; argomenti che tu, dopo averli meditati con mente profonda, hai dati alla luce come un miele più dolce del nettare sgorgato [dal tuo cuore]; essi mi ti mostreranno presente, purché tu soddisfi il mio desiderio inviandomi i libri in cui [tratti] la dolce musica, della quale tu conosci i segreti, poiché ardo dal desiderio di leggerli. Esaudisci la mia preghiera; così il vero a noi possa manifestarsi alla luce della ragione e possa affluire più abbondante dell'acqua del Po e, al contrario, il contagio del mondo non arrivi alle campagne ch'io coltivo".

Licenzio ordini la sua vita al servizio di Dio.

4. Se il tuo verso fosse difettoso per mancanza di ordine nei tempi, se non si attenesse costantemente alle leggi che gli sono proprie, se urtasse l'orecchio dell'uditore per irregolarità di misure, certamente ti vergogneresti e non indugeresti e non ti fermeresti finché non avessi ordinato, corretto, fissato e reso regolare il tuo verso, apprendendo e mettendo in pratica l'arte metrica con uno studio accanitissimo ed a prezzo di qualsivoglia fatica; e perché poi, quando perverti te stesso con una vita disordinata, quando tu stesso non rimani fedele alle leggi del tuo Dio e nella condotta della tua vita non agisci in armonia con gli onesti desideri dei tuoi e con questa tua stessa cultura, credi di dover gettare tutto questo dietro le spalle e disinteressartene? Quasi che per te sia meno importante la tua persona che il suono della tua lingua e il fatto che offendi le orecchie di Dio coi tuoi costumi disordinati sia meno grave che se l'autorità dei grammatici si risentisse per le tue sillabe mal congegnate. Tu scrivi: "Oh se l'aurora ancora una volta, con le sue ruote apportatici di letizia, mi riportasse i passati giorni che trascorremmo nel mezzo dell'Italia e su per gli alti monti anelando insieme con te alle occupazioni dello spirito e alle leggi immacolate dei buoni! Né i rigori del freddo col loro canuto gelo né la furiosa tempesta degli Zèfiri e le raffiche di Borea mi tratterrebbero dal calcare con sollecito passo le tue orme. Basta soltanto che tu lo ordini". Misero me se io non ordino, se non costringo e non comando, se non prego e supplico. Ma se le tue orecchie son chiuse alle mie invocazioni, si aprano alla tua voce, si aprano al tuo carme; ascolta te stesso, o ostinatissimo, crudelissimo, sordissimo. Che mi serve che tu abbia una lingua d'oro e un cuore di ferro? Con quali, non dico poesie, ma lamenti potrò piangere abbastanza sui tuoi carmi, attraverso i quali io scorgo quale anima e quale ingegno io non riesco a far mio e ad offrire in sacrificio al nostro Dio? Tu attendi ch'io ti ordini: sii buono, sii tranquillo, sii beato; come se per me potesse spuntare un giorno più gradito di quello in cui godessi del tuo ingegno nel Signore, o se tu veramente non sapessi quanto io abbia fame e sete di te o non lo confessassi in questo stesso carme. Fa' rivivere lo spirito con cui hai scritto queste cose, dimmi adesso: Basta soltanto che tu lo ordini. Ecco il mio ordine: donati a me, se v'è bisogno soltanto di questo; dona te stesso al mio Signore, ch'è il Signore di tutti noi, che ti ha concesso quell'ingegno. Infatti che cosa sono io, se non tuo servo per Lui e tuo conservo sotto di Lui?

 

LETTERA 27

Scritta nel 394.

A. risponde a Paolino, grato per la sua benevolenza, pronto a ricambiare l'amore e desideroso di vederlo (n. 1-3); gli parla di Romaniano e del vescovo Alipio (che gli farà meglio conoscere) ed infine di Licenzio, con la preghiera di aiutarlo a ritrarlo dai pericoli del mondo (n. 4-6).

AGOSTINO SALUTA NEL SIGNORE PAOLINO, VERAMENTE SANTO E VENERABILE SIGNORE E FRATELLO DEGNO D'ESSERE CELEBRATO IN CRISTO CON PARTICOLARE ELOGIO

Ringrazia Paolino per la sua benevolenza: desiderio di conoscerlo di persona.

1. O uomo dabbene e buon fratello, tu eri sconosciuto all'anima mia: e io la esorto a sopportare perché sei ancora sconosciuto ai miei occhi, e a stento mi obbedisce, anzi non mi obbedisce; o forse sopporta? Perché dunque il desiderio di te mi tormenta proprio nell'intimo dell'anima? Giacché, se soffrissi delle pene fisiche e queste non turbassero l'equilibrio del mio spirito, a ragione si direbbe che le sopporto; ma quando non tollero tranquillamente di non vederti, è intollerabile dare a questo il nome di tolleranza. Ma poiché tu sei una persona di tali meriti, l'essere privo di te si dovrebbe forse tollerare con maggiore intolleranza. È bene dunque che io non possa tollerarlo con animo tranquillo, poiché, se lo tollerassi tranquillamente, non dovrei essere tollerato io tranquillamente. È strano, ma tuttavia vero, ciò che mi succede: mi addoloro di non vederti e lo stesso dolore mi è di conforto. Così mi dispiace la forza per cui si sopporta pazientemente l'assenza delle persone dabbene come sei tu. Infatti anche la Gerusalemme futura noi la desideriamo certamente e quanto più impazientemente la desideriamo tanto più pazientemente sopportiamo per essa qualsiasi cosa. Chi potrebbe dunque non godere d'averti visto così da poter non addolorarsi per tutto il tempo che non ti vede? Io dunque, non posso né l'una né l'altra cosa e poiché, se lo potessi, lo potrei in maniera inumana, sono contento di non poterlo e nel fatto che sono contento c'è un certo conforto. Perciò nel mio dolore non la cessazione del dolore mi conforta ma la considerazione di esso. Non biasimarmi, te ne prego, nella tua più santa saggezza per la quale mi sei superiore, e non dire che non ho ragione a dolermi di non conoscerti ancora, perché tu mi hai aperto il tuo animo, cioè te stesso nell'intimo. E che dunque? Se avessi conosciuto in un luogo qualsiasi o nella tua città terrena te come mio fratello ed amico e uomo tanto grande e di tali meriti nel Signore, penseresti che non avrei provato nessun dolore, se non mi fosse stato concesso di conoscere la tua casa? Come potrei dunque non addolorarmi del fatto che non conosco ancora la tua figura fisica, cioè la casa dell'anima tua che io conosco come la mia?

Quanta nobiltà e santità di Paolino traspaiano dalla sua lettera.

2. Ho letto infatti la tua lettera che effonde latte e miele 1, che palesa la semplicità del tuo cuore nella quale cerchi il Signore nutrendo buoni sentimenti nei Suoi confronti 2 e che rende a Lui gloria ed onore 3. L'hanno letta i fratelli, e godono instancabilmente e ineffabilmente dei tuoi beni, doni di Dio tanto fertili ed eccellenti. Tutti coloro che l'hanno letta me la rapiscono, giacché sono rapiti ogni volta che la leggono. È impossibile a dirsi quanto soave e quanto intenso sia il profumo di Cristo 4 che emana da essa. Questa lettera, mentre da una parte ti rende presente e visibile, dall'altra quanto ci spinge a cercarti! Infatti ti rende visibile e nelle stesso tempo c'induce a desiderare la tua presenza. Giacché ci rende la tua assenza insopportabile tanto quanto ti rende in un certo senso presente ai nostri occhi. Tutti ti amano in essa e desiderano essere amati da te. Si loda e si benedice Dio, per grazia del quale tu sei quello che sei. In essa viene ridestato Cristo affinché si degni di placare i venti e i mari 5 per te che tendi alla stabile dimora presso di Lui. Vi si vede da parte dei lettori una sposa che non è per il proprio sposo guida alle mollezze della vita, bensì ritorna nelle ossa del proprio sposo, apportatrice di fortezza: a lei, ritornata e ricondotta a formare una sola cosa con te, e a te legata da vincoli spirituali tanto più saldi quanto più sono casti, ricambiamo i saluti con gli omaggi dovuti alla vostra Santità. In essa i cedri del Libano 6, abbattuti e poi eretti dalla forza unifìcatrice della carità a formare un'arca, solcano senza corrompersi i flutti di questo mondo. In essa la gloria viene disprezzata per essere acquistata e il mondo abbandonato per essere conquistato. In essa i figli di Babilonia piccoli o anche grandicelli, cioè i vizi conseguenza della confusione e della superbia di questo mondo, vengono infranti sulla pietra 7.

A. ricambia sincera ammirazione verso Paolino.

3. Questi spettacoli dolcissimi e santissimi e altri di tal genere offre ai lettori la tua lettera, quella lettera che è piena di fede non insincera, di speranza buona e di pura carità. Come esala per noi la tua sete e il desiderio e lo struggimento da cui è presa l'anima tua per la casa del Signore 8! Che santissimo amore effonde! Quali tesori di sincerità di cuore palesa quasi ribollendo! Quali grazie rende a Dio e quali da lui ne impetra! È più dolce o più ardente, più luminosa o più feconda? Qual è infatti la ragione per cui infonde in noi tanta dolcezza, c'infiamma a tal segno, fa cadere su di noi una così abbondante pioggia ed è apportatrice di tanta serenità? Qual è, di grazia, o che cosa potrei darti in cambio di essa se non essere totalmente tuo in Colui al quale tu appartieni totalmente? Se questo è poco, io non ho certo di più, ma tu hai fatto sì che non mi sembri poco, tu che nella tua lettera ti sei degnato di onorarmi con tante lodi che se, quando mi dono interamente a te, io considerassi ciò poco, sarebbe irrefutabilmente provato che non ti ho creduto. Certo mi vergogno di avere una così buona opinione di me, ma più mi dispiace di non credere a te. Ecco quello che farò: non mi crederò quale tu mi ritieni perché non mi riconosco tale e crederò di essere amato da te poiché lo sento e lo vedo chiaramente. Così non sarò né temerario riguardo a me né ingrato riguardo a te. E quando mi offro a te interamente, non è poco; offro infatti colui che tu ami con grandissimo ardore ed offro se non una persona tale quale pensi che io sia, tuttavia colui per il quale tu preghi affinché meriti di esser tale. Questo infatti adesso ti prego di fare ancora di più, onde non avvenga che tu abbia a desiderare che si aggiunga, a quel che sono, un minore avanzamento qualora ritenessi che io sia già quel che non sono.

Con quale spirito leggere le opere di A.

4. Ecco, il latore di questa lettera alla tua Eccellenza e alla tua eminentissima Carità è persona a me carissima e fin dall'inizio dell'adolescenza a me legata da grande e intima amicizia. Il suo nome si trova nel libro Sulla religione che la tua Santità (secondo quello che dichiari nella lettera) legge con grandissimo piacere: infatti ti è stato reso anche più gradito perché ti è stato presentato con lusinghiero giudizio da colui che te l'ha inviato, persona tanto ragguardevole. Non vorrei però che tu dessi credito a un mio così intimo amico a proposito di quello che forse potrà dirti in lode mia. Mi sono accorto infatti che anch'egli spesso ha sbagliato nei suoi giudizi, non per desiderio di mentire, ma per l'affetto che mi porta; e crede ch'io abbia già ricevuto certi doni che invece bramo con tutto l'ardore del mio cuore di ricevere dal Signore. E se ha fatto questo in mia presenza, chi non può immaginare quello che, più bello che vero, egli dirà di me in mia assenza, con gioia e senza risparmio? Tuttavia metterà a disposizione del tuo venerabile zelo le mie opere: infatti non so di aver scritto nulla rivolto sia a coloro che sono fuori della Chiesa di Dio sia ai nostri fratelli che egli non abbia. Ma mentre tu lo leggi, o mio santo Paolino, quello che la verità dice per mezzo della mia pochezza non ti rapisca al punto da avvertire con minor diligenza quello che dico io personalmente; affinché, mentre bevi avidamente le cose buone e rette che sono state affidate a me come ministro, tu non ti astenga dal pregare per i peccati e gli errori che io commetto. Giacché in ciò che, se farai attenzione, giustamente ti dispiacerà, si vede quello che sono io; al contrario in ciò che, per dono dello Spirito che tu hai ricevuto, giustamente ti piace nei miei libri, si deve amare e lodare Colui presso il quale è la sorgente della vita e nel Cui splendore noi vedremo la luce 9 senza enigma e faccia a faccia, mentre ora la vediamo per enigma 10. Perciò in quello che io ho detto sotto l'effetto del vecchio lievito, quando leggendolo me ne accorgo, mi giudico con dolore; in quello invece che ho detto attingendolo alla fonte della purezza e della verità 11 per dono di Dio, esulto con trepidazione. Perché, che cosa mai possediamo che non abbiamo ricevuto 12? Orbene, è senza dubbio migliore colui che è ricco per doni più grandi e più numerosi di Dio di colui che ne ha ricevuto di meno grandi e in minore numero: chi lo nega? Ma d'altra parte è meglio anche per un piccolo dono di Dio rendere grazie a Lui che pretendere ne vengano rese a noi per uno grande. Prega per me, fratello, affinché io confessi sempre questo con tutta l'anima e il mio cuore non sia in disaccordo con la mia lingua. Prega, te ne scongiuro, perché io invochi il Signore non con l'intenzione di riceverne lode ma lodandolo, e sarò salvo dai miei nemici 13.

Il latore; Romaniano e Alipio.

