LA CITTA’ DI DIO

Sant’Agostino

[Libri VI-X]

 

LIBRO III

SOMMARIO

1. Certe sventure sono temute soltanto dai malvagi ma da esse il mondo è stato sempre afflitto quando era politeista.

2. Se gli dèi onorati egualmente dai Romani e dai Greci avessero ragioni per permettere l'eccidio di Troia.

3. Gli dèi non dovevano offendersi dell'adulterio di Paride perché, stando alla tradizione, era praticato anche da loro.

4. La teoria di Varrone secondo cui è vantaggioso che gli uomini pensino falsamente di avere origine dagli dèi.

5. Non era giusto che gli dèi punissero l'adulterio di Paride perché non l'hanno punito nella madre di Romolo.

6. Gli dèi non hanno punito il fratricidio di Romolo.

7. Il saccheggio di Troia compiuto da Fimbria generale di Mario.

8. Roma non doveva affidarsi agli dèi di Troia.

9. Se si deve credere che gli dèi abbiano agevolato la pace che si ebbe durante il regno di Numa.

10. Non era auspicabile che l'impero romano si allargasse attraverso l'efferatezza delle guerre, quando con la politica che si ebbe sotto Numa poteva rimanere tranquillo e sicuro.

11. L'idolo dell'Apollo di Cuma avrebbe indicato col pianto la sconfitta dei Greci che non poteva aiutare.

12. Oltre alla costituzione di Numa i Romani aggiunsero molti dèi il cui numero non recò alcun vantaggio.

13. Con quale vincolo giuridico i Romani celebrarono i primi matrimoni.

14. Ingiustizia della guerra che i Romani mossero ad Alba e conseguimento della vittoria per passione di dominio.

15. Vita e morte dei re di Roma.

16. I primi consoli di Roma, di cui uno esiliò l'altro e in seguito dopo efferati parricidi morì di ferite ricevute dal nemico ferito.

17. Dopo l'inizio della magistratura consolare lo Stato romano fu afflitto da molte sciagure perché gli dèi che adorava non lo soccorsero.

18. Molte sconfitte prostrarono i Romani durante le guerre puniche perché inutilmente si chiese l'intervento degli dèi.

19. Dalla sciagura della seconda guerra punica furono logorate le forze dell'una e dell'altra parte.

20. La fine di Sagunto non protetta dagli dèi di Roma, sebbene fosse sterminata a causa dell'amicizia per i Romani.

21. La cittadinanza romana fu ingrata a Scipione suo liberatore e con quale moralità viveva quando Sallustio narra che era di somma onestà.

22. Mitridate con un editto ordinò di uccidere tutti i cittadini romani che si trovavano in Asia.

23. Lo Stato romano fu sconvolto anche da mali interni per preannuncio di un prodigio consistente nel ritorno degli animali domestici alla ferinità.

24. La discordia civile suscitata dalle sedizioni dei Gracchi.

25. Il tempietto della Concordia costruito per decisione del senato nel luogo delle sommosse e delle stragi.

26. Le varie forme di guerra che seguirono all'erezione del tempietto della Concordia.

27. La guerra civile di Mario e Silla.

28. Caratteri della vittoria di Silla che puniva la crudeltà di Mario.

29. Un confronto fra l'invasione dei Goti e le sconfitte che i Romani ricevettero dai Galli e dai fautori delle guerre civili.

30. Il complesso delle guerre che in gran numero e gravità si verificarono prima della venuta del Cristo.

31. Senza riflessione gli individui cui si vieta il politeismo attribuiscono al Cristo le presenti sventure, dato che nel periodo in cui era in vigore avvennero tanti flagelli.

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA

Criteri di giudizio dei fatti storici (1-12)

Una realistica visione della storia.
1.
Ritengo che è stato detto abbastanza nei confronti dei mali morali e spirituali i quali più degli altri si devono evitare e cioè che gli dèi falsi non si sono affatto preoccupati di aiutare il popolo che li adorava affinché non ne fosse schiacciato dal cumulo, ma si adoperarono piuttosto che ne fosse gravato al massimo. Penso che ora si debba parlare di quei mali, i soli che i pagani non vogliono subire, come povertà, malattia, guerra, saccheggio, schiavitù, strage e altri simili di cui ho già parlato nel primo libro. I malvagi ritengono unici mali questi che non rendono malvagi e non si vergognano di essere malvagi fra le cose che valutano come beni proprio essi che così le valutano. Si stizziscono di più se hanno una cattiva villa che una cattiva condotta come se stimare un bene tutte le cose fuorché se stessi sia il più grande bene dell'uomo. Eppure i loro dèi, quando ne era permesso il culto, non impedirono che accadessero loro questi mali, i soli che essi temevano. Prima della venuta del nostro Redentore in luoghi e tempi diversi l'uman genere fu colpito da innumerevoli e alcune perfino incredibili sventure. Eppure se si eccettuano il popolo ebraico e fuori di esso alcuni che in ogni parte della terra per occulto e giusto giudizio di Dio furono degni della grazia divina, il mondo adorava soltanto questi dèi. Tuttavia, per non farla troppo lunga, non parlerò delle gravissime sciagure degli altri popoli nelle diverse regioni. Parlerò soltanto, per quanto attiene a Roma e all'impero romano, cioè alla città in particolare e alle altre che in tutto il mondo furono alleate o soggette, dei mali che subirono prima della venuta di Cristo, quando appartenevano per così dire al corpo dello Stato.

Il politeismo e la fine di Troia.
2.
Comincio da Troia o Ilio, da cui deriva la stirpe dei Romani perché non si deve tralasciare o evadere l'argomento che ho toccato anche nel primo libro 1. Se dunque Ilio aveva e onorava i medesimi dèi, perché fu vinta, saccheggiata e distrutta dai Greci? Furono fatte pagare a Priamo, dicono, i falsi giuramenti di suo padre Laomedonte 2. Dunque è vero che Apollo e Nettuno prestarono servizio a Laomedonte come salariati? Si narra infatti che promise loro un salario e giurò il falso 3. Mi meraviglio che Apollo presentato come divinatore faticò ad un'opera così grandiosa senza prevedere che Laomedonte non avrebbe mantenuto le promesse. Neanche per Nettuno, suo zio paterno, fratello di Giove e re del mare, era dignitoso essere inconsapevole del futuro. Infatti Omero che, come si dice, visse prima della fondazione di Roma, lo presenta nell'atto di divinare un glorioso avvenire alla stirpe di Enea 4, dai cui posteri è stata fondata Roma. Lo avvolse perfino in una nube perché non fosse ucciso da Achille, sebbene bramasse distruggere dalle fondamenta, come confessa nel testo di Virgilio, le mura di Troia spergiura costruite con le proprie mani 5. Dunque dèi così grandi, come Nettuno e Apollo, senza sapere che Laomedonte avrebbe negato la paga, furono costruttori delle mura di Troia, per i grati e per gli ingrati. Riflettano i Romani se non è più pericoloso riconoscerli come dèi che non mantenere loro le promesse giurate. Lo credette molto probabilmente anche Omero perché presenta Nettuno che combatte contro i Troiani ed Apollo in loro favore, sebbene il mito racconti che furono ambedue offesi dal falso giuramento. Se dunque credono ai miti, si vergognino di adorare simili divinità; e se non credono ai miti, non adducano a pretesto i giuramenti falsi di Troia o si meraviglino che gli dèi punirono gli spergiuri di Troia e amarono quelli di Roma. Per quale ragione infatti la congiura di Catilina ebbe in uno Stato tanto grande e tanto depravato un numeroso gruppo di cittadini che l'azione e la parola nutrivano di falso giuramento o di strage civile 6? Quale altra mancanza insomma se non spergiurare commettevano i senatori, tante volte corrotti nei giudizi ed altrettante il popolo nelle votazioni e negli altri affari che si trattavano nelle sue assemblee? A causa infatti dell'immoralità si conservava l'antico istituto del giuramento, non allo scopo di astenersi dai delitti col timore della religione, ma per aggiungere agli altri delitti anche i giuramenti falsi.

Aspetti della mitologia eticamente inspiegabile.
3.
Non v'è motivo dunque perché si immagini poeticamente che gli dèi, dai quali, come dicono, fu difeso il dominio di Troia 7, fossero adirati contro i Troiani spergiuri. È chiaro che furono vinti dai Greci più forti. E neanche abbandonarono Troia perché erano indignati per l'adulterio di Paride, come si dice a loro difesa da alcuni. Di solito favoriscono e insegnano i peccati, non li puniscono. All'inizio, come io ho appreso, dice Sallustio, i Troiani che profughi sotto la guida di Enea vagavano senza meta fissa, fondarono Roma e vi si insediarono 8. Se dunque le divinità pensarono di punire l'adulterio di Paride, soprattutto nei Romani o senz'altro anche nei Romani doveva esser punito, perché pure la madre di Enea lo commise. Con quale criterio potevano odiare in Paride quel misfatto se non odiavano nella loro compagna Venere l'atto, per tacere di altri, compiuto con Anchise, da cui aveva avuto Enea? Forse perché uno fu compiuto malgrado lo sdegno di Menelao e l'altro con la condiscendenza di Vulcano? Mi par proprio che gli dèi non siano gelosi delle proprie mogli al punto di accondiscendere ad averle in comune con gli uomini. Si pensa forse che sto schernendo i miti e che non tratto con la dovuta serietà un argomento tanto importante. Dunque, se si vuole, non crediamo che Enea fosse figlio di Venere; lo concedo se crediamo che neanche Romolo lo fu di Marte. Se l'uno, perché non anche l'altro? È forse ammissibile che gli dèi si uniscano a uomini femmine ed è inammissibile che uomini maschi si uniscano alle dee? È dura e piuttosto incredibile la condizione che ciò che per diritto di Venere fu lecito a Marte nell'accoppiamento non fosse lecito nel proprio diritto alla stessa Venere. Ma l'uno e l'altro sono stati confermati da un'autorevole letteratura romana. Cesare a noi vicino non credette di meno di avere per antenata Venere 9 di quel che l'antico Romolo credette di avere per padre Marte.

Interpretazione realistica del mito in Varrone.
4.
Si dirà: "E tu credi a queste fole?". No, io non ci credo. Infatti anche Varrone, il più dotto dei Romani, lo ammette, sia pure non risolutamente e non decisamente, comunque indirettamente. È utile, egli dice, agli Stati che gli eroi credano, anche se è falso, di essere stati generati dagli dèi. Così l'animo umano, portatore di questa sicurezza, intraprende con maggiore audacia le grandi imprese, le continua con maggior vigore e, data questa sicurezza, le porta a termine con maggior successo 10. Questa opinione di Varrone, citata a senso, come mi è stato possibile con le mie parole, apre, come puoi vedere, una larga falla all'inganno perché ci lascia intendere che si poterono imbastire molte credenze già sacrali e quasi religiose, laddove si pensò che ai cittadini giovassero le menzogne perfino sugli dèi.

Incompetenza degli dèi a giudicare la vicenda umana.
5.
Ma lasciamo da parte se Venere poté partorire Enea dall'accoppiamento con Anchise o Marte generare Romolo dall'accoppiamento con la figlia di Numitore. In definitiva un problema analogo si rileva anche dalle nostre Scritture, se cioè gli angeli prevaricatori si fossero accoppiati con le figlie dell'uomo. La terra così si popolò di giganti, cioè di grandissimi eroi che nacquero da quell'accoppiamento 11. Quindi per adesso la nostra discussione può riferirsi all'uno e all'altro caso. Se dunque sono veri i fatti che nei loro scrittori si leggono della madre di Enea e del padre di Romolo, per quale motivo potrebbero dispiacere agli dèi gli adulteri degli uomini, quando li sopportano in tutta pace in se stessi? Se poi sono falsi, neanche in tal caso possono adirarsi contro i veri adulteri umani, giacché si compiacciono dei propri adulteri immaginari. Si aggiunge che se non si presta fede all'adulterio per quanto riguarda Marte, allo scopo di non credere neanche quello di Venere, non si può difendere la posizione della madre di Romolo col pretesto dell'accoppiamento col dio. Era una vestale e perciò gli dèi avrebbero dovuto punire più severamente contro i Romani il misfatto sacrilego che contro i Troiani l'adulterio di Paride. Infatti gli antichi Romani sotterravano vive le sacerdotesse di Vesta sorprese nel disonore e invece non condannavano alla pena di morte, ma ad altre pene, le donne adultere. Con maggiore severità appunto proteggevano quelli che ritenevano i santuari del dio che il talamo dell'uomo.

Comune eticità destino di Roma a Troia.
6.
Aggiungo un'altra considerazione. Se a quelle divinità dispiacevano i peccati degli uomini al punto di abbandonare Troia alla strage e all'incendio per l'episodio dell'odiato Paride, l'uccisione del fratello di Romolo li avrebbe irritati contro i Romani più gravemente che contro i Troiani il disonore di un marito greco. Li avrebbe irritati di più il fratricidio di una città che sorgeva dell'adulterio di una città che già dominava. E non attiene all'argomento trattato se Romolo comandò di compiere il delitto o se lo compì di propria mano. Molti per sfrontatezza negano il fatto, molti ne dubitano per vergogna, molti non ne parlano per la pena. Ed anche io non voglio trattenermi a investigare accuratamente il fatto attraverso l'esame delle testimonianze di molti scrittori. È noto a tutti che il fratello di Romolo fu ucciso, non da nemici, non da estranei. Se Romolo compì o comandò il delitto, si pensi che egli era il capo dei Romani a maggior diritto di quel che lo fosse Paride dei Troiani. Perché dunque uno, rapitore della moglie altrui, provocò l'ira degli dèi contro i Troiani, e l'altro, uccisore del proprio fratello, attirò la protezione dei medesimi dèi sui Romani? Se poi il delitto fu estraneo all'azione e al comando di Romolo, dato che doveva essere punito, tutta la città ne fu responsabile perché non lo punì e per di più non uccise un fratello ma il padre, che è peggio. Tutti e due infatti furono fondatori ma ad uno non fu consentito di essere re, perché eliminato da un delitto. Non v'è motivo di chiedersi, come penso, quale colpa commise Troia perché gli dèi l'abbandonassero per farla distruggere e quale opera buona compì Roma perché gli dèi la facessero propria dimora per farla prosperare. Questo soltanto c'è, che essendo stati vinti si trasferirono presso i Romani per ingannarli comunque. Anzi rimasero anche a Troia per ingannare, come al solito, i nuovi abitanti di quelle regioni e a Roma riscossero gloria con grandi onoranze esercitando anche più largamente le arti del loro inganno.

Ingiustificata la nuova distruzione di Troia.
7.
Quando poi le guerre civili erano già scoppiate, quale colpa aveva commesso Ilio perché fosse devastata da Fimbria, malvagio individuo del partito di Mario, con più spietata ferocia che in passato dai Greci? Almeno allora molti poterono fuggire dalla città ed alcuni, fatti prigionieri, sia pure in schiavitù, ebbero salva la vita. Invece Fimbria promulgò in precedenza un editto di non risparmiare alcuno e fece bruciare tutta la città e tutti i suoi abitanti. Questo trattamento si meritò Troia non dai Greci che aveva irritato col proprio misfatto ma dai Romani ai quali aveva dato origine con la propria distruzione. Eppure avevano i medesimi dèi che non l'aiutarono affatto ad evitare queste sventure o meglio, e questa è la verità, non ne erano capaci. Ma anche allora abbandonati templi e altari, si allontanarono tutti gli dèi 12 da cui era stata difesa quella città ricostruita dopo l'antico incendio e distruzione? E se si erano allontanati, ne chiedo la giustificazione e trovo che quanto è più buona quella degli abitanti, tanto è meno buona quella degli dèi. Gli abitanti infatti avevano chiuso le porte a Fimbria per mantenere fedele a Silla la cittadinanza e per questo Fimbria adirato l'incendiò o meglio la rase al suolo. Silla era in quel tempo il capo del partito nobile, si accingeva allora a riordinare con le armi lo Stato, non aveva ancora dato i cattivi risultati di questi buoni inizi. Che cosa dunque di meglio, di più onesto e leale e di più degno della madre patria romana avrebbero potuto fare gli abitanti di quella città che conservare la cittadinanza alla più giusta causa dei Romani e chiudere le porte all'assassino dello Stato romano? Ma i difensori degli dèi pensino che quel gesto si cambiò per loro in una immane catastrofe. Gli dèi avrebbero abbandonato gli adulteri e consegnato Troia al fuoco dei Greci perché dalle sue ceneri nascesse una Roma più casta. E allora perché hanno lasciato la medesima città, che è della stirpe dei Romani, nobile figlia che non si ribellava contro Roma ma manteneva la più costante e doverosa fedeltà al partito più legittimo e l'abbandonarono al saccheggio non degli eroi della Grecia ma del più lurido individuo di Roma?. Ovvero poniamo che dispiacesse agli dèi l'adesione al partito di Silla, giacché per mantenere fedele la città a lui quegli sventurati avevano chiuse le porte. E allora perché essi promettevano e preannunciavano tante vittorie al medesimo Silla? Oppure anche in questo caso si fanno conoscere come adulatori dei fortunati anziché difensori degli sventurati. Dunque anche nei tempi antichi Troia non fu distrutta perché abbandonata da loro. I demoni sempre vigili all'inganno hanno fatto ciò che hanno potuto. Distrutte infatti e incendiate tutte le statue assieme alla città, si tramanda, come Livio 13, che rimase intatta soltanto quella di Minerva nonostante la distruzione del suo tempio. E questo non perché si dicesse a loro lode: Gli dèi della patria sotto la cui protezione Troia è continuamente 14, ma perché non si dicesse a loro difesa: Abbandonati templi e altari, si sono allontanati tutti gli dèi. Fu infatti permesso loro di avere potere su quel fatto, non perché da esso si confermasse la loro potenza ma perché da esso si evidenziasse la loro presenza.

Ingiustificato ricorso agli dèi per i fatti della storia.
8.
Con quale prudenza infine, dopo la lezione della stessa Troia, si è affidata la difesa di Roma agli dèi di Troia? Un tizio potrebbe rispondere che di solito risiedevano a Roma quando Troia cadde nel saccheggio di Fimbria. E allora perché rimase in piedi la statua di Minerva? Poi se erano a Roma quando Fimbria distrusse Troia, forse erano a Troia quando Roma stessa fu presa e saccheggiata dai Galli; ma siccome sono finissimi nell'udire e velocissimi nello spostarsi, rientrarono subito allo strepito delle oche per difendere almeno il colle capitolino che non era stato preso; del resto erano stati avvertiti troppo tardi per difendere le altre parti.

Religione e pace sotto Numa.
9.
Si crede che gli dèi abbiano aiutato anche Numa Pompilio, successore di Romolo, ad avere pace in tutto il periodo del suo regno e a chiudere le porte del tempio di Giano che di solito sono aperte in guerra, per quel titolo, cioè, che egli istituì molti misteri per Roma 15. Ci si deve invece felicitare con quell'uomo per un così lungo periodo di pace, se pure avesse saputo impiegarlo per attività vantaggiose e, disprezzata una dannosa curiosità, avesse cercato con vera pietà il vero Dio. Ora non gli dèi gli accordarono quel periodo di pace, ma forse lo avrebbero ingannato di meno, se non lo avessero trovato inattivo. Quanto lo trovarono meno occupato, tanto più essi lo occuparono. Infatti ciò che egli istituì e con quali mezzi poté associare a sé e alla cittadinanza tali dèi ce lo narra Varrone 16. Se ne parlerà, se il Signore vorrà, più accuratamente a suo luogo 17. Ora l'argomento riguarda i favori degli dèi. Certamente la pace è un grande beneficio, ma è un beneficio del Dio vero, concesso il più delle volte, come il sole, la pioggia e le altre necessità della vita agli ingrati e ai malvagi. Ma se gli dèi hanno concesso a Roma o a Pompilio un bene così grande, perché in seguito non l'hanno mai più accordato all'impero romano anche in periodi di grande dignità morale? Forse che erano più utili i misteri quando venivano istituiti che quando già istituiti venivano compiuti? Al contrario, in quei tempi non c'erano ancora, ma venivano aggiunti perché ci fossero; in seguito c'erano già, ma venivano conservati perché giovassero. Ma che discorso è questo? Sono trascorsi in una lunga pace sotto il regno di Numa quarantatré, o come vogliono altri, trentanove anni 18. In seguito, dopo l'istituzione dei misteri e sotto la protezione e la tutela degli dèi stessi, che erano stati invitati a quelle celebrazioni, per lunghi anni, dalla fondazione di Roma fino ad Augusto, si considera come fatto meraviglioso un solo anno dopo la prima guerra punica in cui i Romani poterono chiudere le porte della guerra.

La guerra come mezzo del potere in Roma.
10.
Rispondono forse che l'impero romano non si potrebbe incrementare da ogni parte ed essere celebrato con sì grande gloria se non mediante continue guerre che si succedono ininterrottamente? Bella giustificazione! Per essere grande, perché l'impero dovrebbe essere senza pace? Non è forse preferibile nella fisiologia umana avere una piccola statura con buona salute che giungere a una mole gigantesca con continue disfunzioni e, una volta che l'hai raggiunta, non esser sano ma essere afflitto da malattie tanto più grandi quanto più grandi sono le membra? Cosa ci sarebbe di male e non piuttosto molto di bene se persistessero i tempi antichi? Sallustio li ha compendiati con queste parole: Dunque all'inizio i re (questa dapprima fu nella regione la denominazione del potere) furono diversi; alcuni esercitavano la mente, altri il corpo; allora la vita umana si menava senza desiderio smodato; a ciascuno bastavano le proprie cose 19. Forse perché si allargasse un dominio tanto esteso doveva avvenire ciò che Virgilio denunzia? Egli dice: Fino a che un po' alla volta sopravvennero un periodo deteriore e degenere, la violenza della guerra e l'amore del possedere 20. Ma, dicono, i Romani hanno una giustificazione per le grandi guerre intraprese e condotte a termine, giacché li costringeva a resistere ai nemici che li aggredivano con la violenza non il desiderio smodato della lode umana ma la necessità di difendere la sopravvivenza e la libertà. E sia pure così. Infatti dopo che la società, come scrive lo stesso Sallustio, rafforzatasi con le leggi, le istituzioni e i possedimenti sembrava abbastanza prospera e abbastanza fiorente, come avviene per la maggior parte delle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia. Quindi i re e i popoli vicini cominciarono ad attaccare con la guerra; pochi fra gli amici erano di aiuto, poiché i più per paura si tenevano lontani dai pericoli. Ma i Romani attivi in pace e in guerra si affaccendavano, preparavano, si esortavano a vicenda, fronteggiavano i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Poi appena avevano con il valore allontanato i pericoli, portavano aiuto agli amici alleati e si cattivavano le amicizie più col fare che col ricevere i favori 21. Roma si accrebbe convenientemente mediante questa tecnica. Ma sotto il regno di Numa i nemici aggredivano egualmente e attaccavano con la guerra perché si avesse una pace così lunga, ovvero non si compiva alcuna azione militare perché la pace potesse continuare? Se infatti anche in quel tempo Roma era provocata con guerre e non si resisteva alle armi con le armi, i sistemi usati per tenere quieti i nemici, sebbene non sconfitti in combattimento e non atterriti dalla violenza di Marte, si dovevano usare per sempre e Roma avrebbe dominato sempre tranquilla con le porte di Giano chiuse. Che se questo stato di cose non fu in suo potere, dunque Roma non ebbe la pace fino a che lo vollero i suoi dèi ma fino a che lo vollero i circonvicini che non li attaccarono con la guerra; a meno che simili dèi non si arroghino di vendere a un uomo ciò che un altro ha voluto o non voluto. Importa infatti fino a qual punto sia concesso a questi demoni di atterrire o stimolare le cattive volontà con la propria perversità. Se sempre lo potessero e per un occulto superiore potere non si avesse, in opposizione al loro tentativo, un effetto diverso, avrebbero sempre in loro potere le paci e le vittorie militari che quasi sempre avvengono mediante determinazioni dell'animo umano. Tuttavia che questi fatti avvengono contro le disposizioni degli uomini lo ammettono non solo le favole che falsano molte cose e indicano o significano appena qualche cosa di vero, ma anche la stessa storia romana.

Gli dèi soggiacciono alle passioni umane.
11.
Non per altro potere l'Apollo di Cuma, come si venne a sapere, pianse per quattro giorni mentre si combatteva la guerra contro gli Achei e re Aristonico 22. Gli aruspici atterriti dal prodigio ritennero che la statua si dovesse gettare in mare. I maggiorenti di Cuma s'interposero informando che un prodigio simile si era verificato nella medesima statua anche durante la guerra contro Antioco e in quella contro Perseo e poiché si ebbe un esito felice per i Romani attestarono che per delibera del senato erano stati mandati doni al loro Apollo. Allora gli aruspici convocati diedero, come più esperti, il responso che il pianto della statua di Apollo era di buon auspicio per i Romani perché la colonia cumana era greca e il pianto di Apollo significava lutto e sconfitta per la regione, da cui era stato importato, cioè per la stessa Grecia. Subito dopo si ebbe la notizia che re Aristonico era stato vinto e fatto prigioniero e Apollo non voleva certamente che fosse vinto, se ne doleva e lo dava a vedere perfino con le lacrime della propria statua. E per questo non del tutto a sproposito il comportamento dei demoni viene descritto nelle composizioni verosimili, sebbene mitiche, dei poeti. Infatti in Virgilio Diana provò dolore per Camilla, ed Ercole pianse per Pallante che stava per morire 23. Forse per questo Numa Pompilio, sovraccarico di pace, ma non sapendo e non domandandosi chi è che la dava, pensò nella sua inoperosità a quali dèi affidare la difesa della salvezza e del regno di Roma. Non sapeva che l'unico vero onnipotente sommo Dio provvede alle cose del mondo. Rifletteva inoltre che gli dèi di Troia importati da Enea non avrebbero potuto conservare a lungo il regno di Troia e di Lavinio fondato dallo stesso Enea. Ritenne opportuno allora di procacciarsi altri dèi da usare o come custodi dei fuggitivi o come difensori degli invalidi oltre ai primi che erano passati a Roma con Romolo o che sarebbero passati in seguito con la distruzione di Alba.

L'importazione di nuovi dèi non alleviano i mali.
12.
Tuttavia Roma non si degnò di essere contenta dei molti culti religiosi che vi istituì Pompilio. Non aveva ancora il grandissimo tempio di Giove; fu re Tarquinio a costruire il Campidoglio 24. Esculapio venne da Epidauro a Roma 25 allo scopo di esercitare, come medico espertissimo, la sua arte con gloria maggiore nella città più illustre. Venne da Pessinunte anche la madre degli dèi non saprei da quale stirpe 26; era indegno infatti che quando già suo figlio dominava sul colle capitolino, lei fosse ancora nascosta in una località poco conosciuta. Tuttavia se è madre di tutti gli dèi, non solo è venuta a Roma dopo alcuni suoi figli ma ne ha preceduti altri che l'avrebbero seguita. Mi fa un po' meraviglia che proprio lei abbia partorito Cinocefalo perché questi venne dall'Egitto molto più tardi. Se poi anche la dea Febbre è nata da lei, lo decida Esculapio, suo pronipote; ma da qualunque connubio sia nata, gli dèi stranieri non oseranno, penso, considerare oscura una dea cittadina romana. Dunque Roma fu posta sotto il patrocinio di tanti dèi. E chi potrebbe contarli? Indigeni e stranieri, celesti e terrestri, sotterranei e marini, delle fonti e dei fiumi e, come dice Varrone, legittimi e spuri, e di tutti i tipi di dèi maschi e femmine come negli animali 27. Roma dunque posta sotto la protezione di tanti dèi non avrebbe dovuto essere duramente colpita dalle grandi e orribili sventure, come quelle che fra tante citerò in seguito. Col fumo della sua grandezza come con un segnale aveva radunato troppi dèi a difesa. Istituendo e offrendo ad essi templi, altari, sacrifici e sacerdoti offendeva il sommo vero Dio a cui soltanto si devono questi onori debitamente compiuti. Ed era più felice finché visse con un numero minore di essi; ma quanto maggiore divenne, come una nave più grande che imbarca più marinai, pensò di dover procurarsene di più. Non si fidava, credo, che quei pochi con i quali aveva tenuto una condotta abbastanza onesta, se confrontata con una moralità più bassa, fossero sufficienti a soccorrere la sua grandezza. Dapprima infatti sotto gli stessi re, eccetto Numa Pompilio di cui ho parlato dianzi, vi fu il grande male della lotta dovuta alla discordia che indusse a far uccidere il fratello di Romolo.

Dal ratto delle Sabine alle guerre puniche (13-20)

Il ratto delle Sabine.
13.
E come mai neanche Giunone, che col suo Giove ormai favoriva i Romani padroni del mondo e gente togata 28, e Venere stessa non riuscì ad aiutare i discendenti del suo Enea affinché i matrimoni si ottenessero con una legittima e giusta istituzione? La sventura della mancanza di donne fu così grande che le rapirono con l'inganno e furono costretti immediatamente a combattere contro i suoceri. Così le sventurate donne, non ancora unite ai mariti mediante un'ingiustizia, ricevevano in dote il sangue dei padri 29. Ma, obiettano, in questo conflitto i Romani vinsero i loro vicini. Simili vittorie, rispondo, risultarono di molte e grandi ferite e morti dall'una e dall'altra parte, tanto dei cittadini che dei confinanti. Considerando la colpa del solo suocero Cesare e del solo suo genero Pompeo, dopo la morte della figlia di Cesare e moglie di Pompeo, con grande e giusto impulso di dolore Lucano esclama: Canto le guerre peggiori di quelle civili per i campi della Tessaglia e il diritto accordato alla scelleratezza 30. Vinsero dunque i Romani ma per costringere con le mani insanguinate nell'uccisione dei suoceri le loro figlie a deplorevoli amplessi. Ed esse non osavano piangere il padre ucciso per non offendere il marito vincitore perché non sapevano, mentre essi ancora combattevano, per chi fare auspici. Non Venere ma Bellona donò simili nozze al popolo romano; o forse Aletto, la furia infernale, poiché ora Giunone favoriva i Romani, ebbe un'autorizzazione più ampia di quando fu istigata dalle sue preghiere contro Enea 31. Andromaca fu fatta prigioniera con una condizione più felice di quella con cui quelle coppie romane si sposarono. Dopo gli amplessi con lei, per quanto trattata da schiava, Pirro non uccise più alcun troiano; i Romani invece uccidevano in battaglia i suoceri mentre ne abbracciavano le figlie nel letto. Andromaca soggetta al vincitore poté soltanto dolersi della morte dei propri cari, non temere 32; le Sabine, congiunte ad uomini che si combattevano, temevano la morte dei padri quando i mariti uscivano in guerra e la piangevano quando rientravano, prive della libertà di temere e di piangere. Infatti o erano tormentate dall'affetto filiale o si rallegravano con crudeltà per le vittorie dei mariti a causa della morte dei cittadini, dei congiunti, dei fratelli, dei padri. Si aggiungeva che, secondo l'alterna vicenda delle guerre, alcune perdettero il marito per mano del padre, altre il padre e il marito per mano dell'uno e dell'altro. Infatti anche per i Romani non furono piccoli i rischi se si giunse all'assedio della loro città. Si difesero chiudendo le porte. Ma furono aperte con la frode e i nemici penetrarono dentro le mura. Avvenne allora nel foro stesso una scellerata e veramente atroce zuffa fra generi e suoceri; i rapitori erano anche sopraffatti e fuggendo ripetutamente entro le proprie case disonoravano le vittorie di prima, sebbene anche esse vergognose e deplorevoli. A questo punto Romolo, disperando ormai del valore dei suoi, pregò Giove perché stessero al proprio posto e per quell'occasione gli trovò il titolo di Statore 33. Non si sarebbe avuta la fine di una sventura così grave se le donne rapite, strappandosi i capelli, non si fossero slanciate nella mischia e, prosternandosi ai padri, non avessero placato la loro giustissima ira non con le armi vittoriose ma con il supplichevole affetto filiale 34. In seguito Romolo, intollerante del fratello come compagno, fu costretto a prendere come socio nel regno Tito Tazio re dei Sabini. Ma come avrebbe potuto sopportare a lungo anche costui se non sopportò il fratello e per di più gemello? Quindi ucciso anche lui, per essere un dio più grande, tenne da solo il regno. E sono questi i diritti delle nozze, queste le giustificazioni delle guerre, questi i patti della fratellanza, dell'affinità, della convivenza, della divinità? Questa infine la vita di una città sotto la protezione di tanti dèi? Puoi osservare che sull'argomento si potrebbero fare molte e serie considerazioni, se il nostro assunto non avesse interesse a quelle che restano e il discorso non volgesse ad altro.

Distruzione di Alba.
14.
1. Che avvenne dopo Numa sotto gli altri re? Con grande danno loro e dei Romani gli abitanti di Alba furono provocati alla guerra perché in definitiva la tanto lunga pace di Numa si era svilita. Vi furono ripetuti massacri dell'esercito di Roma e di Alba e un decremento dell'una e dell'altra città. Alba, fondata da Ascanio figlio di Enea, pur essendo madre di Roma più da vicino che Troia, provocata da Tullo Ostilio venne a conflitto e venuta a conflitto fu afflitta e afflisse, finché a causa dell'egual numero di morti rincrebbero i molti combattimenti. Si decise allora di affidare l'esito della guerra a tre fratelli da una parte e a tre fratelli dall'altra. Dai Romani furono presentati i tre Orazi, dagli Albani i tre Curiazi; dai tre Curiazi furono vinti e uccisi due Orazi e da un solo Orazio i tre Curiazi. Quindi Roma risultò vincitrice mediante quella strage anche nella gara decisiva, sicché dei sei uno solo tornò a casa. Ma per chi furono il danno e la perdita se non per la stirpe di Enea, per i posteri di Ascanio, per la discendenza di Venere, per i nipoti di Giove? Fu infatti peggiore di una guerra civile perché una città figlia combatté con la città madre. E a quest'ultimo combattimento dei tre gemelli si aggiunse un altro delitto veramente atroce. Poiché infatti i due popoli prima erano amici essendo vicini e della medesima stirpe, una sorella degli Orazi era fidanzata ad uno dei Curiazi. Ella, viste le spoglie del fidanzato sul fratello vincitore, si mise a piangere e per questo fu uccisa dal fratello stesso. Mi sembra che soltanto il sentimento di questa fanciulla sia stato più umano di quello di tutto il popolo romano. Ritengo che abbia pianto senza colpa perché soffriva per l'uomo che in base alla fedeltà promessa considerava marito o forse anche per il fratello stesso che l'aveva ucciso, sebbene gli avesse fidanzata la sorella 35. Per qual motivo dunque in Virgilio il pietoso Enea è lodato perché si affligge per il nemico ucciso di sua mano 36? Per qual motivo Marcello, riflettendo sulla comune condizione umana, commiserò col pianto la città di Siracusa perché ricordò che il suo splendore e gloria di poco prima erano caduti per sua mano 37? Riconosciamo, per favore, a un sentimento di umanità che una fanciulla non abbia commesso un delitto perché piangeva il proprio fidanzato ucciso dal proprio fratello, se alcuni uomini ebbero lode perché piansero sui nemici da loro stessi uccisi. Dunque mentre quella piangeva la morte procurata dal fratello al fidanzato, Roma esultava per aver combattuto con grande massacro contro la città madre e per aver vinto con grande effusione di sangue fraterno dall'una e dall'altra parte.