5. C'è ancora un'altra ragione perché tu ami maggiormente questo fratello: egli infatti è parente del venerabile e veramente santo vescovo Alipio, che tu ami con tutto il cuore e meritamente; infatti chiunque dà un benevolo giudizio di quell'uomo, lo dà riguardo alla grande misericordia e ai mirabili doni di Dio. Perciò, dopo aver letto la tua richiesta con cui hai manifestato il desiderio ch'egli ti racconti tutta la storia della sua vita, voleva farlo per la benevolenza che nutre nei tuoi confronti e nello stesso tempo non lo voleva per la sua modestia. E vedendo che ondeggiava tra l'affetto e il pudore, ho trasferito sulle mie spalle il peso togliendolo a lui: infatti anche di questo mi ha pregato in una sua lettera. Perciò presto, se il Signore mi aiuterà, farò entrare, per così dire, tutto intero nel tuo cuore Alipio: giacché ho soprattutto avuto paura di questo, cioè ch'egli avesse soggezione di rivelarti tutti i doni che il Signore ha riversato su di lui affinché a qualcuno meno intelligente non desse l'impressione di celebrare non i doni divini concessi agli uomini, ma se stesso (infatti queste cose non sarebbero state lette da te solo); e così tu, che sai come debba leggerle, fossi defraudato - per riguardo alla infermità altrui - delle notizie a te dovute indispensabili per conoscere un fratello. Ed io lo avrei già fatto e tu lo avresti già davanti ai tuoi occhi, se non si fosse decisa all'improvviso l'immediata partenza del fratello che io raccomando al tuo cuore ed alle tue parole in maniera che tu ti metta cortesemente a sua disposizione quasi che lo abbia conosciuto non adesso ma in precedenza insieme a me. Se infatti non esiterà ad aprirsi al tuo cuore, sarà guarito completamente o almeno in gran parte per le tue parole. Desidero infatti ch'egli venga più frequentemente colpito dalle parole di coloro che amano i loro amici in modo diverso da come li ama il mondo.

Ansie per Licenzio, figlio di Romaniano.

6. Il suo figliuolo poi - che è un figlio per me, il cui nome troverai anche in qualche mio libro -, avevo deciso, anche se non fosse venuto di persona alla presenza della tua Carità, di affidarlo nelle tue mani per mezzo di una lettera, affinchétu lo consoli, lo stimoli e lo istruisca non tanto con le tue parole quanto con l'esempio della tua fortezza. Giacché desidero ardentemente che, mentre la sua età è ancora verde, egli cambi la zizzania in frumento e creda agli esperti a proposito di quello che vuole sperimentare con un suo pericolo. Ora dunque la tua prudenza tanto benevola e mite comprende (dalla sua poesia e dalla lettera che gli mandai) quello di cui mi addoloro, quello che temo e quello che desidero a suo riguardo. E non dispero nell'aiuto del Signore affinché per mezzo di te, suo ministro, io sia liberato da così gravi affanni e preoccupazioni. E, poiché ti accingi a leggere molti scritti miei, la tua amicizia mi riuscirà certamente molto più gradita, se in quella che ti dispiacerà tu mi correggerai con giusta misericordia 14 e mi riprenderai chiaramente. Giacché tu non sei tale per cui io debba temere che il mio capo sia unto dal tuo olio. Non solo i fratelli che abitano con noi e quelli che, dovunque abitino, servono parimenti il Signore, ma quasi tutti quelli cui siamo piacevolmente noti in Cristo, salutano, venerano e desiderano la tua Fraternità, la tua Beatitudine, la tua Umanità. Non oso chiedere, ma se gli uffici ecclesiastici ti lasciano del tempo libero, tu vedi qual sia la sete di cui l'Africa soffre insieme con me.

 

LETTERA 28

Scritta nel 394-95.

A., pur ossequiando Girolamo, non ne approva la sua nuova traduzione dall'ebraico (n. 1-2), tanto meno l'interpretazione del rimprovero di Paolo a Pietro: la possibilità di una bugia giustificherebbe ogni interpretazione della Scrittura (n. 3-5). Invia altri suoi scritti onde li esamini e li corregga (n. 6).

AGOSTINO A GIROLAMO, SIGNORE CARISSIMO, FRATELLO CHE DEVE ESSER OSSEQUIATO E ABBRACCIATO COL PIÙ SINCERO TRIBUTO DI AFFETTO, E COLLEGA NEL SACERDOZIO

Stima affettuosa di A. per Girolamo.

1. 1. Nessuno mai fu noto a chiunque altro di persona tanto quanto lo è a me l'attività tranquilla, lieta e veramente nobile dei tuoi studi religiosi. Perciò, sebbene io desideri vivamente di conoscerti sotto ogni aspetto, tuttavia è una parte esigua di te che io conosco meno, cioè il tuo aspetto fisico; ed anch'esso, dopo che il fratello Alipio (ora beatissimo vescovo, ma già allora degno dell'episcopato) ti vide e al suo ritorno fu da me veduto, non posso negare che in gran parte sia impresso in me a seguito della sua relazione: ed anche prima del suo ritorno, quando egli ti vedeva costì, io ti vedevo ma con gli occhi di lui. Infatti chi ci conosca potrebbe dire che io e lui siamo due [persone] non quanto all'animo ma quanto al corpo: solo, beninteso, per la nostra concordia e amicizia fedelissima, non per i meriti, in cui egli mi supera. Poiché dunque tu già mi ami (inizialmente per comunione di spirito col quale tendiamo ad un unico scopo e poi per le sue parole), non certo sfacciatamente, come se fossi uno sconosciuto qualsiasi, io raccomando alla tua Fraternità il fratello Profuturo che per i nostri sforzi e poi per il tuo aiuto speriamo sarà veramente "profittevole"; se non che egli forse è tale che diverrò più accetto a te io per mezzo suo che lui per mezzo mio. Forse io avrei dovuto limitarmi a scrivere fino a questo punto se intendessi accontentarmi di una lettera del tipo di quelle che si scrivono di solito; ma mi urgono nell'animo molti pensieri, che bramo comunicarti, sui nostri studi cui attendiamo in Gesù Cristo nostro Signore, il quale anche per mezzo della tua carità si degna di fornirci con generosa larghezza molti utili mezzi e provviste (per così dire) per il viaggio che Egli ci ha additato.

Perché una nuova versione dell'A. T. dopo quella autorevole dei LXX?

2. 2. Dunque ti chiediamo, e insieme con noi lo chiedono tutte le comunità di studiosi delle Chiese d'Africa, che non ti rincresca di spendere cura e fatiche per tradurre i libri di coloro che, in greco, hanno commentato le nostre Scritture in modo così egregio. Giacché tu sei in grado di far sì che anche noi possiamo servirci di tali famosi autori, e soprattutto di uno che tu più volentieri citi nei tuoi scritti. Quanto poi alla traduzione in lingua latina dei Libri Sacri canonici, non vorrei che tu vi attendessi se non seguendo il metodo da te usato nel tradurre il libro di Giobbe, in modo che, grazie all'uso di segni particolari, appaia in che cosa la tua versione differisca da quella dei Settanta, di cui preminente è l'autorità. Peraltro non saprei manifestare adeguatamente tutto il mio stupore se nei testi ebraici si trova ancora qualcosa che è sfuggito a tanti traduttori, i quali pur conoscevano a fondo quella lingua. Lascio da parte i Settanta, sulla cui uniformità di intento e di ispirazione (maggiore che se si fosse trattato di una sola persona) io non oso esprimere un parere sicuro in nessun senso se non che io ritengo si debba loro riconoscere, indiscutibilmente, un'autorità preminente in questo campo. Mi colpiscono maggiormente coloro i quali, pur traducendo in un momento successivo e restando, a quanto si dice, strettamente aderenti al metodo e alle regole del vocabolario e della sintassi ebraici, non solo non sono andati d'accordo tra di loro, ma hanno altresì lasciato molte cose da scoprire e da rendere note tanto tempo dopo. Ed esse o sono oscure o sono chiare. Se sono oscure, è da credere che anche tu possa ingannarti su di esse; se sono chiare, non è da credere che essi vi abbiano potuto commettere degli errori. Ti pregherei dunque vivamente per la tua carità di rendermi edotto su questo problema, portando degli argomenti.

Paolo non usò una bugia ufficiosa nel rimproverare Pietro.

3. 3. Ho letto anche alcuni scritti a te attribuiti, sulle Lettere dell'apostolo Paolo. Nella spiegazione che tu hai inteso dare di quella ai Galati, t'è capitato tra le mani il famoso passo in cui si cerca di distogliere l'apostolo Pietro da una funesta simulazione 1. Io mi dolgo non poco - lo confesso - che a proposito di esso sia stata assunta la difesa della menzogna o da te, che pur sei un tal uomo, o da qualcun altro, se altri è l'autore di quegli scritti, fintantoché non vengano confutate (se per avventura è possibile confutarle) le mie ragioni. Mi pare infatti che sia quanto mai funesto credere che nei libri Sacri vi sia qualche menzogna; cioè che quegli uomini per opera dei quali è stata redatta e ci è stata trasmessa la Scrittura abbiano detto delle menzogne nei loro libri. Giacché una cosa è chiedersi se all'uomo onesto sia lecito talvolta mentire e un'altra chiedersi se uno scrittore delle Sacre Scritture si sia trovato nella opportunità di mentire: anzi non si tratta di un'altra cosa, bensì la questione non esiste. Invero, una volta ammessa una menzogna officiosa in un grado così alto di autorità, non resterà più alcuna parte per quanto esigua di quei libri, la quale, a seconda che sembrerà a ciascuno difficile per la morale o incredibile per la fede, usando lo stesso funestissimo sistema non possa essere riferita ad un preciso intento e ad una esigenza dell'autore che mente.

Ammessa la bugia, sia pure ufficiosa, nella S. Scrittura dove va la sua autorità?

3. 4. Supponiamo infatti che mentisse l'apostolo Paolo allorché, rimproverando l'apostolo Pietro, diceva: Se tu, che sei Giudeo, vivi alla maniera dei pagani e non dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei? 1; pur giudicando che Pietro avesse agito rettamente, disse e scrisse che non aveva agito rettamente, quasi coll'intenzione di placare gli animi della folla in tumulto. Che cosa risponderemo quando salteranno su degli uomini perversi (e lui stesso disse che ne sarebbero sorti 2), a vietare il matrimonio, e diranno che tutto quello che lo stesso Apostolo disse per confermare la legittimità del matrimonio, egli lo disse mentendo a causa di uomini che potevano mettersi a tumultuare per amore delle loro spose, cioè non perché la pensasse così ma perché la loro ostilità si calmasse? Non c'è bisogno di addurre molti esempi. Giacché si potrebbe credere che anche quando si tratta della gloria di Dio vi siano delle menzogne officiose, affìnché l'amore di Lui divampi presso uomini meno ferventi: e così, nei Libri Sacri, in nessun punto sarà sicura l'autorità della pura e nuda verità. Come non tener conto di ciò che dice il medesimo Apostolo col preciso impegno di affermare la verità: Ma se Cristo non è risorto, la nostra predicazione è vana, vana è anche la nostra fede. Più ancora, noi risultiamo dei falsi testimoni riguardo a Dio, poiché abbiamo testimoniato contro Dio che Egli ha risuscitato Cristo pur non avendolo risuscitato 3? Se qualcuno gli avesse detto: "Perché provi un grande orrore per questa menzogna, dal momento che hai detto una cosa la quale, anche se falsa, serve in sommo grado alla gloria di Dio"? Forse che, dopo aver maledetto la follia di costui con tutte le parole e le spiegazioni possibili, non avrebbe rivelato chiaramente i segreti del suo cuore proclamando che è colpa non meno grave, o forse anche più grave, lodare in Dio la menzogna che vituperare la verità? Bisogna pertanto adoprarsi affinché chi s'accosta alla conoscenza delle Divine Scritture sia in tale disposizione d'animo da giudicare dei Libri Sacri con tanta pietà e rispetto della verità da non volere trovar gusto nel ricorrere in qualsiasi passo di esse a menzogne officiose e da passar sopra a ciò che non capisce piuttosto di preferire il proprio pensiero alla verità. È certo infatti che quando sostiene questo, vuole che si creda a lui ed agisce in modo da farci perdere la fiducia nell'autorità delle S. Scritture.

La S. Scrittura non mentisce mai.

3. 5. Quanto a me, con quelle forze che il Signore mi fornisce, cercherei di dimostrare che debbono essere intese diversamente tutte quelle testimonianze che sono state addotte per provare l'utilità della menzogna affinché si possa in ogni punto mostrare la loro sicura veridicità. Infatti, come le testimonianze non devono essere mendaci, così non devono favorire la menzogna. Ma questo io lascio alla tua competenza. Se infatti tu porrai nella lettura una più diligente riflessione, forse vedrai questo molto più facilmente di me. A questa riflessione t'indurrà la pietà, per cui tu comprendi che l'autorità delle Divine Scritture vacilla al punto che ciascuno potrà credere quello che vuole e non credere quel che non vuole in esse, una volta che ci si sia convinti che quegli uomini, per opera dei quali esse ci sono state elargite, hanno potuto in qualche caso mentire per ragioni di officiosità nei loro scritti. A meno che tu non ti accinga a darci delle regole per cui noi sapremo quando bisogna mentire e quando non bisogna. Se questo è possibile, spiegamelo, te ne prego, con argomenti che non siano in alcun modo menzogneri e dubbi; e non giudicarmi fastidioso o sfrontato, te lo chiedo per l'umanità veracissima di nostro Signore. Infatti se, a tuo giudizio, ci può essere un giusto motivo per la verità di giustificare la menzogna, non sarà colpa o almeno grave colpa se il mio errore giustifica la verità.

Girolamo critichi severamente gli scritti che A. gli invia.