La guerra come l'irrazionale della storia.
14.
2. Perché mi si adducono come pretesto il concetto di onore e il concetto di vittoria? A scanso dei pregiudizi di una folle mentalità, i fatti siano considerati senza orpelli, siano valutati senza orpelli, siano giudicati senza orpelli. Si adduca una colpa di Alba come si adduceva l'adulterio di Troia. Non esiste, non si trova. C'è soltanto che Tullo volle muovere alle armi gli uomini inerti e l'esercito disabituato ai trionfi 38. Per quella colpa dunque fu commesso il grande delitto di una guerra fra alleati e individui della medesima stirpe. Sallustio accenna di passaggio a questa grande colpa. Dopo aver ricordato con lode i tempi antichi, quando senza cupidigia si trascorreva la vita umana e a ciascuno bastavano le proprie cose, soggiunge: Dopo che Ciro in Asia e gli Spartani e gli Ateniesi in Grecia cominciarono a sottomettere città e nazioni, considerarono la passione del dominio una giustificazione della guerra, pensarono che la più grande gloria fosse nel più grande impero 39. Seguono gli altri concetti che aveva iniziato ad esporre. A me può bastare aver citato le sue parole fino a questo punto. La passione del dominio scuote e abbatte il genere umano con grandi sciagure. Vinta da questa passione Roma credeva un trionfo l'aver vinto Alba e denominava gloria l'esaltazione del proprio delitto, giacché, dice la nostra Scrittura, il peccatore si esalta nei desideri della sua anima e si parla bene di chi compie azioni inique 40. Si spoglino dunque dei fatti e vernici menzognere e imbiancature ingannevoli perché siano osservati con esame sereno. Non mi si venga a dire: "Grande quel tale ed anche quell'altro, perché ha combattuto e vinto con quel tale e con quell'altro". Combattono anche i gladiatori, anche essi vincono, anche quella crudeltà ha il premio della lode, ma io penso che è preferibile subire la condizione penosa della inettitudine che procurarsi la gloria di quei combattimenti. Ma chi sopporterebbe tale spettacolo se scendessero nell'arena per battersi due gladiatori, di cui uno è il figlio, l'altro il padre? Chi non lo eliminerebbe? Come dunque poté essere gloriosa la contesa armata fra due città, di cui una la madre, l'altra la figlia? È forse diverso perché in questo caso non c'era l'arena e terreni più spaziosi si riempivano di cadaveri non di due gladiatori ma di molti dei due popoli e perché quelle gare non erano circoscritte all'anfiteatro ma al mondo intero e vi si dava uno spettacolo spietato ai vivi di allora e ai posteri, fin quando se ne estende la fama?

La guerra è sempre fratricida.
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3. Tuttavia gli dèi tutelari del dominio di Roma e quasi spettatori di tali lotte sentivano insoddisfatta la propria passione finché la sorella degli Orazi come compenso dei tre Curiazi uccisi non fu aggiunta dall'altra parte anche essa come terza ai due fratelli dalla spada del fratello. Così Roma che aveva vinto non aveva un minor numero di morti. Poi per avere il vantaggio della vittoria Alba fu distrutta, in cui, terza nell'ordine, avevano abitato le divinità troiane, dopo Troia distrutta dai Greci e dopo Lavinio, in cui Enea aveva costituito un regno provvisorio di nomadi. Ma secondo il loro costume gli dèi anche da essa erano fuggiti e per questo è stata distrutta. Quanto dire che si erano allontanati tutti gli dèi da cui era stato conservato quel dominio 41. Si erano allontanati già per la terza volta perché come quarta fosse loro affidata Roma. Erano scontenti di Alba, in cui aveva regnato Amulio dopo aver espulso il fratello ed erano contenti di Roma, in cui aveva regnato Romolo dopo avere ucciso il fratello. Ma prima che Alba fosse distrutta, il suo popolo fu travasato, dicono 42, in Roma in modo che di due si facesse una città. E sia, così è avvenuto. Tuttavia quella città, regno di Ascanio, terzo domicilio degli dèi troiani e città madre fu distrutta dalla città figlia. E perché i superstiti della guerra costituissero di due un solo popolo, il molto sangue versato dell'uno e dell'altro ne fu un legame degno di compassione. Perché ormai dovrei parlar singolarmente delle medesime guerre ripetutesi tante volte sotto gli altri re, che sembravano chiuse con una vittoria ma erano di nuovo condotte con tante stragi e di nuovo ancora riprese dopo il patto e la pace fra suoceri e generi, tra la loro stirpe e i discendenti? Non piccolo indizio di questa sventura fu che nessuno di quei re chiuse le porte della guerra. Nessuno di loro dunque con tanti dèi tutelari regnò in pace.

Romolo nella storia e nella leggenda.
15.
1. E quale è stata la fine degli stessi re? Per quanto riguarda Romolo, se la veda l'esaltazione mitica con cui si afferma che fu accolto in cielo; se la vedano alcuni scrittori romani i quali hanno detto che a causa della sua crudeltà fu fatto sparire per ordine del senato e che fu incaricato alla chetichella non saprei quale Giulio Proculo perché dicesse che gli era apparso e che per mezzo suo ordinava al popolo romano di venerarlo fra le divinità 43. In questo modo il popolo, che aveva cominciato a sollevarsi contro il senato, fu ricondotto alla calma. Era avvenuta anche un'eclissi solare e poiché la massa ignorante non sapeva che si era verificato per una legge fissa del corso del sole, lo attribuiva ai meriti di Romolo. Al contrario, se quello fosse stato il cordoglio del sole, si doveva piuttosto pensare che egli fosse stato ucciso e che il delitto veniva denunziato anche con l'oscuramento della luce del giorno, come di fatto avvenne quando il Signore per la crudele empietà dei Giudei fu crocefisso 44. Il fatto appunto che allora era la Pasqua dei Giudei, celebrata solennemente nel plenilunio, dimostra che l'oscurarsi del sole non dipendeva dal corso regolare dei corpi celesti, mentre di regola l'eclissi di sole avviene nel novilunio. Abbastanza chiaramente Cicerone mostra che l'apoteosi di Romolo fu piuttosto creduta che avvenuta, giacché pur esaltandolo nei libri Sullo Stato con le parole di Scipione, scrive: Ha conseguito un così alto onore perché, non essendosi improvvisamente più fatto vedere in seguito a un'eclissi di sole, si pensò che fosse annoverato nel numero degli dèi. Nessun mortale poté mai raggiungere una simile reputazione senza un'eccezionale distinzione nel valore 45. Quando dice che improvvisamente non fu più visto, si intende certamente o la violenza del temporale o la segretezza di una uccisione delittuosa. Gli altri scrittori romani aggiungono infatti all'eclissi solare anche un improvviso temporale che sicuramente o offrì l'occasione al misfatto o fece scomparire esso stesso Romolo 46. Infatti pure di Tullo Ostilio, terzo re dopo Romolo, anche egli folgorato, non si credette, come dice Cicerone nella medesima opera, che con tale morte fosse accolto fra gli dèi 47. I Romani non vollero estendere a tutti, cioè svilire, ciò che era accertato, ossia opinabile, di Romolo, se il fatto fosse attribuito con facilità anche ad un altro. Dice inoltre apertamente nelle orazioni invettive: Abbiamo per gratitudine a voce di popolo innalzato fino agli dèi immortali l'uomo che fondò questa città 48. Mostra così che non era divenuto dio realmente ma che per gratitudine, a causa dei meriti del suo valore, era stato esaltato dalla tradizione. Nel dialogo Ortensio, parlando dell'eclissi normale del sole, afferma: Affinché produca le stesse tenebre che produsse nella morte di Romolo, la quale avvenne durante un'eclissi solare 49. Qui evidentemente non teme di parlare della morte di un uomo, perché parlava da pensatore e non da encomiasta.

La vicenda triste dei suoi successori.
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2. Gli altri re di Roma, esclusi Numa Pompilio e Anco Marzio che morirono di malattia 50, subirono una fine orribile. Come ho già detto, Tullo Ostilio, vincitore e sterminatore di Alba, morì folgorato assieme a tutta la famiglia 51. Il primo Tarquinio fu fatto uccidere dai figli del suo predecessore 52. Servio Tullio fu ucciso con un esecrando delitto dal genero Tarquinio il Superbo che gli successe nel regno 53. Tuttavia non si allontanarono gli dèi abbandonando templi e altari quando fu commesso questo assassinio contro il migliore re del popolo romano. Eppure affermano che furono indignati per l'adulterio di Paride al punto di fuggire dalla misera Troia e abbandonarla ai Greci per essere distrutta col fuoco. Anzi Tarquinio successe al suocero da lui stesso ucciso. Gli dèi, senza allontanarsi ma rimanendo presenti, videro questo detestabile assassino divenir re con l'uccisione del suocero, gloriarsi di molte guerre e vittorie e costruire con i bottini di guerra il Campidoglio 54, sopportarono anche che Giove loro re in quell'augusto tempio, cioè nell'edificio costruito dall'assassino, dominasse e regnasse su di loro. Infatti non aveva costruito il Campidoglio quando era ancora innocente per essere in seguito espulso da Roma per le sue malvagità, ma giunse al regno, durante il quale costruì il Campidoglio col commettere l'esecrabile delitto. La causa per cui più tardi i Romani lo scacciarono dal regno esiliandolo dalla città fu la colpa, non sua ma del figlio, della violazione di Lucrezia, e commessa non solo a sua insaputa ma anche in sua assenza 55. Assediava allora la città di Ardea, era in guerra per il popolo romano. Non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse venuto a conoscenza del misfatto del figlio. Tuttavia senza conoscere la sua sentenza e senza informarlo il popolo gli tolse il dominio, quindi fatto entrare l'esercito con l'ordine di abbandonarlo e chiuse le porte, non lo lasciò tornare in città. Egli dopo pesanti guerre, con cui sollevando i popoli vicini logorò i Romani, abbandonato da coloro nel cui aiuto aveva sperato, non riuscì a riacquistare il regno. Condusse comunque nella città di Tuscolo vicina a Roma per quattordici anni, come si narra, vita privata in tranquillità, giunse alla vecchiaia assieme alla moglie 56 e si spense con una fine più desiderabile di quella del suocero ucciso col delitto del genero e, come si narra, col consenso della figlia 57. Tuttavia i Romani non denominarono questo Tarquinio crudele o scellerato ma superbo forse perché per un altro genere di superbia non sopportavano il suo orgoglio di re. Infatti non presero in considerazione il delitto dell'uccisione del suocero, il migliore dei loro re, tanto che lo elessero re. In proposito mi meraviglio che abbiano dato una così grande ricompensa a un delitto così grave senza ricorrere a un delitto più grave. E gli dèi non si allontanarono abbandonando templi e altari. Ma qualcuno potrebbe difendere questi dèi col dire che rimasero a Roma per punire con pene i Romani anziché aiutarli con favori perché li ingannavano con vane vittorie e li sterminavano con guerre sanguinose. Questa fu la vita dei Romani nel periodo encomiabile dello Stato fino all'espulsione di Tarquinio il Superbo per circa duecentoquarantatré anni. Eppure tutte quelle vittorie, ottenute con molto sangue e grandi sventure, non estesero il suo dominio oltre le venti miglia dalla città 58. Ed è uno spazio che non si può affatto paragonare all'attuale territorio di una qualsiasi città della Getulia.

L'implacabile Giunio Bruto.
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A questo periodo aggiungiamo anche quello in cui, come dice Sallustio, si amministrò con diritto giusto e moderato, mentre si avevano il timore da parte di Tarquinio e la grave guerra con l'Etruria 59. Infatti finché gli Etruschi aiutarono Tarquinio che tentava di rioccupare il regno, Roma fu logorata da una grave guerra. E Sallustio dice che lo Stato fu amministrato con legislazione giusta e moderata, perché il timore incalzava e non perché decideva la giustizia. In quel breve periodo fu veramente funesto l'anno in cui, dopo la fine del potere regio, furono eletti i primi consoli. Essi intanto non portarono a termine il loro anno. Giunio Bruto infatti depose ed esiliò da Roma il collega Lucio Tarquinio Collatino 60. Subito dopo egli cadde in combattimento uccidendo a sua volta il nemico, dopo aver fatto uccidere in precedenza i figli e i fratelli della moglie, perché aveva scoperto che congiuravano per ristabilire Tarquinio 61. Virgilio, ricordato l'episodio con ammirazione, immediatamente ne prova orrore per senso di umanità. Dice infatti: Un padre per l'amata libertà condannerà a morte i figli che preparavano nuove guerre; ma subito aggiunge l'esclamazione: Sciagurato, in qualsiasi modo i posteri giudicheranno quei fatti. Comunque, egli dice, i posteri giudichino i fatti, cioè vantino ed esaltino un individuo che ha ucciso i figli, Bruto è uno sciagurato. E come a consolare lo sciagurato, soggiunse: Vincono l'amore della patria e l'immensa passione della gloria 62. E in Bruto, che uccise perfino i figli e non poté sopravvivere al nemico figlio di Tarquinio da lui ferito a morte perché a sua volta ferito a morte, mentre a lui sopravvisse Tarquinio, non sembra vendicata l'innocenza del collega Collatino? Questi, pur essendo un buon cittadino, subì, dopo l'espulsione di Tarquinio ciò che aveva subito lo stesso Tarquinio che era un tiranno. Si narra infatti che anche Bruto fosse consanguineo di Tarquinio 63 ma fu la omonimia a danneggiare Collatino, perché aveva come nome anche Tarquinio. Si doveva costringerlo a mutare il nome non la patria; in definitiva nel suo nome si sarebbe avuto un termine di meno, si sarebbe chiamato Lucio Collatino. Ma per questo appunto non fu costretto a perdere ciò che avrebbe potuto perdere senza danno per costringerlo a perdere la carica di primo console e la cittadinanza sebbene buon cittadino. Anche questa detestabile ingiustizia di Giunio Bruto e niente affatto vantaggiosa allo Stato è gloria? E per commetterla vincono l'amor di patria e l'immensa passione della gloria? Ormai espulso il tiranno Tarquinio, fu eletto console assieme a Bruto il marito di Lucrezia, Lucio Tarquinio Collatino. Giustamente il popolo badò nel cittadino ai costumi, non al nome. Ma Bruto, che avrebbe potuto privare il collega nella carica, istituita da poco per la prima volta, soltanto del nome se esso gli dava fastidio, spietatamente lo privò della patria e della carica. Si compirono queste malvagità, avvennero queste sciagure nello Stato romano quando si amministrò con legislazione giusta e moderata. Anche Lucrezio, eletto in luogo di Bruto, morì di malattia prima che l'anno finisse. Furono Publio Valerio, che era succeduto a Collatino e Marco Orazio, sostituito al defunto Lucrezio, a chiudere quell'anno fatale e cupo che ebbe cinque consoli 64. E proprio in quell'anno lo Stato romano diede l'avvio alla nuova carica politica del consolato.

Crisi della società romana secondo Sallustio.
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1. Allora diminuito ormai il timore, non perché le guerre fossero cessate, ma perché non incalzavano tanto gravemente, finito cioè il tempo in cui si amministrò con legislazione giusta e moderata, seguirono le condizioni che il citato Sallustio espone in breve così: In seguito i patrizi trattarono la plebe come schiava, ne disposero della vita e dell'opera con diritto regio, la privarono della proprietà dei campi e amministrarono da soli con l'esclusione di tutti gli altri. La plebe, oppressa dalla vessazione e soprattutto dalle tasse giacché doveva subire l'imposta e insieme il servizio militare per le continue guerre, occupò armata il monte Sacro e l'Aventino e così rivendicò i tribuni della plebe e gli altri diritti. Fine delle discordie e della lotta fra le due parti fu la seconda guerra punica 65. Perché dunque dovrei subire continue dilazioni e imporle ai lettori? Da Sallustio è stata rilevata la grande crisi della società romana, perché da lungo tempo e per tanti anni fino alla seconda guerra punica le guerre non cessarono di turbarla dall'esterno e le discordie e le sedizioni civili nell'interno. Pertanto quelle vittorie non sono state gioie piene di individui felici ma vuote consolazioni d'individui infelici e sollecitazioni ingannevoli d'individui guerrafondai a subire continue sventure prive di risultato. E i buoni Romani non devono arrabbiarsi con noi perché diciamo queste cose, sebbene non devono essere né richiesti né avvertiti in proposito, perché è assolutamente certo che non si arrabbieranno affatto. Infatti io, inferiore per cultura letteraria e disponibilità di tempo, non posso certamente dire più duramente cose più dure dei loro scrittori, tanto più che i Romani stessi si sono applicati e costringono i loro figli ad applicarsi per conoscerli. Ma coloro che si arrabbiano non mi perdonerebbero certamente se fossi io a dire queste parole di Sallustio: Si ebbero moltissimi tumulti, sedizioni e infine guerre civili, giacché pochi potenti, la cui influenza parecchi avevano accettato, aspiravano alle cariche con la speciosa adesione al partito senatoriale o democratico. Furono considerati buoni anche i cattivi cittadini e non per benemerenze verso la società, giacché tutti erano depravati, ma il più ricco e più capace nel commettere ingiustizia era considerato onesto perché difendeva lo stato presente delle cose 66. Dunque gli storiografi hanno considerato di pertinenza di una onorata libertà non tacere i mali della propria città, sebbene in molti passi sono stati costretti a lodarla con alto encomio, perché non conoscevano quella ideale, nella quale si devono raccogliere i cittadini dell'eternità. Che cosa dunque dovremmo far noi che dobbiamo avere una libertà tanto più grande, quanto è migliore e più certa la nostra speranza in Dio, quando rinfacciano i mali presenti al nostro Cristo? E lo fanno per distogliere le coscienze più deboli e inesperte da quella città in cui soltanto si potrà vivere in una felicità perpetua? E io non dico contro i loro dèi cose più tremende di quelle dette allo stesso modo dai loro scrittori che essi leggono ed esaltano, giacché da loro le ho apprese e non sono certamente da tanto di dirle tutte e come loro.

Sciagure militari e civili.
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2. Dove erano dunque quegli dèi, che si ritiene di dover onorare in vista dell'insignificante e fuggevole felicità di questo mondo, quando i Romani, ai quali con l'astuzia dell'impostore si esibivano per farsi onorare, erano travagliati da tante sciagure? Dove erano quando il console Valerio fu ucciso mentre difendeva con successo il Campidoglio, al quale esiliati e schiavi avevano appiccato il fuoco 67? Eppure era stato di maggior aiuto egli al tempio di Giove che a lui la ressa di tante divinità col loro re ottimo massimo, di cui aveva salvato il tempio. Dove erano quando la cittadinanza, afflitta dal male incessante delle sedizioni, in un breve periodo di tranquillità, aspettava gli ambasciatori mandati ad Atene per derivarne le leggi, fu spopolata da grave fame e pestilenza 68? Dove erano quando, in altra occasione, il popolo travagliato dalla fame creò il primo prefetto della provvigione annuale e aumentando la fame Spurio Melio, per il fatto che offrì grano alla massa affamata, fu incolpato di aspirare al regno e su richiesta del medesimo prefetto fu condannato dal dittatore Lucio Quinzio, rimbambito dall'età, e fu giustiziato, durante un gravissimo e pericolosissimo tumulto popolare, dal capo della cavalleria Quinto Servilio 69? Dove erano quando, scoppiata una gravissima epidemia, il popolo a lungo e pesantemente logorato, prese la deliberazione, mai avutasi prima, di offrire nuovi lettisterni agli dèi inefficienti 70? Si stendevano dei letti conviviali in onore degli dèi e da quell'uso ebbe nome questo rito sacro o meglio sacrilegio. Dove erano quando l'esercito romano, poiché combatteva male, per dieci anni continui aveva ricevuto presso Veio frequenti e pesanti sconfitte, se infine non fosse stato soccorso da Furio Camillo che in seguito l'ingrata città condannò 71? Dove erano quando i Galli presero, saccheggiarono, incendiarono e riempirono di stragi Roma 72? Dove erano quando una straordinaria epidemia menò tanta strage di cui morì anche Furio Camillo che difese prima l'ingrata patria dai Veienti e poi la protesse anche dai Galli?. Durante questa epidemia i Romani introdussero gli spettacoli teatrali, altra nuova peste non per il loro corpo ma, che è molto più funesto, per la loro moralità 73. Dove erano quando si sospettò che un'altra forte mortalità fosse dovuta ai veleni propinati da certe matrone e si scoprì che la moralità di molte nobili donne insospettate era più rovinosa di qualsiasi epidemia 74? O quando ambedue i consoli con l'esercito, assediati dai Sanniti alle forche caudine, furono costretti a stipulare con loro un patto disonorevole al punto che consegnati come ostaggi seicento cavalieri romani, gli altri, perdute le armi, spogliati e privati del resto dell'armatura, furono fatti passare sotto il giogo dei nemici, con un solo indumento addosso 75? O quando, mentre alcuni erano colpiti da grave pestilenza, molti altri, anche nell'esercito, morirono folgorati 76? O quando, scoppiata un'altra paurosa epidemia, Roma fu costretta a chiamare Esculapio da Epidauro per servirsene come di un dio medico 77, perché le frequenti fornicazioni, cui aveva atteso da giovanotto, non avevano permesso a Giove, che da tempo comandava in Campidoglio, di apprendere la medicina? O quando in seguito all'alleanza simultanea di Lucani, Bruzi, Sanniti, Etruschi e Galli Senoni, in un primo tempo furono uccisi i legati romani e poi fu sconfitto l'esercito guidato dal pretore e morirono assieme a lui sette tribuni e tredicimila soldati 78? O quando dopo lunghe e gravi sedizioni a Roma, alla fine la plebe, con ostile discordia, fece secessione sul Gianicolo? Era così grave il danno di questa sciagura che in vista di essa, e questo avveniva in pericoli di estrema gravità, fu creato dittatore Ortensio il quale, fatta tornare la plebe, morì durante la magistratura 79. Non si era mai verificato prima di lui ad alcun dittatore. Fu quindi un reato più grave degli dèi, perché era già presente Esculapio.

Dopo Pirro le pestilenze.
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3. E scoppiarono in quei tempi tante guerre che per carenza di soldati furono arruolati i proletari, così chiamati perché attendevano a generare prole non potendo fare il soldato per mancanza di mezzi. Anche Pirro, un re della Grecia, fatto venire dai Tarentini, venuto allora in grande fama, divenne nemico dei Romani. Mentre egli consultava Apollo sulla futura eventualità dei fatti, il dio con discreto buon garbo diede un responso così ambiguo che, qualunque delle due eventualità si fosse verificata, egli come divinatore se la cavava. Rispose infatti: "Ti dico, o Pirro, che puoi vincere i Romani"; o anche: "Ti dico, o Pirro, che i Romani ti possono vincere". Così, sia che Pirro vincesse i Romani o che i Romani vincessero Pirro, il vaticinatore poteva aspettare senza preoccupazioni l'uno o l'altro evento. Si verificò comunque un grande e spaventoso massacro dell'uno e dell'altro esercito 80. Tuttavia in quel caso vinse Pirro che poteva perciò dal proprio punto di vista considerare divinatore Apollo, se subito dopo in altra battaglia non avessero vinto i Romani. Durante così grande strage militare scoppiò anche una grave morìa di donne. Morivano nella gravidanza prima di dare alla luce i figli. Esculapio, penso io, si scusò del fatto perché era di professione primario medico non levatrice. Morivano con la medesima patologia anche gli animali domestici al punto da far credere che perfino la generazione degli animali cessasse 81. Quell'inverno fu memorabile perché incredibilmente rigido al punto che a causa delle nevi, le quali rimasero a una preoccupante altezza per quaranta giorni anche nel foro, perfino il Tevere gelò. Se si fosse avuto ai nostri tempi, costoro ne avrebbero dette tante e tanto grosse. Allo stesso modo una straordinaria epidemia, finché infierì, ne fece morire molti. Ed essendosi prolungata con maggiore virulenza nell'anno successivo malgrado la presenza di Esculapio, si consultarono i libri sibillini 82. In questo tipo di oracoli, come ricorda Cicerone nel libro Sulla divinazione, abitualmente si crede di più agli interpreti che spiegano le cose dubbie come possono o come vogliono 83. Il responso fu che causa dell'epidemia era il fatto che molti occupavano abusivamente parecchi edifici sacri. Così per il momento Esculapio fu scolpato dall'accusa d'incapacità o di trascuratezza. Gli edifici erano stati occupati senza che alcuno lo impedisse perché erano state inutilmente a lungo rivolte suppliche a una così folta moltitudine di divinità. Così un po' alla volta i locali venivano disertati dai devoti in modo che essendo vuoti si potevano senza offesa di alcuno adibire agli usi umani. Per far cessare la pestilenza furono fatti restituire e restaurare. E se in seguito non fossero rimasti sconosciuti perché di nuovo abbandonati e occupati, non si darebbe certamente merito alla grande erudizione di Varrone che scrivendo sugli edifici sacri ne ricorda molti ignorati 84. In quel caso non si ottenne la fine della epidemia ma per un po' di tempo una diplomatica scusa per gli dèi.

La prima guerra punica.
18.
1. Con le due guerre puniche poi, dato che fra i due domini la vittoria rimase a lungo incerta con alterne possibilità e due popoli forti si sferravano attacchi violentissimi e con molti mezzi, i regni più piccoli furono abbattuti. Molte città illustri per fama furono distrutte, molte travagliate, molti Stati mandati in rovina. Molte regioni e paesi furono interamente devastati. Molte volte i vinti divennero vincitori dall'una e dall'altra parte. Molte persone furono uccise tanto fra i combattenti che fra la popolazione civile. Una enorme quantità di navi fu distrutta nelle guerre navali o colata a picco nelle numerose tempeste. Se mi sforzassi di esporre o richiamare, anche io sarei soltanto uno storiografo 85. In quell'occasione la città di Roma presa da grande timore ricorse a rimedi vani e ridicoli. Furono ripresi per ordine dei libri sibillini i giochi secolari, la cui celebrazione era stata stabilita ogni cento anni e che era stata sospesa per dimenticanza in tempi più tranquilli. I pontefici ristabilirono anche gli spettacoli sacri agli dèi inferi anche essi aboliti negli anni migliori del passato. Quando furono ristabiliti, infatti, era un gran divertimento rappresentare anche scenicamente che l'Ade si arricchiva di tanti morti. I poveri disgraziati appunto rappresentavano come spettacoli dei demoni e come lauti banchetti dell'Ade le guerre rabbiose, le sanguinose inimicizie, le funeste vittorie dell'una e dell'altra parte. Niente di più degno di compassione si ebbe durante la prima guerra punica della sconfitta subita dai Romani tanto duramente che fu fatto prigioniero anche Regolo. Ne ho parlato nel primo e nel secondo libro. Uomo veramente grande e in un primo tempo vincitore e soggiogatore dei Cartaginesi avrebbe portato a termine definitivamente la prima guerra punica se per eccessivo desiderio di lode e di gloria non avesse imposto agli stanchi Cartaginesi condizioni più pesanti di quanto essi potessero sopportare. Se l'imprevedibile sconfitta, la schiavitù indecorosa, il giuramento fedele e la morte veramente crudele di quell'uomo grande non costringe gli dèi ad arrossire, si vede proprio che sono fatti d'aria e che non hanno sangue.

Calamità in quel periodo.
18.
2. Non mancarono in quel periodo sventure gravissime nella città. In una straordinaria inondazione del Tevere quasi tutte le parti pianeggianti della città furono battute perché alcune furono travolte dalla violenza come di un torrente, altre rimasero inondate e sommerse per lungo tempo come in uno stagno. A questa calamità seguì il fuoco, ancor più pericoloso. Dopo avere invaso alcuni edifici più illustri attorno al foro, non risparmiò neanche il tempio di Vesta. D'altronde gli era molto familiare perché in esso le vestali, non tanto onorate quanto condannate, avevano la mansione di mantenergli quasi una vita perpetua con l'assidua sostituzione delle legna da bruciare. In quel caso il fuoco non solo si mantenne in vita ma incrudelì anche. Le vestali atterrite dalla sua violenza non riuscirono a salvare dall'incendio gli oggetti fatali che avevano già procurato la rovina delle tre città in cui avevano dimorato. Allora il pontefice Metello, dimentico in certo senso della propria incolumità, si precipitò e sebbene mezzo abbruciacchiato li mise in salvo 86. Il fuoco non riconobbe neanche lui, oppure vi era in quel posto una divinità che, anche se lo fosse stata, non riusciva a fuggire da sola. Quindi un uomo poté aiutare le insegne divine di Vesta anziché esse l'uomo. E se non erano capaci di respingere da se stessi il fuoco, in che cosa potevano aiutare la città contro le acque e le fiamme? Eppure si pensava che ne proteggessero l'incolumità. Il fatto in sé dimostrò che non potevano proprio un bel niente. Non farei certamente queste obiezioni se dicessero che quegli oggetti sacri non erano destinati a difendere i beni temporali ma a significare gli eterni; perciò se eventualmente venivano distrutti, perché corporali e visibili, non veniva tolto nulla a quei significati, cui erano destinati, e potevano essere riacquistati per i medesimi usi. Invece essi con incredibile cecità ritengono possibile il fatto che in virtù di quegli oggetti, che potevano essere distrutti, la salvezza terrena e il benessere temporale della patria non potevano essere distrutti. Pertanto, quando si dimostra loro che malgrado l'incolumità degli oggetti sacri sono sopravvenute o la perdita della salvezza o la sciagura, si vergognano di mutare un parere che non sono capaci di difendere.

I disastri della seconda guerra punica.
19.
Per quanto riguarda la seconda guerra punica, sarebbe troppo lungo rammentare le stragi dei due popoli che combatterono per tanto tempo e su un vasto territorio. Per confessione stessa di coloro che hanno inteso non tanto di narrare le guerre romane quanto piuttosto di esaltare la dominazione romana, il vincitore fu pari al vinto 87. Infatti quando Annibale, partendo dalla Spagna, superò i Pirenei, attraversò la Gallia, valicò le Alpi devastando e sottomettendo tutte le regioni con le forze aumentate lungo il tragitto e precipitò come torrente nel valico verso l'Italia, si ebbero molti sanguinosi combattimenti, molte volte i Romani furono sconfitti, molti paesi passarono al nemico, molti furono presi e distrutti, si ebbero dure battaglie il più delle volte gloriose per Annibale data la sconfitta romana. Che dire del disastro di Canne, tremendo oltre ogni pensare? Dopo di esso si dice che Annibale, per quanto molto crudele ma saziato dell'enorme massacro dei suoi più spietati nemici, abbia comandato di risparmiarli. Dopo la strage mandò a Cartagine tre moggi di anelli d'oro per far capire che in quella battaglia era caduta molta nobiltà romana e che la segnalava meglio la misura che il numero 88. Si doveva da ciò dedurre che il massacro del resto dell'esercito, tanto più numeroso quanto più povero che giaceva senza anelli, era più da congetturarsi che da segnalarsi. Ne seguì una così forte carenza di soldati che i Romani coscrissero i delinquenti dopo aver assicurato loro l'impunità ed emanciparono gli schiavi per costituire e non solo per redintegrare un esercito che era così un disonore. Mancavano le armi per gli schiavi, o meglio tanto per non far torto per gli ormai liberti destinati a combattere per lo Stato romano. Le armi furono detratte dai templi come se i Romani volessero dire ai propri dèi: "Deponete le armi che avete tenuto in mano inutilmente, perché i nostri schiavi forse possono fare qualche cosa di utile con quei mezzi con cui voi nostre divinità non siete state capaci". Non bastando più l'erario per corrispondere lo stipendio, le ricchezze private divennero di pubblico uso. Ciascuno pose in comune il proprio avere al punto che oltre tutti gli anelli e le bolle, pietosi simboli di nobiltà, il senato stesso e a più forte ragione gli altri ceti e classi non si lasciarono alcun oggetto d'oro 89. Chi sopporterebbe i nostri avversari se in questi tempi fossero costretti a tanta povertà? Li sopportiamo appena adesso che in vista di un superfluo divertimento si dà più denaro agli attori di quanto ne fu ammassato allora per le legioni in vista di un disperato tentativo di salvezza.

La fine di Sagunto.
20.
Ma fra tutti i disastri della seconda guerra punica il più degno di pietà e di deplorazione fu il massacro di quei di Sagunto. Questa città della Spagna, amicissima del popolo romano, fu distrutta perché gli si mantenne fedele. Annibale, violato il patto con i Romani, proprio da questa circostanza cercava il pretesto per provocarli alla guerra. Dunque assediava con ferocia Sagunto. Appena si seppe a Roma, furono mandati degli ambasciatori ad Annibale per indurlo ad abbandonare l'assedio. Non tenuti in alcun conto, essi andarono a Cartagine e lamentarono la violazione del patto ma tornarono a Roma senza aver concluso nulla. Durante questi indugi la disgraziata città molto ricca e molto cara alla Spagna e a Roma fu distrutta dai Cartaginesi all'ottavo o nono mese d'assedio. Fa raccapriccio leggerne e tanto più narrarne la fine. La ricorderò comunque brevemente giacché è molto pertinente all'argomento. Dapprima fu straziata dalla fame; si narra da alcuni che i cittadini si cibarono perfino dei cadaveri dei caduti. Infine stremati, per evitare almeno di cadere prigionieri nelle mani di Annibale, allestirono pubblicamente un grande rogo, nelle cui fiamme, dopo essersi anche trafitti di spada assieme ai propri familiari, tutti si abbandonarono. In questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa gli dèi ghiottoni e ciarlatani nebulosi che bramano il grasso delle vittime e ingannano con la foschia di presagi ambigui; in questo caso avrebbero dovuto far qualche cosa, soccorrere una città molto amica del popolo romano e non permettere che subisse la catastrofe perché la subiva per aver mantenuta la fedeltà. Essi certamente intervennero quando si alleò mediante un patto allo Stato romano. Dunque perché mantenne fedelmente il patto, che sotto la loro protezione aveva stretto mediante delibera, che aveva reso vincolante con la fedeltà e indissolubile col giuramento, è stata assediata, schiacciata, distrutta da un uomo sleale. Se è vero che in seguito sono stati gli dèi ad atterrire e allontanare con temporali e fulmini Annibale vicinissimo alle mura di Roma, l'avrebbero dovuto fare anche prima. Oso dire appunto che sarebbero stati più onesti se avessero infuriato col temporale in favore degli amici dei Romani, i quali erano in pericolo proprio per non tradire la fedeltà ai Romani e non avevano mezzi di difesa, anziché in favore dei Romani che combattevano per se stessi ed erano ricchi di mezzi nel fronteggiare Annibale. Se fossero perciò difensori del benessere e dell'onore di Roma, ne avrebbero stornato la grave imputazione della rovina di Sagunto. Stoltamente dunque ora si crede che in virtù della loro protezione Roma non è andata in rovina malgrado la vittoria di Annibale, giacché non furono capaci di soccorrere la città di Sagunto affinché non andasse in rovina nel mantenere l'amicizia per Roma. Supponiamo che il popolo saguntino fosse cristiano e subisse tale sventura per la fede nel Vangelo, a parte che non si sarebbe data la morte con la spada o nel rogo, supponiamo comunque che subisse lo sterminio per la fede nel Vangelo. Avrebbe sofferto nella speranza per cui aveva creduto in Cristo, cioè non per la ricompensa di un tempo molto breve ma di una eternità senza fine. Ma a proposito di codesti dèi che, come si afferma, sono adorati o se ne va in cerca per adorarli al solo scopo che sia assicurato il benessere del mondo che fugge velocemente; che cosa mi risponderanno nei confronti dello sterminio di Sagunto coloro che li difendono e li scolpano? Faranno certamente lo stesso discorso che sulla fine di Regolo. Ma c'è una differenza. Quegli era un individuo, questa un'intera cittadinanza, sebbene causa della fine dell'uno e dell'altra sia stata la conservazione della fedeltà. Proprio per essa Regolo volle tornare ai nemici e Sagunto non volle passare ai nemici. Dunque il mantenimento della fedeltà provoca lo sdegno degli dèi? Ed è possibile che nonostante la protezione degli dèi siano perduti non solo individui ma intere città? Scelgano fra le due cose quella che preferiscono. Se gli dèi si sdegnano contro la fedeltà mantenuta, scelgano i rinnegati per essere onorati. Se poi è possibile che, malgrado il loro favore individui e città, colpiti da molti e gravi tormenti, vadano in rovina, gli dèi sono adorati senza il risultato del benessere terreno. La smettano dunque di arrabbiarsi coloro che pensano di essere divenuti disgraziati con la perdita dei misteri dei propri dèi. Anche se fossero rimasti e gli dèi li avessero aiutati, potevano non soltanto, come avviene adesso, lamentarsi del disastro avvenuto ma anche andare completamente in rovina dopo essere stati orrendamente straziati come Regolo e quelli di Sagunto.