4. 6. Di molte altre cose io vorrei parlare col tuo sincerissimo cuore e discutere riguardo agli studi cristiani, ma nessuna lettera è sufficiente per realizzare questo mio desiderio. Ciò io posso fare più diffusamente per mezzo del fratello che mi rallegro d'aver mandato affinché partecipi alle tue piacevoli ed utili conversazioni e ne venga nutrito. Tuttavia forse neppure lui è in grado di trarne quanto io vorrei (mi sia lecito dirlo con sua buona pace): per quanto io non oserei affatto preferirmi a lui. Infatti ammetto d'esser più capace di comprenderti, ma vedo che lui trae maggior profitto, e in questo senza dubbio mi supera: e dopo che sarà ritornato - il che spero avverrà felicemente con l'aiuto del Signore - quando sarò stato messo a parte di quanto tu hai riversato nel cuore di lui, egli non riuscirà a riempire quello che vi sarà ancora in me di vuoto nell'avidità di conoscere i tuoi pensieri. Così avverrà che anche allora io sarò ancora più povero, lui più ricco di me. Orbene, il medesimo fratello porta con sé alcuni scritti miei; e se farai loro l'onore di leggerli, usa anche nei loro confronti una sincera e fraterna severità, ti prego. Giacché io non intendo altrimenti quello che è stato scritto: Il giusto mi correggerà nella sua misericordia e dimostrerà la mia colpa: ma l'olio del peccatore non ungerà il mio capo 4, se non nel senso che ama di più il censore che sana dell'adulatore che unge il capo. Per me, ben difficilmente nel leggere sono buon giudice di quello che ho scritto, lasciandomi vincere o da uno scrupolo o da un entusiasmo eccessivo. Vedo anche qualche volta i miei errori; ma preferisco sentirmeli dire dai più esperti di me, per non lusingarmi di nuovo, dopo essermi rimproverato forse a ragione, pensando di aver pronunciato nei miei confronti un giudizio pedante piuttosto che giusto.

 

LETTERA 29

Scritta verso la fine del 395.

A., semplice prete di Ippona, scrive all'amico Alipio, vescovo di Tagaste, ragguagliandolo con quali esortazioni riuscì a distogliere i fedeli dalla inveterata e indecente usanza di celebrare le feste dei santi con crapule, indegne sempre dei Cristiani (n. 1-11) e lo esorta a pregare per il buon esito d'una causa coi Circoncellioni (n. 12).

LETTERA DI UN PRETE DI IPPONA AD ALIPIO VESCOVO DI TAGASTE SULL'ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI LEONZIO, UN TEMPO VESCOVO DI IPPONA

Una grande grazia ottenuta per le preghiere anche di Alipio.

1. Data l'assenza del fratello Macario non ho potuto per il momento scriverti nulla di sicuro sull'affare che non posso non avere a cuore: si dice però che tornerà presto, e allora si farà ciò che con l'aiuto di Dio potrà farsi. Quanto poi alla sollecitudine che noi abbiamo per loro, sebbene i concittadini nostri fratelli che erano presenti potessero rassicurarne i loro cari, tuttavia ci è stato offerto dal Signore un avvenimento degno del colloquio epistolare con cui ci consoliamo a vicenda, e nel meritarlo crediamo d'essere stati assai aiutati dalla vostra stessa sollecitudine che certamente non ha potuto non essere accompagnata da preghiere per noi.

Predica contro l'indecenza della festa detta della "Allegrezza".

2. Non possiamo perciò omettere di narrare alla vostra Carità quello che è accaduto, affinché Voi, che con noi avete profuso preghiere per ottenerlo, con noi rendiate grazie a Dio per l'ottenuto beneficio. Dopo la tua partenza ci era stato annunciato che il popolo tumultuava e diceva di non poter tollerare che fosse proibita quella festa che chiama "Allegrezza", sforzandosi invano di mascherare il nome dell'ubriachezza (come già si annunziava quando tu eri ancora presente); ma nel quarto giorno della settimana, continuando la lettura del Vangelo, avemmo, per occulto disegno di Dio onnipotente, l'opportunità di commentare il passo: Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle innanzi ai porci 1. Si trattò dunque dei cani e dei porci in modo da far arrossire quelli che protestavano contro i precetti di Dio latrando ostinatamente e quelli che erano dediti alle sozzure dei piaceri carnali, e si concluse in modo che vedessero quale nefandezza fosse fare entro le pareti della chiesa, col pretesto della religione, quello per cui se si fossero ostinati a farlo in casa loro, sarebbe stato doveroso escluderli dal Santo e dalle Perle della Chiesa.

Nefandezza della crapula nella casa di Dio.

3. Ma, per quanto queste considerazioni fossero state accolte di buon grado, tuttavia, poiché pochi erano i convenuti, non si era fatto abbastanza per un affare così importante. Inoltre questa predica divulgata fuori da coloro che vi avevano assistito secondo la capacità e l'inclinazione di ciascuno, trovò molti oppositori. Quando però fu spuntato il giorno dell'Ascensione ed una folla numerosa si raccolse all'ora della predica, si lesse il passo evangelico in cui il Signore, cacciati dal tempio i mercanti di bestiame e rovesciati i banchi dei cambiavalute, disse che la casa del Padre suo era stata trasformata da casa di preghiera in una spelonca di briganti 2. E, dopo aver suscitato la loro attenzione proponendo la questione dell'ubriachezza, recitai io stesso quel capitolo ed aggiunsi un commento per mostrare con quanto maggior sdegno e violenza nostro Signore avrebbe bandito i conviti degli ubriaconi (che sono vergognosi in qualsiasi luogo) dal tempio, donde bandì in questo modo i commerci leciti giacché si vendevano le cose necessarie per dei sacrifici a quel tempo leciti, e chiesi loro a chi ritenessero più simile la spelonca dei ladri, se a quelli che vendevano delle cose necessarie o a quelli che bevevano in maniera smodata.

Neppure nell'A. T. si riscontrano tal indecenze.

4. E poiché mi si tenevano pronti i passi della Scrittura da sottoporre loro, aggiunsi poi che lo stesso popolo giudaico, che viveva secondo la carne, in quel tempio in cui non si offriva ancora il corpo e il sangue del Signore, non solo non aveva mai celebrato conviti accompagnati dall'ubriachezza, ma neppure sobri; e che mai nella Storia Sacra si trova ch'esso si fosse ubriacato col pretesto della religione se non quando celebrò le feste dopo aver fabbricato l'idolo 3. E mentre dicevo questo, presi anche il volume e recitai tutto quel passo. Aggiunsi ancora con tutto il dolore di cui fui capace (poiché l'Apostolo per distinguere il popolo cristiano dall'insensibilità dei Giudei dice che la sua lettera è stata scritta non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne del cuore 4) come non avremmo potuto, mentre il servo di Dio Mosè aveva spezzato a causa di quei principi le due tavole di pietra 5, spezzare i cuori di quei tali che, uomini del Nuovo Testamento, volevano, per celebrare le feste dei santi, offrire solennemente quegli spettacoli che il popolo del Vecchio Testamento celebrò una volta sola e per un idolo.

Come Paolo bolla le intemperanze dell'Agape cristiana.

5. Allora, restituito il volume dell'Esodo, sottolineando (per quanto il tempo lo permetteva) la gravità della colpa dell'ubriachezza, presi le lettere dell'apostolo Paolo e mostrai tra quali peccati fosse stata posta, leggendo il passo: Se si chiama "fratello" un impudico o un idolatra o un avaro o un diffamatore o un ubriacone o un ladro, con un simile individuo non mangiare neppure 6...; e gemendo ricordai loro con quanto pericolo noi banchettassimo con coloro che si abbandonavano all'ubriachezza anche solo nelle loro case. Lessi inoltre ciò che segue non molto dopo: Non illudetevi: né gli impudichi, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né i sodomiti, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli ingiuriatori, né i rapinatori avranno l'eredità del regno di Dio. Appunto questo siete stati; ma vi siete mondati, ma siete stati giustificati nel nome del Signor nostro Gesù Cristo e dallo Spirito del nostro Dio 7. Letto questo dissi di considerare come potessero udire le parole ma vi siete mondati quei fedeli i quali tolleravano che vi fossero nel loro cuore, cioè nel tempio interiore di Dio, le sozzure d'una tale concupiscenza alle quali è precluso il regno dei cieli. Si giunse poi al capitolo: Quando dunque voi vi radunate insieme, il vostro non è affatto un celebrare la cena del Signore: ciascuno infatti, nel mangiare, si mette innanzi il suo proprio pasto, sicché l'uno ha fame, l'altro è ubriaco: non avete dunque voi case per mangiare e bere? O non tenete in alcun conto la chiesa di Dio? 8 E dopo averlo recitato sottolineai con maggior diligenza che in chiesa non si debbono celebrare neppure dei conviti onesti e sobri, giacché l'Apostolo non ha detto: "non avete forse le case per ubriacarvi?" come se unicamente non fosse lecito ubriacarsi in chiesa, ma per mangiare e per bere: il che può farsi onestamente, ma fuori della chiesa, da coloro che hanno le case in cui potersi ristorare con gli alimenti necessari; eppure noi siamo ridotti in tali angustie per la corruzione dei tempi e il rilassamento dei costumi da non desiderare ancora conviti modesti, ma almeno che il regno dell'ubriachezza sia ridotto entro le pareti domestiche.

Frutti della carne e frutti dello spirito.

6. Ricordai ancora il capitolo del Vangelo che avevo trattato il giorno precedente, dove è detto dei falsi profeti: Li riconoscerete dai loro frutti 9. Quindi rammentai che in quel passo col nome di frutti non si indica altro che le opere: allora esaminai tra quali frutti fosse ricordata l'ubriachezza e recitai il passo della lettera ai Galati: Sono ben note le opere della carne, che sono fornicazioni, impurità, dissolutezza, idolatria, magie, inimicizie, risse, gelosie, rivalità, discordie, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose simili a queste; riguardo alle quali vi predico, come vi ho già predetto, che coloro i quali commettono tali azioni non entreranno in possesso del regno di Dio 10. Dopo queste parole domandai come, dal frutto dell'ubriachezza, noi avremmo potuto essere riconosciuti come cristiani dal momento che il Signore comandò che si riconoscessero dai frutti. Aggiunsi ancora di leggere quel che segue: I frutti dello spirito, al contrario, sono: carità, gioia, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mitezza, temperanza 11, e feci loro considerare quanto fosse vergognoso e lacrimevole che coi frutti della carne bramassero non solo di vivere in privato ma anche di rendere onore alla Chiesa e che, se fosse loro data la possibilità, avrebbero riempito tutto lo spazio di una così ampia basilica di turbe di banchettanti e di ubriaconi, mentre coi frutti dello spirito, ai quali erano esortati sia dall'autorità delle Scritture divine che dai nostri gemiti, non volevano offrire doni a Dio e con questi soprattutto celebrare le feste dei Santi.

Una perorazione particolarmente efficace.

7. Fatto questo restituii il volume e, dopo aver ordinato di pregare, per quanto fui capace e conforme all'urgenza stessa del pericolo e alle forze che il Signore si degnava di concederimi, posi davanti ai loro occhi il comune pericolo, sia di loro stessi, sia di noi, che di essi avremmo dovuto rendere conto al Principe dei pastori. Per l'umiliazione, le straordinarie contumelie, gli schiaffi, gli sputi in viso, le percosse, la corona di spine, la croce e il sangue di Lui, li supplicai che, se per conto loro essi avevano mancato in qualche modo, almeno avessero misericordia di noi e considerassero l'ineffabile carità dimostrata nei miei confronti dal vecchio Valerio, il quale non aveva esitato per causa loro ad impormi l'onere così pericoloso di spiegare le parole della Verità, e sovente aveva detto loro che le sue preghiere erano state esaudite per la nostra venuta e non si era certo rallegrato che noi fossimo venuti da lui per morire insieme a loro o per assistere alla loro morte ma perché insieme ci sforzassimo per conseguire la vita eterna. Infine dissi anche di avere sicura la fede in Colui che non sa mentire, il quale per bocca del suo profeta, promise parlando di nostro Signore Gesù Cristo: Se i suoi figli abbandoneranno la mia legge e non cammineranno secondo i miei precetti; se violeranno le mie giuste disposizioni, visiterò con la verga le loro iniquità e con la sferza i loro misfatti, ma non toglierò loro la mia misericordia 12; di avere pertanto fede in Lui che, se disprezzavano queste così gravi ammonizioni che erano state loro lette e rivolte oralmente, li avrebbe visitati con la verga e col flagello e non avrebbe permesso che fossero dannati insieme a questo mondo. E nel levare tali doglianze agii conforme ai sentimenti ed alle facoltà che mi offriva il nostro protettore e reggitore in rapporto alla grandezza dell'impresa e del pericolo. Non fui io a suscitare le loro lacrime con le mie lacrime, ma, nel dire tali cose (lo confesso), prevenuto dal loro pianto, non potei trattenere il mio. E dopo che già avevamo pianto insieme, posi fine al mio discorso con pienissima speranza nella loro correzione.

A. vince le ultime resistenze degli oppositori.

8. Ma all'indomani, spuntato il giorno per cui solevano prepararsi le gole e i ventri, mi si riferisce che alcuni di coloro che avevano assistito alla predica, non avevano ancora smesso di mormorare, e tanta forza esercitava su di essi la pessima abitudine che seguivano unicamente la sua voce e dicevano: "Perché adesso? Giacché non è che non fossero Cristiani coloro che in passato non proibirono queste cose". Udito questo, non sapevo assolutamente quali astuzie escogitare come più efficaci per commuoverli; mi disponevo tuttavia, se pensavano che si dovesse perseverare, a scuotere le mie vesti e andarmene dopo aver letto quel passo del profeta Ezechiele: L'esploratore si assolve se ha denunziato il pericolo, anche nel caso che quelli cui viene denunziato non abbiano voluto guardarsene 13. Ma allora il Signore dimostrò che non ci abbandona e in quali modi ci esorti ad aver fiducia in Lui: infatti prima dell'ora di salire sul pulpito, entrarono da me quegli stessi che avevo sentito essersi lagnati per l'opposizione fatta all'antica consuetudine. Accoltili cortesemente, con poche parole li indussi al partito che era ragionevole. E quando si giunse al momento della discussione, tralasciata la lettura che avevo preparata, perché non pareva più necessaria, feci alcune brevi considerazioni su questo stesso problema, dicendo non poter noi addurre niente di più conciso né di più vero contro coloro che dicono: "Perché adesso?", se non dire anche noi: "Almeno adesso".

Perché nella Chiesa primitiva furono tollerate certe usanze profane.

9. Tuttavia, perché non si avesse l'impressione che si facesse da noi ingiuria a coloro che prima di noi o permisero o non osarono proibire crimini così manifesti della folla ignorante, esposi loro per quale necessità pareva che usanze di tal genere fossero sorte nella Chiesa. Dato che, fatta la pace dopo così numerose e violente persecuzioni, le turbe dei gentili che desideravano diventare cristiane ne venivano distolte dal fatto che usavano consumare i giorni di festa coi loro idoli in copiosi banchetti e nella ubriachezza e non potevano facilmente astenersi da questi piaceri perniciosissimi eppure tanto inveterati, parve opportuno ai nostri antenati che si tollerasse per il momento questa parte di debolezza e che, dopo quelle che abbandonavano, celebrassero altre feste in onore dei santi Martiri almeno con un non simile sacrilegio, anche se con simile dissipazione. A coloro invece che erano già legati insieme dal nome di Cristo e sottoposti al giogo di così grande autorità, [parve opportuno che] s'impartissero salutari precetti di sobrietà, ai quali non potessero più resistere per rispetto e timore di chi li impartiva. Esser quindi ormai tempo - [concludevo] - che coloro che non osano negare la loro qualità di Cristiani comincino a vivere secondo la volontà di Cristo in maniera che vengano rigettate, adesso che sono Cristiani, quelle concessioni ch'erano state fatte affinché diventassero Cristiani.

L'ammonimento di S. Pietro contro gli intemperanti.

10. Esortai poi affinché volessimo essere imitatori delle Chiese transmarine in cui siffatte consuetudini in parte non furono mai accolte, in parte furono già corrette ad opera di buoni reggitori con l'ottemperanza del popolo. E poiché si adducevano esempi di quotidiana ubriachezza provenienti dalla basilica del beato apostolo Pietro, dissi in primo luogo aver noi udito che lo si era proibito sovente; ma, essendo la località lontana dalla residenza del vescovo e grande, in una città così vasta, la moltitudine delle persone che vivono secondo la carne (conservando soprattutto i pellegrini che giungono continuamente nuovi quella consuetudine e con tanta più forza quanto maggiore è la loro ignoranza), non si era ancora potuto frenare e stroncare una così orrenda calamità. Tuttavia, se onoravamo l'apostolo Pietro, dovevamo ascoltare i suoi precetti e tenere presente con molto maggiore devozione l'Epistola in cui si manifesta la sua volontà che non la basilica in cui non si manifesta; e subito, preso il volume, recitai il passo in cui dice: Avendo infatti Cristo sofferto nella carne per noi, armatevi anche voi della stessa convinzione, che Colui che ha sofferto nella carne si è staccato dalla carne per vivere il tempo che gli rimane da vivere nel corpo non più secondo le passioni umane ma secondo il volere di Dio. Giacché è già eccessivo per voi aver consumato il tempo trascorso secondo la volontà degli uomini, vivendo in dissolutezza, cupidigia, ubriachezza, orge e nefande idolatrie 14. Fatto questo, vedendo che tutti unanimemente, deplorando la cattiva abitudine, erano inclini alla buona volontà, li esortai a partecipare nelle ore pomeridiane alle divine letture ed al canto dei salmi; così pensavo che quel giorno si dovesse celebrare molto più puramente e sinceramente, e certo dalla folla dei convenuti si sarebbe potuto facilmente vedere chi seguisse la ragione e chi il ventre. Così, eseguite tutte le letture, il sermone ebbe termine.

Predica conclusiva nell'assemblea pomeridiana.

11. Nel pomeriggio poi accorse una folla maggiore che prima di mezzogiorno e fino all'ora della nostra uscita col vescovo si leggeva e si cantava alternativamente, e quando noi fummo usciti furono letti due salmi. Poi il Vecchio, ordinandomelo, costrinse mio malgrado me (che avrei già voluto che una giornata così pericolosa fosse giunta al termine), a dir loro qualcosa. Tenni un breve sermone per rendere grazie a Dio. E siccome sentivamo dire che nella basilica degli eretici erano stati da loro celebrati i soliti conviti, poiché proprio in quel tempo in cui da noi venivano fatte queste cose essi continuavano ancora a darsi al vino, io dissi che la bellezza del giorno è adornata dal paragone con la notte e il colore bianco diventa più gradito per la vicinanza di quello nero: similmente il nostro convegno per una celebrazione spirituale sarebbe stato forse meno lieto se non vi si fosse contrapposta la crapula carnale dell'altra parte. Li esortai inoltre perché, se avevano gustato quanto è soave il Signore, ricercassero insistentemente tali banchetti, invece devono temere coloro che ricercano come la cosa più importante quello che un giorno sarà distrutto, giacché ciascuno diviene compagno di quello che ama, e l'Apostolo inveì contro siffatte persone dicendo: Loro dio è il ventre 15, avendo inoltre detto in un altro passo: I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi, ma Dio distruggerà quello e questi 16. Perciò noi abbiamo il dovere di perseguire ciò che non viene meno, ciò che, remotissimo dall'affetto carnale, si conserva mediante la santificazione dello spirito. E, dette in tal senso, come la circostanza richiedeva, le parole che Dio si compiacque di suggerire, si celebrarono i soliti riti vespertini di ogni giorno e, ritirandoci noi col vescovo, i fratelli nello stesso luogo cantarono un inno mentre una non piccola moltitudine dell'uno e dell'altro sesso si trattenne a salmodiare finché il giorno si fu oscurato.

Pregare per il buon esito della causa contro i Circoncellioni

12. Vi ho esposto con la maggior brevità possibile quello che senza alcun dubbio voi avreste desiderato di conoscere. Pregate che Dio si degni tener lontani dai nostri sforzi ogni scandalo e ogni cosa incresciosa. Noi certamente, pur continuando a lavorare con fervore, facciamo grande affidamento su di voi, giacché tanto frequentemente ci si annunziano i doni (da Dio) concessi alla Chiesa spirituale di Tagaste. La nave coi fratelli non è ancora arrivata. Ad Asna, dove è prete il fratello Argenzio, i Circoncellioni invadendo la nostra basilica hanno fatto a pezzi l'altare. La causa viene discussa attualmente e vi supplichiamo molto di pregare affìnché essa venga discussa pacificamente come si addice alla Chiesa Cattolica per schiacciare le lingue degli eretici senza pace. Abbiamo mandato una lettera all'Asiarca. Continuate a vivere beatissimi nel Signore memori di noi. Amen.

 

LETTERA 30

Scritta tra il 394 e il 395.

Paolino, che non ha ricevuto riscontro alla sua prima lettera, sollecita A. con questa seconda, affidata a Romano ed Agile, pregandolo di consegnar loro la risposta bramata (n. 1-3).

PAOLINO E TERASIA PECCATORI AD AGOSTINO, SIGNORE E FRATELLO VENERABILE, COL QUALE SONO UNITI IN COMUNIONE DI SPIRITO

Paolino brama una risposta da A.

1. Già da tempo, o fratello mio unanime in Cristo Signore, dacché ti ho conosciuto, senza che tu lo sapessi, nelle tue sante e pie opere e ti ho veduto anche se sei lontano, ti ho abbracciato con tutta l'anima e mi sono affrettato altresì ad accostarmi a te per lettera in un colloquio familiare e fraterno. E credo che la mia lettera ti sia stata recapitata per opera e per grazia del Signore: ma, poiché il domestico, che prima dell'inverno avevamo mandato a salutare te ed altri ugualmente cari a Dio, ancora ritarda, non abbiamo potuto indugiare oltre ad inviarti l'espressione del nostro rispetto e frenare il desiderio ardentissimo di una tua lettera. Perciò ti abbiamo scritto ora per la seconda volta se la nostra lettera precedente ha avuto la fortuna di arrivarti oppure per la prima volta se essa non ha avuto la ventura di giungere nelle tue mani.

I Cristiani uniti fra loro nello spirito del corpo mistico.

2. Ma tu, o fratello, che da uomo spirituale esamini ogni cosa 1, non giudicare il nostro affetto per te unicamente dal modo in cui assolviamo al nostro dovere o dalla data della nostra lettera. Infatti ci è testimone il Signore (che unico e identico suscita 2 ovunque in coloro che gli appartengono la Sua Carità) che, già dal momento in cui per opera dei venerabili vescovi Aurelio e Alipio ti abbiamo conosciuto attraverso le tue opere contro i Manichei, è nato in noi un tale affetto per te che ci pareva non di allacciare una nuova amicizia ma quasi di riallacciare un legame affettivo di antica data. Infine, pur senza conoscere le tue parole, non ti scriviamo però come se ignorassimo anche il tuo affetto ed alla nostra volta in spirito e per mezzo dell'uomo interiore quasi ti riconosciamo. E non è strano se, pur lontani, noi siamo presenti gli uni agli altri e senza esserci conosciuti, ci conosciamo, poiché siamo membra d'un unico corpo 3, abbiamo un unico capo, unica è la grazia che ci inonda, viviamo d'un unico pane, camminiamo su un'unica strada, abitiamo nella medesima casa. Infine in tutto ciò che siamo, con tutta la nostra speranza e la nostra fede, da cui siamo sostenuti nel presente e su cui ci fondiamo per raggiungere la vita futura, noi siamo una cosa sola tanto nello spirito che nel corpo del Signore, per evitare di essere nulla se ci separiamo da quell'Uno.

Paolino spera che Romano ed Agila gli rechino la risposta di A.

3. Quanto è dunque modesta la parte di noi che la lontananza fisica ci toglie; per la verità solo il godimento di cui si pascono gli occhi intenti alle cose temporali! Per quanto, neppure la grazia del contatto fisico si deve chiamare temporale in rapporto agli spiriti, ai quali la risurrezione concederà anche l'eternità dei corpi, come osiamo presumere, per quanto indegni, in virtù di Cristo e per la bontà di Dio Padre. Oh, se pertanto la grazia di Dio ci elargisse anche questo dono per Gesù Cristo nostro Signore, di vedere cioè il tuo volto anche con gli occhi della carne! Non solo si darebbe una grande gioia ai nostri desideri, ma crescerebbe anche la luce alle nostre menti e la nostra indigenza verrebbe arricchita dalla tua opulenza. E questo tu puoi concederci anche se siamo lontani soprattutto nell'occasione in cui torneranno nel nome del Signore i nostri figli, a noi spiritualmente uniti e carissimi nel Signore, Romano ed Agile (che ti raccomandiamo come noialtri), dopo che avranno compiuto la loro opera di carità. Nell'assolvimento della quale noi ti preghiamo affinché possano godere in modo speciale dell'affetto della tua carità. Tu sai infatti quanto siano alti i premi che l'altissimo promette al fratello che aiuti il proprio fratello 4. Se vorrai ricambiarmi con qualche dono della grazia che ti è stata elargita, potrai farlo tranquillamente tramite loro. Sono infatti insieme con noi, vorrei che mi credessi, un cuore solo ed un'anima sola 5 nel Signore. La grazia di Dio resti con te per sempre come ora, o fratello unanime, venerabile, direttissimo ed indimenticabile in Cristo Signore. Saluta da parte nostra tutte le persone, sante in Cristo, che indubbiamente vivono accanto a te. Raccomandaci a tutti i santi, affinché si degnino di pregare con te per noi.

 

LETTERA 31

Scritta tra il 395 e il 396.

A. dimostra a Paolino la gratitudine del suo devoto animo per aver ricevuto una seconda lettera inaspettata (n. 1), per la visita di Romano ed Agile (n. 2), partiti però troppo presto (n. 3); gli annuncia d'essere stato consacrato vescovo coadiutore d'Ippona (n. 4) e gli esprime il gran desiderio che si rechi in Africa per il sollievo suo proprio e per quello degli altri Cristiani (n. 5), cui sarà d'esempio per la sua umiltà e povertà (n. 6): gli raccomanda un certo Vetustino rassicurandolo che gl'invierà i tre libri De libero arbitrio (n. 7); gli chiede l'opera da lui composta contro i pagani (n. 8) e infine invia i saluti del vescovo Severo, oltre ai suoi e dei suoi confratelli (n. 9).

AGOSTINO INVIA CRISTIANI SALUTI AI SIGNORI PAOLINO E TERASIA, SUOI AMATISSIMI E SINCERISSIMI FRATELLI VERAMENTE SANTI ED ECCELLENTI PER LA STRAORDINARIA GRAZIA DEL SIGNORE

Gioia per un'altra lettera inaspettata.