Dalle guerre civili all'impero (21-31)

Ingratitudine contro Scipione e altri fatti disumani.
21.
Tratto brevemente del periodo fra la seconda e la terza guerra punica, quando, come dice Sallustio, i Romani vissero con la più alta moralità e con la massima concordia 90. Tralascio molti fatti pensando ai limiti della mia opera. In quel tempo dunque di alta moralità e di massima concordia, Scipione, il liberatore di Roma e dell'Italia, stratega egregio e ammirevole della seconda guerra punica tanto orribile, tanto disastrosa e pericolosa, vincitore di Annibale e trionfatore di Cartagine, sebbene la sua vita fin dall'adolescenza, come si narra 91, fosse dedicata agli dèi e cresciuta nei templi, fu vittima delle accuse dei rivali. Esiliato dalla patria, che aveva salvata e liberata col proprio valore, passò il resto della vita e la finì nella cittadina di Literno. Nonostante il suo insigne trionfo, non fu mai preso dal desiderio di rivedere Roma, ordinò anzi, come si narra 92, che dopo la morte nemmeno il funerale si celebrasse nell'ingrata patria. Subito dopo per la prima volta a mezzo del proconsole Gneo Manlio, vincitore dei Galati, s'introdusse a Roma la dissolutezza asiatica peggiore di ogni nemico. Si racconta 93 che per la prima volta si cominciarono a vedere divani guarniti di bronzo e tappeti preziosi; furono introdotte le suonatrici durante i conviti e altre forme di depravazione. Ma mi sono prefisso di parlare per ora di quei mali che gli uomini subiscono contro voglia e non di quelli che compiono volontariamente. E perciò attiene a questo discorso soprattutto l'episodio che ho citato di Scipione, che, cioè, vittima dei rivali, morì fuori della patria che aveva liberata, poiché le divinità di Roma, dai cui templi aveva allontanato Annibale, non lo ricambiarono, sebbene siano onorate soltanto per il benessere terreno. Ma appunto perché Sallustio ha affermato che in quei tempi esisteva la più alta moralità, ho pensato che si dovesse ricordare l'episodio della frivolezza asiatica, affinché s'intenda che Sallustio ha parlato così nel confronto con altri tempi, in cui la moralità, a causa di gravissime discordie, fu certamente peggiore. Proprio allora, cioè fra la seconda e l'ultima guerra punica fu anche promulgata la legge Voconia perché non fosse costituita erede una donna, neanche se figlia unica 94. Non so che cosa si può prescrivere o pensare di più ingiusto che una legge simile. Comunque nell'intermezzo fra le due guerre puniche il decadimento fu più sopportabile. L'esercito si logorava soltanto con guerre esterne ma si consolava con le vittorie; in città non si avevano le discordie avutesi in altri tempi. Ma nell'ultima guerra punica con un solo attacco dell'altro Scipione, che per questo ebbe anche egli il soprannome di Africano, la rivale della dominazione romana fu letteralmente estirpata. Ma lo Stato romano fu oppresso da un peso grave di mali. Data infatti la sicurezza nel benessere, da cui con l'eccessiva corruzione morale furono accumulati quei mali, si può affermare che fu più di danno la rapida distruzione che la lunga rivalità di Cartagine. Tralascio tutto il periodo fino a Cesare Augusto il quale, come è noto, sottrasse del tutto ai Romani la libertà che, anche secondo la loro opinione, non era più apportatrice di gloria ma di lotte e disastri e ormai completamente priva di nerbo e vigore, richiamò tutti i poteri all'illimitata autorità regale, rinvigorì e ringiovanì, per così dire, lo Stato quasi cadente per decrepitezza. Di tutto questo periodo tralascio dunque le varie stragi militari dovute a cause diverse e il patto con Numanzia che è una macchia d'infamia. Erano fuggiti da una gabbia alcuni galli ed erano stati, a sentir loro, di malaugurio per il console Mancino 95, come se in tanti anni, durante i quali la piccola città cinta d'assedio aveva logorato l'esercito di Roma e cominciava a sbigottire lo stesso Stato romano, gli altri comandanti l'avessero attaccata con auspicio favorevole.

L'eccidio di Romani ordinato da Mitridate.
22.
Ometto, ripeto, questi fatti, sebbene non vorrei passare sotto silenzio che Mitridate, un re dell'Asia, diede ordine che in un solo giorno fossero uccisi i Romani che soggiornavano in qualsiasi posto dell'Asia e che attendevano con molte ricchezze ai propri affari. Così fu fatto 96. Fu uno spettacolo raccapricciante che un individuo, dovunque fosse stato trovato, in un campo, in una via, in un castello, nella casa, in un borgo, in piazza, in un tempio, a letto, a mensa, senza che se l'aspettasse e contro ogni diritto venisse ucciso. Grande fu il lamento di coloro che venivano uccisi, grande il pianto dei presenti e forse anche di coloro che uccidevano. Dura fu la condizione degli ospitanti non solo nel vedere a casa propria quelle stragi ma anche nel doverle compiere, costretti come erano a cambiare improvvisamente il viso da una gentile espressione di cortesia a un gesto da nemico compiuto in tempo di pace e, direi, con ferite d'ambo le parti, perché il ferito era colpito nel corpo e chi colpiva nella coscienza. Tutti quei Romani non si erano curati degli àuspici? Non avevano forse gli dèi domestici e pubblici da consultare, quando dalle loro case partirono per quel viaggio senza ritorno? Se non li hanno consultati, i nostri contemporanei non hanno motivo per lamentarsi della nostra civiltà, giacché da tempo i Romani disprezzano queste inutili pratiche. Se poi li hanno consultati, mi si dica quale profitto hanno dato dette pratiche quando erano ammesse dalle leggi umane senza alcuna restrizione.

Conseguenze funeste delle guerre sociali.
23.
Ma ormai devo far menzione, nei limiti delle mie possibilità, dei mali che furono tanto più disastrosi perché interni: discordie civili o piuttosto incivili, che non erano più sedizioni ma vere guerre in città durante le quali fu versato molto sangue e le passioni di parte non si limitarono alle polemiche e alle varie voci della pubblica opinione ma inferocivano ormai apertamente con le armi. Le guerre sociali, le guerre servili, le guerre civili fecero versare molto sangue romano e produssero l'immiserimento e lo spopolamento dell'Italia. Infatti prima che si organizzasse contro Roma la lega laziale, tutti gli animali addomesticati, cani, cavalli, asini, buoi e tutte le altre bestie di proprietà dell'uomo, tornate rapidamente allo stato selvaggio e dimentiche dell'addomesticamento, abbandonate le case, vivevano brade e aborrivano l'avvicinarsi non solo degli estranei ma anche dei padroni, con la morte o il pericolo di chi osava molestarli da vicino 97. E fu segno di un grande male se fu segno, ma fu un gran male se non fu anche segno. Se fosse avvenuto ai nostri giorni, vedremmo i nostri contemporanei più rabbiosi di quel che gli uomini di allora videro i propri animali.

Le sedizioni dei Gracchi.
24.
Inizio dei mali civili furono le sedizioni dei Gracchi suscitate dalle leggi agrarie. Volevano distribuire al popolo i terreni che la nobiltà possedeva illegalmente. Ma osare di eliminare una ingiustizia ormai vecchia fu molto pericoloso e, come il fatto dimostrò, veramente deleterio. Molte uccisioni furono eseguite quando fu ucciso il primo dei Gracchi; così pure quando, non molto tempo dopo, fu ucciso il fratello. Infatti tanto nobili che popolani venivano giustiziati non in base alle leggi e col mandato dei magistrati ma durante le turbolenze e nei conflitti armati. Dopo l'uccisione del secondo Gracco il console Lucio Opimio, che aveva incitato alle armi contro di lui la città, dopo averlo abbattuto e ucciso assieme ai compagni, ordinò una grande strage di cittadini. Avendo poi fra mano l'inchiesta e perseguendo gli altri gregari col processo giudiziario, ne fece condannare a morte, come si racconta, tremila 98. Si può congetturare il numero delle esecuzioni di un cieco conflitto armato se l'informazione dovuta alla procedura ha fornito un sì gran numero di sentenze. L'uccisore del Gracco ne vendette la testa al console avendo in cambio il peso corrispondente in oro. Era un contratto stipulato prima dell'eccidio. Fu ucciso in quel caso con i figli anche l'ex console Marco Fulvio.

Le dee Concordia e Discordia.
25.
Con opportuna delibera del senato, nel luogo in cui avvenne il fatale tumulto, in cui tanti cittadini di qualsiasi classe caddero, fu eretto il tempio a Concordia, perché testimone della pena dei Gracchi, colpisse la vista dei comizianti e ne stimolasse la memoria. Ma costruire un tempio a quella dea fu unicamente uno scherno contro gli dèi. Sembra quasi che se fosse stata in città, questa non sarebbe andata in rovina benché disgregata da tanti dissensi. Ma forse Concordia, colpevole del delitto di avere abbandonato la coscienza dei cittadini, meritò di essere rinchiusa in quel tempio come in un carcere. E per quale motivo, se volevano adeguarsi ai fatti, in quel posto non costruirono un tempio a Discordia? E si può dare una ragione per cui la concordia è una dea e la discordia no, in maniera che secondo la distinzione di Labeone una sia buona, l'altra cattiva? Anche egli, come sembra, aveva questa opinione perché nota che a Roma era stato eretto il tempio tanto a Febbre che a Salute. Per lo stesso motivo doveva essere eretto non solo a Concordia ma anche a Discordia. I Romani dunque scelsero di vivere con grave rischio irritando una dea così malvagia e non ricordarono che la fine di Troia ebbe inizio con il suo sdegno. Non essendo stata invitata con gli altri dèi, suscitò col pretesto di una mela d'oro la lite di tre dee e da qui la rissa delle divinità, la vittoria di Venere, il rapimento di Elena e la distruzione di Troia. Pertanto se, eventualmente sdegnata perché a Roma non meritò di avere un tempio come gli altri dèi, turbava per questo la città con tante sommosse, è probabile che si sia sdegnata più aspramente nel vedere che nel luogo di quella strage, quanto dire della sua opera, era stato eretto un tempio alla sua rivale. I dotti e i sapienti masticano bile quando schernisco queste sciocche credenze. Prestando tuttavia il culto a divinità buone e cattive, non escono dal dilemma di Concordia e Discordia, sia che abbiano trascurato il culto a queste dee e abbiano loro preferito Febbre e Bellona, alle quali hanno costruito templi fin dall'antichità, sia che avessero adorato anche esse, perché quando si è allontanata Concordia, Discordia ha infierito trascinandoli fino alle guerre civili.

Le guerre civili, la guerra sociale e servile.
26.
Pensarono dunque di porre davanti ai comizianti come eccellente salvaguardia dalle sommosse il tempio di Concordia, testimone della strage e del supplizio dei Gracchi. Quale profitto ne ricavarono lo indica il peggiorarsi degli avvenimenti che seguirono. In seguito gli oratori si affaticarono non ad evitare l'esempio dei Gracchi ma a superarne l'intento, come il tribuno della plebe Lucio Saturnino, il pretore Gaio Servilio e più tardi Marco Druso. In seguito alle loro sommosse si ebbero dapprima delle stragi fin d'allora gravissime e poi scoppiarono le guerre sociali. L'Italia ne fu spaventosamente danneggiata e ridotta in uno stato d'incredibile desolazione e spopolamento. Seguirono la guerra servile e le guerre civili. Si ebbero molti combattimenti, fu versato molto sangue, tanto che le popolazioni italiche da cui era rinvigorita la dominazione romana, furono trattate come barbari. Soltanto gli storiografi 99 poi sono riusciti ad esporre in che modo fosse preparata da pochissimi gladiatori, meno di settanta, la guerra servile, a qual numero giungessero gli insorti e come fossero decisi ed energici, quali condottieri del popolo romano gli insorti sconfiggessero e quali città e regioni devastassero e in che modo. E non fu la sola guerra servile. Gli schiavi devastarono anche la provincia della Macedonia e poi anche la Sicilia e il litorale. E chi, data la proporzione degli avvenimenti, potrebbe parlare delle tante e orribili razzie operate dai pirati e delle loro coraggiose guerre?

La guerra civile mariana.
27.
Mario, già macchiato del sangue dei concittadini per averne uccisi molti del partito avverso, vinto a sua volta, era fuggito da Roma. La città respirò appena un po' quando, per usare le parole di Cicerone, vinse il partito di Cinna e Mario. In quella circostanza con l'uccisione di uomini illustri si spensero gli occhi della città. In seguito Silla punì la crudeltà di questa vittoria e non c'è bisogno di dire con quale diminuzione di cittadini e con quanto danno per lo Stato 100. Di questa vendetta, la quale fu più dannosa che se i delitti puniti fossero rimasti impuniti, ha detto Lucano: Il rimedio non rispettò la misura e andò troppo al di là del punto in cui le malattie guidarono la mano del medico. Morirono i colpevoli, ma perché soltanto altri colpevoli poterono sopravvivere. Fu data libertà agli odi e l'ira, sciolta dai freni delle leggi, infierì 101. Nella guerra civile fra Mario e Silla, senza considerare quelli che erano morti in combattimento, le strade, le piazze, i fori, i teatri, i templi nella città stessa erano pieni di cadaveri. Era difficile giudicare quando i vincitori avessero causato un numero più alto di morti, se prima per vincere o dopo perché avevano vinto. Dapprima con la vittoria di Mario, quando tornò dall'esilio, a parte le uccisioni avvenute dovunque, la testa del console Ottavio fu posta sui rostri, i Cesari furono uccisi da Fimbria nelle proprie case, i due Crassi, padre e figlio, furono sgozzati l'uno di fronte all'altro, Bebio e Numitorio trascinati con un arpione morirono spargendo gli intestini per la strada, Catulo si sottrasse alle mani dei nemici prendendo il veleno, Merula, flamine diale, tagliandosi le vene sacrificò a Giove col proprio sangue. Davanti agli occhi dello stesso Mario venivano uccisi cittadini soltanto se al loro saluto egli non porgeva loro la mano.

La guerra civile sullana.
28.
La vittoria di Silla che seguì, quanto dire la punitrice della crudeltà di Mario, ottenuta col molto sangue dei cittadini già versato, pur essendo finita la guerra ma rimanendo le rivalità, proprio in periodo di pace infierì più crudelmente. Alle prime e alle ultime stragi del primo Mario se ne aggiunsero altre più gravi da parte di Mario il giovane e di Carbone del partito di Mario. Quando Silla stava per ritornare, costoro disperando non solo della vittoria ma anche della vita riempirono la città con altre loro carneficine. Infatti oltre la strage che si aveva da ogni parte, fu assediato il senato, e dalla curia, come se fosse un carcere, i senatori venivano condotti alla decapitazione. Il pontefice Muzio Scevola, sebbene niente per i Romani era più santo del tempio di Vesta, fu ucciso mentre abbracciava l'altare e spense quasi col proprio sangue il fuoco che ardeva perpetuamente per la continua sorveglianza delle vestali. Poi Silla entrò vincitore in città. Nella villa pubblica egli, giacché non la guerra ma la pace mieteva vittime, ne abbatté, non in combattimento ma con un ordine, ben settemila che si erano arresi e per questo anche inermi. In città poi qualsiasi partigiano di Silla poteva uccidere chi volesse. Per questo era assolutamente impossibile calcolare i morti fino a che non fu consigliato a Silla di lasciarne vivere alcuni perché si dessero individui a cui i vincitori potessero comandare. Fu frenata allora la furiosa licenza di ammazzare che impazzava dovunque e fu proposta con grande soddisfazione una tavola la quale conteneva duemila nomi di cittadini dell'una e dell'altra classe nobile, cioè equestre e senatoria, che dovevano essere uccisi e proscritti. Rattristava il numero ma consolava il limite al massacro, e la tristezza per il fatto che tanti dovevano morire era minore della gioia perché gli altri cessavano di temere. Tuttavia la loro tranquillità, per quanto crudele, si dolse profondamente dei raffinati sistemi di morte riservati ad alcuni di coloro che erano stati condannati a morte. Qualcuno fu sbranato dalle mani inermi dei carnefici, uomini che straziavano un uomo vivo con maggior efferatezza di quanto siano solite le belve con un cadavere trovato in terra. Un altro fu fatto vivere a lungo, o meglio morire a lungo fra grandi sofferenze perché gli avevano cavati gli occhi e amputate parti del corpo ad una ad una. Furono messe all'asta, come se fossero ville, alcune illustri città; la sorteggiata fu tutta condannata ad essere ammazzata come se si trattasse dell'esecuzione di un solo delinquente. I fatti avvennero in periodo di pace dopo la guerra, non per accelerare il conseguimento della vittoria ma per dare rilievo a quella già conseguita. La pace gareggiò con la guerra in crudeltà e vinse. La guerra abbatté uomini armati, la pace inermi. La guerra significava che chi poteva essere ucciso, poteva se gli riusciva, uccidere a sua volta; la pace non significava che chi era scampato vivesse ma che morendo non desse più fastidio.

Confronti con le guerre esterne.
29.
Quale furore di genti straniere, quale crudeltà di barbari si può paragonare a questa vittoria di cittadini su concittadini? Che cosa ha visto Roma di più efferato, macabro e desolante, forse l'antico saccheggio dei Galli e il recente dei Goti o piuttosto la violenza di Mario e Silla e degli altri uomini eminenti nei rispettivi partiti? Fu come la violenza degli occhi di Roma contro le sue membra. I Galli uccisero i senatori dovunque li avessero trovati in tutta Roma, fuorché nella rocca del Campidoglio che comunque era la sola ad essere difesa. A coloro però che si trovavano su questo colle permisero per lo meno di riscattare la vita con l'oro; e sebbene non potessero toglierla con le armi, avrebbero potuto farla deperire con un lungo assedio. I Goti poi hanno risparmiato tanti senatori che farebbe meraviglia se ne hanno uccisi alcuni. Invece Silla, e Mario era ancora vivo, s'insediò come vincitore sul Campidoglio, che fu rispettato dai Galli, per decretare le carneficine; e quando Mario gli sfuggì per tornare più violento e sanguinario, egli dal Campidoglio, anche con delibera del senato, privò molti della vita e delle sostanze. Per i partigiani di Mario poi nell'assenza di Silla non vi fu alcun oggetto santo che risparmiassero se non risparmiarono neanche Muzio cittadino, senatore, pontefice, nell'atto che stringeva con disperato abbraccio l'altare stesso in cui erano, a sentir loro, i destini di Roma. L'ultima tavola di Silla inoltre, per non parlare di molte altre uccisioni, mandò a morte più senatori di quanti i Goti riuscirono a derubare.

Le altre guerre civili e fine di Cicerone.
30.
Con quale fronte dunque, con quale coraggio, con quale improntitudine, con quale stoltezza o meglio pazzia non rinfacciano i fatti antichi ai loro dèi e rinfacciano i recenti al nostro Cristo? Le crudeli guerre civili, più dannose, per confessione anche dei loro scrittori, di tutte le guerre esterne, da cui, come è stato giudicato, lo Stato non solo fu colpito ma completamente rovinato, sono scoppiate prima della venuta di Cristo. Per una concatenazione di delitti si venne dalla guerra di Mario e Silla a quelle di Sertorio e di Catilina, il primo proscritto, l'altro protetto da Silla; poi a quella di Lepido e Catulo, dei quali uno voleva rescindere, l'altro approvare gli atti di Silla; poi a quella di Pompeo e Cesare. Pompeo era stato seguace di Silla ma ne aveva già eguagliato o anche superato il prestigio. Cesare non tollerava il prestigio di Pompeo perché ne era privo, ma lo superò dopo che l'altro fu sconfitto e ucciso. Da costoro le guerre civili passarono all'altro Cesare, detto in seguito Augusto. Il Cristo nacque mentre egli era imperatore. Lo stesso Augusto sostenne numerose guerre civili, durante le quali morirono molti uomini illustri fra cui anche Cicerone, l'eloquente statista. Avvenne che una congiura di alcuni nobili senatori uccise col pretesto della libertà politica Caio Cesare, vincitore di Pompeo, accusato di aspirare al regno. Egli comunque aveva usato con clemenza della vittoria civile e aveva donato vita e onori ai propri avversari. Parve allora che Antonio, ben diverso per moralità da Cesare e profondamente depravato in tutti i vizi, aspirasse ad ereditarne il prestigio. Cicerone gli resisteva vigorosamente per la libertà della patria. S'era fatto notare intanto come giovane di indole ammirevole, l'altro Cesare, figlio adottivo di Caio Cesare che, come ho detto, fu chiamato Augusto. Cicerone favoriva il giovane Cesare affinché si affermasse il suo prestigio contro Antonio. Sperava che rimossa e abbattuta la signoria di Antonio, l'altro avrebbe restituito la libertà politica. Ma era ciecamente imprevidente del futuro al punto che proprio quel giovane, di cui sosteneva la capacità nel governo, permise ad Antonio come per un tacito accordo di uccidere Cicerone stesso e sacrificò alla propria signoria quella libertà politica per cui il meschino aveva tanto gridato.

I cataclismi naturali.
31.
I nostri avversari, che sono ingrati al nostro Cristo di beni tanto grandi, accusino i propri dèi di mali tanto grandi. È vero, quando si verificavano quei mali, gli altari delle divinità profumavano d'incenso d'Arabia e olezzavano di fresche ghirlande 102, splendevano le vesti sacerdotali, gli edifici sacri scintillavano, si sacrificava, si dava spettacolo, s'impazziva nei templi, anche se per ogni dove si versava da cittadini tanto sangue dei concittadini, non solo in altri luoghi ma perfino in mezzo agli altari degli dèi. Cicerone non scelse un tempio in cui rifugiarsi perché Muzio lo aveva scelto invano. Costoro invece, che tanto ingiustificatamente insultano la civiltà cristiana, o si rifugiarono negli edifici più illustri dedicati a Cristo o ve li condussero i barbari per salvarli. Io sono certo di una cosa e chiunque giudica senza partigianeria viene sicuramente d'accordo con me. Lascio da parte altri fatti perché molti ne ho citati e sono di più quelli sui quali ho ritenuto di non dovermi dilungare. Se il genere umano avesse ricevuto l'insegnamento cristiano prima delle guerre puniche e ne fosse seguita la grande catastrofe che attraverso quelle guerre desolò l'Europa e l'Africa, ognuno di questi che esercitano la nostra pazienza avrebbe attribuito tali sciagure soltanto alla religione cristiana. Ancora più insopportabili, per quanto riguarda i Romani, sarebbero le loro grida se al manifestarsi e diffondersi della religione cristiana avessero fatto seguito il saccheggio dei Galli, il disastro dell'inondazione del Tevere e dell'incendio, ovvero le guerre civili che sono il disastro più grande. E rinfaccerebbero sicuramente ai cristiani come colpe altre sventure che si verificarono contro ogni aspettativa tanto da essere considerati prodigi, se si fossero verificate ai tempi del cristianesimo. Ometto quei casi in cui si ebbe più del mirabile che del dannoso, come il fatto che buoi hanno parlato, che bimbi non ancor nati hanno gridato alcune parole dal grembo materno, che serpenti sono volati, che donne e galline sono divenute di sesso maschile e altri simili prodigi che si trovano nei loro libri, non poetici ma storici 103, e che, veri o falsi, non producono negli uomini danno ma stupefazione. Ma quando si ebbe una pioggia di terra o di sabbia o di pietre (non nel senso di grandine come talora si dice, ma proprio di pietre) 104, questi fenomeni poterono certamente recare danni anche gravi. Si legge negli scrittori che a causa delle lave dell'Etna, le quali dal vertice del monte colarono fino alla spiaggia, il mare si mise in ebollizione fino ad infuocare gli scogli e a sciogliere la pece delle navi 105. Il fenomeno non costituì un lieve danno, sebbene sia singolare fino all'inverosimile. Hanno scritto che in un'altra eruzione del vulcano la Sicilia fu invasa da tanta cenere da far crollare per il sovraccarico e il peso i tetti della città di Catania. I Romani mossi a compassione dal disastro per quell'anno le condonarono il tributo 106. Hanno scritto anche che il numero delle cavallette in Africa, quando era già provincia romana, ebbe del prodigioso; dicono che distrutte le frutta e la vegetazione si buttarono in mare in una nube enorme al di là di ogni calcolo. Lì morirono e furono restituite alla spiaggia. Essendo l'aria divenuta infetta scoppiò una così grave epidemia che, come si racconta, nel solo regno di Massinissa, morirono ottocentomila individui e molti di più nelle regioni vicine al mare 107. Assicurano che ad Utica delle trentamila reclute che vi erano ne rimasero diecimila. Dunque la superficialità, che dobbiamo tollerare e alla quale siamo costretti a rispondere, rinfaccerebbe ognuno di questi fatti alla religione cristiana se li riscontrasse ai tempi del cristianesimo. Eppure non li rinfacciano ai loro dèi, di cui vogliono ristabilito il culto per non subire questi mali per quanto minori, sebbene gli antichi politeisti ne abbiano subiti ben più gravi.

 

LIBRO VII

SOMMARIO

1. Se si deve ritenere che è possibile rinvenire l'essere divino negli dèi scelti poiché è chiaro che non si trova nella teologia civile.

2. Caratteristiche degli dèi scelti ed eventuale loro esenzione dalle incombenze degli dèi inferiori.

3. Non c'è spiegazione che possa essere resa plausibile sulla selezione di alcuni dèi, poiché a molti dèi inferiori si attribuisce un ruolo più importante.

4. Sono stati trattati meglio gli dèi inferiori perché non sono infamati con riti ignominiosi, che gli dèi eletti perché di essi si ricordano nelle feste tante dissolutezze.

5. La dottrina esoterica e l'interpretazione naturalista dei pagani.

6. La teoria di Varrone secondo cui Dio sarebbe l'anima del mondo, sebbene nelle sue parti abbia molte anime di natura divina.

7. Se fu ragionevole distinguere Giano e Termine in due divinità.

8. Per quale motivo gli adoratori di Giano hanno raffigurato bifronte il loro idolo, sebbene a sentir loro potrebbe essere anche quadrifronte.

9. Il potere di Giove e suo confronto con Giano.

10. Se è ragionevole la distinzione di Giano e Giove.

11. Gli appellativi di Giove non sono relativi a molti dèi ma a un solo dio.

12. Giove è considerato anche Pecunia (denaro).

13. Nell'esaminare le caratteristiche di Saturno e di Genio, ci si accorge che sono lo stesso Giove.

14. Le incombenze di Mercurio e di Marte.

15. I pagani hanno designato alcune stelle col nome dei propri dèi.

16. Apollo e Diana e altri dèi scelti sono, secondo i pagani, parti del mondo.

17. Anche Varrone ha esposto teorie ambigue sugli dèi.

18. La spiegazione più attendibile del diffondersi del politeismo.

19. Le interpretazioni con cui si imbottisce una teoria del culto di Saturno.

20. I misteri di Cerere ad Eleusi.

21. L'oscenità dei misteri celebrati per Libero.

22. Nettuno, Salacia e Venilia.

23. Varrone afferma che la Terra è una dea perché lo spirito del mondo, che ritiene un dio, si diffonde anche in questa parte più bassa del suo corpo e le conferisce l'energia divina.

24. Appellativi e significati della Terraferma che sebbene siano indicativi di molte cose non avrebbero dovuto comprovare le teorie del politeismo.

25. Le interpretazioni che la dottrina dei sapienti greci ha scovato sull'evirazione di Attis.

26. La sconcezza dei misteri della Gran Madre.

27. I naturalisti con le loro fole non adorano la vera divinità ed escludono l'adorazione con cui si deve adorare la vera divinità.

28. La dottrina di Varrone sulla teologia è incoerente da ogni parte.

29. Tutti gli attributi che i naturalisti hanno riferito al mondo e alle sue parti devono essere riferiti al solo vero Dio.

30. Col sentimento religioso il Creatore si deve distinguere dalle creature per non adorare tanti dèi quante sono le opere di un solo autore.

31. Di quali favori di Dio, a parte la sua larghezza concessa a tutti, usufruisce chi accoglie la verità.

32. Il mistero della redenzione del Cristo non è mai mancato nei tempi passati ed è stato sempre riproposto con simboli diversi.

33. Soltanto mediante la religione cristiana fu possibile smascherare la menzogna degli spiriti maligni che godono degli errori dell'uomo.

34. Il senato ordinò di bruciare i libri di Numa Pompilio affinché non fossero rese note le origini dei misteri in essi trattate.

35. Nella pratica dell'idromanzia Numa veniva ingannato dalla visione di figure demoniache.

Libro settimo

L'INTERPRETAZIONE NATURALISTICA DEGLI DÈI ELETTI E LA SALVEZZA

Criterio per una selezione degli dèi (Prem. 4)

Premessa - Sto tentando con molto impegno di svellere definitivamente le perverse e antiche credenze contrarie alla vera religione che un prolungato errore del genere umano ha inciso assai profondamente e saldamente nelle coscienze. A un tempo nei miei limiti e con la sua assistenza coopero alla grazia di colui che essendo il vero Dio può aiutarmi. Quindi le persone più pronte a capire, per le quali i precedenti libri sull'argomento sono più che sufficienti, mi debbono sopportare pazientemente e serenamente e in considerazione degli altri non devono considerare superfluo ciò che ritengono per se stessi non necessario. Nell'affermare la ricerca e il culto della vera e veramente santa divinità, non per il fumo passeggero di questa vita mortale ma per la vita beata che si ha soltanto nell'eternità, si compie una impresa veramente grande, anche se da lei ci è concesso l'aiuto indispensabile alla debolezza di cui in questo mondo siamo portatori.

Possibili criteri di selezione.
1.
Devo parlare dunque di questa divinità o, con altra parola, deità, giacché ai latini non dà più fastidio usare questa parola per tradurre con maggiore proprietà il termine greco . Chi dunque non è rimasto convinto leggendo il sesto libro, da me testé terminato, che questa divinità o deità non si trova nella teologia che chiamano civile, trattata da Marco Varrone in sedici libri, in altri termini che non si giunge alla felicità della vita eterna mediante l'adorazione degli dèi del politeismo secondo la forma e il culto stabiliti dagli Stati, nel leggere eventualmente questo libro non avrà da chiedere ulteriori chiarimenti. Qualcuno potrebbe pensare che gli dèi eletti per eminenti prerogative, che Varrone ha trattato nell'ultimo libro e di cui io non ho molto parlato, si debbano adorare in vista della vita beata che si ha soltanto nell'eternità. In proposito io non accetto il motto più spiritoso che ragionevole di Tertulliano: Se gli dèi si scelgono come le cipolle, gli altri sono giudicati scarti 1. Io non dico questo. Noto che anche fra gli scelti se ne scelgono altri a un compito maggiore per importanza. Avviene anche nell'esercito perché, scelte le reclute, fra di esse si scelgono alcune ad un ufficio più responsabile nelle azioni militari. Ed anche nella Chiesa quando si scelgono i superiori, certamente gli altri non sono scartati, giacché tutti i fedeli sono giustamente considerati persone elette. Nell'edificio si scelgono le pietre per gli angoli 2, senza scartare le altre che sono destinate alle varie parti della costruzione. Si scelgono le uve per la mensa ma non si scartano le altre che destiniamo alla pigiatura. Non occorre addurre molti esempi perché il concetto è evidente. Dunque per il fatto che fra molti sono stati scelti alcuni dèi non se ne deduce che si devono biasimare o lo scrittore o gli adoratori o gli dèi stessi; piuttosto si deve valutare criticamente quali sono e a quale scopo sono stati scelti.

Non valido alla selezione l'incarico.
2.
Varrone presenta gli dèi eletti nel contesto di un solo libro. Sono: Giano, Giove, Saturno, Genio, Mercurio, Apollo, Marte, Vulcano, Nettuno, Sole, Orco, Libero padre, Terra, Cerere, Giunone, Luna, Diana, Minerva, Venere, Vesta. Fra tutti venti, di cui dodici sono maschi e otto femmine 3. Ma queste divinità si considerano elette in base a più rilevanti mansioni nel mondo, ovvero perché furono più note ai cittadini e fu loro offerto un culto maggiore? Se per il fatto che assolvono compiti più importanti nel mondo, non avremmo dovuto trovarle fra la folla quasi popolana di divinità destinate a banali incombenze. Infatti nel concepimento del feto, da cui prendono l'avvio le varie competenze assegnate al minuto a minute divinità, è Giano in persona ad aprire l'entrata con l'accogliere il seme. Ma poi c'è Saturno per il seme in se stesso; c'è Libero che libera il maschio con l'effusione del seme; c'è Libera che, a sentir loro, è anche Venere, e accorderebbe un eguale soccorso alla femmina affinché anche lei si liberi con l'effondere il seme 4. Tutti questi appartengono agli eletti. Ma al concepimento è presente anche la dea Mena che è preposta alle mestruazioni e lei, a parte che è figlia di Giove, è una dea proletaria. Inoltre Varrone nel libro sugli dèi scelti assegna il settore dei flussi mestruali alla stessa Giunone che è anche regina fra gli dèi scelti e nel caso in parola sovraintende al flusso mestruale come Giunone Lucina assieme alla figliastra Mena 5. Sono presenti anche due dèi di non saprei quale umilissima estrazione, Vitunno e Sentino, di cui uno elargisce la vita al feto, l'altro il senso 6. Comunque, sebbene così oscuri, valgono molto di più dei magnati e degli eletti. Infatti senza la vita e il senso, tutto ciò che è gestato nel grembo di una donna è un non so che di spregevole da paragonarsi a un impasto di fango.

L'eccezione di Vitunno, Sentino e Mente...
3.
1. Quale ragione dunque ha indotto tanti dèi scelti a queste minuziose incombenze se nella distribuzione delle competenze in questo caso sono superati da Vitunno e Sentino che un'oscura reputazione rende sconosciuti 7? Infatti Giano un eletto contribuisce con l'apertura e quasi porta per lo sperma, Saturno un eletto con lo sperma stesso, Libero un eletto con l'effusione del medesimo sperma per gli uomini, e Libera, che è anche Cerere e Venere, per le donne, Giunone un'eletta, non da sola ma affiancata da Mena, figlia di Giove, contribuisce con i flussi mestrui per la crescita del feto. Ma Vitunno uno sconosciuto e popolano contribuisce con la vita e Sentino uno sconosciuto e popolano col senso. E questi due sono di tanto superiori agli altri quanto essi sono inferiori a un atto di puro pensiero. Come infatti gli esseri che ragionano e pensano sono certamente più perfetti di quelli che, privi di capacità di pensare come le bestie, hanno vita e senso, così anche quelli che sono dotati di vita e di senso sono più perfetti di quelli che non hanno vita e senso. Quindi Vitunno che rende vivi e Sentino che rende senzienti avrebbero dovuto essere fra gli dèi scelti a maggior diritto di Giano che introduce lo sperma, di Saturno che lo dà o lo semina, di Libero e di Libera che stimolano e fanno uscire lo sperma. Ed è sconveniente pensare a spermi che non giungessero alla vita e al senso. Ma questi doni scelti non sono concessi da dèi scelti ma sconosciuti e dimenticati in confronto con l'onorabilità degli altri. Potrebbero ribattere che Giano ha il potere di tutti gli inizi e che perciò giustamente gli si attribuisce anche l'apertura del concepimento, che Saturno ha il potere su tutti i semi e che quindi anche lo sperma umano non si può esimere dal suo influsso, che Libero e Libera hanno potere sull'effusione di tutti i semi e che pertanto sovraintendono anche a quelli che hanno competenza a diffondere l'umanità, che Giunone ha il potere su tutte le cose che si spurgano e si generano e pertanto non può mancare agli spurghi femminili e alle generazioni umane. Ma allora riflettano che cosa rispondere su Vitunno e Sentino, se, cioè, per caso intendono dire che anche essi hanno potere su tutti gli esseri che hanno vita e senso. Se lo ammettono, pensino a porli molto più in alto. Infatti il nascere da un seme avviene in terra e dalla terra, ma essi sostengono che anche gli dèi astrali hanno vita sensitiva. Se poi dicono che a Vitunno e a Sentino sono assegnati soltanto gli esseri che prendono vita nella carne e sono dotati di sensi, perché il dio che fa vivere e sentire tutti gli esseri non infonde direttamente vita e senso nella carne, attribuendo con universale operazione questa caratteristica anche alle generazioni? E che bisogno c'è al caso di Vitunno e di Sentino? Ma supponiamo che questi incarichi, considerati i più abietti e vili, da colui che ha il dominio universale sulla vita e sui sensi siano stati affidati ai due dèi come a domestici. In tale ipotesi forseché gli eletti sono stati abbandonati dalla servitù da non trovare a chi affidare anche essi quegli incarichi e da essere quindi costretti, malgrado tutta la loro nobiltà per cui si ritenne di considerarli eletti, a sfacchinare con gente plebea? Giunone eletta e regina, sorella ed anche moglie di Giove 8, è Iterduca (accompagnatrice) per i bimbi e svolge il compito assieme alle dee estremamente plebee Abeona e Adeona. In quell'incombenza hanno posto anche la dea Mente perché produca nei fanciulli una buona mente e tuttavia lei non è posta fra gli scelti come se si possa concedere all'uomo qualcosa di più nobile. Vi è invece Giunone, perché è Iterduca e Domiduca, come se uscire a passeggio ed essere ricondotti a casa giovi qualcosa se la mente non è buona 9. Ma gli individui incaricati della scelta non hanno neanche pensato di porre fra le divinità elette una dea con una commissione tanto delicata. Al contrario, sarebbe dovuta esser superiore a Minerva alla quale hanno assegnato la memoria dei fanciulli. Eppure non v'è dubbio che è molto meglio avere una buona mente che una memoria straordinaria. Non si può essere cattivi se si ha una buona mente, invece alcuni pessimi individui sono di una memoria meravigliosa e sono tanto peggiori quanto meno possono dimenticare il male che pensano di fare. E tuttavia Minerva è fra gli dèi eletti, invece la dea Mente è rimasta confusa fra una turba plebea. Che dire di Virtù e Felicità? Ne abbiamo parlato abbastanza nel quarto libro 10. Pur considerandole dee, non pensarono di assegnare loro un posto nell'élite degli dèi, piuttosto lo diedero a Marte e Orco, l'uno esecutore, l'altro ricettatore dei morti.

...e della potente ma non eletta Fortuna.
3.
2. Vediamo quindi che in queste minuziose incombenze, assegnate con minuzia a molti dèi, gli eletti collaborano come il senato con la plebe; scopriamo d'altronde che alcuni dèi i quali non sono stati considerati eletti svolgono incarichi più alti per dignità di quelli che sono considerati eletti. Rimane dunque l'ipotesi che sono stati considerati eletti e ragguardevoli non in base a incombenze più eminenti nel mondo ma perché riuscì loro di rendersi più noti fra i cittadini. Lo stesso Varrone dice in proposito che alcuni dèi padri e alcune dee madri perdettero, come gli uomini, i diritti di nobiltà 11. Se dunque per ipotesi Felicità non doveva essere fra gli dèi eletti, perché gli altri giunsero alla nobiltà non per merito ma per un colpo di fortuna, almeno fra di loro o meglio a preferenza di loro doveva avere un posto Fortuna. A sentire i pagani, è una dea che concede i propri favori non in base a un criterio razionale ma così a caso. Lei avrebbe dovuto essere a capo degli dèi eletti perché soprattutto in essi ha mostrato il proprio potere. Osserviamo infatti che sono stati scelti non sulla base di una eminente virtù o di una ragionevole felicità ma di un bizzarro potere di Fortuna, secondo quanto i loro adoratori pensano di lei. Pure Sallustio, uomo veramente intelligente, sta forse pensando anche agli dèi quando dice: Certamente Fortuna influisce su tutti gli avvenimenti e di essi uno lo rende celebre, un altro lo lascia in ombra più per capriccio che per un motivo razionale 12. I pagani infatti non possono trovare un motivo plausibile perché sia stata celebrata Venere e lasciata nell'ombra Virtù, sebbene entrambe siano state divinizzate senza dover confrontare le rispettive benemerenze. E se ottiene di essere nobilitato ciò che i più preferiscono, perché sono i più a preferire Venere a Virtù, perché è stata esaltata la dea Minerva e lasciata nell'ombra Pecunia? Infatti della razza umana ne attrae più l'amore del denaro che la cultura, e fra quelli stessi che sono cultori di una disciplina raramente puoi trovare un uomo che non renda la propria professione venale con la ricompensa in denaro. D'altronde si apprezza di più l'utile che si ottiene che l'azione con cui l'utile si ottiene. Se dunque la selezione degli dèi è stata fatta col criterio della massa ignorante, perché la dea Pecunia non è stata preferita a Minerva, dal momento che molti professano l'arte per denaro? Se poi la scelta è dei pochi colti, perché non è stata preferita Virtù a Venere, dal momento che la ragione di molto la predilige? Ma torniamo a Fortuna la quale, come ho detto, stando all'opinione di molti che le accordano un grandissimo potere 13, influisce su tutti gli avvenimenti e di essi uno lo rende celebre, un altro lo lascia in ombra più per capriccio che per un motivo razionale. Se ella dunque ebbe un simile potere anche sugli dèi tanto da esaltare o lasciare in ombra in base a un suo criterio capriccioso coloro che voleva, dovrebbe avere un ruolo eminente fra gli dèi eletti perché avrebbe un potere straordinario sugli dèi stessi. Se poi non è riuscita a collocarsi tra gli eletti, si deve pensare soltanto che Fortuna in persona ebbe la fortuna avversa. Si è avversata da sé perché pur rendendo illustri gli altri, ella non lo divenne.

Dèi eletti e infamati.
4.
Un individuo desideroso di nobiltà e di rinomanza si congratulerebbe con gli dèi eletti e li chiamerebbe fortunati se non si accorgesse che sono stati scelti più per ricevere oltraggi che rispetto. Infatti lo stesso nome oscuro ha coperto la schiera proletaria degli dèi perché non fosse subissata d'improperi. Ci vien proprio da ridere quando vediamo, secondo i modelli dell'immaginazione umana, gli dèi assegnati a scompartimenti di lavoro come gli esattori al minuto e come gli artigiani nel quartiere degli argentieri, in cui un vasetto per riuscire perfetto passa per le mani di molti artigiani, quando potrebbe esser condotto a termine da uno solo che fosse abile in tutto. Ma non si è pensato di provvedere in altro modo alla ressa della manodopera. Così ciascuno apprendeva con agevole speditezza le specifiche competenze dell'arte senza che tutti fossero costretti ad essere abili con laboriosa lentezza in tutta l'operazione tecnica. Tuttavia si riesce appena a trovare qualcuno degli dèi non scelti che avesse la reputazione infamata da un delitto e al contrario si trova appena qualcuno degli dèi eletti che non abbia ricevuto una nota di segnalata immoralità. Così gli eletti si abbassarono agli umili lavori degli abietti e gli abietti non si elevarono agli illustri delitti degli eletti. Riguardo a Giano non viene in mente nulla che si volga a suo disonore. E forse sarà stata una persona dabbene, sarà vissuto senza colpa e alieno da delinquenza e immoralità. Accolse con umanità il fuggiasco Saturno, divise il regno con l'ospite, in modo che ciascuno costruisse la propria città, egli il Gianicolo e l'altro Saturnia. Ma i Romani, bramosi di una qualsiasi deformazione nel culto degli dèi, essendosi accorti che la sua vita era meno turpe, lo deturparono con la mostruosa deformità del suo idolo perché lo figurarono con doppia fisionomia, ora bifronte ed ora quadrifronte. Intesero forse che egli apparisse con più fronti in quanto più onesto, giacché moltissimi dèi eletti avevano perduto la fronte commettendo azioni vergognose?

Interpretazione naturalistica degli dèi eletti (5-26)

Simbolismo esoterico sul dio e l'anima.
5.
Ascoltiamo piuttosto le interpretazioni naturalistiche dei pagani con cui essi tentano di colorare con la patina di una eminente dottrina la bruttura di un errore assai meschino. Prima di tutto Varrone giustifica queste interpretazioni col dire che gli antichi hanno inventato gli idoli, le loro insegne e ornamenti affinché gli iniziati agli arcani della dottrina, nell'osservare quegli oggetti con la vista, potessero intuire con la mente l'anima del mondo con le sue parti, cioè gli dèi veri. Sembrava inoltre che coloro i quali avevano rappresentato gli idoli degli dèi con la figura umana avessero voluto far comprendere che lo spirito dei mortali, che è nel corpo umano, è molto simile allo spirito immortale. Poniamo, ad esempio, che si pongano dei vasi per contrassegnare i vari dèi e che nel tempio di Libero si ponga una cesta di caraffe, che significherebbe il vino, cioè il contenente per il contenuto. Allo stesso modo mediante l'idolo con figura umana viene significata l'anima ragionevole, perché la natura dell'anima è contenuta nel corpo come in un vaso e il dio o gli dèi, secondo la loro teoria, sono della medesima natura 14. Questo è l'aspetto esoterico della dottrina che quest'uomo di grande cultura aveva studiato a fondo per portarlo alla luce. Ma, o uomo intelligentissimo, hai forse, in mezzo a questi arcani della dottrina, perduto la saggezza con cui hai assennatamente ritenuto che i primi costruttori di idoli nelle città eliminarono il timore dai propri cittadini, accrebbero l'errore e che gli antichi Romani onorarono gli dèi più rispettosamente senza idoli? 15. Sono stati gli antenati a rendersi garanti perché tu osassi sostenere queste idee contro i Romani delle epoche successive. Perché se anche i Romani dei primi tempi avessero adorato gli idoli, avresti forse col silenzio del timore reso esoterica questa teoria, nondimeno vera, sulla necessità di non costruire idoli e avresti giustificato con un discorso più abbondante ed elevato gli arcani della dottrina in simili funeste e vane figurazioni. Tuttavia la tua anima di vasta cultura e di nobile temperamento, nonostante l'esoterismo della dottrina, non poté giungere, e ce ne dispiace molto per te, al proprio Dio, cioè a colui dal quale e non assieme al quale è stata creata, di cui non è parte ma fattura, che non è l'anima di ogni cosa ma ha creato ogni anima, la quale nella sua luce diviene beata se non è ingrata alla sua grazia. Tuttavia la trattazione che segue chiarirà che cosa è l'esoterismo della dottrina e come si deve valutare. Frattanto quest'uomo di grande erudizione afferma che l'anima del mondo con le sue parti sono veri dèi. Se ne deduce che tutta la sua teologia, e proprio quella naturale in cui aveva molta fiducia, si è potuta estendere fino alla natura dell'anima ragionevole. Parla pochissimo sugli dèi eletti nel libro che compilò in ultimo. Esamineremo se in esso Varrone mediante le interpretazioni naturalistiche possa rapportare la teologia naturale alla civile. Se ci riuscirà, tutta la teologia sarà naturale e non c'era bisogno di segregare da essa la civile con tanta preoccupazione di distinguerla. Ma poniamo che sia segregata in base a una ragionevole separazione ma che non sia vera neanche la naturale che egli accetta, tanto più che è giunto fino all'anima e non fino al vero Dio che ha fatto anche l'anima. In tal caso è molto più abietta e falsa la teologia civile che è limitata prevalentemente alla natura dei corpi, come dimostreranno le sue stesse interpretazioni, scoperte e analizzate con tanta diligenza dai pagani. Mi occorre riportarne alcune indispensabili.

Il mondo e la sua anima nell'interpretazione naturalistica di Varrone.
6.
Dice dunque Varrone fin dall'introduzione alla teologia naturale, che, a suo parere, l'anima del mondo, chiamato dai Greci , è un dio e che il mondo stesso è un dio. Precisa che come l'uomo sapiente, essendo composto di corpo e di spirito, è giudicato sapiente dalla prospettiva dello spirito, così il mondo, essendo composto di spirito e di corpo, è considerato un dio da parte dello spirito. Sembra che in questo passo ammetta in certo senso un solo Dio, ma per ammetterne anche molti, aggiunge che il mondo è diviso in due parti, il cielo e la terra, e il cielo a sua volta in due parti, etere e aria, e la terra in acqua e suolo. Di essi il più alto sarebbe l'etere, seconda l'aria, terza l'acqua e la più bassa la terra. Tutte queste parti sarebbero informate da quattro anime, immortali nell'etere e nell'aria, mortali nell'acqua e nella terra. Dalla più ampia orbita del cielo a quella minore della luna sarebbero anime eteree gli astri e le stelle; l'esistenza di questi dèi celesti non sarebbe soltanto oggetto dell'intelligenza ma anche della vista. Le anime aeree si troverebbero fra l'orbita della luna e i punti più alti delle formazioni meteorologiche, ma esse sono oggetto del pensiero e non della vista e si chiamano eroi, lari e geni 16. Questa è appunto la teologia naturale trattata brevemente nella introduzione. Fu insegnata non soltanto da Varrone ma da molti filosofi. Di essa si dovrà trattare più accuratamente in seguito quando avrò svolto con l'aiuto del vero Dio quanto rimane della teologia civile per la parte attinente agli dèi eletti.

Giano principio e Termine fine del mondo.
7.
Chiedo dunque chi è Giano, da cui Varrone ha cominciato. Mi si risponde: il mondo. È una risposta chiara nella sua brevità. Perché dunque si dice che l'inizio delle cose è di sua competenza e la fine è di competenza dell'altro che chiamano Termine 17? Affermano in proposito che in vista dell'inizio e della fine a questi due dèi sono stati dedicati due mesi, al di fuori dei dieci che vanno da marzo a dicembre, e cioè gennaio a Giano e febbraio a Termine. Dicono che appunto per questo nel mese di febbraio si celebrano i terminali, durante i quali si compie il mistero della purificazione che chiamano febro e da cui ha avuto nome il mese 18. Ma è possibile che l'inizio delle cose compete al mondo, che è lo stesso Giano, e la fine non gli compete, tanto che ne è incaricato un altro dio? Il dire che tutti i fenomeni si verificano in questo mondo non significa forse che sono limitati a questo mondo? E quale stravaganza è quella di conferire a Giano un mezzo potere nell'influsso e una doppia faccia nell'idolo? Non interpreterebbero con molto più buon gusto questo dio bifronte se lo considerassero Giano e Termine e attribuissero una faccia all'inizio e una alla fine? Chi compie un lavoro deve tener presente l'uno e l'altro, perché in ogni movimento della propria azione se non si volge a guardare l'inizio non preordina la fine. È necessario quindi che il proposito che si volge in avanti sia rilanciato dalla memoria che si volge indietro, perché se si dimenticherà di avere cominciato l'opera, non si troverà il modo di finirla. Se i pagani ritenessero che la felicità ha inizio in questo mondo e la perfezione fuori del mondo, e perciò affidassero a Giano, cioè al mondo, soltanto l'incombenza dell'inizio, certamente crederebbero superiore Termine e non lo estrometterebbero dagli dèi eletti. Comunque anche in questa teoria in cui si contemplano nei due dèi l'inizio e la fine delle cose nel tempo, si sarebbe dovuto dare più onore a Termine. È più grande la gioia quando un'opera qualsiasi si porta a compimento, invece le cose incominciate comportano molta ansietà, finché non si conducono alla fine che, nell'iniziare un qualcosa, soprattutto si cerca, si intende, si aspetta, si desidera e non ci si allieta della cosa incominciata se non è condotta a termine.

Giano bifronte e quadrifonte e il mondo.
8.
Ma ci si adduca l'interpretazione dell'idolo bifronte. Affermano che ha due facce, una davanti e una addietro, perché l'apertura della nostra bocca avrebbe una certa somiglianza col mondo. Per questo i Greci chiamano il palato 19 e alcuni poeti latini, dice Varrone, hanno chiamato cielo il palato, perché da questa apertura della bocca si avrebbe l'accesso al di fuori fino ai denti e al di dentro verso la gola 20. Ecco dove è andato a finire il mondo a causa di una parola, greca o poetica, che significa il nostro palato. Che cosa importa questo all'anima, che cosa importa alla vita eterna? Questo dio si adorerebbe soltanto per le salive, perché l'una e l'altra porta si apre sotto il cielo del palato per inghiottirle da una parte e sputarle dall'altra. Ed è l'assurdo più banale il non riuscire a trovare nel mondo stesso due porte poste di fronte, da cui esso introduca in sé e faccia apparire di fuori la realtà e il pretendere di simboleggiare in Giano la struttura del mondo riferendosi alla nostra bocca e gola, sebbene il mondo con esse non abbia alcuna somiglianza. Questo soltanto per riguardo al palato, sebbene anche Giano non abbia con esso alcuna somiglianza. Quando invece lo considerano quadrifronte e lo chiamano Giano Gemino, interpretano questo simbolo in relazione alle quattro parti del mondo, come se il mondo osservi qualche cosa al di fuori, come fa Giano attraverso tutte le sue facce. Inoltre se Giano è il mondo e il mondo risulta di quattro parti, è fasullo l'idolo di Giano bifronte. Ma poniamo che sia autentico poiché con i termini di Oriente e Occidente si suole intendere tutto il mondo. Ma allora quando si considerano le altre due parti del Settentrione e del Meridione, s'intende forse dire che il mondo è gemino, come i Romani lo dicono di Giano? Non hanno affatto un fondamento per interpretare le quattro porte che si aprono ai fenomeni che vengono e che vanno come simbolo del mondo, mentre al contrario, per quanto riguarda il bifronte, hanno trovato un pretesto per lo meno nella bocca dell'uomo. Si eccettua il caso che Nettuno venga in aiuto e porga un pesce che, oltre l'apertura della bocca e della gola, ha le branchie a destra e a sinistra. Comunque nessuna anima sfugge, sia pure attraverso tante porte, la menzogna se non ascolta la Verità che dice: La porta sono io 21.

Secondo i naturalisti Giove come ragione ultima...
9.
1. Ed ora i naturalisti espongano che cosa significa Giove, detto anche Iuppiter. È il dio, rispondono, che ha il potere sulle ragioni del divenire nel mondo 22. Quanto sia importante questo problema lo dichiara il nobilissimo verso di Virgilio: Fortunato chi è riuscito a conoscere le ragioni delle cose 23. Ma perché gli viene anteposto Giano? Il motivo ce lo dice Varrone, l'uomo più intelligente e colto: Perché, egli dice, in Giano si ha l'inizio, in Giove la pienezza. Giustamente dunque Giove è considerato il re di tutte le cose. L'inizio è infatti meno perfetto della pienezza perché, sebbene esso venga prima nel tempo, la pienezza è superiore per valore 24. Questo sarebbe un significato ragionevole se prima si stabilisse la differenza fra inizio e pienezza dei fenomeni. Come inizio di un fenomeno è partire e la pienezza è arrivare, l'inizio cominciare ad apprendere e la pienezza il conseguimento della cultura, così in tutte le cose viene prima l'inizio e la fine è perfezione. Ma questo affare è stato già trattato fra Giano e Termine. Invece le ragioni che sono assegnate a Giove sono principi efficienti e non effetti ed è assolutamente impossibile che siano precorse nel tempo da fenomeni o dagli inizi dei fenomeni. Infatti l'essere che causa è sempre prima dell'essere che è causato. Pertanto se a Giano compete l'inizio dei fenomeni, essi non sono prima delle ragioni efficienti che i naturalisti assegnano a Giove. Come niente diviene, così niente comincia a divenire che non sia preceduto dalla sua causa efficiente. Ma se i popoli chiamano Giove questo dio nel quale si hanno tutte le cause di tutte le nature causate e di tutti i fenomeni naturali e poi lo adorano con tanti oltraggi e con tante imputazioni di delitto, si irretiscono in una irreligiosità più riprovevole che se professassero esplicitamente l'ateismo. Quindi sarebbe preferibile per loro chiamare col nome di Giove un altro che sia meritevole di disoneste e delittuose onoranze, sostituendolo con una creazione fantastica da insultare, come si dice che per Saturno fu sostituita una pietra da divorare invece del figlio 25, anziché considerare un dio costui che tuona e commette adultèri, che sostiene il mondo e si consuma attraverso tanti atti carnali, che contiene le ragioni ideali di tutte le nature e di tutti i fenomeni naturali e non contiene le proprie ragioni morali.

...e come il tutto.
9.
2. Chiedo poi quale posto assegnano a Giove fra gli dèi se Giano è il mondo. Varrone ha stabilito che sono veri dèi l'anima del mondo con le sue parti; dunque ciò che questo non è, secondo i naturalisti non è un vero dio. Potranno dunque dire forse che Giove è l'anima del mondo in modo che Giano ne sia il corpo, cioè questo visibile mondo? Ma se la mettono così, non potranno sostenere che Giano è un dio, perché anche secondo loro il corpo del mondo non è un dio ma solamente l'anima del mondo con le sue parti. E per questo Varrone stesso dice che, secondo il suo parere, l'anima del mondo è un dio e che il mondo stesso è un dio, con la riserva che come l'uomo sapiente, pur essendo composto di spirito e di corpo, si considera sapiente dalla prospettiva dello spirito, così il mondo, sebbene sia composto di spirito e di corpo, si considera dio dalla prospettiva dello spirito 26. Quindi il solo corpo del mondo non è un dio ma la sola anima o insieme il corpo e lo spirito, nel senso però che non è dio da parte del corpo ma dello spirito. Se dunque Giano è il mondo e Giano è un dio, forse che finiranno per dire che Giove, per esser dio, è una parte di Giano? Al contrario abitualmente attribuiscono a Giove il tutto. Da qui il detto del poeta: Di Giove il tutto è pieno 27. Devono ammettere dunque che Giove, per esser dio e soprattutto il re degli dèi, non è altro che il mondo, affinché domini, secondo i naturalisti, gli altri dèi come proprie parti. Sempre Varrone, nel libro Sul culto degli dèi che ha scritto separatamente da questi sulla religione, interpreta ai sensi di questa teoria alcuni versi di Valerio Sorano. Sono questi: Giove, onnipotente progenitore dei re, delle cose e degli dèi e a un tempo genitrice degli dèi, un solo dio e tutti 28. Nel libro citato sono interpretati come segue. I naturalisti pensavano che è maschio chi emette il seme, femmina chi lo riceve e che Giove è il mondo e che emette da sé tutti i semi e riceve in sé tutti i semi. Per questa ragione, soggiunge Varrone, Sorano ha scritto che "Giove è genitore e genitrice" e con non minore ragione che egli è una sola cosa e tutte le cose, poiché il mondo è uno e in esso ci sono tutte le cose 29.

Diversità o no di Giove e Giano.
10.
Giano quindi è il mondo e Giove è il mondo e il mondo è uno. Perché dunque Giano e Giove sono due dèi? Per quale ragione hanno i templi e gli altari distinti, diversi i misteri, dissimili le immagini? Ma diamo l'ipotesi che altro sia il significato degli inizi ed altro quello dei principi e che il primo abbia preso il nome di Giano e l'altro il nome di Giove. Ma allora se un solo uomo avesse in diversi settori due cariche o due professioni, forse che si devono considerare due giudici o due professionisti, dato che è diverso il significato delle rispettive attività? Allo stesso modo anche un solo dio, sebbene abbia il potere degli inizi e dei principi, forse che per questo è necessario credere che sia due dèi, perché inizio e principio sono due idee diverse? Se lo credono ragionevole, dicano pure che Giove è tanti dèi quanti sono i nomi speciali che gli hanno attribuito in base ai molti suoi poteri, poiché tutti i concetti da cui gli appellativi sono stati derivati sono molti e diversi. Ne ricordo alcuni.

Altri appellativi di Giove.
11.
Lo hanno chiamato Vincitore, Invitto, Soccorritore, Incitatore, Statore, Centopiedi, Sterminatore, Travicello, Datore di vita, Rumino ed altri di cui sarebbe lungo parlare 30. I Romani imposero questi appellativi a un solo dio in vista di ragioni ideali e di poteri diversi ma non lo condizionarono ad essere tanti dèi quanti sono i poteri attribuitigli, e cioè che vincesse tutto, che non fosse vinto da nessuno, che portasse soccorso ai bisognosi, che avesse il potere di incitare, di non far fuggire, di rendere immobili, di sterminare, che come una trave sostenesse saldamente il mondo, che desse vita a tutto, che come poppa o mammella nutrisse i viventi. Di queste funzioni alcune, come possiamo notare, sono di grande rilievo, altre insignificanti. Comunque un solo dio è incaricato ad adempiere le une e le altre. A mio parere sono molto più affini i principi ideali e gli inizi delle cose, anche se hanno affermato che per essi si hanno un solo mondo e due dèi, Giove e Giano, che rendere stabile il mondo e offrire la mammella ai viventi. Tuttavia per queste due funzioni tanto diverse fra di loro per significato e valore non è stato necessario che si dessero due dèi ma il solo Giove è stato chiamato Travicello per l'una e Rumino per l'altra. Non voglio dire che era più adatta Giunone che Giove ad offrire la mammella ai viventi lattonzoli, tanto più che v'era anche la ninfa Rumina la quale poteva dare allo scopo un valido aiuto. Tuttavia non lo dico, perché mi si può rispondere, come sto pensando, che Giunone non è diversa da Giove, stando ai versi citati di Valerio Sorano, in cui è stato detto: Giove onnipotente progenitore dei re, delle cose e degli dèi e a un tempo genitrice degli dèi. Per quale motivo dunque è stato chiamato Rumino, quando da un'indagine approfondita si potrebbe rilevare che egli è anche la ninfa Rumina? Ci è sembrato irrispettoso per la grandezza degli dèi che nella sola spiga uno fosse destinato alla protezione dei nodi e un altro dei gusci. Ma è molto più irrispettoso che un incarico così banale, nutrire gli animali con la mammella, sia affidato al potere di due dèi, di cui uno è Giove, che è anche nientemeno il re di tutti loro e che non compia questo servizio per lo meno con sua moglie ma con una non saprei quale sconosciuta Rumina, salvo che egli stesso non sia la stessa Rumina: Rumino per i maschi lattanti e Rumina per le femmine. Direi che i Romani non hanno voluto imporre a Giove un nome femminile se nei versi citati non fosse chiamato genitore e genitrice. Potrei leggere inoltre che fra gli altri appellativi era chiamato anche Pecunia. Abbiamo trovato questa dea fra gli dèi meno importanti e ne abbiamo parlato nel quarto libro 31. Ma poiché maschi e femmine hanno denaro, lo vedano loro il motivo per cui non sarebbe stato chiamato Pecunia e Pecunio come Rumina e Rumino.

Considerazioni peregrine su Giove Pecunia.
12.
Con finezza hanno dato la spiegazione del nome. Si chiama anche Pecunia, dice Varrone, perché tutte le cose sono sue 32. O alta spiegazione di un nome divino! Al contrario egli, di cui sono tutte le cose, con grande spregio e oltraggio è considerato denaro. Che cosa è in definitiva il denaro con tutte le cose che si posseggono dagli uomini mediante il denaro in confronto delle cose contenute nel cielo e nella terra? Ma è stato l'amore del denaro che ha imposto questo nome a Giove affinché chi ama il denaro si illuda di amare non un dio qualunque ma lo stesso re di tutti gli dèi. Sarebbe ben diverso se si parlasse di ricchezza. Perché ricchezza e denaro sono diversi. Infatti consideriamo ricche le persone sapienti, giuste, oneste che non hanno denaro o ne hanno poco, ma sono ricche di virtù, poiché con esse anche nei bisogni materiali è sufficiente per loro ciò che c'è. Al contrario gli avari sono poveri perché hanno sempre brame e bisogni, anche se possono ottenere molto denaro, ma nonostante la sua abbondanza non possono non avere bisogno. Giustamente consideriamo ricco anche lo stesso vero Dio, non di denaro ma di onnipotenza. Pertanto coloro che hanno denaro sono considerati anche ricchi ma spiritualmente bisognosi se sono avari, così sono considerati poveri coloro che mancano di denaro ma spiritualmente ricchi se sono sapienti. Come deve essere dunque valutata dal sapiente questa teologia, da cui il re degli dèi ha ricevuto l'appellativo di quella cosa che nessun saggio ha desiderato 33? Se con questa dottrina fosse insegnata una verità che riguarda la vita eterna, sarebbe stato molto più comprensibile che il rettore del mondo fosse chiamato non Pecunia ma Sapienza, perché l'amore per lei purifica dalla meschinità dell'avarizia, cioè dall'amore al denaro.

Giove è tutto ma anche Saturno e Genio.
13.
Ma non c'è più motivo di parlare di Giove, perché a lui si devono forse ricondurre gli altri. Così la tesi politeistica rimane priva di senso. Tutti infatti sono lui, tanto se si considerano le sue funzioni o poteri, quanto se il potere generativo dell'anima, che i naturalisti ritengono operante in tutte le cose, ha ricevuto i nomi come di una pluralità di dèi dalle parti del tutto, nelle quali si struttura il mondo visibile e dalla varia fenomenologia della natura. Infatti che cos'è Saturno? Un dio, risponde Varrone, di primo ordine perché ha il potere su tutte le sementi 34. Però l'interpretazione dei versi di Valerio Sorano comporta che Giove è il mondo e che sprigiona da sé e riceve in sé tutti i semi. Quindi egli stesso è il dio che ha il potere su tutte le sementi. E che cos'è Genio? È il dio, risponde Varrone, che sovraintende e ha il potere della generazione di tutte le cose. Però essi credono che questo potere lo ha soltanto il mondo, al quale si dà l'appellativo di Giove genitore e genitrice. In un altro passo afferma che Genio è lo spirito razionale di ciascun individuo ed è quindi individuale per ognuno e che Dio è lo spirito razionale del mondo 35. Ma questa tesi richiama al concetto che lo stesso spirito del mondo sia come il genio universale. Dunque è il medesimo che chiamano Giove. Infatti se ogni genio è un dio e se ogni spirito umano è un genio, ne segue ineluttabilmente che ogni spirito umano è un dio. E se questa assurdità costringe i pagani stessi a rabbrividire, rimane loro di riconoscere che da solo e nella forma più alta è il dio Genio quello che essi chiamano lo spirito del mondo, cioè Giove.

Simbolismo di Mercurio e di Marte.
14.
Non hanno trovato modo di rapportare Mercurio e Marte a determinate parti del mondo e alle opere di Dio, che risultano dagli elementi, e si sono limitati a preporli alle opere degli uomini come intendenti del discorso e della guerra. Se Mercurio ha il potere sul discorso degli dèi, signoreggia perfino il re degli dèi, nell'ipotesi che Giove parli rimettendosi alla sua decisione o abbia ricevuto da lui la facoltà di parlare. E questo è assurdo. Se poi si afferma che gli è stato attribuito il potere soltanto sul discorso umano, non è credibile che Giove abbia voluto abbassarsi ad allattare con la mammella non solo i bimbi ma perfino gli animali, fino a farsi denominare Rumino, e che non abbia voluto richiamare alla propria competenza la cura del nostro discorso per cui siamo superiori agli animali. Perciò sono una medesima cosa questo attributo di Giove e Mercurio. Ma diamo l'ipotesi che Mercurio sia il discorso stesso come dimostrano le interpretazioni simboliche che lo riguardano. Si spiega infatti che è chiamato Mercurio come chi scorre in mezzo, poiché il discorso si pone come intermediario fra gli uomini; pertanto in greco è chiamato perché il discorso, o meglio l'interpretazione, che è appunto una categoria del discorso, si traduce con . Per lo stesso motivo si afferma che sovraintende ai commerci perché il discorso fa da intermediario fra venditori e compratori; così le sue ali in testa e ai piedi significherebbero che il discorso passa volando nell'aria, infine sarebbe stato considerato annunziatore perché mediante il discorso si enunziano i pensieri 36. Se dunque Mercurio è il discorso stesso, per loro stessa confessione non è un dio. Ma quando essi si propongono come dèi esseri che non sono neanche demoni, invocandoli come spiriti immondi sono da loro resi schiavi perché non sono dèi ma demoni. Allo stesso modo poiché non sono riusciti a trovare per Marte un elemento o una parte del mondo, in cui potesse esercitare determinate funzioni naturali, lo hanno considerato dio della guerra 37. E questa è un'attività dell'uomo ed è desiderabile che non lo sia. Perciò se Felicità concedesse una pace perenne, Marte non avrebbe nulla da fare. Se poi Marte è la guerra stessa, come Mercurio il discorso, sarebbe un bello auspicio perché come egli evidentemente non è un dio, così non ci sarebbe più la guerra che erroneamente è considerata un dio.