1. Ero ansioso, o carissimi, di far giungere al più presto nelle vostre mani la mia lettera in risposta alla vostra precedente (pur ammesso ch'io possa dare una qualche risposta degna della vostra) perché in qualche modo potessi, pur da lontano, essere con voi; il mio ritardo invece mi ha arrecato il vantaggio di un'altra vostra lettera. Quant'è buono il Signore! Spesso non ci dà un bene desiderato, per accordarcene uno ancor più gradito! Altra cosa è infatti che mi scriverete appena ricevuta la mia lettera, altra cosa che mi avete scritto senz'averla ricevuta. Avrei provato certamente una gran gioia nel leggere la vostra risposta, ma sarei stato privato del gran piacere che ho adesso di leggervi, se la mia lettera fosse giunta alla vostra Santità con la rapidità che desideravo, anzi volevo. Ora invece il fatto di avere tra le mani il vostro presente scritto e di sperare ancora un'altra risposta è per me il colmo della felicità. In tal modo da una parte la mia negligenza può avere una scusa e dall'altra la bontà più generosa del Signore mi ha concesso quanto ha ritenuto più utile di quel che avrei potuto desiderare.

Gioia per la visita di Romano e Agile.

2. Abbiamo accolto con grande gioia nel Signore i nostri santi fratelli Romano ed Agile, che sono stati come un'altra vostra lettera la quale ascolti le mie parole e risponda, e come una parte amabilissima della vostra presenza, che ha eccitato in me un desiderio ancor più vivo di vedervi. Quando mai o in qual modo avreste potuto voi procurarci o avremmo noi potuto pretendere che voi ci diceste di voi stessi in una lettera tante vostre notizie quante ne ho apprese dalla loro viva voce? Ma c'era in più - cosa che non può essere in nessuna lettera - il fatto che, mentre essi parlavano, tanta era la gioia che traspariva nel loro volto e dai loro occhi, che potevo scorgere con ineffabile mio piacere la vostra immagine quasi fosse stampata nel loro cuore. Un altro vantaggio ancor più grande era nel fatto che qualsiasi pagina, per quanto buoni pensieri possa contenere, non ne trae per sé alcun profitto, per quanto grande possa essere il profitto per quelli che la dispiegano per leggerla; al contrario nella loro conversazione leggevamo, per così dire, una specie di vostra lettera vivente, che ci appariva tanto più santa quanto più era copia fedele di voi stessi. Per questo motivo l'ho copiata nel mio cuore informandomi con la massima sollecitudine d'ogni minimo particolare che vi riguardasse, per riprodurre in me la vostra buona e cara immagine.

Dispiacere per la partenza dei due fratelli.

3. Ecco perché non senza dispiacere li abbiamo lasciati ripartire così presto da noi, anche se tornavano presso di voi. Considerate, vi scongiuro, da quali sentimenti noi eravamo agitati. Da una parte bisognava lasciarli partire tanto più presto, quanto maggiore era la loro premura di ubbidirvi; dall'altra però, quanto più vivamente lo desideravamo, tanto più presenti ci facevano apparire le vostre persone, poiché proprio con la loro premura mi mostravano quanto loro fosse amabile il vostro cuore; per questo tanto meno acconsentivamo a congedarli, quanto più giusta era la loro insistenza per essere congedati. La nostra pena sarebbe davvero intollerabile, se non fosse vero che con quel distacco noi non ci saremmo separati gli uni dagli altri, se non "fossimo membra di un sol corpo, non avessimo un sol capo, non ci fosse infusa la stessa grazia, non vivessimo del medesimo pane, non camminassimo per la medesima via, non abitassimo nella medesima casa". E perché non dovremmo usare le vostre stesse parole? Riconoscerete - io penso - che le ho prese dalla vostra lettera. Ma perché dovrebbero essere parole piuttosto vostre che mie, dal momento che in quanto certamente esprimono la verità, per ciò stesso provengono da Colui ch'è il nostro Capo comune? Se poi esse hanno un significato speciale per un particolare dono a voi concesso, tanto più mi son care; a tal punto che impediscono il libero corso del mio pensiero e non lasciano arrivare fino alle labbra nulla di ciò che sgorga dal profondo dell'anima prima d'aver preso nel mio pensiero il primo posto che vi occupa tutto ciò che viene da voi. Miei cari fratelli, santi e diletti da Dio, membra con noi dello stesso Corpo, chi potrebbe dubitare che siamo vivificati dallo stesso unico Spirito? Lo potrebbe solo chi non comprende con quale vincolo di amore siamo uniti tra noi.

Agostino consacrato Vescovo Coadiutore.

4. Vorrei tuttavia sapere se voi sopportate con più forza d'animo e con più facilità di noi questa lontananza fisica. Se così fosse, vi confesso che tale vostra forza d'animo non mi piacerebbe affatto, a meno che io sia meno desiderabile, la mia lontananza cioè sia meno sentita di quanto io senta la mancanza della vostra presenza. Quanto a me, se riscontrassi in me la forza d'animo di sopportare la vostra assenza, ne proverei dispiacere, perché sarebbe indizio che il mio desiderio di vedervi è debole. Che vi potrebbe essere di più assurdo che la forza d'animo con cui si diventa più deboli? Ma perché sappiate quali sono le incombenze ecclesiastiche da cui sono tenuto legato, la vostra Carità consideri ciò che mi è accaduto. Il venerando padre Valerio, il quale, come sentirete dai due nostri fratelli, con me vi saluta e con ardore desidera vedervi, non ha voluto che restassi semplice suo presbitero e mi ha caricato sulle spalle il fardello più pesante di suo coadiutore nell'episcopato. Per il grande affetto di lui verso di me e il pressante desiderio del popolo che accettassi, ho creduto che questa fosse la volontà di Dio, e ho avuto anche forte paura d'accampare delle scuse per esimermi, anche a motivo di esempi precedenti che mi impedivano d'addurre pretesti di qualsiasi natura. Ma sebbene il giogo di Cristo sia per sé lieve e leggero il suo fardello 1, tuttavia, se a causa del mio carattere poco malleabile e debole sentissi un po' il tormento di questa catena e la gravezza di questo peso, mi diverrebbero un po' più tollerabili, qualora m'arrecaste l'ineffabile sollievo della vostra presenza, voi che vivete, a quanto sento dire, più liberi dagli impedimenti di simili occupazioni. Vi prego quindi col dovuto rispetto, anzi vi scongiuro ardentemente, di usarci la cortesia di venire in Africa, travagliata più dal desiderio di avere persone come voi che dalla sua nota siccità.

Quanto salutare sarebbe la permanenza di Paolino in Africa.

5. Iddio sa che desideriamo la vostra presenza pure fisica nelle nostre contrade non solo per una mia soddisfazione personale, né solo per quanti hanno appreso, da me o dalla fama sparsasi ovunque, l'ideale religioso da voi abbracciato, ma anche per tutti gli altri, ai quali tale notizia non è giunta o che, pur avendola sentita, non ci credono ma saprebbero apprezzare la vostra risoluzione una volta che potessero osservarla personalmente. Sebbene viviate il vostro ideale con impegno e con sentimenti di carità, occorre tuttavia che le nostre opere risplendano pure davanti alla gente delle nostre regioni, perché vedano le vostre buone azioni e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli 2. Dei pescatori, che all'invito del Signore avevano abbandonato una barca e delle reti, provavano gioia anche solo ricordando di aver abbandonato tutto e d'aver seguito il Signore 3. In effetti disprezza tutto chi disprezza non solo quel che ha in suo potere, ma anche quel che potrebbe avere. Ma dei beni bramati è testimonio solo lo sguardo di Dio, dei beni posseduti è testimonio pure quello degli uomini. Non so d'altronde come succeda che, quando si amano i beni superflui della terra, c'incatenano più fortemente quelli posseduti che quelli solo bramati. In realtà, perché mai quel tale che domandava al Signore che cosa gli consigliasse per acquistare la vita eterna, si allontanò triste appena sentì dire dal Signore che, se voleva esser perfetto, doveva vender tutto e distribuirlo ai poveri, se non perché - come dice il Vangelo - aveva molte ricchezze 4? Un conto è non voler incorporare nel nostro organismo sostanze mancanti, un altro è staccare da noi stessi quelle già incorporate. Le une sono come i cibi che si rigettano, le altre sono come membra che si recidono. Con quale straordinaria gioia vede il popolo cristiano che il Vangelo ai nostri tempi fa compiere con allegrezza ciò che il ricco udì con tristezza dalla bocca del Signore!

Paolino esempio di umiltà e povertà.

6. Io non saprei spiegare a parole il concetto e il pensiero della mia mente a tal proposito; voi stessi però comprendete col vostro senno e col vostro sentimento religioso che l'edificazione che date non è vostra gloria, cioè propria dell'uomo, ma di Dio, che opera in voi. Voi infatti vi guardate con gran circospezione dal nemico, cioè dal demonio, agite con spirito di gran pietà, per essere, come discepoli di Cristo, umili e miti di cuore 5. È più utile infatti mantenere le ricchezze terrene con lo spirito d'umiltà, che abbandonarle con spirito di superbia. Poiché dunque ben comprendete che la gloria della vostra condotta non appartiene a voi ma a Dio, comprendete pure quanto povere e inadeguate al soggetto sono le mie parole. In realtà ho cantato le lodi di Cristo, che neppure le lingue degli Angeli saprebbero esprimere. Orbene, desideriamo che codesta gloria di Cristo sia messa sotto gli occhi della nostra gente, proponendo la vostra unione maritale alle persone dell'uno e dell'altro sesso come esempio per far calpestare la superbia e per non disperare della perfezione. Non saprei quale opera più grande di carità potreste compiere che desistere dal nascondere che siete realmente quali avete voluto essere.

 

LETTERA 32

Scritta dopo la precedente.

Paolino scrive a Romaniano, facoltoso concittadino e benefattore di Agostino (che ne parla con riconoscenza in C. Ac. 2, 2, 3 s.), gli esprime la gioia per l'arrivo di fratelli e di notizie dall'Africa (n. 1) congratulandosi con la chiesa d'Ippona per aver meritato Agostino come vescovo coadiutore (n. 2). Esorta poi Licenzio, figlio di Romaniano (n. 3) a disprezzare il fasto della corte e a dedicarsi a Dio per consolare in tal modo il suo maestro, Agostino (n. 4-5). Acclude un carme, in cui esprime i suoi ammonimenti ed esortazioni al giovanetto.

PAOLINO E TERASIA ALLO STIMATISSIMO SIGNORE E RAGGUARDEVOLISSIMO FRATELLO ROMANIANO

Gioia per l'arrivo di fratelli e di notizie dall'Africa.

1. Il giorno precedente che spedissimo la presente, son tornati dall'Africa i nostri fratelli, che aspettavamo con l'impazienza che hai potuto capire tu stesso, carissimo tra i servi di Dio e le persone più care. Per loro mezzo abbiamo ricevuto lettere di Aurelio, Alipio, Agostino, Profuturo e Severo, tutti ormai diventati vescovi. Felici quindi di aver ricevuto notizie così fresche di tanti e sì qualificati servi di Dio, ci siamo affrettati a farti partecipe della nostra contentezza, per condividere con te, per mezzo delle presenti consolanti notizie, la nostra gioia derivante dalla conclusione di quel viaggio che ci ha tenuti in ansia. Se per caso sei venuto a sapere le stesse notizie circa i nostri venerabili e amatissimi amici per l'arrivo di altre navi, accoglile confermate anche da noi, e di nuovo esulta, per così dire, di gioia rinnovata. Se invece saremo noi i primi a darti questa notizia, rallègrati che nella tua patria ci siamo procurato, per grazia di Cristo, tanto affetto per cui siamo i primi o tra i primi a sapere quanto ivi compie la Divina provvidenza, sempre mirabile - come sta scritto - nei suoi santi 1.

Agostino elevato a Vescovo Coadiutore d'Ippona.

2. Non vi scriviamo però soltanto per rallegrarci che Agostino abbia ricevuto l'episcopato, ma che le Chiese d'Africa abbiano meritato questa prova di sollecitudine da parte di Dio, di sentire cioè le parole del cielo per bocca di Agostino : questi, elevato in modo insolito a un più alto ufficio della religione cristiana, è stato consacrato non per essere il sostituto del vescovo nella cattedra, ma per essergli d'aiuto; in realtà, essendo ancora vivente il vescovo Valerio, Agostino è solo vescovo coadiutore della Chiesa d'Ippona. Così quel santo vecchio, la cui purissima coscienza non fu mai offuscata d'alcuna macchia d'invidia o di gelosia, riceve ora dall'Altissimo frutti degni dei suoi sentimenti pacifici, meritando cioè d'avere ora per collega colui che desiderava semplicemente per suo successore. Si sarebbe mai potuto credere una simile cosa prima che avvenisse? Ma anche a proposito di quest'opera dell'Onnipotente può ripetersi quel detto del Vangelo: Ciò è difficile per gli uomini, a Dio invece tutto è possibile 2. Esultiamo perciò e rallegriamoci in Lui, che solo sa compiere meraviglie 3 e fa vivere nella sua casa coloro che hanno uno stesso spirito 4; poiché rivolse il suo sguardo sulla nostra miseria 5 e visitò con benefici il suo popolo 6; egli, che suscitò un potente Salvatore nella casa del suo servo David 7, ha ora suscitato un potente strumento della Chiesa in mezzo ai suoi eletti, per abbattere, come promette per mezzo del Profeta, la potenza dei peccatori 8, cioè dei Donatisti e dei Manichei.

Sollecitudine per il giovanetto Licenzio.