Gli dèi e i pagani.
15.
Ma c'è l'ipotesi che essi siano quei pianeti che hanno denominato con i loro nomi. Chiamano appunto un pianeta Mercurio e un altro Marte. Ma v'è anche il pianeta che i pagani chiamano Giove e a sentir loro il mondo è di Giove; v'è quello che chiamano Saturno e tuttavia in più gli affibbiano una non piccola responsabilità, quella cioè di tutti i semi. Vi è anche il pianeta più lucente che dai pagani è chiamato Venere e affermano tuttavia che Venere è anche la luna 38, sebbene nei loro scritti Giunone e Venere si contendano il pianeta più lucente come fecero con la mela d'oro 39. Alcuni dicono appunto che Lucifero è di Venere, altri di Giunone ma, come al solito, vince Venere. Sono molti di più quelli che lo attribuiscono a lei, sicché se ne trova appena qualcuno d'opinione contraria 40. Come si fa a non ridere quando dicono che Giove è il re di tutti gli dèi, se il suo pianeta è superato per straordinaria lucentezza da quello di Venere? Il suo pianeta doveva essere tanto più lucente quanto egli è più potente. Giustificano la propria opinione col dire che il pianeta Giove, ritenuto più oscuro, è più in alto e molto più lontano dalla terra. Se dunque una onorificenza più grande ha meritato un luogo più alto, perché fra i pianeti Saturno è più in alto di Giove? Oppure la vacuità del mito che ci presenta Giove come re non è potuta giungere fino al cielo e fu consentito a Saturno di ottenere almeno in cielo quel che non era riuscito a ottenere nel suo regno e in Campidoglio 41? E perché Giano non ha avuto in consegna un pianeta? Se per il fatto che egli è il mondo e che tutti i pianeti sono in lui, anche di Giove è il mondo e tuttavia ha il suo pianeta. Oppure Giano è venuto al compromesso che gli è stato possibile e in luogo di un pianeta che non ha fra gli astri, ha ricevuto in cambio altrettante facce in terra. Infine se per considerarli dèi reputano Mercurio e Marte come parti del mondo soltanto sulla base dei loro pianeti, perché il discorso e la guerra non sono certamente parti del mondo ma azioni umane, per quale ragione non tributano onori all'Ariete, al Toro, al Cancro, allo Scorpione e alle altre costellazioni che considerano segni celesti? Eppure essi non sono formati da una sola stella ma da più stelle e gli scienziati dicono che sono collocati nel cielo più alto al di sopra dei pianeti 42, dove un movimento più uniforme offre alle stelle un corso fisso. Comunque a queste costellazioni non hanno dedicato altari, misteri, templi e non li hanno ammessi fra gli dèi, non dico quelli eletti, ma neanche fra quelli per così dire plebei.

Spiegazioni naturalistiche di altri dèi eletti.
16.
Sebbene i pagani preferiscano Apollo come divinatore e medico, tuttavia per collocarlo in una determinata parte, hanno affermato che è anche il sole ed egualmente che sua sorella Diana è la luna ed anche la custode delle strade. Perciò la dicono vergine perché la strada non fa crescer nulla. Affermano quindi che entrambi hanno le frecce perché i due astri dal cielo saettano i raggi fino alla terra 43. Affermano che Vulcano è il fuoco cosmico, Nettuno le acque cosmiche, Dite padre, cioè l'Orco, la terrena e più bassa parte del mondo 44. Considerano Libero e Cerere come savraintendenti ai semi, lui ai maschili, lei ai femminili o anche lui alla parte liquida e lei alla parte secca dei semi 45. Ma tutti questi significati sono in relazione al mondo, cioè a Giove ed egli è stato detto genitore e genitrice appunto perché sprigionerebbe da sé e riceverebbe in sé tutti i semi. Talora affermano che Cerere è la Gran Madre la quale, nella loro dottrina, non è altro dalla terra e sarebbe anche Giunone e perciò le assegnano le cause seconde dei fenomeni 46. Comunque Giove avrebbe sempre il significato di genitore e genitrice degli dèi perché, secondo loro, tutto il mondo in sé è di Giove. Anche di Minerva, dato che l'hanno preposta all'umana cultura e non hanno trovato un pianeta in cui darle residenza, hanno detto che è il punto più alto dell'etere o anche la luna 47. Hanno anche giudicato Vesta la più grande delle dee appunto perché anche essa è la terra, sebbene abbiano pensato di assegnarle il fuoco cosmico più leggero, che si impiega negli elementari bisogni dell'uomo, e non quello più violento che è di Vulcano 48. Dunque essi ritengono che tutti gli dèi eletti sono il mondo visibile, il tutto in alcuni, le sue parti in altri, il tutto come Giove, le sue parti come Genio, la Gran Madre, Sole e Luna o piuttosto Apollo e Diana. E talora considerano un solo dio più cose e talora una sola cosa più dèi. Infatti più cose sono un solo dio, come nel caso di Giove stesso, perché Giove è considerato e chiamato il mondo intero o soltanto il cielo o soltanto il pianeta. Allo stesso modo Giunone è arbitra delle cause seconde ma è anche l'aria e la terra e, se avesse vinto Venere, il pianeta. Egualmente Minerva è il punto più alto dell'etere ma anche la luna che, secondo i naturalisti, sarebbe nella zona più bassa dell'etere. Al contrario considerano una sola cosa più dèi; ad esempio, il mondo è Giano e Giove, la terra Giunone, la Gran Madre e Cerere.

Riserve e incertezze di Varrone.
17.
Queste spiegazioni, che ho citato a titolo di esempio, non chiariscono ma generano confusione. Così avviene per le altre. Come l'impulso della loro vagabonda immaginazione li spinge, si slanciano in un verso o nell'altro e poi ritornano sui propri passi da una parte e dall'altra. Varrone stesso preferì dubitare di tutte le spiegazioni anziché ammetterne come certa qualcuna. Infatti dopo aver espletato il primo degli ultimi tre libri riguardante gli dèi certi, cominciando nel secondo a parlare degli dèi incerti, dice: Quando avrò esposto in questo libro le opinioni dubbie sugli dèi non debbo essere criticato. Chi crederà che era opportuno e possibile formulare un giudizio, dopo aver letto, lo farà egli stesso. Quanto a me potrei essere spinto a richiamare in dubbio le spiegazioni che ho dato nel primo libro anziché portare a una determinata conclusione quelle che indicherò in questo secondo 49. Così ha reso incerto non solo il libro sugli dèi incerti ma anche quello sugli dèi certi. Inoltre nel terzo libro sugli dèi eletti dapprima ha premesso dalla teologia naturale alcuni concetti che gli sembrò opportuno di dover premettere; ma prima di cominciare ad esporre le sciocchezze e le incredibili follie della teologia civile, giacché non solo non lo guidava la verità ma lo condizionava anche la tradizione degli antenati, scrive: In questo libro tratterò degli dèi del popolo romano, riconosciuti dallo Stato, giacché hanno loro dedicato templi e li hanno contraddistinti ornandoli di varie insegne ma, come dice Senofane di Colofone, esporrò un mio parere non una mia convinzione. Sull'argomento infatti è dell'uomo farsi un'opinione, del dio avere scienza 50. Dunque mentre si accinge ad esporre i riti istituiti dagli uomini, premette con inquietudine un discorso non su oggetti scientificamente certi o fermamente creduti ma opinabili e dubbi. Infatti egli conosceva per scienza che esistono il mondo, il cielo e la terra, che il cielo è illuminato dagli astri, la terra è fertile di semi e altre verità simili; credeva con incrollabile fermezza del pensiero che l'immenso meccanismo della natura è retto e preordinato al fine da una forza veramente potente anche se invisibile. Ma non poteva né per scienza né per fede affermare di Giano che era il mondo o indagare su Saturno in che modo fosse padre di Giove e fosse stato assoggettato al suo dominio e così via.

Interpretazione evemeristica.
18.
Di questi dèi si dà una spiegazione più attendibile con la teoria che furono uomini e che a ciascuno di loro, in considerazione dell'intelligenza, della dignità morale, delle gesta ed avvenimenti, furono istituiti misteri e feste da coloro che per adulazione vollero che fossero riconosciuti come dèi. Queste istituzioni poi si diffusero largamente un po' alla volta introducendosi subdolamente nelle anime di uomini simili ai demoni e avide di divertimenti, anche per gli abbellimenti dei miti poetici e gli adescamenti degli spiriti menzogneri. Il fatto che un figlio snaturato o timoroso di essere ucciso dal padre snaturato e comunque avido del regno ne scacciasse il padre è più verosimile della interpretazione che ne dà Varrone, e cioè che Saturno è stato sconfitto dal figlio Giove perché prima viene la ragione che appartiene a Giove e poi il seme che appartiene a Saturno 51. Se così fosse, Saturno non sarebbe stato mai prima di Giove e non ne sarebbe stato il padre. La ragione ideale infatti precede sempre il seme e non è mai data dal seme. Ma quando i pagani tentano di rivalutare con interpretazioni naturalistiche vuote leggende o fatti storici di personaggi, anche uomini di grande ingegno subiscono tanto imbarazzo che siamo costretti noi a compatirne la vuotaggine.

Interpretazione naturalistica di Saturno.
19.
Hanno affermato, dice Varrone, che Saturno era solito divorare le cose da lui nate perché i semi tornano là da dove sono nati. E il fatto che in luogo di Giove gli fu offerta da divorare una zolla, significa che in principio nella semina le sementi furono coperte con le mani umane prima che fosse scoperto l'aratro 52. Dunque la terra non il seme si doveva chiamare Saturno; essa infatti, analogicamente parlando, divora le cose che ha generato quando i semi da essa nati torneranno ad essa per la nuova semina. E il particolare che Saturno in sostituzione di Giove ebbe una zolla, quale riferimento ha al fatto che il seme è stato coperto di zolle con le mani di uomini? Forseché il seme coperto da una zolla non è divorato come gli altri semi? Si dà questa spiegazione come se chi sovrappone la zolla abbia tolto via il seme, allo stesso modo che, secondo la leggenda, nell'offrire la zolla a Saturno gli fu sottratto Giove, mentre piuttosto la zolla coprendo il seme glielo ha fatto divorare più accuratamente. Inoltre in questa spiegazione Giove è il seme e non la ragione ideale del seme, come veniva detto dianzi. Ma che cosa dovrebbero fare gli uomini i quali, nell'interpretare delle scemenze, non riescono a trovare un significato ragionevole? Saturno ha la falce, soggiunge Varrone, in considerazione dell'agricoltura. Certo mentre egli regnava non c'era ancora l'agricoltura; perciò, stando a come Varrone interpreta queste favolette, con quell'emblema si designano i primi tempi del suo regno, perché i primi uomini vivevano dei prodotti che la terra rendeva spontaneamente. Oppure perduto lo scettro, prese la falce in modo che, mentre nei primi tempi era stato un re ozioso, sotto il regno del figlio divenne un operaio laborioso. Infine dice che da alcuni gli sono abitualmente immolati fanciulli, come dai Punici, e da altri anche persone adulte, come dai Galli 53, perché la razza umana è il migliore dei semi. Su questa efferata superstizione non occorre spendere altre parole. Piuttosto teniamo presente che le seguenti interpretazioni non si riferiscono al Dio vero, essere vivo spirituale fuori del divenire, a cui si deve chiedere l'eterna felicità, ma che si limitano alle cose materiali, temporali, condizionate al divenire e alla morte. L'episodio mitologico, continua Varrone, che Saturno abbia castrato il Cielo suo padre significa che il seme divino è in potere di Saturno e non di Cielo 54. Dice così, per quanto è dato di capire, perché nel cielo non nasce alcun seme. Ma un momento: se Saturno è figlio di Cielo, è figlio di Giove. Ripetutamente e insistentemente i naturalisti hanno affermato che Giove è il cielo. Così queste spiegazioni, che non provengono dalla verità, il più delle volte vanno a terra da sole anche se nessuno ve le sospinge. Aggiunge infine che Saturno è chiamato Crono che in greco significa spazio di tempo, perché senza di esso il seme non può divenire fecondo. Di Saturno si dicono queste e molte altre cose e tutte hanno rapporto col seme. Ma almeno bastasse Saturno per i semi con tutto il potere che ha. Perché dunque per essi richiedono altri dèi, soprattutto Libero e Libera, cioè Cerere? Ma anche di essi Varrone ripete tante spiegazioni, sempre in attinenza ai semi, come se di Saturno non avesse parlato affatto.

Interpretazione naturalistica del mito di Cerere e Proserpina.
20.
Fra i misteri di Cerere sono segnalati quelli Eleusini che furono molto conosciuti dagli Ateniesi. Di essi Varrone non interpreta niente, salvo il tema riguardante il frumento, che Cerere trovò, e che Proserpina invece perdé col ratto di Plutone. Dice anche che Proserpina significa la fecondità dei semi. Essendo la fecondità venuta a mancare per un certo tempo, spiega Varrone, e per conseguenza essendo la terra devastata dalla sterilità, sorse la saga che Plutone avesse rapito e trattenesse nell'oltretomba la figlia di Cerere, cioè la stessa fecondità che era chiamata Proserpina da proserpere, cioè sgusciar fuori. Il fatto fu celebrato con pubblico lutto. E dopo che tornò la fecondità, nacque la gioia per la restituzione di Proserpina e furono quindi istituiti i misteri solenni. Infine Varrone dice che nei misteri di Cerere molti riti tradizionali riguardano esclusivamente la scoperta del frumento 55.

Il culto fallico di Libero.
21.
A una grande sconcezza giunsero i misteri di Libero, poiché lo preposero ai semi liquidi e quindi non solo alle parti acquose dei frutti, fra cui in certo senso il vino ha il primato, ma anche ai semi degli animali. Mi rincresce di parlare di essi perché richiedono un lungo discorso ma ne parlo egualmente per colpire l'ottusità dei pagani. Sono costretto a tralasciare varie notizie perché sono molte. Fra le altre, stando a Varrone, nei crocicchi d'Italia furono celebrati i misteri di Libero con tanta licenziosità che in suo onore si ebbe un culto fallico, e almeno fosse avvenuto in un luogo un po' appartato ma in pubblico con sfrenata dissolutezza. Infatti durante le feste di Libero uno sconcio membro virile, esposto con grande solennità su un carretto, veniva trasportato dapprima in campagna nei crocicchi e poi fino alla città 56. Nel paese di Lavinio si consacrava a Libero un mese intero, durante il quale tutti pronunciavano delle sconce invocazioni fino a quando l'organo fallico non riattraversava la piazza e non veniva ricollocato al suo posto. La più onesta madre di famiglia doveva pubblicamente imporre una corona all'emblema disonesto 57. In questo modo si doveva propiziare il dio Libero per il buon esito dei semi, si doveva allontanare il malocchio e per questo si costringeva una matrona a compiere in pubblico un rito che non si doveva permettere in teatro neanche a una cortigiana se le matrone fossero state presenti. Perciò non si riteneva che bastasse soltanto Saturno per i semi. Così l'anima immorale trovava occasioni per moltiplicare gli dèi e abbandonata per colpa dell'immoralità dal solo vero Dio, disonorata mediante molti falsi dèi nel desiderio di una maggiore immoralità, considerava questi riti osceni come misteri sacri e si offriva al disonore e alla contaminazione per molti sporchi demoni.

Incongruenza di Salacia e Venilia.
22.
Nettuno già aveva per moglie Salacia che, a sentir loro, era l'acqua del fondale marino. A che scopo le è stata aggiunta anche Venilia? Certamente perché senza alcuna giustificazione mediante il solo desiderio degli indispensabili misteri si moltiplicasse per l'anima disonorata la provocazione dei demoni. Ma si citi l'interpretazione della illustre teologia che con la dovuta giustificazione ci trattenga da questa critica. Venilia, dice Varrone, è l'onda che viene alla spiaggia, Salacia quella che torna al mare 58. Dunque, dico io, perché farne due dee se è la medesima onda che viene e ritorna? È appunto una passione frenetica che rifluisce nel politeismo. Sebbene non si duplichi l'acqua che viene e ritorna, tuttavia col pretesto di questa superstizione, ospitando due demoni, l'anima che va e non ritorna si macchia maggiormente. Scusa tu, Varrone, o anche voi che avete letto libri eccellenti di uomini colti e vi vantate di avere appreso una grande dottrina, interpretate per favore questo mito, non pretendo in relazione all'eterna e non diveniente natura che sola è Dio, ma per lo meno in relazione all'anima del mondo e alle sue parti che, a vostro giudizio, sono i veri dèi. Che questa dottrina vi abbia fatto considerare la parte dell'anima del mondo che si comunica al mare come il dio Nettuno è in certo senso un errore più tollerabile. Ma proprio davvero l'onda che viene alla spiaggia e poi torna al mare è due parti del mondo o due parti dell'anima del mondo? Chi di voi sragiona al punto da ragionare così? Per quale ragione dunque ve ne hanno fatte due dee? Certamente perché fu deciso dai saggi vostri antenati non che vi dominassero più dèi ma che vi trattassero da schiavi più demoni che godono di queste superstizioni ed errori. E per quale motivo, stando a questa interpretazione, la Salacia ha perduto il fondale marino con cui era sottomessa al marito? Adesso, presentandola come l'onda che torna indietro, la rimandate in superficie. Oppure, arrabbiata perché ha dovuto accettare Venilia come rivale, ha forse cacciato via suo marito dalla superficie del mare?

23. 1. Naturalmente una è la terra, anche se la vediamo piena di esseri animati. Tuttavia per quale motivo i naturalisti la considerano una dea sebbene sia uno dei principali elementi dei corpi e la parte più bassa del mondo? Forse perché è feconda? Al limite è preferibile che siano dèi gli uomini che la rendono più feconda con la coltura, arandola, si capisce, non adorandola. Ma, dicono i naturalisti, la parte dell'anima del mondo che le si comunica la rende una dea 59. Eppure è più nota l'anima umana, poiché sulla sua esistenza non v'è controversia. Tuttavia gli uomini non sono considerati dèi e, quel che è peggio, con errore che desta meraviglia e commiserazione, sono indotti ad onorare e adorare esseri che non sono dèi e di cui sono più perfetti. Il citato Varrone nel medesimo libro sugli dèi scelti afferma che tre sono le perfezioni dell'anima nell'universo della natura. La prima passa per tutte le parti del corpo vivente, non contiene la facoltà di sentire ma soltanto la potenza a vivere; afferma che questa potenza, per quanto riguarda il nostro corpo, penetra nelle ossa, nelle unghie e nei capelli, come nel mondo le piante si nutrono senza percezione sensibile, crescono e in un certo loro limite vivono. Il secondo grado di perfezione dell'anima è quello in cui si ha la sensazione e questa potenza giunge alla vista, all'udito, all'odorato, al gusto e al tatto. La terza perfezione, continua Varrone, è la più alta dell'anima ed è lo spirito, nel quale eccelle l'intelligenza. Di esso tutti i mortali, eccetto l'uomo, sono privi. La parte spirituale dell'anima del mondo, sempre secondo Varrone, è Dio, in noi si chiama genio. Afferma infine che nel mondo pietre e terra visibile, a cui non giunge la sensazione, sono come le ossa e le unghie del dio; che il sole, la luna e i pianeti che noi percepiamo col senso e con cui egli stesso percepisce sono i suoi sensi, che l'etere è il suo spirito e che la sua energia, nel giungere agli astri, costituisce dèi anche essi e costituisce dea la terraferma mediante le sue parti che penetrano nella terra e che è il dio Nettuno ciò che dell'etere penetra nel mare oceano 60.

23. 2. Dunque Varrone torni da quella che ritiene una teologia naturale in quel luogo da cui è uscito quasi a riposare perché affaticato da tanti tortuosi andirivieni; intendo dire, torni alla teologia civile. Lo trattengo ancora qui, per un po' parlerò di essa. Non dico per adesso che terra e pietre non hanno intelligenza, come non hanno senso, anche se le nostre ossa e unghie hanno con esse una certa somiglianza. E anche se si dice che le nostre ossa e unghie hanno l'intelligenza perché sono nell'uomo il quale ha l'intelligenza, io non dico che il tizio il quale dice che terra e pietre sono dèi nel mondo è stupido come quello il quale dice che in noi ossa e unghie sono uomini. Ma forse questi problemi si devono trattare con i filosofi; quindi voglio ancora il Varrone della teologia dello Stato. È infatti possibile che gli sia sembrato di essere riuscito ad ergere la testa in quella che egli ritiene la libertà della teologia naturale. Tuttavia volgendo e rivolgendo l'argomento del libro e accorgendosi che anche egli vi si intratteneva ancora, ha potuto riesaminarlo da un punto di vista naturalistico ed esporre la teoria suddetta affinché non si credesse che gli antenati e le altre città stupidamente avessero onorato Tellure e Nettuno. Dico questo, però: giacché la terra è una sola, per quale ragione la parte dello spirito cosmico che penetra la terra non ha costituito una sola dea che Varrone chiama Tellure? 61. E se così ha fatto, dove sarà andato a finire Plutone, fratello di Giove e di Nettuno, detto anche Dite padre? Dov'è la moglie Proserpina la quale, secondo una opinione esposta nei medesimi libri, non è presentata come la fecondità della terra ma come la sua parte più bassa? E se dicono che la parte dello spirito cosmico nel penetrare attraverso la parte superiore della terra rende dio Dite padre nel penetrare attraverso la parte inferiore rende dea Proserpina 62, Tellure in quale parte si troverà? Infatti il tutto che essa era è stato distribuito in due parti o dèi, sicché è impossibile sapere che cosa è e dove è questa terza parte. Qualcuno potrebbe dire che gli dèi Plutone e Proserpina sono insieme la sola dea Tellure e che non sono tre ma una o due. Eppure se ne dichiarano tre, se ne considerano tre, tre sono adorati con i propri altari, templi, misteri, statue e sacerdoti e con i propri falsi demoni che mediante tutto questo fanno violenza all'anima disonorata. Si dovrebbe rispondere ancora qual è la parte della terra penetrata dallo spirito cosmico per costituire il dio Tellumone. No, risponde Varrone, ma una sola e medesima terra ha una doppia energia, maschile che produca i semi e femminile che li accolga e faccia sviluppare. Quindi dall'energia femminile ha avuto significato Tellure e dalla maschile Tellumone. Perché dunque i sacerdoti, come egli stesso dichiara, aggiungendone altri due, eseguono il rito religioso per quattro dèi: Tellure, Tellumone, Altore e Rusore? Di Tellure e Tellumone già è stato detto. Ad Altore per quale motivo? Perché dalla terra, risponde, ricevono alimento tutte le cose che sono nate. E a Rusore per quale motivo? Perché, egli dice, tutte le cose di nuovo vi torneranno.

24. 1. Dunque la sola terra in considerazione della quadruplice energia avrebbe dovuto avere quattro appellativi e non costituire quattro dèi, come si ha un solo Giove nonostante tanti appellativi, una sola Giunone nonostante tanti appellativi. Ma in tutti essi si ha una molteplicità di significati relativi a un solo dio o a una sola dea e non una molteplicità di appellativi che determina una molteplicità di dèi. Ma come talora anche le prostitute sentono fastidio e rammarico delle soddisfazioni che hanno cercato con la libidine, così l'anima resa vile e schiava degli spiriti immondi il più delle volte sente piacere ma talora anche rincrescimento di crearsi una moltitudine di dèi con cui avvilirsi nella dissolutezza. Varrone stesso quasi vergognoso di questa folla insegna che la Terra è una sola dea. I naturalisti, egli dice, affermano che è la Gran Madre e che con l'emblema del cembalo viene significato l'orbe terreno, con quello delle torri in testa le città, dal fatto che è rappresentata seduta immobile mentre attorno a lei tutte le cose si muovono. Il fatto che hanno posto al suo servizio sacerdoti galli significa che coloro i quali hanno bisogno delle sementi devono attendere alla terra perché in essa si trovano tutti i semi. Col rito in cui i sacerdoti si agitano attorno a lei si comanda, continua Varrone, che coloro i quali coltivano la terra non rimangano seduti perché hanno sempre qualcosa da fare. I suoni dei cembali significano i vari rumori degli strumenti di ferro da usare, delle mani e dell'operazione che si compie nel coltivare i campi; e il cembalo è di bronzo perché gli antichi, prima che fosse scoperto il ferro, coltivavano la terra con utensili di bronzo. Aggiungono un leone sciolto e mansueto per indicare che non v'è un tipo di terra tanto lontano e fortemente selvaggio che non convenga dissodare e coltivare 63. Poi aggiunge l'osservazione che la terra madre è stata considerata più dèi dai vari nomi e appellativi con cui l'hanno designata. Pensano, egli dice, che la terra sia Opi perché diviene più feconda con l'opera, Madre perché produce molti frutti, Grande perché produce il cibo, Proserpina perché da lei vengono fuori i frumenti, Vesta perché si veste di erbe. In tal senso non irragionevolmente riconducono a lei altre dee 64. Se dunque, dico io, è una sola dea, che comunque alla luce della verità non lo è neanche essa, per quale motivo se ne traggono fuori molte? Di una sola dovrebbero essere i molti numi e non dovrebbero essere molte dee ma piuttosto nomi. Ma l'autorità degli antenati, anche se sbagliavano, soggioga e mette in allarme lo stesso Varrone pur dopo la citata interpretazione. Aggiunge infatti questa osservazione: L'opinione degli antenati relativa a queste dee, che cioè le hanno distinte in molte, non è contraria alle teorie naturalistiche. Ma come non è contraria? Altro è che una sola dea abbia più nomi ed altro che siano molte dee. È possibile, egli dice, che una cosa sia una e che in essa alcune cose siano molteplici 65. Io concedo che in un solo uomo vi siano molte cose ma non per questo sono molti uomini. Così che in una sola dea vi siano più cose non significa che sono più dee. Ma in definitiva dividano e congiungano, moltiplichino, raddoppino e riuniscano a loro piacimento.

24. 2. Questi sono i decantati significati misterici della Terra e della Gran Madre che si riferiscono tutti ai semi destinati a morire e alla tecnica dell'agricoltura. Dunque il cembalo, le torri, i sacerdoti galli, la folle convulsione del corpo, il tintinnare dei cembali, l'allegoria dei leoni riferiti a questi significati e aventi questo limite non promettono a nessuno la vita eterna. Dunque i sacerdoti galli evirati non rendono servizio a questa dea Grande per significare che coloro i quali hanno bisogno del seme debbono attendere alla terra, giacché è proprio il loro servizio che li rende bisognosi del seme. Infatti nell'attendere a questa dea non ottengono il seme quando ne hanno bisogno ma piuttosto nell'attendere a questa dea perdono il seme che hanno. Questa non è una interpretazione, è uno scempio. E non si riflette al grande vantaggio che ne hanno tratto gli spiriti maligni che non hanno avuto neanche il coraggio di promettere cose grandi e sono comunque riusciti ad esigere pratiche tanto crudeli. Nell'ipotesi che la terra non sia una dea, gli uomini lavorando adopererebbero le mani su di lei per ottenere con la sua mediazione le sementi e non per perdere il seme facendo scempio di se stessi in suo onore. Nell'ipotesi che non sia una dea, diverrebbe feconda con le mani altrui e non costringerebbe un individuo a rendersi sterile con le proprie mani. Nei misteri di Libero una onorata matrona appendeva dinanzi alla folla una corona sull'asta genitale di lui e al rito era forse presente anche il marito, rosso e sudato, se negli uomini esiste ancora un pudore. Nella celebrazione delle nozze si ordinava alla novella sposa di sedere sopra il membro virile di Priapo 66. Ma questi riti sono molto più innocui e accettabili di questa crudele sconcezza o anche sconcia crudeltà ove con riti diabolici viene certamente oltraggiato l'uno e l'altro sesso ma senza che né l'uno né l'altro venga soppresso. Nel primo caso si teme il malocchio dei campi, in questo non si teme la mutilazione delle membra. Nell'altro caso si disonora il pudore della novella sposa ma senza che le siano tolte non solo la fecondità ma neanche la illibatezza, in questo si sottrae la virilità a un individuo che non diventa donna e non più uomo.

25. Da Varrone non è stato ricordato Attis e non ne è stata da lui data una interpretazione, sebbene il sacerdote gallo si evira in ricordo del suo amore. Ma i più informati pensatori greci non hanno taciuto una spiegazione di tanto illustre fama misterica. In considerazione dell'aspetto della terra nella primavera che è la più bella delle stagioni, Porfirio illustre filosofo ha scritto che Attis significa i fiori e che è stato mutilato perché il fiore cade prima del frutto. Dunque non hanno posto in analogia al fiore l'uomo stesso o il mezzo uomo che si chiamava Attis ma il suo organo virile 67. Esso infatti, mentre egli rimaneva in vita, cadde, o meglio non cadde e non fu colto ma fu proprio strappato. E perduto il fiore non ne conseguì il frutto ma piuttosto la sterilità. Che cosa è dunque egli e tutto ciò che di lui rimane dopo la mutilazione? che cosa ne viene significato secondo loro? con che cosa ha analogia? quale interpretazione se ne dà? O piuttosto affannandosi inutilmente senza trovare una spiegazione accettabile i naturalisti inducono ad ammettere che la fama ha sublimato l'episodio della evirazione di un uomo e che per questo è stato consegnato alla tradizione letteraria? Giustamente dunque per questo motivo Varrone lo sdegnò e non ne volle parlare perché certamente egli informatissimo conosceva l'episodio.

26. Allo stesso modo Varrone non ha voluto parlare, ed io non ricordo di aver letto in alcuna parte, degli effeminati consacrati contro ogni decoro maschile e femminile alla Grande Madre, i quali fino a ieri con i capelli unguentati, con la faccia imbellettata, con l'andatura flessuosa e il portamento donnesco per le piazze e le strade di Cartagine richiedevano di che vivere disonestamente perfino dai merciai ambulanti. L'interpretazione è venuta a mancare, la spiegazione si è confusa, il discorso non è venuto fuori. La grandezza non della divinità ma della delinquenza della Grande Madre ha superato tutti gli dèi figli. Perfino la mostruosità di Giano non ha confronto con questo essere mostruoso. Egli presentava la bruttezza soltanto nelle statue, lei una brutta crudeltà nei misteri; egli aveva parti del corpo in più nelle statue, lei in meno negli uomini. Neanche i tanti e grossi adultèri dello stesso Giove superano una tale turpitudine. Egli, intento a sedurre le donne, soltanto con Ganimede infamò il cielo, lei con tanti effeminati consacrati e pubblicamente riconosciuti ha contaminato la terra e ha ingiuriato il cielo. Forse in questa forma di turpe crudeltà le potremmo paragonare o anche anteporre Saturno che, come si tramanda, ha evirato il padre, ma nei misteri di Saturno è potuto avvenire forse che uomini siano stati uccisi dalle mani altrui e non evirati con le proprie. Egli ha divorato i figli, come cantano i poeti, mentre i naturalisti danno del mito una interpretazione arbitraria, perché, come afferma la spiegazione storica, li ha uccisi. Comunque i Romani non hanno accolto l'usanza dei Punici che gli hanno sacrificato i figli. Al contrario, questa Grande Madre degli dèi ha introdotto gli evirati anche nei templi di Roma e ha conservato questo spietato costume perché si è creduto che col mutilare l'organo virile degli uomini lei aiutasse la virtù dei Romani. In confronto a questo male che cosa sono i furti di Mercurio, i facili costumi di Venere, gli adulteri e la dissolutezza degli altri che potremmo allegare dai libri se non fossero rappresentati con canti e danze nei teatri? Questi mali sono una bazzecola al confronto con un male così grande, la cui grandezza è esclusiva competenza della Grande Madre, tanto più che, come si afferma, questi fatti sono stati inventati dai poeti, come se essi abbiano inventato anche che sono graditi e accetti agli dèi. Passi che è audacia o anche insolenza dei poeti che siano cantati o anche scritti; che invece siano aggregati al culto religioso per comando ed esigenza degli dèi non è altro che un delitto degli dèi, anzi una manifestazione di demoni e un inganno di infelici. Comunque non sono stati i poeti a inventare l'episodio che la Madre degli dèi ebbe la prerogativa di essere adorata con la consacrazione di uomini evirati; essi hanno preferito esecrarlo anziché celebrarlo nella poesia. Dunque un tizio si dovrebbe forse consacrare a questi dèi eletti per vivere nella felicità dopo la morte quando consacrato a loro non può vivere moralmente prima della morte, perché schiavo di turpi superstizioni e legato a demoni immondi? Ma tutte queste cose, dice lui, sono relative al mondo. Badi piuttosto che non siano relative all'immondo. E poi quale cosa che si indica esistente nel mondo non si può rapportare al mondo? Noi, al contrario, cerchiamo lo spirito che, fidando nella vera religione, non adori il mondo come suo dio ma, per amore di Dio, riconosca la bellezza del mondo in quanto opera di Dio e purificato dalle macchie terrene giunga mondo fino a Dio che ha creato il mondo.

Il politeismo negazione della salvezza nel confronto col cristianesimo (27-35)

27. 1. Osserviamo poi che questi dèi scelti sono stati più celebri degli altri non nel senso che le loro azioni buone erano più illustri ma meno nascoste le loro azioni vergognose. Quindi è più credibile che siano stati uomini, come non solo la letteratura poetica ma anche quella storica tramanda. Dice appunto Virgilio: Per primo venne dall'etereo Olimpo Saturno nel fuggire le armi di Giove ed esule per avere perduto il regno 68. Evemero dimostra la realtà storica di questo fatto e degli altri successivi ad esso pertinenti. Ennio ha tradotto l'opera in lingua latina 69. Quindi, dato che sull'argomento hanno esposto molte idee coloro che contro simili errori hanno scritto tanto in greco che in latino, ho deciso di non trattenermi a lungo su di esso.

27. 2. Quando esamino le spiegazioni naturalistiche, con cui uomini dotti e intelligenti tentano di volgere questi fatti umani a significati religiosi, costato che fu loro possibile ricondurli soltanto ad azioni temporali e terrene, alla natura corporea o anche spirituale comunque mutevole. E questo non è il vero Dio. Se almeno questa dottrina fosse stata riferita al sentimento religioso con una simbologia conveniente, era sempre da lamentare che con essa non veniva indicato chiaramente il vero Dio, ma era comunque accettabile che non si compissero e non si comandassero riti osceni e disonesti. Ma ora che è proibito adorare il corpo o l'anima in luogo del vero Dio, giacché l'anima diventa felice soltanto se egli in lei dimora 70, a più forte ragione è inammissibile adorarli in maniera che il corpo o l'anima dell'adoratore non conservino il benessere e la dignità umana. Pertanto se con templi, sacerdoti e sacrifici, che si devono al Dio vero, si adorano un elemento del mondo o uno spirito creato, anche se non immondo e malvagio, non si ha immoralità perché sono immorali gli atti con cui essi si adorano ma perché sono atti con cui si deve adorare soltanto colui al quale è dovuto il servizio del culto. Se al contrario si pretendesse di adorare l'unico vero Dio, creatore di ogni anima e di ogni corpo, con la bruttura e la mostruosità degli idoli, col sacrificio di vite umane, con l'incoronazione degli organi meno onesti, col guadagno derivato dalla prostituzione, con la mutilazione, con l'evirazione, con la consacrazione di effeminati, con le feste di spettacoli licenziosi e osceni, non si pecca perché non si deve adorare colui che si adora ma perché si adora chi si deve adorare non come si deve adorare. Se poi si adora con tali atti, cioè osceni o delittuosi, non il vero Dio, creatore dell'anima e del corpo, ma una creatura, quantunque non malvagia, sia essa spirituale o materiale o l'uno e l'altro, si pecca doppiamente contro Dio, prima perché si adora in luogo di lui un essere che non è lui, poi perché si adora con atti con cui né lui né altri si devono adorare. Ma il modo turpe e indecente con cui i pagani hanno reso il culto è nell'immediata evidenza. Sarebbero invece oscuri l'oggetto o gli oggetti del loro culto se la loro storia non attestasse che i riti da loro stessi riconosciuti come licenziosi e osceni furono resi alle divinità perché esse stesse li esigevano con minacce. Appare dunque al di là di ogni dubbio che demoni esecrabili e spiriti impuri sono stati invitati da tutta la teologia civile ad essere ospiti di idoli abominevoli e per la loro mediazione a rendere schiave le coscienze degli insipienti.

28. Che significa dunque che Varrone, uomo veramente colto e intelligente, tenta con un discorso che pretende di esser critico di restituire tutti questi dèi esclusivamente al cielo e alla terra? Non gli riesce, gli sgusciano di mano, vanno in su e giù e cadono. In procinto di parlare delle femmine, dee si capisce, dice: Come ho detto nel primo libro parlando dei luoghi, due sono le categorie degli dèi derivate dal cielo e dalla terra e per questo alcuni dèi sono considerati celesti ed altri terrestri. Dunque come nei precedenti libri ho cominciato dal cielo nel trattare di Giano, che alcuni hanno considerato il cielo ed altri il mondo, così nel trattare delle femmine ho cominciato dalla Terra 71. Noto l'imbarazzo che prova un ingegno così grande. È mosso da una ragione verosimile a pensare che il cielo influisce e che la terra subisce l'influsso e quindi assegna al cielo un ruolo maschile e alla terra un ruolo femminile, senza accorgersi che chi ha prodotto l'uno e l'altra ha prodotto anche i sessi. Perciò nel libro precedente interpreta in questo senso anche i celebri misteri degli dèi di Samotracia e con sentimento veramente religioso promette che ne tratterà per iscritto perché non sono conosciuti neanche ai loro cultori e che spedirà loro l'opera. Infatti, come egli afferma, da molteplici indizi ha rilevato che in essi una delle varie figurazioni simboleggia il cielo, l'altra la terra e un'altra i principi esemplari delle cose che Platone chiama idee; afferma che col cielo si designa Giove, con la terra Giunone e con le idee Minerva e che il cielo è il principio da cui si fanno le cose, la terra con cui si fanno è la causa esemplare secondo cui si fanno. Sull'argomento non sto a dire che secondo Platone le idee hanno tanta principalità che non è il cielo a fare sul loro modello ma il cielo stesso è stato fatto sul loro modello 72. Questo dico però che in questo libro degli dèi scelti Varrone si è dimenticato della citata interpretazione dei tre dèi in cui aveva conchiuso l'universo. Infatti in esso assegna al cielo gli dèi maschi, alla terra le femmine fra le quali ha inserito anche Minerva che in un libro precedente aveva collocato sopra il cielo. C'è poi Nettuno, un dio maschio, che è nel mare il quale appartiene piuttosto alla terra che al cielo. Infine Dite padre, che in greco si dice , anche egli maschio e fratello di Nettuno e di Giove, è presentato come un dio terreno perché occupa la parte superiore della terra e ha nella inferiore la moglie Proserpina. In qual senso dunque si affannano a rapportare gli dèi al cielo e le dee alla terra?. Che cosa di consistente, di coerente, di sensato e di preciso ha questa teoria? Quella è la Terra, origine delle dee, cioè la Gran Madre, e presso di lei fa baccano l'invasata e oscena schiera di effeminati, di evirati e di individui che presi da convulsioni si incidono le membra. Che cosa sono dunque Giano che è considerato capo degli dèi e la Terra capo delle dee? Nel caso di Giano l'errore non lo considera il solo capo e in quello della Terra la follia non la rende un capo assennato. E perché si affannano inutilmente di ricondurli al mondo? E se anche ci riuscissero, nessun uomo religioso adora il mondo in luogo del vero Dio e comunque l'evidente verità dimostra che non vi riusciranno. Riconducano piuttosto queste credenze a personaggi morti e a demoni maligni e il problema sarà risolto.

29. Tutti i significati che dai pagani mediante la teologia degli dèi scelti con le pretese spiegazioni naturalistiche sono ricondotti al mondo, noi cristiani senza il rischio di una teoria irriverente riconosciamo che si devono attribuire piuttosto al vero Dio che ha creato il mondo e ha dato l'esistenza ad ogni anima e ad ogni corpo. E la formula è questa: Noi adoriamo Dio e non il cielo e la terra che sono le due parti di cui è composto il mondo visibile; non adoriamo l'anima o le anime partecipate a tutti i viventi ma il Dio che ha prodotto il cielo e la terra e tutte le cose che in essi esistono, che ha prodotto ogni anima, quella priva di senso e di pensiero e comunque vivente, quella dotata di senso e quella dotata di pensiero.

30. Ed ora devo incominciare a passare in rassegna le opere dell'unico vero Dio, in considerazione delle quali i pagani, nel tentativo di interpretare in senso morale misteri veramente osceni e scellerati, si sono proposti molti e falsi dèi. Noi adoriamo il Dio che ha stabilito agli esseri da lui creati l'inizio e il termine del permanere nell'esistenza e del divenire; che contiene, conosce e dispone le ragioni ideali delle cose; che ha prodotto la potenzialità dei semi; che nei viventi da lui prescelti ha infuso l'anima ragionevole, detta anche spirito; che ha donato la facoltà e l'uso della parola; che ha concesso ad individui da lui scelti il potere di predire il futuro ed egli stesso lo predice per mezzo di chi vuole e allontana le malattie per mezzo di chi vuole; che provvede all'inizio, allo svolgimento e all'esito anche delle guerre quando con esse l'umanità deve essere corretta e punita; che ha creato e mantiene il veemente e impetuoso fuoco cosmico per riscaldare l'incommensurabile natura; che è creatore e ordinatore di tutte le acque; che ha prodotto il sole la più fulgente delle luci sensibili e gli ha conferito potenza e movimento convenienti; che estende il proprio dominio e potere anche all'oltretomba; che per gli esseri mortali dispone nella successione i semi e il nutrimento, tanto arido che liquido, assegnandoli alle nature convenienti; che rende stabilmente feconda la terra; che elargisce i suoi prodotti agli animali e agli uomini; che conosce ordinandole al fine non solo le cause primarie ma anche le secondarie; che ha stabilito alla luna il proprio limite; che dispone vie celesti e terrestri ai mutamenti nello spazio; che ha concesso all'intelligenza da lui creata anche la scienza delle varie discipline per il miglioramento della vita e della natura; che ha istituito il congiungimento del maschio e della femmina per la procreazione della prole; che ha accordato alla convivenza umana il dono del fuoco terreno da usarsi per i bisogni più elementari come calore e come luce. Queste sono distintamente le competenze che Varrone, uomo veramente dotto e intelligente, si è affaticato ad assegnare agli dèi eletti mediante non saprei quali interpretazioni naturalistiche, sia che le avesse ricevute da altri o le avesse elaborate egli stesso. A queste cose ha dato esistenza e dà movimento l'unico vero Dio, ma come Dio egli è tutto in ogni spazio e non è limitato dallo spazio, non è vincolato da condizioni, non è divisibile in parti, non è mutevole in alcuna sua parte, riempie il cielo e la terra con la potenza sempre in atto e non con una natura che vada mancando. Provvede a tutte le cose che ha create in modo da lasciare ad esse di svolgere e attuare i movimenti che sono loro propri. E sebbene non possano esistere senza di lui, non sono tuttavia una medesima cosa con lui. Muove molte cose anche per mezzo degli angeli ma soltanto di sé rende beati gli angeli. Allo stesso modo, sebbene in determinati casi invii gli angeli come messaggeri agli uomini, tuttavia con se stesso, e non per mezzo degli angeli, rende beati gli uomini come gli angeli. Da questo unico e vero Dio noi attendiamo la vita eterna.

31. Abbiamo da lui infatti, oltre ai benefici che mediante l'ordinamento della natura, su cui abbiamo esposto alcuni concetti, elargisce ai buoni e ai cattivi, un grande segno, riservato ai buoni, del suo grande amore. Noi non possiamo adeguatamente ringraziarlo per il fatto che siamo, che viviamo, che col senso percepiamo il cielo e la terra, che abbiamo la mente capace di pensiero con cui cercare lui che ha creato tutte queste cose. Tuttavia i più nobili sentimenti e lingue innumerevoli non si adopererebbero abbastanza a ringraziarlo per il fatto che non ci ha abbandonato del tutto sebbene, carichi di peccati, fossimo caduti sotto il loro peso, avessimo voltato le spalle alla contemplazione della sua luce e fossimo accecati dall'amore delle tenebre, cioè dell'iniquità. Per questo ha mandato il suo Verbo, che è il suo unico figlio, affinché conoscessimo mediante lui incarnatosi e morto per noi la stima che Dio ebbe per l'uomo e fossimo con quell'unico sacrificio purificati da tutti i nostri peccati. Ha voluto poi che, mediante la partecipazione dell'amore alle nostre coscienze nel suo Spirito, superassimo tutte le difficoltà per giungere all'eterna serenità e alla dolcezza ineffabile della sua visione.

32. Il mistero della vita eterna fin dall'origine dell'umanità fu annunziato per mezzo degli angeli a persone opportunamente scelte mediante simboli e rivelazioni convenienti ai tempi. In seguito il popolo ebraico fu adunato in un determinato organismo statale per trasmettere questo sacramento. In esso mediante persone che ne erano consapevoli ed altre che non lo erano doveva esser preannunziato come futuro ciò che si verifica dalla venuta di Cristo fino ad ora e in seguito. Poi essendo il popolo ebraico disperso fra gli altri popoli per rendere testimonianza alle Scritture, ad essi fu preannunziata la salvezza che si sarebbe avuta nel Cristo. Non solo infatti tutte le profezie trasmesse con parole e non solo gli ordinamenti contenuti in quegli scritti e riguardanti la morale e la religione ma anche i riti, il sacerdozio, il tabernacolo o il tempio, gli altari, i sacrifici, le cerimonie, i giorni festivi e ogni altro atto relativo al servizio dovuto a Dio e che in greco con proprietà si dice hanno prefigurato e preannunziato quella realtà che per la vita eterna dei fedeli noi crediamo adempiuta, vediamo adempiersi e speriamo che si adempierà nel Cristo.

33. Dunque mediante questa unica e vera religione è stato possibile evidenziare che gli dèi del paganesimo sono demoni immondi perché con l'appiglio di personaggi scomparsi e col pretesto delle creature del mondo ambiscono di essere considerati dèi, con superba prevaricazione godono degli onori divini tributati con riti scellerati e osceni e invidiano alle coscienze umane la conversione al vero Dio. L'uomo si libera dal loro spaventoso e spietato dominio quando crede in colui che per risollevarlo ha offerto un esempio di umiltà così grande quanto grande fu la superbia per cui i demoni caddero. Della schiera non sono soltanto quelli di cui abbiamo molto parlato e molti ancora degli altri popoli e regioni, ma anche quelli eletti per così dire al senato degli dèi di cui stiamo parlando adesso, ma eletti per la fama dei delitti non per la dignità delle virtù. Varrone cercando di nobilitare cose turpi col tentativo di ricondurre i misteri degli dèi a spiegazioni naturalistiche, non riesce a trovare il modo di far quadrare e concordare gli uni alle altre, perché non sono quelle che egli crede o vuol far credere le origini dei misteri. Ma poniamo che non soltanto queste interpretazioni vi fossero ma anche altre di questo genere, quantunque non riguardassero affatto il vero Dio e la vita eterna che si deve cercare nella religione. Tuttavia con una qualsiasi spiegazione desunta dalla natura le ragioni suddette mitigherebbero un po' il turbamento che era stato causato dal non riconoscimento di oscenità e assurdità esistenti nei misteri. Ad esempio, ha tentato di farlo nei confronti di alcuni drammi dei teatri ossia riti misterici dei templi, sebbene in proposito non ha assolto i teatri sulla base dell'eguaglianza con i templi ma piuttosto ha condannato i templi sulla base dell'eguaglianza con i teatri. Ha comunque tentato di ottenere che la spiegazione delle pretese origini naturali lenisse il sentimento urtato da fatti disgustosi.

34. Al contrario sappiamo, come lo stesso dottissimo Varrone ha svelato, che non fu assolutamente possibile accettare le origini dei misteri fornite dai libri di Numa Pompilio e che non furono considerate degne non solo che lette divenissero note alle persone devote ma perfino che scritte rimanessero nascoste nel buio. Devo dire ormai ciò che nel terzo libro di questa opera avevo promesso di dire al momento opportuno. Si legge appunto in Varrone stesso nel libro Sul culto degli dèi: Un tale Terenzio aveva un terreno nei pressi del Gianicolo. Un suo contadino nel passare l'aratro vicino al sepolcro di Numa Pompilio trasse fuori dalla terra i suoi libri, in cui erano scritte le origini dell'istituzione dei misteri. Egli li portò in città dal pretore. E questi, dopo aver dato uno sguardo alle prime parole, deferì al senato un oggetto così importante. Avendo i più insigni senatori letto alcune delle origini per cui si ebbero le varie istituzioni dei misteri, il senato fu solidale col defunto Numa ed essi da devoti senatori decisero che il pretore desse alle fiamme quei libri 73. Ciascuno la pensi come crede, anzi un qualche egregio avvocato di tanta irreligiosità parli come gli suggerirà di parlare un passionale spirito polemico. A me basti notare che le origini dei misteri messe in iscritto da re Pompilio, istitutore dei misteri romani, non dovevano essere rese note né al popolo né al senato e neanche agli stessi sacerdoti. Perfino Numa Pompilio, che con illecita curiosità aveva scoperto determinati misteri demoniaci e li aveva messi in iscritto per ricordarsene con la lettura, tuttavia, sebbene fosse re e non dovesse temere alcuno, non osò né comunicarli ad altri né perderli o distruggendoli o facendoli comunque scomparire. Ebbe quindi un segreto che non volle far conoscere ad alcuno per non insegnare agli uomini cose infami, ma per non irritare i demoni temé di profanarlo e lo nascose in un luogo che ritenne sicuro non pensando che un aratro potesse passare vicino alla sua tomba. Il senato poi, sebbene temesse di condannare le credenze religiose degli antenati e fosse costretto ad essere solidale con Numa, giudicò quei libri molto pericolosi. Quindi non comandò che fossero di nuovo sotterrati affinché la curiosità umana non cercasse molto più avidamente un oggetto già scoperto ma comandò che fossero dati alle fiamme come un documento esecrabile. E poiché stimavano che era ormai necessario compiere quei misteri, ritennero che era più tollerabile che si errasse ignorandone le origini che conoscendole si creasse scompiglio nella città.

35. Infatti Numa stesso, al quale non era inviato un profeta di Dio o un angelo santo, fu costretto a praticare l'idromanzia. Osservava nell'acqua le immagini degli dèi o meglio le mistificazioni dei demoni dai quali udiva che cosa doveva stabilire di prescrittivo nei misteri. Varrone ricorda che questa forma di divinazione fu importata dalla Persia e che ne fece uso Numa e poi il filosofo Pitagora. Afferma che in essa con l'offerta di sangue i divinatori consultano anche l'oltretomba e dice che in greco si chiamava 74. La pratica, sia detta idromanzia o necromanzia, è sempre la stessa perché sembra che in essa facciano presagi i morti. Con quali pratiche lo facessero, se la vedano loro. Non oserei dire che prima della venuta del nostro Salvatore presso gli stessi popoli pagani tali pratiche fossero abitualmente proibite e punite severamente dalle leggi. Non oso affermarlo, ripeto, perché forse erano lecite. Tuttavia Pompilio ha appreso i misteri da quelle pratiche e di tali misteri ha prescritto i riti ma ne ha occultato le origini perché anche egli temé ciò che aveva appreso e il senato diede alle fiamme i libri riscoperti che contenevano tali origini. Perché dunque Varrone mi interpreta i misteri di Numa in senso di non saprei quali pretese origini naturalistiche? Se quei libri avessero contenuto ragioni naturalistiche, non sarebbero stati dati alle fiamme oppure i senatori avrebbero dato alle fiamme anche questi di Varrone quantunque scritti per essere dedicati a Cesare pontefice. Dal fatto che Numa Pompilio fece uscire, cioè portò l'acqua fuori città per praticare l'idromanzia, nacque la tradizione che ebbe come moglie la ninfa Egeria, come si afferma nel suddetto libro di Varrone 75. Avviene proprio così : con una spruzzatina di menzogne i fatti storici diventano leggende. Quindi mediante l'idromanzia il re romano avido di sapere apprese i misteri che i pontefici dovevano conservare nei propri libri ed anche le loro origini che decise di non far conoscere ad alcuno fuorché a se stesso. Pertanto espostele a parte, le fece in certo senso morire con sé, giacché seppellendole si preoccupò di sottrarle alla conoscenza degli uomini. Dunque o in esse erano riportate delle passioni demoniache così oscene e malefiche che tutta la teologia dello Stato ne dovette apparire esecrabile, anche nel giudizio degli uomini che avevano avuto in consegna tanti aspetti disgustosi presenti nei misteri stessi; oppure tutti quei demoni si presentavano soltanto come uomini morti che a causa del lungo periodo di tempo tutti i popoli pagani consideravano come dèi immortali. E poiché costoro gioivano anche di simili misteri, con determinate garanzie di falsi miracoli si sostituivano nel culto ai morti che avevano fatto ritenere dèi. Ma da un occulto disegno della provvidenza del vero Dio avvenne che resi propizi al loro amico Pompilio mediante le pratiche con cui fu possibile compiere l'idromanzia, fosse loro permesso di manifestare riti e origini ma non fosse loro permesso di avvisarlo che prima di morire le distruggesse col fuoco anziché sotterrarle. Comunque non riuscirono, affinché non si scoprissero, ad opporsi né all'aratro, da cui furono dissotterrate, né alla penna di Varrone, grazie alla quale la storia di questa vicenda è giunta fino a noi. I demoni non possono infatti ciò che non è stato loro permesso di fare ma è permesso loro dall'alto e giusto giudizio di Dio, secondo le azioni di coloro che giustamente o sono soltanto tentati o anche resi schiavi e ingannati. Quegli scritti sono stati giudicati veramente malefici e indegni del culto della vera divinità. Lo si può dedurre dal fatto che il senato preferì dare alle fiamme quei libri che Pompilio aveva occultato, anziché temere ciò che dovette temere lui al quale non fu possibile avere il coraggio di distruggerli. Se dunque neanche adesso si vuole condurre una vita religiosa, si cerchi quella eterna con tali misteri; se al contrario non si vuole avere un rapporto con i demoni maligni, non si tema che sia nocivo abbandonare la superstizione con cui sono adorati ma si riconosca la vera religione con cui sono smascherati e sconfitti.

 

LIBRO VIII

SOMMARIO

1. Il problema della teologia naturale deve essere discusso con i filosofi di più sicura dottrina.

2. Le scuole filosofiche, italica e ionica, e i loro maestri.

3. La dottrina di Socrate.

4. Platone, il più illustre discepolo di Socrate, ha distribuito tutta la filosofia in tre sezioni.

5. Per quanto riguarda la teologia si deve discutere soltanto con i platonici, perché la loro opinione si deve ritenere superiore alle dottrine di tutti i filosofi.

6. Il pensiero dei platonici in quella parte della filosofia che si chiama naturale.

7. I platonici devono essere considerati più ferrati degli altri nella logica, cioè nella filosofia razionale.

8. Anche nella filosofia morale i platonici hanno la precedenza.

9. La filosofia che si è avvicinata di più alla verità della fede cristiana.

10. La superiorità dell'uomo di fede nel confronto con le discipline filosofiche.

11. La fonte da cui Platone ha potuto attingere l'intelligenza dei problemi per cui si è avvicinato alla dottrina cristiana.

12. Anche i platonici, quantunque abbiano l'idea conveniente di un solo vero Dio, tuttavia hanno ritenuto che si devono offrire sacrifici a molti dèi.

13. Platone ha insegnato con la sua dottrina che vi sono soltanto dèi buoni e amici della virtù.

14. Alcuni hanno sostenuto la teoria che le anime ragionevoli sono di tre generi, cioè negli dèi celesti, nei demoni aeriformi e negli uomini terreni.

15. I demoni non sono superiori agli uomini né a causa del corpo né delle sedi in alto.

16. Il pensiero del platonico Apuleio sul comportamento morale dei demoni.

17. Non è dignitoso che dall'uomo siano adorati spiriti dai cui vizi dovrebbe essere liberato.

18. Il significato di una religione in cui si insegna che si debbono usare come avvocati i demoni per essere raccomandati agli dèi buoni.

19. L'arte magica è irreligiosa, perché si affida all'intervento degli spiriti maligni.

20. Non è ammissibile che dèi buoni comunichino più volentieri con i demoni che con gli uomini.

21. È assurdo che gli dèi usino i demoni come messaggeri e interpreti e ignorino di essere da loro ingannati o lo vogliano.

22. Contro Apuleio la demonolatria si deve riprovare.

23. Il pensiero di Ermes Trismegisto sulla idolatria e la fonte della sua informazione sulla fine delle superstizioni egiziane.

24. Il limite in cui Ermes ha dichiarato l'errore degli antenati, sebbene lamentasse che sarebbe dovuto scomparire.

25. Beni in comune agli angeli santi e agli uomini buoni.

26. Ogni religione pagana fu introdotta sulla base del culto degli antenati.

27. Il limite dell'onore che i cristiani offrono ai martiri.

Libro ottavo

CONFRONTO FRA POLITEISMO, CRISTIANESIMO E FILOSOFIA

Metafisica e teismo nella sapienza dei platonici (1-12)

Indispensabile confronto con i platonici.
1.
Si richiede ora uno spirito molto più critico di quello richiesto nella soluzione dei precedenti problemi e nella stesura dei libri già compilati. Tratto appunto della teologia che definiscono naturale e non con uomini di qualsiasi estrazione. Non è infatti quella drammatica o civile, cioè dei teatri e delle città, di cui una vanta i peccati degli dèi e l'altra pone in vista i desideri più immorali degli dèi e quindi piuttosto demoni malvagi che dèi. Ora, al contrario, si deve stabilire un confronto con i filosofi il cui nome stesso tradotto in latino significa l'amore alla sapienza. Quindi se Dio è sapienza, mediante la quale è stato creato l'universo, come ha rivelato la verità della divina tradizione, il vero filosofo è colui che ama Dio. Ma il significato in sé, indicato da questo nome, non si trova in tutti coloro che menano vanto del nome, perché non necessariamente coloro che si dicono filosofi amano la vera sapienza. Pertanto fra tutti coloro, di cui è stato possibile conoscere le teorie nella tradizione letteraria, si devono scegliere quelli con cui si possa trattare convenientemente il problema in parola. Non ho infatti intenzione di ribattere in questa opera tutte le errate teorie di tutti i filosofi ma quelle soltanto che sono attinenti alla teologia, parola greca con cui s'intende indicare il pensiero ossia il discorso sulla divinità. Inoltre non tratto le dottrine di tutti ma di quelli soltanto che, pur ammettendo l'esistenza e la provvidenza della divinità, ritengono che non è sufficiente l'adorazione di un unico non diveniente Dio per conseguire la felicità anche dopo la morte, ma che se ne devono adorare molti sebbene da lui creati alle rispettive incombenze. Costoro superano per un avvicinamento alla verità anche la teoria di Varrone. Egli in definitiva è riuscito ad estendere le competenze della teologia naturale fino al mondo visibile o all'anima del mondo. Costoro, al contrario, ammettono la trascendenza di Dio sull'essere dell'anima in generale perché, secondo loro, egli non solo ha creato il mondo visibile, che talora si definisce con i termini di cielo e terra, ma ha anche prodotto dal nulla ogni anima e perché rende felice l'anima umana con la partecipazione della sua luce indiveniente e immateriale. Tutti sanno, anche se ne abbiano sentito lontanamente parlare, che questi filosofi si chiamano platonici per denominazione dal loro maestro Platone. Toccherò brevemente alcuni concetti su Platone perché li ritengo indispensabili al problema; ma prima tratterò di coloro che cronologicamente lo hanno preceduto in questa forma di speculazione.

La scuola ionica e italica.
2.
Per quanto riguarda la letteratura greca che è considerata la più illustre fra quelle di tutti i popoli 1 si ha la tradizione di due scuole di filosofi: una italica denominata da quella parte dell'Italia che una volta si chiamava Magna Grecia, l'altra ionica vigente in quelle regioni per le quali anche oggi si usa il nome di Grecia. La scuola italica ha come fondatore Pitagora di Samo da cui secondo la tradizione ebbe origine anche la parola filosofia. Prima di lui si chiamavano sapienti coloro che erano ritenuti superiori agli altri per un determinato tenore di condotta morale 2. Egli richiesto che cosa dichiarava di se stesso rispose di essere filosofo cioè studioso ossia amatore di sapienza, perché dichiarare di essere sapiente gli sembrava estremamente presuntuoso 3. Capo della scuola ionica fu Talete di Mileto, uno dei sette che furono chiamati sapienti. Gli altri sei si distinguevano per il genere di vita e per alcune norme concernenti la morale. Talete invece, anche per avere dei continuatori, si distinse perché osservò la natura, scrisse le proprie teorie e soprattutto perché si rese celebre per il fatto che mediante calcoli astronomici riuscì a prevedere le eclissi di sole e di luna. Ritenne tuttavia che l'acqua è il principio delle cose e che da essa hanno origine gli elementi, il mondo stesso e i suoi fenomeni. Al contrario, non pensò a un qualcosa di preesistente da parte di una mente divina all'opera d'arte dell'universo sensibile che, considerando il mondo, scopriamo tanto meravigliosa. Gli successe Anassimandro, suo uditore, il quale modificò la dottrina sulla natura. Pensò infatti, a differenza di Talete il quale la derivava dall'elemento umido, che le cose non hanno origine da un unico elemento ma ciascuna da particolari principi. Ritenne che i principi delle singole cose siano indeterminati e diano origine a innumerevoli mondi e a tutti i loro fenomeni; immaginò che i mondi si avvicendino scomparendo e rigenerandosi secondo le durate competenti a ciascuno. Anche egli non attribuì alcun potere a una mente divina nel prodursi delle cose. Lasciò come successore il discepolo Anassimene che assegnò all'aria indeterminata tutti i principi delle cose. Non negò anzi parlò degli dèi ma ritenne che non da loro era stata prodotta l'aria ma che essi erano stati originati dall'aria. Anassagora suo uditore pensò e sostenne che una mente divina è effettrice di tutte le cose visibili da una materia indeterminata che risulta dalle particelle di tutte le cose fra di sé simili e che ciascuna cosa è formata dalle proprie e particolari particelle per azione di una mente divina. Anche Diogene altro uditore di Anassimene sostenne che la materia è sì materia di tutte le cose, ma che essa è partecipe di una divina ragione senza di cui con l'aria nulla si formerebbe. Ad Anassagora successe il suo uditore Archelao. Anche egli ha insegnato che l'universo è composto di particelle simili fra di loro, da cui si formano le singole cose, con la clausola che in esse è immanente la mente che governa l'universo unendo e separando i corpi eterni cioè le particelle. Si dice che suo discepolo fu Socrate maestro di Platone. Proprio per lui ho brevemente esposto queste notizie.

Sommo bene e felicità in Socrate.
3.
Secondo la storia, Socrate fu il primo che ha orientato tutta la filosofia alla ricerca della norma e del fine della morale. Prima di lui, tutti si sono adoperati prevalentemente nell'indagine sui fenomeni fisici cioè naturali. Non mi pare che si possa concludere con evidenza se Socrate, per raggiungere lo scopo, a causa dell'insofferenza per i concetti oscuri e confusi, rivolgesse l'attenzione alla scoperta di una nozione chiara e distinta, fondamentale alla felicità, per la quale, soltanto, come sembra, si è attentamente impegnata l'opera di tutti i filosofi; oppure se, come alcuni più favorevolmente pensano, non volesse che coscienze macchiate dalle passioni terrene tentassero di raggiungere le cose divine. Egli vedeva che dai predecessori erano ricercate le ragioni delle cose e riteneva che le prime e somme sono esclusivamente nel volere dell'unico sommo Dio. Pensava quindi che se ne potesse avere la conoscenza con l'intelligenza purificata. Pertanto giudicava che era necessario insistere sulla catarsi morale in modo che lo spirito scaricato delle passioni che fanno tendere al basso, si levasse con slancio naturale verso le cose eterne, e intravedesse con la intelligenza pura l'essere della luce immateriale e non diveniente, in cui sussistono fuori del movimento le ragioni di tutti gli esseri creati 4. È noto tuttavia che egli con mirabile garbo dialettico e con fine ironia, ammettendo la propria ignoranza ossia dissimulando la propria scienza, attaccò incessantemente, anche negli stessi problemi morali ai quali sembrava avere rivolto tutta la sua attenzione, l'insipienza di individui ignoranti che presumevano di sapere 5. Avendo suscitato per questo motivo delle inimicizie, condannato in seguito a infondata incriminazione, fu giustiziato 6. Ma la città di Atene, che lo aveva condannato pubblicamente, poi lo pianse, tanto è vero che l'indignazione del popolo si volse contro i suoi due accusatori al punto che uno fu linciato a furor di folla e l'altro sfuggì a una fine simile con volontario perpetuo esilio 7. A causa di una reputazione tanto illustre della vita e della morte Socrate lasciò molti seguaci della propria filosofia che gareggiarono nell'attendere diligentemente alla discussione dei problemi morali. L'argomento è il sommo bene con cui l'uomo può divenire felice. Nella teoria di Socrate non appare chiaramente quale sia, perché egli mette tutto in discussione, tutto afferma e tutto nega. Quindi ciascuno prese dalla sua dottrina secondo il proprio modo di pensare e stabilì il sommo bene secondo la propria opinione. Si considera sommo bene quello nel cui conseguimento si diviene felice. Pertanto i socratici difesero opinioni disparate sul sommo bene. E quantunque sia appena credibile che l'abbiano potuto fare i seguaci di un medesimo maestro, alcuni, come Aristippo, hanno sostenuto che il sommo bene è il piacere, altri, come Antistene, la virtù 8. Così alcuni hanno accolto opinioni molto diverse dagli altri. Ma sarebbe troppo lungo parlarne.

Esperienze ed insegnamento di Platone.
4.
Fra i discepoli di Socrate si distinse per grandissima fama con cui oscurò completamente gli altri Platone, e certo non immeritatamente. Egli era ateniese di nobile famiglia e superava di gran lunga i propri condiscepoli per l'ingegno straordinario. Tuttavia ritenendo che non bastavano alla perfezione della filosofia lui stesso e l'insegnamento di Socrate, viaggiò quanto gli fu possibile in quelle parti in cui lo attirava la fama di una cultura illustre e degna di essere appresa. Quindi perfino in Egitto apprese le dottrine che in quel Paese erano considerate e insegnate come elevate 9. Da lì passando in quelle regioni d'Italia, in cui era alta la fama dei pitagorici, apprese con molta facilità la dottrina allora in voga della scuola italica udendone i più illustri insegnanti 10. E poiché in modo particolare amava il suo maestro Socrate, introducendolo in tutti i suoi dialoghi, mediante la dialettica e le teorie morali di lui diede un ordine sistematico anche alle dottrine che aveva appreso dagli altri o che egli stesso aveva intuito con la più alta capacità speculativa possibile. Ma l'applicazione alla sapienza riguarda la prassi e la teoresi e quindi una sua parte si può definire pratica e l'altra teoretica; la pratica tende a stabilire la regola della vita cioè la norma morale, la teoretica a intuire i principi generali della natura e la verità ideale. Si tramanda che Socrate si distinse nella pratica, Pitagora si applicò prevalentemente alla teoretica con tutto il vigore speculativo possibile 11. Perciò viene lodato Platone per avere condotto a perfezione la filosofia congiungendo l'una e l'altra. Ha infatti distribuito la filosofia in tre parti: la prima morale che prevalentemente si occupa della prassi, la seconda naturale che è destinata alla teoresi, la terza razionale con cui si stabilisce il confine fra vero e falso 12. E sebbene quest'ultima sia indispensabile alle prime due, cioè alla prassi e alla teoresi, tuttavia la teoresi rivendica a sé la intuizione della verità. Perciò questa tripartizione non è contraria alla distinzione con cui si stabilisce che l'applicazione alla sapienza in generale consiste nella prassi e nella teoresi. Ritengo poi che richieda tempo e non ritengo che si possa ridurre a un'affermazione infondata lo spiegare con un discorso quale fu il pensiero di Platone nelle o sulle singole parti, cioè in che cosa stabilisca categoricamente o opinativamente il fine di tutte le azioni, il principio di tutti gli esseri, la luce di tutti i pensieri. Egli infatti mostra di seguire la ben nota tecnica del suo maestro, introdotto a dialogare in tutti i suoi libri, di dissimulare la propria scienza o opinione. E poiché anche a lui andava a genio questa tecnica, è avvenuto che non sia possibile penetrare agevolmente la dottrina di Platone su argomenti elevati. È tuttavia opportuno che siano citate e riportate in questa opera alcune delle dottrine che si leggono nei suoi libri, sia che le abbia personalmente insegnate, sia che egli le presenti nell'opera come insegnate da altri, purché appaia che siano da lui condivise. Saranno scelte quelle in cui egli è favorevole alla vera religione, che la nostra fede si è impegnata a difendere, oppure quelle in cui egli sembra a lei contrario in rapporto al problema del monoteismo e del politeismo e in considerazione della vita veramente felice che si avrà dopo la morte. Forse gli studiosi, i quali sono tenuti in grande considerazione per avere compreso con genuina perspicacia che Platone è di gran lunga superiore a tutti i filosofi pagani e per averlo seguito, sostengono nei confronti di Dio la tesi che in lui si abbiano la causa del sussistere, la ragione del pensare e la norma del vivere. Dei tre principi il primo appartiene idealmente alla parte naturale, il secondo alla razionale, il terzo alla morale. Se dunque l'uomo è stato creato affinché mediante la facoltà che in lui trascende raggiunga l'essere che tutto trascende, cioè Dio uno, vero, sommamente buono, senza di cui nessun essere viene all'esistenza, nessuna cultura educa, nessuna prassi giova, egli si cerchi perché in lui tutto per noi è stabile, egli si guardi perché in lui tutto è per noi intelligibile, egli si ami perché in lui tutto per noi è onesto.