3. Volesse il cielo che la tromba del Signore che risuona per mezzo di Agostino, arrivi a percuotere l'udito del nostro figliuolo Licenzio, che però dovrebbe udire con l'orecchio interiore per cui entra Cristo, dal quale il nemico non può rapire il seme di Dio 9. Allora sì che ad Agostino potrà sembrare d'essere veramente sommo pontefice di Cristo, perché allora si reputerebbe esaudito dall'Altissimo, se potesse cioè generarlo al Cristo qual figlio degno di sé, come lo generò degno di te nelle discipline letterarie. Da non molto - credilo - ci ha scritto una lettera bruciante di ansia per lui. Noi confidiamo in Cristo onnipotente che sui desideri carnali del nostro giovanetto prevalgano i desideri spirituali di Agostino. Sarà vinto anche suo malgrado; sarà vinto, credimi, dalla fede del suo tenerissimo padre, perché non riporti una cattiva vittoria, qualora preferisse vincere con suo danno piuttosto che lasciarsi vincere per la propria salvezza. E perché il dovere della fraterna gentilezza non sembrasse una parola priva di contenuto, mandiamo a te e al nostro figliuolo Licenzio cinque gallette dei soldati cristiani, con la cui tenuta da combattimento lottiamo per fare ogni giorno rifornimento di temperanza. Non abbiamo infatti potuto escludere dalla nostra benedizione il tuo figliuolo, che desideriamo sia a noi intimamente congiunto per la medesima grazia. Vogliamo però rivolgere brevi parole anche a lui, perché non abbia a dire che non è indirizzato a lui quanto ti abbiamo scritto di lui. Parliamo ad Eschino, perché intenda Micione. Ma perché usare parole d'altri, quando possiamo esprimere ogni cosa con parole nostre e quando usare un linguaggio non proprio suole essere segno di mente non sana? Grazie a Dio la nostra è sana, poiché abbiamo per capo Cristo. Facciamo voti che tu viva in Cristo sano ancora per moltissimi anni e sempre felice con tutta la tua casa, onoratissimo e desideratissimo signore e fratello.

Esortazione a Licenzio.

4. Ascolta dunque, o figlio, la legge di tuo padre, ossia la fede di Agostino: non respingere i consigli di tua madre 10; termine questo che il tenero amore di Agostino può ben rivendicare ugualmente a giusto titolo nei tuoi riguardi. Ti ha portato, egli, ancor piccino nel suo seno, ti ha nutrito col latte della sapienza terrena fin dalla prima fanciullezza, e adesso brama ardentemente di allattarti e allevarti per il Signore col latte spirituale. Poiché, per quanto tu sia già adulto fisicamente, egli ti vede vagire ancora nella culla della vita spirituale, ancora balbettare la parola di Dio, tentare a stento i primi passi nella via di Cristo trascinando il piede incerto, anche se ti sostiene la dottrina di Agostino come la mano d'una madre guida un bimbo incapace di reggersi in piedi e una nutrice lo porta nelle sue braccia. Se tu lo ascolterai e lo seguirai, riceverai, o figlio, una corona di grazie sul tuo capo 11 per usare ancora una espressione di Salomone con cui vorrei attrarti. Tu sarai allora veramente un console e un pontefice, non sognato dalla fantasia ma plasmato dalla verità in persona, cioè da Cristo, il quale realizzerà in te, coi sicuri effetti della sua azione, i vani sogni d'una falsa immaginazione. Sicuro: sarai davvero pontefice e console, o Licenzio, se camminerai sulle orme profetiche e osserverai gl'insegnamenti apostolici di Agostino, come il beato Eliseo fece col beato Elia 12 e il giovane Timoteo con l'illustre Apostolo 13; se non ti staccherai mai dal suo fianco sulla via del Signore, per meritare, mediante la pura e retta intenzione, di diventar sacerdote e di procurare ai popoli la salvezza col magistero della parola.

Paolino esorta Licenzio a seguire Cristo.

5. Ma basta con gli avvertimenti e le esortazioni; poche parole e poca fatica son sufficienti a mio avviso, caro Licenzio, per spronarti a seguire Cristo, infiammato come fosti fin da ragazzo dallo spirito e dalle esortazioni del venerabile Agostino all'amore della verità e della sapienza (l'una e l'altra sono in realtà Cristo) e al sommo di tutti i beni. S'egli potè esercitare sì scarsa influenza su di te, qual risultato potrei conseguire io, che sono di tanto a lui inferiore e tanto meno dotato delle sue risorse spirituali? Ma poiché, convinto come sono della efficacia della sua parola e della bontà del tuo carattere, io voglio sperare che a tuo favore sia stato fatto più e meglio di quanto sia da fare, ho osato parlare aspirando a un doppio merito: ad esser cioè paragonato con la dovuta carità a quel grand'uomo nella sollecitudine che sente verso di te e ad esser annoverato, almeno con questo mio attestato d'affetto, tra coloro che hanno a cuore la tua salvezza. So bene d'altronde che la palma di portare a termine la tua perfezione è destinata soprattutto ad Agostino. Temo, o figlio, d'aver offeso le tue orecchie col rude e temerario mio parlare e, attraverso le orecchie, d'aver ferito anche il tuo animo con l'annoiarti. M'è venuta però in mente la tua lettera indirizzata ad Agostino, dalla quale ho conosciuto la tua familiarità coi ritmi poetici; anch'io provai attrazione per essi quando ero anch'io nella tua età. Ecco quindi che, nel ricordarmi della tua lettera, ho trovato nell'armonia dei versi il rimedio più adatto per placare il dolore che per caso avessi potuto arrecare alla tua anima e insieme richiamarti al Signore, creatore di qualsiasi specie di armonia. Porgi l'orecchio a quanto ti dico, te ne prego, e non disprezzare l'affare della tua salvezza attraverso le mie parole; per quanto esse possano essere disprezzabili, accogliere come prova del mio amorevole desiderio e della paterna mia sollecitudine. Esse sono rese degne di rispetto dal fatto che v'è inserito il nome di Cristo, tanto superiore a qualsiasi altro nome 14, che a nessun fedele è lecito disprezzarlo.

CARME DI PAOLINO A LICENZIO

Orsù, dunque, rompi gli indugi 1 e spezza le dure catene del mondo: non temere il mite giogo del benigno Signore.

Le cose di quaggiù son belle, è vero, ma ammaliano soltanto gli spiriti frivoli: l'animo del saggio invece non rimane a bocca aperta davanti ad esse.

Adesso Roma, capace d'abbattere anche i forti, quale cattiva consigliera ti seduce, ahimé, con le varie sue bellezze. Ma di fronte a tutte le attrattive dell'Urbe ti venga in mente ognora, o figlio, l'immagine paterna di Agostino.

Avendo lui presente al tuo sguardo e nel tuo cuore, potrai essere sicuro fra tanti pericoli della fragile vita. Non cesserò tuttavia di ripeterti più volte ed ammonirti 2 di fuggire gli aspri scogli della carriera militare.

Una gloriosa carriera è bensì affascinante, ma è pure prezzo di una dura schiavitù e la sua fine è piena di afflizione: a chi adesso piace raggiungerla, tosto dispiace averla desiderata.

È bello ascendere alle più alte cariche, ma si teme sempre di doverne discendere. Se metterai il piede in fallo, più funesta sarà la caduta dalle più alte vette.

Adesso ti piacciono i falsi beni, adesso l'ambizione ti trascina con tutti i suoi soffi seducenti e ti porta nel suo grembo, fragile come il vetro, la vuota fama; ma una volta che il cinturone che non si cinge senza pericolo ti avrà circondato di grande affanno e una vana fatica ti avrà infiacchito, allora sarà troppo tardi e inutile accusare le vane speranze, allora vorrai spezzare le catene che ora ti prepari.

Allora ti ricorderai, ma invano, e ti affliggerai di aver disprezzato i veridici ammonimenti d'Agostino, tuo padre.

Perciò, se sei saggio e buono, o figliolo, ascolta e accogli le parole di due padri e il consiglio di due vecchi.

Perché sottrai l'orgoglioso collo al giogo di Cristo? Il mio peso è leggero, soave è il mio giogo 3, dice la voce della bontà divina; affidati a Dio, imponi sul tuo capo il giogo, porgi la bocca al così delicato freno 4 e abbassando le spalle sottomettile a un peso così leggero.

Adesso lo puoi ancora fare, mentre sei ancora libero e non ti trattiene alcun legame né alcuna preoccupazione di matrimonio, né alcuna alta carica.

La vera e bella libertà è quella di servire Cristo e in Lui essere superiore a tutti: non è soggetto ai padroni né alle passioni degli uomini, non ai superbi tiranni solo chi si consacra a Cristo Signore.

E non credere che sia libera la nobiltà che ora vedi altera essere portata in lettiga tra lo stupore dei Romani, mentre vedi che essa si dà l'aria di essere tanto libera, che disdegna di piegare il collo a Dio. Degni d'essere compianti da molti mortali son proprio i nobili 5, essendo schiavi pure di schiavi e comprano domestiche, perché facciano le padrone.

Coloro che hanno sperimentato con amarezza la prepotenza degli eunuchi e le pene dei grandi palazzi, sanno bene quanto sudore e quanto danno alla dignità rechi lì il mantello militare, qui una carica pubblica.

Neppure chi è diventato potente e si è guadagnato con denaro d'essere più alto su tutti gli altri, arriva allo scopo di non servire ad alcuno. Anche se si comporterà da padrone per tutta l'Urbe, se adora gli idoli è schiavo dei demoni. E tuttavia, ahimé, proprio per servire a costoro tu, o Licenzio, rimani nell'Urbe e disprezzi il regno di Cristo per piacere ad essi? E tu li chiami tuoi padroni e li saluti curvando la fronte mentre vedi che sono schiavi d'un pezzo di legno o di pietra?

Sotto il nome di Dio essi adorano l'argento e l'oro; la loro religione è l'oggetto amato dalla passione della cupidigia.

Auguro la disgrazia di amare costoro a chi non ama Agostino, di non adorare Cristo a chi piace adorare costoro.

Ecco perché Dio in persona afferma che non si può servire a due padroni 6, poiché a Dio piace una sola disposizione d'animo; non v'è che una sola fede, un unico Dio 7, un unico Cristo, Figlio del [l'unico] Padre, e [perciò] non può essere diviso con altri il culto dovuto all'unico Signore.

Quanto infatti è distante il cielo dalla terra, altrettanto lo è il regno e il dominio di Cristo da quello di Cesare.

Distàccati dunque dalla terra adesso, finché il soffio vitale anima queste membra 8, elèvati con l'animo fino al cielo; il peso della carne non potrà essere d'ostacolo.

Muori fin d'ora alle azioni carnali e pensa seriamente con animo sgombro da passioni ai beni del cielo.

Sei persona spirituale, quantunque trattenuto dai legami del corpo, se adesso vincerai e soffocherai le azioni carnali con religiosa disposizione di spirito.

Se tu, caro figliuolo, accoglierai queste esortazioni che t'ho scritto con fiducioso amore, sarai accolto da Dio. Fa' conto che parlandoti così, io ti parli pure per bocca di Agostino; accogli, animati dal medesimo affetto per te, due padri; se ci respingerai, sarai strappato con maggior dolore da due persone; se invece ci ascolterai, sarai dolce vincolo d'affetto per l'uno e per l'altro. Per il tuo bene due padri sopportano volentieri ansie e fatiche e sarà per te grande onore far contente due anime. Ma quando mi metto accanto ad Agostino, non è per vanto d'essere a lui uguale, bensì m'associo a lui solo per l'amore che ti porto.

Poiché, qual ristoro mai potrei versarti irrorandoti con le gocce del povero rigagnolo che sono io? Oltre a me, tu sei bagnato da due veri fiumi di sapienza: da Alipio cioè, ch'è tuo congiunto, e da Agostino, ch'è il tuo maestro; unito a te con vincoli di sangue il primo, padre del tuo ingegno il secondo.Puoi contare sul valido aiuto di un parente e di un maestro così qualificati, o Licenzio, ed esiti, sostenuto dalle loro ali, ad innalzarti al cielo?

Qualunque cosa tu faccia (poiché neppure il mondo speri d'averti amico) non sarai sacrificato alla terra, o anima consacrata a Cristo.

Sebbene ora tu pensi alle nozze e alle alte cariche, un giorno sarai restituito al tuo Signore.

Son convinto che due persone vinceranno un sol peccatore e le preghiere di due fratelli sperderanno al vento le tue aspirazioni.

Torna dunque sulla strada, sulla quale t'invitano a tornare il padre dell'anima tua con la parola e il tuo congiunto col vincolo di parentela, entrambi vescovi.

Essi desiderano ricondurti ai tuoi beni, poiché tu ora agogni a beni indegni di te. Questi sono i beni contenuti nei tuoi possessi, questi sì che son degni di te. Torna a questi e brama sol questi, non perdere tempo nel desiderar i beni altrui. Se rifiuterai i tuoi beni, chi ti darà gli altrui? In tal modo non sarai più padrone di te stesso e, come se fossi bandito in lidi lontani, vivrai esule, ahimé, dagli affetti del tuo cuore!

Questi versi indirizzati con ansia paterna al figliuolo, bastino a farti comprendere che quanto auguro o temo per te, lo auguro e lo temo per me stesso. Se accoglierai questo scritto ti apporterà un giorno la vita; se invece lo rifiuterai, sarà un testimonio d'accusa. Cristo mi conceda, carissimo figliuolo, di vederti incolume e ti renda suo servo per sempre. Vivi, ti prego, ma vivi per Iddio; poiché vivere per il mondo è una fatica che dà la morte; vita vera invece è vivere per Iddio.

 

LETTERA 33

Scritta non dopo il 396.

Agostino dichiara al vescovo donatista d'Ippona, Proculiano, l'affetto cristiano che nutre per lui (n. 1) invitandolo ad una discussione per comporre lo scisma (n. 2) e pregandolo d'interpretare benevolmente una risposta un po' risentita avuta da Evodio, zelante fautore dell'unità (n. 3). Dopo aver posto le condizioni per un incontro fruttuoso invita a por fine alla divisione fra i Cristiani a motivo della carità che unisce (n. 4-6).

AGOSTINO A PROCULIANO, ONOREVOLE E DILETTISSIMO SIGNORE

Che cosa intende onorare in Proculiano.

1. A causa dei vani giudizi di persone ignoranti non debbo dilungarmi in una disputa sull'intestazione di questa mia lettera. Infatti noi ci sforziamo di liberarci l'un l'altro dell'errore; e quantunque, prima di discutere a fondo la questione, possa ad alcuni apparire incerto chi di noi sia nel torto, noi tuttavia ci rendiamo servizio a vicenda se siamo mossi da retta intenzione di eliminare il gran male della discordia. Che io sia realmente mosso ad agire con retta intenzione e con trepido sentimento di cristiana umiltà lo vede chi scruta le coscienze, anche se ciò non è manifesto ai più. Non ti riesce poi difficile capire che cosa in te non esito ad onorare. Certamente non reputo degno d'onore alcuno l'errore dello scisma, dal quale, per quanto mi riguarda, desidero che siano guariti tutti gli uomini. Ma sei tu in modo particolare che io voglio onorare per il fatto che non solo ci sei legato col vincolo della stessa comune natura umana, ma perché in te vi sono, più evidenti che in altri, segni d'animo eminentemente pacifico; per questo non bisogna perder la speranza che tu possa facilmente abbracciare la verità appena ti sarà dimostrata; ecco quello che io credo, senza la minima increspatura di dubbio, debba essere onorato nella tua persona. Debbo poi portarti tanto amore, quanto ne comanda Chi ci ha amato fino a subire l'obbrobrio della Croce.

Accetta di incontrasi con Proculiano.

2. Non ti meravigliare però del mio lungo silenzio con la tua Benignità; non credevo alla intenzione riferitami con tanta gioia dal fratello Evodio, al quale non posso non prestar fede. Egli infatti mi riferì che essendovi per caso incontrati insieme in una stessa casa ed essendo caduto tra voi il discorso su la nostra comune speranza, cioè sull'eredità di Cristo, la tua Benignità gli aveva manifestato il desiderio di conferire con me in una riunione di persone degne di stima. Godo assai che ti sia degnato d'indirizzarti alla mia modesta persona; d'altra parte non potrei lasciarmi sfuggire un'occasione sì propizia, offertami con tanta bontà, per cercare e discutere con te, nei limiti delle forze che il Signore vorrà concedermi, la causa, l'origine e il motivo per cui è sorta una così dolorosa e deplorevole scissione effettuatasi nella Chiesa, alla quale Cristo ha pure detto: A voi do la mia pace, a voi lascio la mia pace 1.

Si scusi un'asserzione troppo vivace.

3. Dal suddetto fratello ho sentito dire che ti sei lamentato con lui per non so quale risposta offensiva che ti avrebbe rivolto. Ti prego di non credere che ti abbia voluto offendere, poiché son certo che le sue parole non erano espressione d'un animo superbo, in quanto conosco bene questo mio fratello. Se in una discussione in difesa della propria fede e nel suo amore verso la Chiesa espresse forse con troppo ardore un giudizio non gradito alla tua dignità, non lo fece, dico, per arroganza ma per baldanza. Voleva, infatti, sostenere una discussione mediante argomenti e non esser soltanto compiacente adulatore. L'adulazione è appunto l'olio del peccatore, di cui il profeta non desidera avere impinguato il suo capo quando dice: Mi correggerà il giusto con misericordia e mi sgriderà; ma l'olio del peccatore non impingui la mia testa 2. Preferisco infatti d'essere emendato dalla severità misericordiosa del giusto anziché essere lodato dal delicato unguento dell'adulatore. La stessa cosa insinua il profeta col dire: V'ingannano e v'inducono in errore [proprio] quelli che vi chiamano felici 3. Per questo, di chi è divenuto arrogante per le adulazioni suol dirsi a ragione: "S'è montato la testa", perché fu impinguato dall'olio del peccatore, cioè non dall'amara verità di chi redarguisce, ma dalla falsa dolcezza di chi blandisce. Non prendere però le mie parole in senso cattivo, come se io volessi dire che sei stato ripreso da Evodio, come da un giusto. Temo infatti che tu attribuisca pure a me l'intenzione di offenderti con le mie parole, mentre io cerco d'evitare ciò con tutte le mie forze. Giusto è infatti Colui che ha detto: Son io la verità 4. Quando perciò sentiamo direi da uno qualche verità in tono alquanto pungente, noi veniamo corretti non già da quel tale, che forse è peccatore anche lui, ma dalla stessa Verità, cioè da Cristo, ch'è il Giusto, affinché il nostro capo non resti impinguato dall'olio della delicata ma dannosa adulazione, qual è l'olio del peccatore. Se però il fratello Evodio, un po' eccitato nel difendere la propria comunione, avesse alzato un po' troppo la voce per causa dell'interna agitazione, bisognerebbe che tu lo scusassi, tenuto conto dell'età e di una questione così essenziale.

Condizioni per una conferenza fruttuosa.

4. Ti prego intanto di ricordarti di quanto hai voluto promettere, di trattare cioè pienamente d'accordo un affare così importante e riguardante la salvezza di tutti, discutendolo alla presenza di persone da te scelte, a patto che le nostre parole non siano gettate al vento senza alcun risultato, ma siano fissate per iscritto. In tal modo potremo discutere con più calma e ordine, e richiamare alla mente quanto ci potesse sfuggire dalla memoria. Oppure, se ciò più ti garba, senza ricorrere ad interposte persone, potremo avere prima un incontro tra noi, o per corrispondenza epistolare o mediante conversazioni e letture, come ci parrà più opportuno. In tal modo potremmo pure evitare che persone piuttosto sfacciate vengano ad ascoltarci più per il gusto di assistere ad una specie di nostro duello oratorio, che pensare alla loro salvezza durante la nostra conversazione. Noi stessi potremmo, in seguito, portare a conoscenza del popolo le conclusioni del nostro incontro. Qualora invece tu preferissi trattare mediante uno scambio di lettere, se ne dovrebbe dare in seguito lettura alle rispettive comunità cristiane, augurandoci che si parli una buona volta non di due ma di una sola comunità cristiana. In una parola, accetto ben volentieri quanto tu deciderai, comanderai o preferirai che si faccia in proposito. Circa la disposizione d'animo del beatissimo e mio venerando padre Valerio, ora assente, posso assicurarti che apprenderà la cosa con molta gioia: so infatti quanto gli stia a cuore la pace e quanto rifugga dalla vanagloria e dalla futile brama di mettersi in mostra.

Si ponga fine alla funesta divisione dei cristiani.

5. Io poi ti domando: che colpa abbiamo noi delle vecchie discordie perché debbano durare fino ad ora le ferite inflitte alle nostre membra dall'animosità di persone gonfie di superbia? Essendosi le piaghe incancrenite, abbiamo perduto perfino il dolore che di solito spinge ad implorare il soccorso del medico. Vedi di quanta vergognosa sozzura sono state imbrattate le case e le famiglie cristiane! Mariti e mogli vivono d'accordo nell'intimità coniugale, eppure sono in discordia quando si tratta dell'altare di Cristo. Nel nome di Lui giurano di mantenere la pace nei rapporti vicendevoli, eppure non possono averla nei rapporti con Lui. I figli hanno un'unica casa coi genitori, eppure non hanno un'unica casa di Dio; desiderano entrare in possesso dell'eredità dei genitori, mentre sono in contrasto con essi sull'eredità di Cristo. Servi e padroni dividono il comune Signore, che prese la forma di servo 5, per liberare tutti gli uomini col servirli. Noi siamo trattati con rispetto dai vostri, come voi dai nostri. I vostri ci scongiurano per la nostra dignità sacerdotale, per la vostra vi scongiurano i nostri. A tutti diamo ascolto, non vogliamo offendere nessuno. È forse soltanto Cristo a farci torto, perché ne lacerassimo le membra? La gente, inoltre, quando desidera far dirimere da noi le sue liti riguardanti gli affari temporali, in qualunque modo le fossimo necessari, si rivolge a noi chiamandoci santi e servi di Dio, per concludere i suoi affari terreni; occupiamoci dunque noi pure una buona volta dell'affare comune della nostra e loro salvezza, non già dell'oro e dell'argento, dei poderi e del bestiame; per tutte queste cose tutti i giorni veniamo salutati con profondi inchini del capo, affìnché dirimiamo controversie riguardanti uomini, mentre esiste tra noi un dissenso vergognoso e pernicioso riguardo allo stesso nostro Capo. Per quanto umilmente essi abbassino il capo per salutarci perché li rendiamo concordi sulla terra, non l'abbasseranno mai quanto s'è abbassato il nostro Capo, riguardo al quale non siamo affatto d'accordo; Egli è infatti disceso dal cielo fin sulla Croce!

Appello alla carità per l'unità dei cristiani.

6. Se hai un po' di quella umanità, di cui molti parlano, ti prego e ti scongiuro che la tua bontà si dimostri in quest'occasione, salvo che la tua non sia una finzione per raggiungere onori transitori: làsciati commuovere dai più intimi sentimenti di carità e deciditi a discutere quest'affare, insistendo con noi nella preghiera e mettendo a confronto ogni motivo di divergenza con pacatezza d'animo, affinché i poveri fedeli, che rendono omaggio alla nostra dignità con le loro manifestazioni d'ossequio, non ce ne facciano carico al giudizio di Dio, ma al contrario, distolti dagli errori e dalle discordie mediante la nostra sincera vicendevole carità, vengano guidati nella via della verità e della pace. T'auguro ogni felicità sotto lo sguardo di Dio, o mio onorato e amatissimo signore.

 

LETTERA 34

Scritta dopo la precedente.

Agostino, ardentemente desideroso della pace e dell'unità della Chiesa (n. 1), si lamenta con Eusebio perché un giovane furibondo e snaturato, che aveva l'abitudine di battere la madre, minacciata perfino di morte, sia stato ribattezzato dai Donatisti (n. 2), colpendo al cuore la madre Chiesa (n. 3); Agostino lo prega d'informarsi se il fatto è avvenuto per ordine di Proculiano e di sollecitare dallo stesso un dibattito per trattare tutta la questione, pronto a farsi sostituire dal vescovo Sansucio (n. 4-6).

AGOSTINO ALL'ESIMIO, RAGGUARDEVOLISSIMO E ONORANDO FRATELLO EUSEBIO

Desiderio di pace e di unità cristiana.

1. Dio solo, cui son palesi i segreti del cuore umano, sa che quanto io amo la pace cristiana altrettanto sono addolorato delle azioni sacrileghe di coloro che, in modo indegno ed empio, persistono nella rottura di questa pace. Dio sa pure che questo mio dolore nasce da un sentimento di pace e che non agisco per costringere alcuno a tornare contro sua volontà nella comunione della Chiesa Cattolica, ma affinché a tutti gli erranti appaia chiara la verità, e, una volta resa manifesta mediante il nostro ministero con l'aiuto di Dio, persuada da se stessa a farsi abbracciare e seguire.

Lo sventurato giovane ribattezzato dai Donatisti.

2. Ora, per non parlare d'altro, ti domando che cosa può esserci di più esecrando di quel che accade in questi tempi? Un giovane dissennato vien ripreso dal proprio vescovo perché batte continuamente la madre e non tiene lontane dal seno, che gli ha dato la vita, l'empie sue mani neppure nei giorni in cui la severità delle leggi perdona perfino i più scellerati. È arrivato perfino a minacciare la madre di passare nella sètta di Donato e di toglierla di mezzo, non contento di percuoterla, al solito, con incredibile furore. La minaccia, passa nella sètta di Donato, viene ribattezzato in preda al furore, è rivestito della veste candida, mentre ancora freme d'ira contro il sangue materno. Lo si mette nel coro su d'un'alta pedana per mostrarlo all'assemblea dei fedeli, che scoppiano in gemiti, e mentre questo figlio scellerato medita il matricidio, lo si presenta come spiritualmente rigenerato!

Dovere di denunciare i misfatti d'un apostata.

3. Orbene, potresti approvare simili mostruosità tu che hai un animo così nobile? Mai e poi mai potrei credere di te una simile assurdità: conosco bene la tua saggezza! Una madre secondo la carne viene percossa nelle membra con cui ha generato e allevato il figlio snaturato; la Chiesa, madre spirituale, riprova tale comportamento; ed eccola anch'essa percossa nei sacramenti, coi quali ha dato vita e nutrimento all'ingrato! E non ti pare di averlo sentito gridare pieno di rabbia e di furore parricida: "Che farò dunque alla Chiesa, che mi proibisce di battere mia madre? Ho trovato quel che ho da fare! Sarà ferita anch'essa con tutte le offese possibili; s'avveri in me qualcosa per cui le sue membra abbiano a soffrire! Passerò nella sètta di coloro che sanno cancellare la grazia per cui divenni figlio della Chiesa, che sanno distruggere il carattere che presi nel suo grembo. In tal modo strazierò con fieri tormenti tutte e due le mie madri: per prima mi piangerà morto quella che mi ha generato dopo. Per addolorare questa, morrò spiritualmente; per torturare quella vivrò carnalmente". Cosa altro aspettiamo, stimatissimo Eusebio, se non che costui, sentendosi ormai sicuro perché Donatista, impugni le armi contro la povera donna, ormai vecchia decrepita, vedova, priva d'aiuto, di percuoterla quale gli era proibito quand'era nella Chiesa cattolica? Qual altro progetto poteva in realtà concepire nell'animo furibondo, allorché diceva alla madre: "Passerò nella sètta di Donato e berrò il tuo sangue"? Eccolo: già sanguinario nella coscienza, rivestito della veste candida, ha già mantenuto la prima parte della sua promessa; gli resta solo la seconda, cioè bere il sangue di sua madre. Se dunque si approvano certe azioni, venga pure spinto dai suoi chierici e santificatosi a compiere tutto quello che ha promesso durante gli otto giorni in cui deve portare il suo abito bianco.