Platonismo più idoneo e un confronto col cristianesimo.
5.
Se dunque Platone ha affermato che il sapiente è imitatore, conoscitore e amatore di Dio per esser beato nella partecipazione di lui, non c'è bisogno di esaminare gli altri platonici. Nessun filosofo si è avvicinato come essi a noi cristiani. Ceda dunque loro la teologia fabulosa che diverte l'animo degli infedeli con le colpe degli dèi e ceda anche quella civile. Demoni immondi, ingannando mediante esse, sotto il nome di dèi, popoli dediti alle gioie terrene hanno voluto avere come propri onori divini, gli errori umani stimolando con incentivi immorali i propri adoratori a intervenire agli spettacoli dei propri delitti, come se fosse il culto loro dovuto, e offrendo a sé negli spettatori stessi uno spettacolo più gradito. E se nei templi si compiono dei riti che pretendono di essere onesti, divengono turpi dalla comunanza con l'oscenità dei teatri e tutte le rappresentazioni oscene nei teatri divengono oneste nel confronto con la sconcezza dei templi. Cedano anche le teorie che, partendo da questi misteri, Varrone ha voluto interpretare in relazione al cielo e alla terra, ai semi e al prodursi delle cose transeunti 13. Infatti le teorie che egli tenta di giustificare non sono significate dai riti pagani e, nonostante i suoi sforzi, la verità non lo sostiene. E anche se fossero giustificate, tuttavia l'anima ragionevole non deve adorare come suo dio le cose che per natura le sono inferiori né deve considerare superiori a sé come dèi le cose perché il vero Dio l'ha creata ad esse superiore. Cedano anche le dottrine che Numa Pompilio, sebbene sostanzialmente pertinenti a simili misteri, si preoccupò di nascondere sotterrandole col proprio corpo e che, dissotterrate da un aratro, il senato fece dare alle fiamme 14. E tanto per giudicare in senso più favorevole Numa, a questa categoria appartengono anche le dottrine che Alessandro il Macedone notificò per lettera alla propria madre e che gli erano state svelate da un certo Leone sacerdote dei misteri egiziani 15. Con essi si rende evidente che furono uomini non solo Pico, Fauno, Enea e Romolo o anche Ercole, Esculapio, Libero figlio di Semele e i gemelli figli di Tindaro ed altri che, sebbene mortali, i pagani considerano dèi, ma anche gli dèi dei popoli maggiori, che Cicerone nelle Tusculane sembra indicare senza nominarli 16, e cioè Giove, Giunone, Saturno, Vulcano, Vesta e moltissimi altri che Varrone tenta di rapportare alle parti o elementi del mondo. Anche il sacerdote egiziano temendo che fossero svelati degli arcani si recò da Alessandro per avvertirlo che, una volta notificate per lettera le dottrine alla madre, le facesse bruciare. Dunque non solo le teologie fabulosa e civile devono cedere ai filosofi platonici, i quali hanno insegnato che il vero Dio è autore delle cose, illuminatore della verità e datore della felicità, ma a questi grandi uomini che hanno conosciuto un Dio tanto grande devono cedere anche gli altri filosofi che con mentalità materialistica hanno assegnato alla natura soltanto principi materiali. Ad esempio Talete li ha riposti nell'acqua, Anassimene nell'aria, gli stoici nel fuoco, Epicuro negli atomi, cioè in corpuscoli piccolissimi che non si possono né dividere né percepire, e tutti gli altri, sulla cui enumerazione non è necessario soffermarsi, i quali hanno sostenuto che ragione principiale delle cose sono i corpi, sia semplici che composti, sia non viventi che viventi, ma comunque corpi. Alcuni di loro infatti hanno supposto che da esseri non vivi si possano formare esseri vivi, come gli epicurei; altri invece da vivente gli esseri viventi e non viventi, ma comunque corpi da corpo 17. Gli stoici appunto hanno sostenuto che il fuoco, cioè un corpo e uno dei quattro elementi, dai quali è formato il mondo visibile, è vivente, sapiente, costruttore del mondo e di tutte le cose che in esso esistono, è in definitiva un dio. Essi ed altri simili a loro hanno potuto rappresentarsi soltanto ciò che il loro sentimento legato al senso ha immaginato in loro. Infatti avevano in sé la coscienza che non percepivano con la vista e nella propria immaginazione quel che avevano visto al di fuori, anche quando non lo vedevano ma se lo rappresentavano soltanto 18. L'oggetto però nell'intenzionalità di una simile rappresentazione non è più corpo ma un fantasma del corpo e la facoltà con cui si avverte nella coscienza il fantasma non è né corpo né fantasma del corpo, infine la facoltà con cui si avverte e si giudica bello o deforme è più perfetta del fantasma che si giudica. Ed è la mente che è il costitutivo essenziale dell'uomo e dell'anima ragionevole, e la mente non è certamente corpo se non lo è neanche il fantasma del corpo nell'atto che è avvertito e giudicato nella coscienza del soggetto. Dunque la mente non è né terra né acqua né aria né fuoco, i quattro corpi che sono considerati i quattro elementi da cui vediamo strutturato l'universo corporeo. Dunque se il nostro spirito non è corpo, in senso assoluto Dio creatore dello spirito non è corpo. Dunque anche i naturalisti, come è stato detto, devono cedere ai platonici, ma cedano anche coloro che ebbero vergogna di dire che Dio è corpo ma ritennero che egli sia della medesima natura del nostro spirito perché non li ha turbati la grande soggezione dell'anima al divenire che non si può attribuire all'essere di Dio. Ma obiettano: "Col corpo si pone nel divenire l'essere dell'anima, sebbene per se stessa sia fuori del divenire". Costoro potevano dire: "Col corpo si rende soggetto a corruzione l'essere fisico, sebbene di per se stesso non lo sia". Insomma ciò che non può essere nel divenire non lo può essere neanche per influsso di qualche cosa; pertanto ciò che col corpo può essere nel divenire lo può essere con qualche cosa e quindi non può essere considerato immune dal divenire.

Teismo nella filosofia naturale del platonismo.
6.
Dunque i platonici, che per illustre fama sono considerati superiori agli altri filosofi, ebbero l'intuizione che Dio non è corpo e quindi nella ricerca di Dio trascesero tutti i corpi. Ebbero l'intuizione che il Dio sommo non è nulla di ciò che diviene e quindi nella ricerca di Dio trascesero ogni anima e tutti gli spiriti posti nel divenire 19. Infine ebbero l'intuizione che ogni forma esistente nell'essere diveniente, per la quale esso è ciò che è, in qualsiasi limite e qualunque essenza sia, può esistere soltanto dall'essere che esiste per la sua verità perché è fuori del divenire. Pertanto la materia, le figure, le qualità, il movimento ordinato e il finalismo degli elementi dell'universo dal cielo alla terra e tutti i corpi che esistono in essi, come pure la vita, sia quella che fa vegetare ed esistere nel tempo come negli alberi, sia quella che ha queste funzioni e la sensazione come nelle bestie, sia quella che ha queste funzioni e il pensiero come negli uomini, sia quella che non ha bisogno della funzione vegetativa ma esiste nel tempo, ha sensazione e pensiero come negli angeli, possono esistere soltanto da colui che semplicemente è. In lui infatti non sono diversi l'esistere e il vivere perché non può esistere senza vivere, non sono diversi il vivere e il pensare perché non può vivere senza pensare, non sono diversi il pensare e l'essere felice perché non può pensare senza esser felice ma ciò che per lui è il vivere, il pensare e l'esser felice è per lui il suo esistere. I platonici compresero che per questa sua non soggezione al divenire e alla molteplicità egli ha creato tutte le cose e che è impossibile la sua dipendenza nell'essere da un altro. Considerarono infatti che ogni essere o è corpo o è vita, che la vita è più perfetta del corpo e che la forma del corpo è sensibile e quella della vita intelligibile. Ritennero quindi che la forma intelligibile è più perfetta di quella sensibile. Sono considerate sensibili le cose che possono essere percepite con gli organi della vista e del tatto, intelligibili quelle che sono pensate nella intuizione della mente. Non v'è infatti bellezza corporea, tanto se è nella immobilità come una figura o nel movimento come un canto, di cui lo spirito non giudichi. E non lo potrebbe se in lui non fosse più perfetta la forma intelligibile senza il rilievo del volume, senza il suono della voce, senza lunghezza di spazio o di tempo. Ma se non soggiacesse al divenire anche nella specie intelligibile, un soggetto non giudicherebbe meglio di un altro la specie sensibile, e cioè uno più intelligente di uno più tardo, uno più esperto di uno meno esperto, uno più esercitato di uno meno esercitato, e il medesimo soggetto, quando fa progressi, meglio dopo che prima. Infatti ciò che riceve il più e il meno, senza dubbio è nel divenire. Per questo i platonici, intelligenti, colti ed esercitati nella filosofia, conclusero logicamente che la forma non è prima in quegli esseri in cui si dimostra innegabilmente che è diveniente 20. Nella loro teoresi il corpo e lo spirito sono più o meno belli e se fossero privi di ogni forma non esisterebbero affatto. Ebbero l'intuizione dunque che esiste un essere in cui la forma prima è fuori del divenire e quindi assoluta e ritennero con molta coerenza che in lui è la ragione ideale non creata delle cose e nella quale tutto è stato creato. Così ciò che si conosce di Dio, egli lo manifestò loro, quando da essi sono stati intuiti col pensiero i suoi attributi invisibili attraverso le cose create ed anche il suo eterno potere e la divinità 21, perché da lui sono state create tutte le cose visibili e temporali. Bastano questi concetti relativi alla parte che chiamano fisica, cioè naturale.

Possibilità della metafisica nella filosofia logica.
7.
Per quanto riguarda la dottrina che è oggetto della seconda parte, detta dai platonici logica cioè razionale, non si può certo pretendere di poterli confrontare con quelli che attribuirono il criterio della verità ai sensi e sostennero che tutti gli oggetti della conoscenza si devono rapportare alla loro misura malsicura e ingannevole. Sono gli epicurei ed altri come loro 22. Anche gli stoici i quali amarono l'abilità del ragionare, che chiamano dialettica, ritennero che essa doveva esser derivata dai sensi. Sostenevano appunto che da essi il pensiero concepisce le nozioni, che chiamano , di quelle cose che si chiariscono mediante la definizione, dalla quale si svolge per logica connessione la dimostrazione scientifica 23. E a proposito spesso mi chiedo assai meravigliato, giacché, secondo loro, soltanto i sapienti hanno bellezza, con quali sensi abbiano percepito questa bellezza, con quali occhi carnali abbiano intuito la distinta bellezza della sapienza. I platonici invece, e per questo li riteniamo superiori agli altri, hanno distinto l'oggetto della intelligenza da quello della sensazione senza sottrarre ai sensi la loro capacità e senza assegnarne loro al di là delle loro possibilità. Hanno affermato poi che luce del pensiero per conoscere tutte le cose è lo stesso Dio da cui tutte le cose sono state prodotte 24.

Dio bene sommo nell'etica.
8.
Rimane la parte morale che con termine greco chiamano etica. Con essa si ricerca sul sommo bene affinché riferendo ad esso tutte le nostre azioni, desiderando e raggiungendo il bene che non si vuole in vista di un altro ma per se stesso, non ne cerchiamo un altro per esser felici. Perciò è stato detto anche fine appunto perché per esso desideriamo tutti gli altri beni ed esso soltanto per se stesso. Alcuni hanno detto che questo bene beatificante per l'uomo è dal corpo, altri dallo spirito e altri dall'uno e dall'altro 25. Consideravano infatti che l'uomo è composto di anima e di corpo e quindi ritenevano che il loro bene derivasse o da uno dei due o da entrambi in un finale sommo bene con cui esser felici, a cui rapportare tutte le loro azioni e per non cercare ancora un altro fine a cui rapportarlo. Pertanto coloro che stando alla storia hanno aggiunto una terza categoria di beni, che è denominata estrinseca, come ad esempio l'onore, la gloria, la ricchezza e simili, non l'hanno aggiunta come finale, cioè come oggetto di desiderio per se stessa ma in vista di un'altra; ritenevano perciò che questa categoria è un bene per i buoni e un male per i malvagi 26. Quindi quelli che hanno affidato il bene dell'uomo o allo spirito o al corpo o a entrambi, hanno affermato che si deve ricercarlo esclusivamente nell'uomo, con la differenza che coloro i quali l'hanno affidato al corpo l'hanno riposto nella parte meno perfetta dell'uomo; coloro che nello spirito, nella parte più perfetta e coloro che in entrambi, in tutto l'uomo. Comunque sia che in una delle due parti, sia che nell'intero, sempre nel l'uomo. Le differenze sono tre ma non per questo hanno dato origine a tre ma a molti dissensi e sètte filosofiche. I vari filosofi appunto hanno sostenuto differenti opinioni sul bene del corpo, sul bene dello spirito e sul bene di entrambi. Tutti dunque devono piegarsi a quei filosofi che non hanno considerato felice l'uomo perché si placa nel corpo o nello spirito ma perché si placa in Dio, non come lo spirito nel corpo o in se stesso o un amico nell'amico ma come l'occhio nella luce. E ciò posto che si possa addurre un'analogia dalle cose visibili alle intelligibili. Nei limiti consentitimi sarà spiegata a suo luogo, se Dio mi aiuterà, la condizione di quello stato. Per adesso è sufficiente ricordare che, secondo l'indicazione di Platone, fine del bene è vivere secondo virtù e che esso si ottiene soltanto da chi conosce e imita il dio e che soltanto per questa ragione è felice. Perciò Platone non esita ad affermare che filosofare è amare il dio il cui essere sia immateriale. Se ne deduce che chi si applica alla sapienza, perché questo è il filosofo, diviene felice quando comincerà a placarsi nel dio. Con questo non s'intende dire che è necessariamente felice chi si placa nell'oggetto amato. Molti infatti amando oggetti che non si devono amare sono infelici e più infelici ancora quando in essi si soddisfano. Tuttavia non si è felici se non ci si placa nell'oggetto amato. Anche coloro infatti che amano cose che amar non si debbono non credono di esser felici con l'amare ma col placarsi. Dunque soltanto il più infelice degli uomini può negare che è felice colui che si placa nell'oggetto amato amando il vero e sommo bene. Ora Platone considera il dio il vero e sommo bene e da ciò deduce che il filosofo è amatore del dio. Quindi, giacché la filosofia tende alla felicità, chi amerà Dio è felice perché in lui si placa.

Universalismo di certi principi filosofici.
9.
Per quanto riguarda dunque il sommo e vero Dio vi sono filosofi i quali hanno ritenuto che egli è l'autore del creato, la luce della conoscenza, il bene dell'azione e che da lui abbiamo ricevuto il principio dell'essere, la verità del sapere e la felicità del vivere. Più propriamente sono detti platonici, o anche altri, qualunque denominazione diano alla propria setta. Possono essere soltanto i più eminenti fra quelli della scuola ionica che abbiano sostenuto questa dottrina, come lo stesso Platone e quelli che lo hanno ben capito o anche i filosofi della scuola italica che la sostennero sull'autorità di Pitagora e dei pitagorici ed altri oriundi di là che furono della medesima opinione. Possono trovarsene alcuni anche di altre nazioni che furono considerati saggi o filosofi e che ebbero questa concezione e dottrina, siano essi Mauritani o Libici, Egiziani, Indiani, Persiani, Caldei, Sciti, Galli, Spagnuoli. Noi li consideriamo migliori degli altri e confessiamo che sono più vicini a noi cristiani.

Paolo e la sapienza umana.
10.
1. Sebbene infatti il cristiano, istruito soltanto nelle Scritture ecclesiastiche ignori forse il nome dei platonici e non sappia che nella letteratura greca vi sono state due scuole di filosofi, gli ionici e gli italici, non è tuttavia così insensibile ai fatti del mondo da non sapere che i filosofi professano l'applicazione alla sapienza o la sapienza stessa. Comunque si guarda bene da coloro che fanno filosofia secondo i principi di questo mondo e non secondo Dio da cui è stato creato il mondo. È messo in guardia infatti dall'avvertimento dell'Apostolo e dà retta a ciò che è stato detto: State attenti che qualcuno non v'inganni mediante la filosofia e il vano convincimento secondo i principi di questo mondo 27. Poi per non supporre che siano tutti eguali, ascolta quello che di alcuni filosofi dal medesimo Apostolo vien detto: In loro è manifesto ciò che di Dio si può conoscere perché Dio lo ha loro manifestato. Infatti fin dall'origine del mondo i suoi invisibili attributi si scorgono col pensiero attraverso il creato, ed anche l'eterna sua potenza e divinità 28. Nel parlare agli Ateniesi, avendo espresso un grande concetto su Dio, che ben pochi potevano capire, e cioè che in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, soggiunse: Come hanno affermato anche alcuni dei vostri 29. Il cristiano sa guardarsi da loro anche nei punti in cui hanno errato. Infatti nel passo in cui è stato detto che Dio ha fatto loro scorgere mediante l'intelletto i propri invisibili attributi attraverso il creato, è stato anche detto che essi non hanno adorato rettamente Dio perché hanno offerto sconvenientemente ad altri oggetti gli onori divini soltanto a lui dovuti: Sebbene conoscessero Dio non gli hanno dato lode e rendimento di grazie come a Dio ma si smarrirono nei propri pensieri e il loro stolto sentimento si offuscò. Sebbene affermassero di essere sapienti, divennero insipienti e scambiarono la gloria di Dio indefettibile nella figurazione dell'idolo defettibile di uomo, di uccelli, di quadrupedi e di serpenti 30. Con queste parole indicò i Romani, i Greci e gli Egiziani che si sono vantati del titolo della sapienza. Ma con essi tratteremo in seguito sull'argomento. Comunque noi cristiani li consideriamo superiori agli altri in quanto sono d'accordo con noi sulla dottrina di un solo Dio, autore dell'universo, non solo immateriale perché trascende tutti gli esseri materiali ma anche indefettibile perché trascende tutte le anime, nostro principio, nostra luce, nostro bene.

Le due sapienze umana e cristiana.
10.
2. Ma diamo l'ipotesi che un cristiano, per il fatto che ignora i loro scritti, non usi in una discussione la loro terminologia perché non la conosce, e cioè non chiami in latino naturale o in greco fisica la parte in cui si discute la ricerca sulla natura, razionale o logica la parte in cui si pone il problema del modo con cui si può affermare con certezza la verità, morale o etica la parte in cui si tratta della norma morale prescrittiva del bene e proibitiva del male. Ma non per questo ignora che da Dio uno, vero, ottimo ci è stato dato l'essere naturale col quale siamo stati creati a sua immagine, il sapere col quale possiamo conoscere lui e noi stessi, la grazia con la quale unendoci a lui diveniamo felici. Questo quindi è il motivo per cui riteniamo i platonici superiori agli altri, e cioè perché, mentre gli altri filosofi hanno sprecato ingegno e fatica nella ricerca dei principi delle cose e della norma del conoscere e del vivere, costoro con la conoscenza di Dio trovarono l'essere in cui è la causa dell'origine dell'universo, la luce per conoscere con certezza la verità e la sorgente in cui dissetarsi con la felicità. Siano dunque i platonici oppure altri filosofi di qualsiasi nazione che affermino questa dottrina, l'affermano assieme a noi. Ma abbiamo preferito trattare l'argomento con i platonici perché i loro scritti sono più conosciuti. Infatti i Greci, la cui lingua è la più diffusa fra i vari popoli, hanno esaltato i loro scritti con grandi lodi e i Latini, spinti dal loro pregio e fama, li hanno letti con entusiasmo e traducendoli nella nostra lingua, li hanno resi più noti e illustri.

Incontro fra le due sapienze nella storia.
11.
Alcuni individui, uniti a noi nella grazia di Cristo, si meravigliano, quando apprendono o leggono Platone, che egli abbia sostenuto una tale dottrina su Dio, perché riconoscono che è molto simile alla verità della nostra religione. Pertanto qualcuno ha supposto che quando si recò in Egitto sia stato discepolo del profeta Geremia o che durante quel soggiorno abbia letto le profetiche Scritture 31. Ho esposto la loro opinione in alcuni miei libri 32. Ma il computo esatto del tempo che è contenuto nella cronologia indica che Platone nacque circa cento anni dopo il periodo in cui Geremia scrisse la propria profezia. Ora Platone visse ottantuno anni. E dall'anno della sua morte fino al tempo in cui Tolomeo re di Egitto fece venire dalla Giudea le Scritture profetiche del popolo ebraico e le fece tradurre, per tenerle con sé, dai Settanta ebrei che conoscevano anche la lingua greca, passano circa sessanta anni. Perciò durante quel suo viaggio Platone non poté conoscere Geremia perché morto da tanto tempo e non poté leggere le Scritture perché non erano ancora state tradotte nella lingua greca che egli conosceva. Si eccettua il caso, giacché era molto assiduo al lavoro, che mediante un interprete venne a conoscenza delle Scritture ebraiche come era venuto a conoscenza di quelle egiziane. Comunque non ebbe l'intento di tradurle in iscritto, perché si narra 33 che Tolomeo, il quale poteva anche esser temuto a causa del potere regale, ottenne di farle tradurre per segnalato favore; ma Platone voleva venire a conoscenza, per quanto poteva comprenderle, del loro contenuto mediante un colloquio. Sembra che a convalidare l'ipotesi induca l'indicazione che il libro della Genesi comincia con queste parole: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era invisibile e informe e le tenebre erano sull'abisso e lo spirito di Dio si librava sull'acqua 34. Ora Platone nel Timeo, il libro che ha scritto sull'origine del mondo, afferma che Dio nel creare unì la terra e il fuoco. Ed è chiaro che egli assegna al fuoco la sfera del cielo 35. Dunque questo pensiero ha una certa somiglianza con quello delle parole: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Poi chiama aria e acqua i due elementi mediani, con la cui interposizione fossero uniti i due estremi 36; perciò si ritiene 37 che interpretò in questo senso le parole Lo spirito di Dio si librava sull'acqua. Non sapendo infatti in qual senso la Scrittura abitualmente parli dello Spirito di Dio, giacché anche l'aria si chiama spirito, può aver ritenuto, come sembra, che in quel passo fossero indicati i quattro elementi. Inoltre Platone afferma che il filosofo è amatore di Dio 38 ed è il motivo che emerge con più vigore dalle Scritture sacre. E soprattutto ve n'è un altro ed è quello che fra tutti quasi convince anche me ad ammettere che Platone non fu ignaro di quei libri. A Mosè vengono riferite mediante un angelo le parole di Dio; e poiché egli chiede qual sia il nome di colui che gli comanda di recarsi dal popolo ebraico che doveva essere liberato dall'Egitto, gli viene risposto: Io sono Chi sono e dirai ai figli d'Israele: Chi è mi ha mandato da voi 39. Appare che, nel confronto con l'essere che esiste nella sua ideale verità, perché non diviene, le cose poste nel divenire non esistano. E Platone ha sostenuto con vivace dialettica questa dottrina e l'ha insegnata con costanza 40. Non so però se essa si trova in qualche parte dei libri di coloro che furono prima di Platone se si esclude il passo: Io sono Chi sono; dirai loro: Chi è mi ha mandato da voi.

Platone e la tradizione filosofica.
12.
Ma non ha importanza dove l'abbia appresa, o nei libri scritti prima di lui dagli antichi, o piuttosto, come dice l'Apostolo perché ciò che di Dio si può conoscere era in loro manifesto; Dio infatti lo manifestò loro, perché fin dall'origine del mondo i suoi attributi invisibili si scorgono mediante il pensiero attraverso il creato, ed anche la sua eterna potenza e divinità 41. Finora ho chiarito sufficientemente, come ritengo, che giustamente ho scelto i platonici con cui trattare l'argomento di teologia naturale, relativo al problema, che abbiamo iniziato a discutere, se cioè in vista della felicità che si avrà dopo la morte è opportuno compiere riti a uno ovvero a più dèi. Ho preferito loro perché sono considerati tanto più gloriosi e illustri degli altri quanto più degnamente hanno pensato dell'unico Dio che ha creato il cielo e la terra. Basti dire che Aristotele, discepolo di Platone, uomo di grande ingegno, inferiore comunque al maestro per lo stile, ma superiore di gran lunga agli altri, fondò la scuola dei peripatetici, così detti perché era solito disputare passeggiando. Essendo molto celebre attirò, mentre ancora viveva il maestro, moltissimi discepoli alla propria dottrina; così dopo la morte di Platone, Speusippo, figlio della sorella di lui, e Senocrate, suo discepolo prediletto, furono i continuatori della sua scuola che si chiamava Accademia e perciò essi e i loro successori furono chiamati accademici. Eppure i più illustri filosofi recenti, che scelsero di seguire Platone, non vollero essere chiamati né peripatetici né accademici ma platonici. Di essi sono giunti a grande fama fra i Greci Plotino, Giamblico e Porfirio e nell'una e nell'altra lingua, cioè greca e latina, si è avuto un celebre platonico l'africano Apuleio. Ma tutti costoro e gli altri di questa scuola e perfino Platone ritennero che si dovessero tributare riti sacri a più dèi.

Il politeismo nella dottrina di Apuleio (13-22)

Divinità buone e cattive.
13.
Sebbene dunque dissentano da noi anche in molti altri importanti argomenti, tuttavia per prima cosa chiedo a loro in relazione all'argomento che ora ho esposto, anche perché non è di poco conto e di esso ora si discute, a quali dèi ritengono che si deve tributare il culto, a quelli buoni o ai cattivi oppure ai buoni e ai cattivi. Ma abbiamo in proposito il pensiero di Platone il quale afferma che tutti gli dèi sono buoni e che non vi può essere un dio cattivo 42. Logicamente quindi si deve intendere che i riti siano tributati a dèi buoni; infatti si offrono a dèi, perché non sarebbero neanche dèi se fossero cattivi. Se è così, giacché non è conveniente pensare diversamente degli dèi, diventa un non senso l'opinione di coloro i quali ritengono che gli dèi cattivi si devono placare con i riti sacri affinché non facciano del male e che i buoni si devono invocare affinché aiutino 43. Infatti non esistono dèi cattivi e soltanto ai buoni, dicono i platonici, si deve tributare l'onore dei riti sacri. Di quale tempra sono dunque quelli che amano gli spettacoli teatrali ed esigono che siano integrati nella religione e tributati in loro onore? La loro prepotenza dichiara che non sono inesistenti e certamente la loro richiesta li dichiara cattivi. È noto il pensiero di Platone sulle rappresentazioni teatrali. Egli sancisce che i poeti, se hanno composto poesie indegne della somma bontà degli dèi, siano esclusi dalla città 44. Di qual tempra sono dunque questi dèi che in merito agli spettacoli teatrali sono in lizza con lo stesso Platone? Egli non tollera che gli dèi siano oltraggiati con false colpe; essi invece ordinano che con quelle colpe siano celebrate le proprie feste. Inoltre quando gli dèi comandarono che fossero istituiti gli spettacoli, oltre a chiedere delle oscenità, compirono anche atti malvagi. Tolsero infatti un figlio a Tito Latinio e mandarono a lui un'infermità perché aveva resistito al loro comando e gliela guarirono quando obbedì agli ordini 45. Platone invece pensa che non si devono temere come malvagi, ma ritenendo con coerenza la linea del proprio pensiero non dubita di escludere da una società ben ordinata tutte le frottole blasfeme dei poeti, delle quali gli dèi si beano per associazione nell'oscenità. Ora Labeone pone Platone fra i semidèi. Ne ho parlato già nel secondo libro 46. Ma questo Labeone pensa che le divinità cattive si devono propiziare con vittime cruente e riti simili, le buone invece con gli spettacoli e altri riti che in certo senso hanno relazione con la gioia 47. E come mai allora il semidio Platone osa sottrarre con tanta fermezza non a semidei ma a dèi e per di più buoni quelle soddisfazioni perché le giudica disoneste?

Ma gli dèi respingono il parere di Labeone perché in Latinio non si mostrarono soltanto dissoluti e amanti degli spettacoli ma anche crudeli e spietati. Ci spieghino dunque questi concetti i platonici i quali ritengono, stando al pensiero del loro maestro, che tutti gli dèi sono buoni, onesti e partecipi delle virtù dei saggi e giudicano inammissibile pensar diversamente di qualcuno degli dèi. Li spieghiamo, dicono. Dunque seguiamo con attenzione.

Demonologia classica.
14.
1. Si dà, dicono i platonici, una tripartizione di tutti i viventi che hanno l'anima ragionevole, cioè in dèi, uomini e demoni. Gli dèi occupano la sfera più alta, gli uomini la più bassa, i demoni quella di mezzo. Infatti la sede degli dèi è nel cielo, degli uomini in terra, dei demoni nell'aria. Come hanno una differente dignità della sfera, così anche dell'essere. Perciò gli dèi sono superiori ai demoni e agli uomini, gli uomini sono posti sotto agli dèi e ai demoni tanto nel grado degli elementi come per differenza di perfezioni. Quindi i demoni sono al mezzo e come sono da considerare inferiori agli dèi perché hanno dimora al di sotto di essi, così sono da considerare superiori agli uomini perché hanno dimora al di sopra. Hanno infatti comune con gli dèi l'immortalità del corpo e con gli uomini le passioni dello spirito. Quindi non c'è da meravigliarsi, dicono 48, se godono dell'oscenità degli spettacoli e delle favole dei poeti, perché sono soggetti alle inclinazioni umane mentre gli dèi ne sono ben lontani e immuni in tutti i sensi. Se ne conclude che Platone, riprovando e proibendo le favole poetiche, non privò del piacere degli spettacoli teatrali gli dèi, che sono tutti buoni ed eccelsi, ma i demoni.

Apuleio e il demone socratico.
14.
2. Supponiamo che le cose stiano così. Comunque sebbene questi concetti si trovino anche presso altri, tuttavia il platonico Apuleio di Madaura su questo unico argomento ha scritto un libro che volle intitolare Il dio di Socrate. In esso discute e spiega di qual tipo di divinità fosse il dio legato a Socrate e reso benevolo per una certa amicizia, perché, come si narra, da lui era abitualmente avvertito che desistesse dall'agire se l'azione che doveva compiere non avesse avuto un esito favorevole. E nel trattare il pensiero di Platone sul supremo grado degli dèi, l'infimo degli uomini e il medio dei demoni afferma apertamente e dimostra esaurientemente che non era un dio ma un demone 49. Ma poniamo che le cose stiano così. E allora come ha potuto osare Platone, esigendo che i poeti fossero cacciati dalla città, sottrarre le gioie del teatro, non dico agli dèi che ritenne immuni dall'umana passionalità ma certamente ai demoni? Si spiega soltanto nel senso che volle ammonire la coscienza umana, sebbene posta ancora in un corpo destinato a morire, di trascurare gli ordini impuri dei demoni e di esecrare la loro dissolutezza in considerazione del valore dell'onestà. Infatti se Platone onestamente ha criticato e proibito le favole poetiche, i demoni certo molto disonestamente le hanno richieste e ordinate. Dunque si sbaglia Apuleio perché l'amico che ebbe Socrate non era di questa categoria di divinità; oppure si contraddice Platone ora onorando i demoni ora escludendo dallo Stato eticamente sano i loro divertimenti; o anche l'amicizia di Socrate per il demone non merita lode. Apuleio stesso ha ritegno a parlare di tale amicizia al punto da intitolare il libro Il dio di Socrate, perché stando alla sua tesi con cui criticamente ed esaurientemente distingue gli dèi dai demoni non lo avrebbe dovuto denominare il dio ma il demone di Socrate. Ma preferì inserire il concetto nel contesto anziché nel titolo del libro. Infatti mediante la sana dottrina che ha gettato luce sulla cultura tutti o quasi tutti aborriscono il nome dei demoni al punto che prima della teoria di Apuleio, con cui si difende la dignità dei demoni, chiunque leggeva il titolo di un libro sul demone di Socrate pensava che egli non fosse normale. E in definitiva lo stesso Apuleio che cosa ha trovato da lodare nei demoni fuori della sottilità e impassibilità del corpo e la sfera più alta della dimora? Dei loro costumi, parlando in generale di tutti, non ha detto niente di bene ma piuttosto parecchio di male. Inoltre nessuno si meraviglia, dopo aver letto il suo libro, che essi abbiano voluto avere nel culto religioso anche la dissolutezza del teatro, che abbiano potuto dilettarsi delle colpe degli dèi giacché pretendono di essere considerati tali, e infine che tutto ciò che nei loro misteri per oscena rappresentazione o per turpe crudeltà muove al riso o al raccapriccio è in linea con le loro inclinazioni.

La perfezione fisica in uomini viventi e...
15.
1. Per la qual cosa una coscienza veramente religiosa e sottomessa al vero Dio, nel considerare questi fatti, non può assolutamente ritenere che i demoni sono più perfetti di lei perché hanno un corpo più perfetto. Altrimenti dovrà considerare più perfette di sé anche molte bestie che ci superano per l'acutezza dei sensi, per il movimento estremamente agile, per il vigore delle forze e per la lunga vitalità dell'organismo. Nessun uomo si può eguagliare nella vista alle aquile e agli avvoltoi, nell'odorato ai cani, nella velocità alle lepri, ai cervi e a tutti gli uccelli, nella forza straordinaria ai leoni e agli elefanti, nella longevità ai serpenti, dei quali si dice che deposte le squame depongono la vecchiaia e tornano alla giovinezza 50. Ma come siamo più perfetti di esse perché ragioniamo e pensiamo, così vivendo moralmente dobbiamo essere più perfetti dei demoni. Per questo appunto dalla provvidenza divina sono state date alle bestie, delle quali noi siamo certamente migliori, alcune doti fisiche più perfette, affinché anche in questa maniera ci fosse inculcato che la facoltà, per cui noi siamo più perfetti, si educhi con molto maggiore attenzione che il corpo. Per lo stesso motivo dobbiamo apprendere a valutare di meno la maggiore perfezione fisica, che dobbiamo riconoscere ai demoni, nel confronto con la perfezione morale con cui siamo loro superiori, perché conseguiremo anche noi l'immortalità dei corpi, non quella che è tormentata dall'eternità delle pene ma quella che è anticipata dalla purezza dello spirito.

...spirituale in dèmoni e uomimi.
15.
2. Ed è proprio ridicolo il preoccuparsi della superiorità della sfera. I demoni hanno dimora nell'aria e noi sulla terra, e per questo li consideriamo a noi superiori. Con questo criterio riteniamo superiori a noi tutti i volatili. Ma, obiettano essi, quando si affaticano nel volare o devono refocillare il corpo col cibo, tornano a terra per riposarsi o per nutrirsi, i demoni invece non lo fanno. Vogliono dire forse che come i volatili sono superiori a noi, così i demoni lo sono anche ai volatili? È proprio da pazzi il pensarlo. Non v'è quindi ragione di ritenere i demoni spiritualmente perfetti in base alla dimora in un elemento più alto al punto da doverci sottomettere a loro col vincolo della religione. Non è assurdo che gli animali i quali volano nell'aria non solo non siano considerati superiori a noi ma anche soggetti in virtù dell'anima ragionevole che è in noi. Così non è assurdo che i demoni, quantunque più aerei, non siano più perfetti di noi terrestri, sebbene l'aria sia in una sfera più alta della terra. Gli uomini sono da considerarsi più perfetti, perché la disperazione dei demoni non si deve assolutamente porre in confronto con la speranza dei credenti. C'è a proposito la teoria di Platone, con la quale egli dispone i quattro elementi collegandoli in una proporzione mediante l'interposizione ai due estremi, il fuoco mobilissimo e la terra immobile, dei due medi, l'aria e l'acqua 51. Così quanto l'aria è più perfetta dell'acqua e il fuoco dell'aria, tanto l'acqua è più perfetta della terra. Ma questa teoria ci inculca appunto che le perfezioni dei viventi non si devono calcolare sulla base della posizione degli elementi. Lo stesso Apuleio considera l'uomo un animale terrestre assieme agli altri. Eppure l'uomo è considerato molto più perfetto degli animali acquatici, sebbene Platone ritenga l'acqua più perfetta della terra 52. Possiamo comprendere così che, quando si tratta delle perfezioni delle anime, non si deve usare il medesimo criterio che si usa nella posizione dei corpi ma può avvenire che un'anima più perfetta dimori in un corpo più basso e una meno perfetta in un corpo più alto.