L'orrendo misfatto.

4. La destra del Signore, tuttavia, è potente a tenere lontano da questa povera e desolata vedova il furore di codesto sciagurato e a distoglierlo, coi mezzi a Lui noti, da un disegno sì criminale. Io però, colpito da tanta angoscia, cos'altro potrei fare che alzare la mia voce di protesta? Dunque, gli apostati commettono tali misfatti, e a me si viene a dire: "Sta zitto"? Il Signore tenga lontano da me tale demenza, per cui, mentre Egli per bocca del suo Apostolo mi comanda dicendo che dal vescovo devono essere confutati quelli che insegnano cose sconvenienti 1, io me ne stia zitto per paura delle loro indignate minacce! Ho voluto che questa sacrilega scelleratezza fosse registrata nei verbali degli atti pubblici proprio perché specialmente in altre città, ove sarà più opportuno parlarne, nessuno abbia a pensare che io deplori dei fatti immaginari; perfino ad Ippona, infatti, si va già dicendo che non fu Proculiano a ordinare ciò, mentre la cosa è stata riferita ufficialmente nei registri municipali dagli ufficiali di pubblica sicurezza.

Invito a Proculiano per l'unità cristiana.

5. Orbene, che cosa possiamo fare con più moderazione che trattare un affare sì grave per mezzo di te, rivestito come sei di autorità tanto spiccata e dotato di profonda e tranquilla prudenza? Ti chiedo quindi, come t'ho già fatto chiedere per mezzo dei nostri fratelli, persone buone ed oneste inviate appositamente, che ti degni d'indagare se Vittore abbia ricevuto questo mandato dal suo Vescovo, come ha riferito, oppure gli ufficiali civili abbiano registrato il falso negli Atti pubblici, nonostante che appartengano alla stessa comunione. Se poi Proculiano acconsentisse a trattare insieme e pacificamente la questione dello scisma, lo farei volentieri, affinché apparisse ancor più manifesto l'errore già di per sé evidente. Ho infatti sentito dire che, per evitare qualunque tumulto popolare, propone che siano presenti alle nostre discussioni solo dieci persone serie e onorate per ciascuna delle due parti e cerchiamo quale, secondo le Sacre Scritture, sia vera dottrina. Alcuni inoltre hanno riferito che Proculiano ha avuto da ridire perché non sono andato a Costantina, dal momento che i Donatisti vi s'erano riuniti in gran numero, e dice che dovrei recarmi a Mileo, perché lì, come essi affermano, terranno prossimamente un concilio. Ma queste sono chiacchiere ridicole; come se il mio compito fosse di occuparmi di loro e non della Chiesa d'Ippona! Quanto alla presente questione, essa riguarda soprattutto me e Proculiano. Nel caso però ch'egli si ritenesse impari a cimentarsi con me, potrebbe ricorrere, qualora lo preferisse, all'aiuto di qualche collega. In realtà nelle altre città la nostra azione si svolge solo nell'interesse della Chiesa o di quel che ci permettono o ci impongono i vescovi delle medesime città, nostri fratelli nel sacerdozio.

Propone il Vescovo Sansucio, illetterato, a far le sue veci.

6. Del resto non comprendo bene che cosa costui, che dice di essere vescovo da tanti anni, possa temere da parte d'un vescovo novellino quale sono io, per rifiutarsi d'intrattenere una discussione con me. Teme per caso la mia cultura letteraria, che forse non ha imparato per nulla o solo superficialmente? Ma quale importanza può avere la cultura nella questione che si deve discutere sulla base della Sacra Scrittura o di documenti ecclesiastici o pubblici, cosa di cui egli s'occupa da tanti anni e in cui perciò dovrebbe essere ben più versato di me? C'è finalmente qui il mio fratello e collega Sansucio, vescovo della Chiesa di Turri, il quale non possiede la minima cultura letteraria, che costui dice di temere. Ebbene, sia pure questo vescovo a incontrarsi e a trattare con lui! Io lo pregherò e, come spero nel nome di Cristo, mi concederà senz'altro di far le mie veci in questa faccenda. Il Signore poi, come spero, lo aiuterà in questo dibattito per la verità, perché, anche se non è raffinato nel parlare, è però assai versato nella vera fede. Non c'è dunque alcun motivo perché Proculiano rimetta il dibattito della questione ad altri e rifiuti di trattare tra noi ciò che del resto è solo di nostra competenza. A ogni modo, come già ho detto, io non escludo neppure coloro di cui domanderà l'aiuto.

 

LETTERA 35

Scritta poco dopo la precedente.

A. si lamenta ancora con Eusebio, pregandolo di espellere il diacono Primo (n. 1-2) e di reprimere l'audacia dei chierici Donatisti, altrimenti userà tutti i mezzi leciti e la pubblica accusa di essi onde difendere la libertà di coscienza (n. 3-4). Chiede una risposta (n. 5).

AGOSTINO AD EUSEBIO, ESIMIO, DEGNO DI OGNI MERITO E DILETTISSIMO FRATELLO

Equivoco atteggiamento di Eusebio.

1. Non sono stato io, con esortazioni e con preghiere importune, ad imporre alla tua volontà riluttante di assumerti il compito di giudice - come tu affermi - in mezzo ad un consesso di vescovi. Anche se avessi voluto indurti a ciò, non mi sarebbe forse difficile dimostrarti di quanto grande autorità tu sia rivestito per giudicare tra noi in una faccenda sì chiara e lampante e che razza di condotta è la tua, dacché, senza aver ascoltato le due parti, non esiti a pronunciare il tuo parere a favore di una di esse, proprio tu che hai paura di pronunciare il tuo giudizio in proposito; ma per ora - come t'ho già detto - non voglio parlare di questo. Io, comunque, non avevo domandato alla tua venerata Benignità - e ti prego di volerne prendere atto una buona volta almeno in questa lettera - non avevo domandato se non che tu domandassi a Proculiano se aveva detto al suo prete Vittore quanto il pubblico ufficiale riferì come denunciato a lui, o se invece per caso quelli che ne avevano ricevuto l'incarico riferirono non già quanto avevano sentito da Vittore, ma fecero registrare una menzogna negli Atti municipali. Ti chiedevo pure che gli domandassi cosa pensasse della mia proposta di discutere l'intera questione tra noi. Ora, io penso che uno non viene costituito giudice per il solo fatto che è pregato d'interrogare un altro e di usare la cortesia di far sapere per iscritto la risposta ottenuta. Ti prego ancora una volta che non ti dispiaccia di farmi questo favore, poiché Proculiano, come so anche per esperienza, rifiuta di ricevere mie lettere; se avesse acconsentito, non sarei ricorso ai tuoi buoni uffici per questo scopo. Dato però ch'egli non acconsente, che cosa posso fare di più moderato se non chiedergli, per mezzo d'un personaggio par tuo e suo amico, notizie su un affare che la responsabilità della mia carica m'impedisce di tacere? Il tuo nobile cuore ha disapprovato il fatto che quella madre sia stata battuta dal figlio; "se lo avesse saputo pure Proculiano - tu mi dici - avrebbe allontanato dalla sua comunione un giovane sì scellerato"; a ciò ti rispondo in due parole: "Adesso egli lo sa, ordunque lo allontani".

Abominevole condotta del diacono Primo.

2. Debbo segnalarti anche un altro fatto. Un suddiacono di nome Primo, appartenente una volta alla Chiesa di Spaniano, poiché gli era stato proibito di praticare, contro le norme disciplinari, l'abitazione delle religiose e disprezzava i sani precetti delle regole, fu rimosso dalla dignità clericale. Egli allora, irritato del castigo inflitto secondo la legge di Dio, passò ai Donatisti e da questi fu ribattezzato. Intanto due religiose del medesimo contado, abitanti in un podere appartenente a cristiani Cattolici, o perché trascinate da lui o per averlo seguito spontaneamente nella sètta, sono state ribattezzate anch'esse. Ed ora eccolo aggregato a bande di Circoncellioni e in mezzo a turbe di femmine vagabonde, che hanno rinunciato al matrimonio per non stare sottomesse ad alcuna regola; eccolo abbandonarsi sfrontato e tracotante agli eccessi del bere e alle orge, contento di essersi procurato la più ampia licenza di vivere nel male, da cui veniva allontanato nella Chiesa Cattolica. Forse Proculiano ignora anche questo fatto: voglia dunque la tua mansueta Nobiltà farglielo sapere e ordini che sia rimosso dalla sua comunione colui che la scelse unicamente perché nella Chiesa Cattolica era stato rimosso dalla dignità clericale per la sua disubbidienza e per la sua condotta depravata.

Agostino userà tutti i mezzi leciti per eliminare gli scandali.

3. Quanto a me, ecco la norma che osservo con la grazia di Dio: se uno, degradato dai Donatisti per motivi disciplinari, vorrà passare alla Chiesa Cattolica, dovrà essere ricevuto nell'umiliazione della penitenza a cui forse l'avrebbero costretto gli stessi Donatisti, se avesse voluto rimanere nella loro sètta. E ora considera quanto sia esecrabile il modo d'agire dei Donatisti, per cui quelli che a norma della disciplina ecclesiastica sono da noi puniti per la loro cattiva condotta, vengono costretti a ricevere un altro battesimo e, per meritare di riceverlo, a rispondere d'essere pagani, mentre perché una tale parola non uscisse più da labbra cristiane, è stato sparso sì abbondante sangue di martiri! Questi ribattezzati poi, come se fossero rinnovati e santificati, mentre son diventati peggiori di prima, vengono indotti a oltraggiare, col pretesto d'un nuovo stato di grazia e con un sacrilegio di rinnovato furore, la stessa disciplina cattolica che non seppero sopportare. Ma se mi adopero inutilmente a far correggere queste scelleratezze ricorrendo alla tua Benevolenza, nessuno poi venga a lamentarsi di me, se farò in modo che Proculiano venga informato per mezzo degli Atti pubblici; credo che non possano essermi negati in una città romana. Orbene, Dio ci comanda di annunziare e predicare la sua parola e confutare quelli che insegnano ciò che non si deve e anzi di insistere a tempo e fuor di tempo 1, come dimostro con le parole del Signore e degli Apostoli nella Sacra Scrittura; nessuno quindi pensi di convincermi a tacere su tali cose! Se poi gli avversari crederanno d'intimorirci con la violenza o con metodi briganteschi, sappiano che il Signore non mancherà di difendere la sua Chiesa, avendo egli assoggettato al proprio dominio nel suo grembo tutti i regni della terra.

Agostino tutela la libertà di coscienza.

4. Ecco un altro misfatto: un colono della Chiesa aveva una figlia, che era già stata catecumena presso di noi; fu indotta a passare dalla parte dei Donatisti contro la volontà dei genitori, perché da quelli fosse battezzata e abbracciasse pure la regola monacale. Ora, suo padre voleva far valere rigorosamente i suoi diritti paterni per farla ritornare alla comunione cattolica, ma io non volli che quella donna (il cui cuore era stato traviato) fosse accolta, se non a patto che lei stessa avesse, di spontanea e piena volontà, scelto la condizione migliore. Il contadino invece, perché la figlia gli desse retta, cominciò pure ad insistere con le percosse, ma io mi opposi subito assolutamente a tale metodo. Mentre però passavamo per Spaniano, un prete di Proculiano, che si trovava nel podere di una rispettabile donna cattolica, si diede a lanciarci alle spalle espressioni spudorate chiamandoci "traditori" e persecutori; tale insulto lo scagliò pure contro quella donna appartenente alla nostra comunione, mentre egli si trovava nel podere di essa. A sentire quegli insulti, frenai non solo me stesso, ma anche la folla che m'accompagnava, dall'attaccar briga e venire a diverbio. Eppure, se io dicessi: "Si cerchi chi sono o furono i traditori o i persecutori", mi si risponderebbe: "Noi non vogliamo disputare, vogliamo solo ribattezzare. Vogliamo, a guisa dei lupi, depredare le vostre pecore, azzannandole nell'imboscate; voi invece, se siete buoni pastori, tacete". Orbene, cos'altro mai ha ordinato Proculiano (se davvero è stato lui a dare tale ordine) se non: "Se sei cristiano, rimetti ciò al giudizio di Dio; se noi poi facciamo il contrario, tu sta' zitto". La stessa minaccia osò rivolgere il medesimo prete a quel contadino, fittavolo di quel podere della Chiesa.

Prega Eusebio di fargli sapere la risposta di Proculiano.

5. Fammi dunque il favore di far conoscere tutti questi fatti a Proculiano; voglia costui porre un freno al pazzo furore dei suoi chierici, di cui, mio venerando Eusebio, non ho voluto tacere con te. Ti vorrai pertanto degnare di rispondermi e farmi sapere non la tua opinione riguardo a quanto ti ho scritto (perché tu non creda che ti voglia addossare il peso di giudice) ma che cosa essi rispondono. La misericordia di Dio ti conservi sano e salvo, mio esimio signore, mio stimatissimo e dilettissimo fratello.