Caratteri dei dèmoni in Apuleio.
16.
Il citato Apuleio, parlando del comportamento dei demoni, ha affermato che sono mossi dalle medesime passioni da cui sono mossi gli uomini e cioè che sono irritati dalle offese, placati da omaggi e doni, rallegrati dagli onori, lusingati dai diversi riti misterici e si turbano se viene trascurata qualche pratica che li riguarda 53. Fra le altre cose dice anche che sono di loro competenza le divinazioni degli auguri, degli aruspici, degli indovini e dei sogni e anche le pratiche sorprendenti dei maghi 54. Delineandone brevemente la figura, dice che i demoni sono per genere viventi, nell'animo soggetti a passioni, per mente ragionevoli, per corpo aeriformi, per esistenza eterni, che hanno le tre prime caratteristiche comuni con noi, la quarta particolare, la quinta comune con gli dèi 55. Ma noto che delle prime tre che hanno in comune con noi, due ne hanno in comune anche con gli dèi. Egli dice infatti che sono viventi e dèi e nel distribuire a ciascun essere i propri elementi ha posto fra i viventi terrestri noi assieme agli altri che hanno vita e senso sulla terra, fra gli acquatici i pesci e gli altri che nuotano, fra gli aeriformi i demoni, fra gli eterei gli dèi. Perciò che i demoni siano viventi per genere, lo hanno in comune non solo con gli uomini ma anche con gli dèi e le bestie; che per mente siano ragionevoli, lo hanno in comune con gli dèi e gli uomini; che siano eterni nell'esistenza soltanto con gli dèi; che nello spirito siano soggetti a passioni, soltanto con gli uomini; da soli sono aerei nel corpo. Pertanto che per genere siano viventi non è una grande perfezione perché lo sono anche le bestie; che per mente siano ragionevoli non è un grado sopra di noi perché lo siamo anche noi; che siano eterni non è un bene se non sono beati. È meglio una felicità temporale che una eternità infelice. Che nell'animo siano soggetti a passioni non è un grado sopra di noi, giacché anche noi lo siamo e non sarebbe così se non fossimo infelici. Non si deve poi valutar molto che nel corpo siano aerei, poiché qualsiasi anima è da considerarsi più perfetta di qualsiasi corpo. Perciò il culto religioso, che deve provenire dallo spirito, non si deve assolutamente a un essere che è inferiore allo spirito. Inoltre se Apuleio fra le doti che afferma di competenza dei demoni enumerasse la virtù, la sapienza, la felicità e affermasse che le hanno eternamente comuni con gli dèi, parlerebbe di un bene da desiderarsi e da tenere in grande considerazione. Comunque anche in questa ipotesi non dovremmo adorarli come Dio in virtù di questi beni ma lui piuttosto, perché dovremmo riconoscere che li hanno ricevuti da lui. A più forte ragione non sono degni di onore divino viventi aerei che sono ragionevoli affinché sia possibile la loro infelicità, soggetti alle passioni perché di fatto siano infelici, eterni perché sia possibile la loro infelicità senza fine.

Contro la demonologia dèmoni: soggetti alle passioni...
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1. Ma tralascio il resto e tratto soltanto della caratteristica che secondo Apuleio i demoni hanno in comune con noi, cioè le passioni dello spirito. Se dunque tutti e quattro gli elementi sono riempiti dai rispettivi viventi, il fuoco e l'aria da quelli immortali, l'acqua e la terra da quelli mortali, chiedo per quale motivo lo spirito dei demoni è agitato dai turbamenti e dalle tempeste delle passioni. La perturbazione in greco si dice e per questo Apuleio ha pensato di chiamare i demoni passivi nello spirito, perché passione deriva etimologicamente da . Ed essa è un movimento spirituale contro la ragione 56. Perché dunque vi sono passioni nello spirito dei demoni mentre non si hanno nelle bestie? Se nella bestia si manifesta qualcosa di simile non è una perturbazione, perché non è contro la ragione, di cui le bestie sono prive. E sono l'insipienza e la soggezione al male a far sì che insorgano negli uomini questi perturbamenti, perché non siamo ancora felici nella pienezza della sapienza che ci è promessa nel fine quando saremo liberati dalla mortalità. I platonici dicono appunto che gli dèi non sono soggetti a queste perturbazioni perché non sono soltanto eterni ma anche felici. Insegnano infatti che anche essi hanno come noi anime ragionevoli ma perfettamente immuni da ogni soggezione alla passione 57. Ora gli dèi non sono soggetti alla passione perché sono viventi felici e non infelici, le bestie non sono soggette perché sono viventi che non possono essere né felici né infelici. Rimane dunque che i demoni come pure gli uomini siano soggetti alla passione perché sono viventi non felici ma infelici.

...da cui ci libera la religione.
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2. Per quale dissennatezza dunque o piuttosto forsennatezza dovremmo renderci schiavi mediante una religione ai demoni, quando mediante la vera religione siamo liberati dall'imperfezione in cui siamo loro simili? I demoni infatti sono mossi all'ira, è costretto ad ammetterlo lo stesso Apuleio, sebbene li scusi e li ritenga degni degli onori divini 58; a noi invece la vera religione comanda di non essere dominati dall'ira ma piuttosto di resisterle 59. Mentre i demoni sono blanditi dai doni, a noi la vera religione comanda di non favorire alcuno dietro accettazione di doni 60. Mentre i demoni sono allettati dagli onori, a noi la vera religione comanda di non lasciarci in alcuna maniera attirare da essi 61. Mentre i demoni sono nemici di alcuni uomini ed amici di altri non in base a una valutazione prudente e serena ma per spirito che Apuleio considera passionale, a noi la vera religione comanda di amare perfino i nostri nemici 62. Infine la vera religione ci ordina di superare ogni tumulto del cuore e ogni agitazione del pensiero e tutti i turbamenti e tempeste dello spirito 63 da cui, secondo Apuleio 64, sono furiosamente agitati i demoni. Quale motivo v'è dunque, se non una insipienza ed errore miserevole, di renderti schiavo col culto a uno da cui desideri esser diverso nella condotta e di adorare con la religione uno che ti rifiuti d'imitare, quando l'assenza della religione è imitare l'essere che adori?

Contro la demonologia: mediazione con arti magiche.
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Assurdamente dunque Apuleio e tutti coloro che la pensano come lui li hanno ritenuti degni di onore perché li hanno collocati nell'aria, in mezzo al cielo etereo e alla terra. Infatti poiché nessun dio comunica direttamente con l'uomo, e questa secondo la loro tradizione è dottrina di Platone 65, i demoni presentano agli dèi le preghiere degli uomini e da essi recano agli uomini i favori richiesti. I sostenitori di questa dottrina ritennero sconveniente che gli uomini comunichino con gli dèi e gli dèi con gli uomini, conveniente che i demoni comunichino con gli dèi e gli uomini per esporre dal basso le richieste e per esser latori dall'alto dei benefici accordati. In tal modo l'uomo pio e alieno dalle pratiche disoneste delle arti magiche dovrebbe invocarli come intercessori per farsi ascoltare dagli dèi; eppure essi amano queste pratiche mentre egli, che mediante esse dovrebbe essere esaudito più facilmente e benevolmente, non amandole diviene più virtuoso. I demoni amano le oscenità degli spettacoli che l'illibatezza non può amare, amano le mille arti del nuocere 66 che la volontà di non nuocere non può amare. Dunque l'illibatezza e la volontà di non nuocere, se vorranno ottenere qualche cosa dagli dèi, non lo potranno per i propri pregi se non intervengono i loro nemici. E non v'è criterio per cui Apuleio possa giustificare le favole poetiche e le abominazioni teatrali. Abbiamo contro di esse Platone loro maestro che è di tanta autorità nella loro scuola, se l'umano pudore rende un servizio così indegno di sé non solo da amare le oscenità ma da ritenerle gradite alla divinità.

La magia condannata anche dal politeismo.
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Inoltre dovrò forse citare la pubblica opinione come testimone contro le arti magiche, dato che alcuni troppo disgraziati e troppo empi si compiacciono di menarne vanto? Per qual motivo infatti esse sono colpite tanto gravemente dalla severità delle leggi se sono opere di divinità degne di adorazione? O forse sono stati i cristiani a istituire le leggi con cui sono punite le arti magiche?. E solo nel senso che senza alcun dubbio i malefici sono disastrosi per l'umanità ha detto l'altissimo poeta: Prendo a testimoni gli dèi e te, o cara sorella, e la tua amata persona che di malavoglia ho fatto ricorso alle arti magiche 67. In un altro passo, parlando delle medesime arti, dice: Ho visto trasportare in altre parti le messi seminate 68, perché corre voce che con questa arte indegna e scellerata i prodotti di un tale sono trasportati nei terreni di un altro. E Cicerone ricorda che il reato era contemplato nelle Dodici Tavole, le più antiche leggi romane e che era stabilita una pena per il reo 69. E infine forse che Apuleio stesso è stato accusato di arti magiche presso giudici cristiani? E poiché gli erano state imputate a colpa, se le riconosceva consone alla religione e alla pietà e convenienti all'opera di esseri divini, non solo doveva ammetterle ma anche difenderle, incolpando piuttosto le leggi con cui erano proibite e giudicate degne di condanna mentre si dovevano ritenere degne di ammirazione e di rispetto. Così o avrebbe convinto i giudici della propria dottrina ovvero, se essi avessero deliberato secondo leggi inique e l'avessero condannato a morte in quanto elogiava altamente tali pratiche, i demoni avrebbero corrisposto degni doni alla sua anima perché non temeva che gli fosse tolta la vita a causa delle lodi per le opere divine. Hanno fatto così i nostri martiri quando s'imputava loro a delitto la religione cristiana perché sapevano che mediante essa conseguivano la salvezza e la gloria per l'eternità. Ed essi non hanno scelto di sfuggire le pene temporali negandola, ma hanno costretto piuttosto ad arrossire e a far mutare le leggi da cui era proibita confessandola, difendendola, elogiandola, sopportando tutto per essa con fedeltà e fortezza e morendo con religiosa serenità. Del nostro filosofo platonico rimane un lungo ed eloquente discorso con cui sostiene che gli è estraneo il delitto delle arti magiche e che non vuole apparire innocente se non respingendo l'accusa di atti che non possono essere commessi da un innocente. Ma tutte le opere meravigliose dei maghi, che giustamente ritiene degne di condanna, avvengono in base alle dottrine e interventi dei demoni. Dovrebbe quindi riflettere sul motivo per cui li ritiene degni di onore. Infatti da una parte afferma che sono indispensabili per presentare agli dèi le nostre preghiere e dall'altra che dobbiamo evitarne le opere se vogliamo che le nostre preghiere giungano al vero Dio. Chiedo inoltre quali preghiere, secondo lui, sono presentate agli dèi mediante i demoni, le magiche o le lecite. Se le magiche, non le accettano di quel tipo; se le lecite, non le accettano da intermediari di quel tipo. Poniamo che un peccatore pentito preghi soprattutto se ha esercitato qualche pratica magica. Forse che certamente non riceve il perdono per la loro intercessione, dato che piange di essere caduto in colpa appunto perché essi ve lo hanno spinto o aiutato; ovvero anche i demoni per meritare l'indulgenza ai penitenti, premettono il proprio pentimento per averli ingannati? Questo non è stato mai detto dei demoni perché, nell'ipotesi, non oserebbero mai arrogarsi diritti divini se desiderassero far parte della grazia del perdono. In quel caso si ha una superbia meritevole di sprezzo, in questo una umiltà meritevole di compassione.

Assurdo etico-religioso della mediazione demoniaca.
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Un principio condizionante e determinante, dicono i platonici, costringe i demoni ad agire da intermediari fra dèi e uomini, sicché dagli uomini portano le richieste e dagli dèi riportano i favori accordati 70. E quale sarebbe, prego, questo principio e una così grave determinatezza? Nessun dio, rispondono, comunica direttamente con l'uomo. Dunque la sublime santità di Dio non comunica con l'uomo che si umilia nella preghiera e comunica col demone che inorgoglisce, non comunica con l'uomo che si pente e comunica col demone che lo inganna, non comunica con l'uomo che ricorre alla divinità e comunica col demone che scimmiotta la divinità, non comunica con l'uomo che chiede il perdono e comunica col demone che suggerisce l'immoralità, non comunica con l'uomo che mediante i libri di filosofia fa espellere i poeti da uno Stato eticamente ordinato e comunica col demone che chiede ai capi civili e religiosi dello Stato le beffe oscene dei poeti mediante gli spettacoli teatrali, non comunica con l'uomo che proibisce di favoleggiare sulle colpe degli dèi e comunica col demone che si diverte con le false colpe degli dèi, non comunica con l'uomo che punisce con giuste leggi le pratiche delittuose dei maghi e comunica col demone che insegna e compie le pratiche magiche, non comunica con l'uomo che rifugge dall'imitare il demone e comunica col demone che intriga per ingannare l'uomo.

Assurdo metafisico della mediazione demoniaca.
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1. Ma in verità v'è una condizione ineluttabile di un fatto così assurdo e indegno, cioè che gli dèi, i quali sono eterei e comunque provvedono alle cose umane, non conoscerebbero ciò che gli uomini in quanto terrestri fanno se non li informassero i demoni che sono aeriformi. L'etere è lontano dalla terra e confinato nell'alto mentre l'aria è contigua all'etere e alla terra. O ammirevole sapienza! Dunque degli dèi, che tutti ritengono ottimi, i platonici pensano soltanto che essi provvedono alle cose umane per non apparire immeritevoli dell'adorazione, ma che a causa della distanza degli elementi non conoscono le cose umane così che si devono ritenere indispensabili i demoni. Con questo sistema anche costoro sono ritenuti degni di adorazione perché per loro mezzo gli dèi possano apprendere quel che avviene nell'umanità e al caso soccorrere gli uomini. Se è così, agli dèi buoni è più noto il demone a causa della vicinanza del corpo che l'uomo a causa della bontà dell'animo. O dolorosa ineluttabilità o piuttosto ridicola e biasimevole insignificanza affinché non sia insignificante la divinità. Se infatti gli dèi col pensiero libero dagli impedimenti sensibili possono intuire il pensiero dell'uomo, non hanno bisogno allo scopo del messaggio dei demoni; se invece gli dèi, essendo eterei, percepiscono mediante il loro corpo i segni sensibili dei pensieri, come l'espressione del volto, il linguaggio e il movimento e da essi si rappresentano quel che anche i demoni potrebbero loro riferire, possono essere ingannati anche dalle menzogne dei demoni. Ma se è impossibile che la divinità degli dèi sia ingannata dai demoni, è impossibile anche che dalla medesima divinità sia ignorato ciò che facciamo.

...e assurdo teologico.
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2. Vorrei proprio che i platonici mi dicano se i demoni abbiano riferito agli dèi che Platone riprova le favole poetiche sulle colpe degli dèi e abbiano loro celato che essi le approvano; oppure se abbiano taciuto l'uno e l'altro e abbiano preferito che gli dèi siano all'oscuro dell'intera faccenda; oppure se abbiano loro indicato l'uno e l'altro, cioè tanto la religiosa prudenza di Platone verso gli dèi come la propria oltraggiosa passione contro di loro; oppure se abbiano voluto che fosse sconosciuta agli dèi la dottrina di Platone con la quale egli proibì che gli dèi fossero accusati di false colpe mediante l'empia licenza dei poeti, ma non si siano vergognati o non abbiano temuto di manifestare la propria perfidia che fa loro amare gli spettacoli teatrali in cui si rappresentano quei fatti indecorosi per gli dèi. I platonici scelgano una qualsiasi di queste quattro ipotesi e si accorgano che in ciascuna di esse pensano proprio male degli dèi buoni. Se infatti sceglieranno la prima, dovranno ammettere che non fu consentito a dèi buoni di trattare col buon Platone quando deprecava gli insulti contro di loro e di aver trattato con demoni malvagi quando gioivano sfrenatamente degli insulti contro di loro. Avveniva così che gli dèi buoni non potessero conoscere un uomo buono, perché posto in distanza, se non mediante demoni cattivi che egualmente non potevano conoscere anche se vicini. Ma poniamo che accolgano la seconda ipotesi e dicano che l'uno e l'altro fatto era occultato dai demoni, sicché gli dèi non conoscevano né la dottrina rispettosissima di Platone né il divertimento sacrilego dei demoni. Che cosa allora dei fatti umani gli dèi possono vantaggiosamente conoscere attraverso l'ambasceria dei demoni, quando non conoscono le dottrine che vengono proposte in onore di dèi buoni dalla pietà di uomini buoni contro l'immoralità di demoni malvagi? Se accoglieranno la terza ipotesi e cioè che agli dèi mediante il messaggio dei demoni furono note non solo la dottrina di Platone che proibiva gli insulti contro gli dèi, ma anche la malvagità dei demoni che gioiva degli insulti contro gli dèi, rispondano i platonici se questo è un recar messaggi o un insultare. E gli dèi ascoltano l'uno e l'altro fatto, ne vengono a conoscenza ma non solo non allontanano dalla propria presenza i demoni malvagi che desiderano e compiono azioni contrarie alla dignità degli dèi e alla pietà di Platone, anzi per mezzo di quei malvagi, perché vicini, fanno giungere doni al buon Platone che è lontano. Li ha così condizionati la meccanica disposizione degli elementi che è loro possibile incontrarsi con esseri dai quali sono infamati e non è loro possibile con quell'uomo che li difende, quantunque conoscano l'uno e l'altro fatto, perché non riescono a scambiare il peso dell'aria e della terra. La ipotesi che rimane, se vorranno accoglierla, è peggiore delle altre. È inconcepibile infatti che i demoni abbiano nascosto agli dèi le favole immorali dei poeti e le sconvenienti beffe dei teatri sugli dèi e l'ardente passione e inebriante piacere che essi ne traggono e poi abbiano taciuto che Platone ritenne, in base alla dignità filosofica, che esse si dovessero eliminare da uno Stato eticamente perfetto. In definitiva gli dèi buoni sarebbero costretti attraverso tali messaggeri a conoscere le malvagità dei pessimi, e non di altri ma dei messaggeri stessi, e non sarebbe loro consentito di conoscere la bontà dei filosofi opposta alla loro malvagità; eppure quella è per l'infamia degli dèi stessi, questa per il loro onore.

Il vero significato dei dèmoni.
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Dunque nessuna delle quattro ipotesi si può accogliere per non accettare una idea tanto indegna degli dèi contenuta in ognuna di esse. Rimane quindi che non si può credere ciò che Apuleio e tutti gli altri filosofi che hanno la medesima teoria tentano di dimostrare e cioè che i demoni sono di mezzo fra dèi e uomini come intermediari e interpreti, poiché dalla terra presenterebbero le nostre richieste e dall'alto riporterebbero i soccorsi degli dèi. Sono al contrario spiriti smaniosi di fare il male, completamente alieni dalla giustizia, tronfi di superbia, lividi d'invidia, astuti nell'inganno. Abitano, è vero, nell'aria, ma perché, cacciati dalla sublimità del cielo più alto, sono stati condannati a causa di una caduta senza ritorno a questo, come dire, carcere per loro conveniente. Per il fatto poi che l'aria ha la sfera superiore alla terra e all'acqua non sono superiori agli uomini in perfezioni. Questi anzi li superano di molto non certo perché hanno un corpo terreno ma se hanno, scegliendo il vero Dio in aiuto, una coscienza religiosa. Essi però dominano come prigionieri e schiavi molti che non sono degni della partecipazione alla vera religione e hanno convinto la maggior parte di costoro di esser dèi con fatti meravigliosi e false predizioni. Tuttavia non sono riusciti a persuadere di esser dèi alcuni individui che erano più attenti e perspicaci nell'intuire la loro immoralità; allora hanno dato ad intendere di essere intermediari e intercessori di favori fra gli dèi e gli uomini. Così alcuni individui ritennero di dover loro tributare per lo meno questo onore. Essi non credevano che fossero dèi perché sapevano che sono malvagi e ritenevano che tutti gli dèi fossero buoni, ma non osarono ritenerli completamente indegni dell'onore divino, soprattutto per non contrariare i cittadini dai quali, come essi osservavano, per inveterata superstizione si offriva il servizio mediante tanti riti sacri e templi.

Demonologia ermetica e cristianesimo (23-27)

Dèi creati dagli uomini secondo Ermes Trismegisto.
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1. Nei suoi scritti sostenne una diversa concezione su di loro l'egiziano Ermes denominato Trismegisto. Apuleio sostiene che non sono dèi ma quando afferma che si trovano in certo modo di mezzo fra dèi e uomini, sicché sembrano indispensabili agli uomini nel rapporto con gli dèi stessi, non disgiunge il loro culto dall'adorazione agli dèi superiori. Invece l'egiziano sostiene che alcuni dèi sono stati prodotti dal sommo Dio, altri dagli uomini.

Chi ascolta questo discorso come è stato formulato da me, pensa che si parli degli idoli perché sono opere delle mani degli uomini. Ma il Trismegisto afferma che gli idoli visibili e palpabili sono quasi il corpo degli dèi e che in esso sono presenti come ospiti alcuni spiriti capaci di far del male oppure di soddisfare determinati desideri di coloro dai quali sono loro deferiti gli onori divini e gli omaggi del culto. Produrre dèi significa secondo lui congiungere mediante una determinata arte gli spiriti invisibili agli oggetti visibili della materia corporea, in modo che siano come corpi animati assoggettati e idoli sottomessi a quegli spiriti; gli uomini avrebbero ricevuto questo grande e stupendo potere di creare dèi. Citerò le parole dell'Egiziano che sono state tradotte nella nostra lingua: E poiché ci si presenta il discorso sulla comune origine e sorte degli uomini e degli dèi, rifletti, o Asclepio, sullo straordinario potere dell'uomo. Come il Signore e Padre, cioè Dio l'essere sommo, è creatore degli dèi celesti, così l'uomo è artefice degli dèi che nella loro somiglianza con l'uomo sono conservati nei templi. E poco dopo soggiunge: L'umanità sempre memore della propria natura e origine persevera nell'imitazione della divinità. Perciò come il Padre e Signore ha creato eterni gli dèi affinché siano simili a lui, così l'umanità raffigura i suoi dèi nella somiglianza col proprio aspetto 71. A questo punto Asclepio, per il quale soprattutto parlava, lo interruppe con le parole: Parli delle statue o Trismegisto? Ed egli rispose: Sì, parlo delle statue o Asclepio, e sai tu il motivo per cui ne diffidi? Parlo delle statue animate che sono pienezza di senso e di spirito, che fanno grandi e meravigliose cose, delle statue che prevedono il futuro e lo preannunziano con gli oracoli, la divinazione, i sogni e molti altri mezzi, che producono le infermità degli uomini e le curano e generano il dolore e la gioia secondo i meriti. Ignori forse, o Asclepio, che l'Egitto è l'immagine del cielo oppure, e questo è più vero, il muoversi e il calarsi di tutte le cose che sono mosse secondo ordine nel cielo? E se si deve parlare con maggiore esattezza, il nostro paese è il tempio di tutto il mondo. E tuttavia poiché è opportuno che il saggio conosca in precedenza tutte le cose, non è conveniente che voi ignoriate la seguente verità: verrà un tempo quando apparirà che gli Egiziani hanno invano con mente devota adorato la divinità mediante una religione zelante e tutto il loro culto sacro sarà reso vano fino a cessare 72.

Ermes prevede la fine dell'idolatria...
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2. In seguito Ermes sviluppa ampiamente questo argomento, nel quale, come appare, predice il tempo in cui la religione cristiana tanto più efficacemente e liberamente, quanto è più veracemente santa, abbatterà tutte le fallaci finzioni per liberare, con la vera grazia del Salvatore, l'uomo dagli dèi creati dall'uomo e per renderlo sottomesso a quel Dio da cui è stato creato l'uomo. Ma Ermes, quando predice questi eventi, parla come sostenitore delle mistificazioni dei demoni e non parla esplicitamente della religione cristiana ma fa capire che sarebbero definitivamente eliminati i riti mediante la cui osservanza veniva conservata in Egitto la somiglianza col cielo. Quindi deplorando tali futuri avvenimenti li previene per così dire con un triste presentimento. Era uno di quelli, di cui parla l'Apostolo, che pur conoscendo Dio, non gli hanno dato lode e ringraziamento come a Dio ma si sono smarriti nei propri pensieri e si è accecato il loro cuore sciocco, perché ritenendo di esser sapienti sono divenuti stolti e hanno sostituito la gloria del Dio fuori della materia con la raffigurazione dell'uomo soggetto alla materia 73. Si aggiungano gli altri concetti che sarebbe lungo citare. Ermes infatti esprime secondo verità molte idee sull'unico vero Dio creatore del mondo. Non so proprio quindi come per l'accecamento del cuore decade al punto da volere che gli uomini siano sottomessi per sempre a dèi che per sua confessione sono stati fatti dagli uomini e deplori che nell'avvenire vengano aboliti quei riti, quasi che ci sia un essere più disgraziato dell'uomo se lo signoreggiano le proprie invenzioni. Al contrario è più verosimile che nell'adorare dèi che ha prodotto, egli stesso cessi di essere uomo, anziché diventino dèi mediante la sua adorazione esseri che ha prodotto l'uomo. Avviene infatti più facilmente che l'uomo, sebbene più perfetto, si adegui alle bestie 74 perché non usa l'intelligenza, anziché un'opera dell'uomo sia considerata superiore all'opera di Dio fatta a sua immagine, cioè l'uomo stesso. Pertanto l'uomo fa defezione da chi lo ha fatto quando fa superiore a sé ciò che egli ha fatto.

...ma non si converte.
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3. L'egiziano Ermes provava nostalgia per i riti falsi, ingannevoli, funesti e sacrileghi perché sapeva che sarebbe giunto un tempo in cui sarebbero stati aboliti, ma si rattristava da impudente perché da insensato ne era venuto a conoscenza. Infatti non glielo aveva rivelato lo Spirito Santo come ai santi profeti, i quali, prevedendo questi eventi, dicevano con esultanza: Se l'uomo farà degli dèi, essi non sono dèi 75, e in un altro passo: Sarà in quel giorno, dice il Signore, e io farò scomparire dalla terra i nomi degli idoli e non se ne avrà il ricordo 76. E proprio dell'Egitto, per quanto attiene all'argomento, dice il profeta Isaia: E saranno allontanati gli idoli dell'Egitto dal suo territorio e il cuore degli Egiziani proverà lo smarrimento 77. E così via. Simili ai profeti erano gli individui i quali godevano perché era venuto colui che essi sapevano sarebbe venuto, come Simeone e Anna che riconobbero Gesù appena nato 78, come Elisabetta la quale avvertì che era concepito nello Spirito 79, come Pietro che per rivelazione del Padre dice: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo 80. All'Egiziano invece indicarono che sarebbero venuti i tempi della loro rovina quegli spiriti i quali tremando dissero anche al Signore presente nel mondo: Perché sei venuto a mandarci in rovina prima del tempo? 81. Forse fu per loro un fatto improvviso perché ritenevano che dovesse avvenire, sì ma più tardi, oppure affermavano che era per loro una rovina il fatto che una volta smascherati venivano disprezzati. E questo era prima del tempo, cioè prima del tempo del giudizio nel quale devono essere puniti assieme anche a tutti gli uomini che sono loro legati. Parla in tal senso la religione che non inganna e non s'inganna a differenza di Ermes che, sbattuto per così dire di qua e di là da ogni vento di dottrina 82 e mischiando vero e falso, si rattrista che una religione divina possa cessare e poi ammette che è un errore.

L'incoerente pensiero di Ermes sulla idolatria magica.
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1. Infatti dopo un lungo discorso ritorna sull'argomento per parlare di nuovo degli dèi che sono stati fabbricati dagli uomini. Ecco le sue parole: Sugli dèi può bastare quanto è stato detto. Ritorniamo all'uomo e alla sua ragione. Da questo dono divino l'uomo è stato definito un animale ragionevole. Sono meno ammirevoli, ma sempre ammirevoli, le cose che sono state dette dell'uomo. Il fatto appunto che l'uomo è riuscito a scoprire l'essere divino e a crearlo supera la meraviglia delle meraviglie. Dato dunque che i nostri antenati erravano grandemente perché non conoscevano per fede la nozione degli dèi e non volgevano lo spirito al culto e alla religione divina, scoprirono l'arte di fabbricare dèi. Una volta scopertala, dalla natura del mondo vi aggiunsero, mescolandola, un'energia vitale conveniente, e poiché non avevano il potere di creare anime, evocarono le anime di demoni o di angeli, le introdussero nelle immagini sacre e nei misteri divini, in modo che per loro mezzo gli idoli potessero ricevere le forze di fare del bene e del male 83. Non saprei se i demoni deporrebbero sotto giuramento nei termini in cui egli ha deposto. Dice infatti: Dato che i nostri antenati erravano grandemente perché non conoscevano per fede la nozione degli dèi e non volgevano lo spirito al culto e alla religione divina, scoprirono l'arte di fabbricare dèi. Non si è limitato a dire che erravano un po' nello scoprire l'arte di fabbricare dèi o soltanto che erravano, ma ha aggiunto l'affermazione che erravano grandemente. Dunque questo grande errore e la mancanza di fede da parte di individui che non volgevano l'animo al culto e alla religione divina scoprirono l'arte di fabbricare dèi. Eppure quell'uomo sapiente si rattrista perché nell'avvenire a un determinato tempo sarà abolita come religione divina la tecnica umana di fabbricare dèi. Eppure l'avevano introdotta un grande errore, la mancanza di fede e l'allontanamento dello spirito dal culto religioso. Puoi osservare che dal potere divino è costretto a manifestare il passato errore dei propri antenati e dal potere diabolico a rattristarsi per la futura pena dei demoni stessi. Dunque i loro antenati, errando grandemente sulla nozione degli dèi, per mancanza di fede e per allontanamento dello spirito dal culto religioso scoprirono l'arte di fabbricare dèi. Che meraviglia quindi se quest'arte esecrabile, qualunque cosa abbia fatto mentre era distolta dalla religione divina, viene abolita dalla religione divina, quando la verità corregge l'errore, la fede confuta la mancanza di fede, il ritorno rettifica l'allontanamento?.

La vera conversione.
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2. Ermes si sarebbe potuto limitare a dire che i suoi antenati avevano scoperto l'arte di fabbricare dèi senza indicarne le cause. Allora sarebbe stato nostro dovere, se intendiamo l'onestà e la religione, di riflettere ed esaminare che non sarebbero giunti all'arte con cui si fabbricano gli dèi se non si fossero allontanati dalla verità, se avessero accettato per fede verità convenienti a Dio, se avessero volto lo spirito al culto e alla religione divina. E tuttavia se noi dicessimo che cause di tale arte sono un grande errore umano, la mancanza di fede e l'allontanamento dello spirito errante per infedeltà dalla divina religione, sarebbe in certo senso sopportabile la pervicacia di chi resiste alla verità. Ma nel nostro caso lo stesso individuo esalta sopra ogni altra cosa il potere di questa arte nell'uomo perché con essa gli è stato consentito di fabbricare dèi, si rattrista perché nell'avvenire sarà prescritto anche dalle leggi che siano eliminate tutte le figurazioni di dèi realizzate dagli uomini e tuttavia ad un tempo dichiara apertamente le cause per cui si giunse a questi usi. Afferma infatti che i propri antenati per grande errore e per mancanza di fede e perché non volgevano lo spirito al culto e religione divina scoprirono l'arte di fabbricare dèi. E noi che dovremmo dire o piuttosto fare se non ringraziare, per quanto ne siamo capaci, il Signore Dio nostro che ha fatto cessare questi usi con le cause contrarie a quelle per cui erano stati instaurati? Infatti la via della verità ha abolito ciò che ha instaurato la grandezza dell'errore, la fede ha abolito ciò che ha instaurato la mancanza di fede, il ritorno all'unico vero Dio santo ha abolito ciò che aveva instaurato l'allontanamento dal culto della divina religione. E questo non soltanto in Egitto, sebbene di esso soltanto ha nostalgia secondo Ermes lo spirito dei demoni, ma in tutta la terra; essa canta al Signore un canto nuovo, come gli Scritti veramente santi e veramente profetici hanno preannunciato con le parole: Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore, o paesi tutti della terra 84. Il titolo di questo salmo è: Quando si edificava la casa dopo la schiavitù. Si edifica appunto in tutti i paesi della terra come casa per il Signore la città di Dio, che è la santa Chiesa, dopo quella schiavitù con cui i demoni possedevano come prigionieri gli uomini con i quali, dopo che hanno creduto, si edifica la casa come con pietre vive 85. E l'uomo che fabbricava gli dèi era egualmente posseduto da essi che egli aveva fabbricato, quando adorandoli veniva trasferito nella loro società; società, intendo, non di idoli insensibili ma di accorti demoni. Gli idoli sono infatti soltanto ciò che dice la Scrittura: Hanno gli occhi e non vedranno 86, e il resto che si doveva dire di materie che, per quanto effigiate con arte, mancano tuttavia di vita e di senso. Ma gli spiriti immondi costretti a vivere negli idoli da quell'arte esecranda fecero miseramente prigioniera l'anima dei propri adoratori trasferendola nella propria società. Per questo dice l'Apostolo: Sappiamo che l'idolo non è nulla ma i sacrifici del paganesimo sono offerti ai demoni e non a Dio; non voglio che voi diventiate soci dei demoni 87. Dopo questa schiavitù in cui gli uomini erano tenuti dagli spiriti maligni, si edifica la casa di Dio in ogni parte della terra. Da questo ha preso il titolo il salmo in cui si dice: Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore tutte le regioni della terra. Cantate al Signore, benedite il suo nome, di giorno in giorno annunziate la sua salvezza. Annunziate fra le genti la sua gloria, fra tutti i popoli le sue meraviglie, poiché grande è il Signore e degno di grande lode, terribile su tutti gli dèi, perché tutti gli dèi del paganesimo sono demoni, il Signore al contrario ha creato i cieli 88.

I dèmoni di Ermes non sono intermediari.
24.
3. Ermes il quale deplorava l'avvento del tempo in cui sarebbero stati aboliti l'idolatria e il dominio dei demoni sugli idolatri, istigato da uno spirito malvagio desiderava che per sempre rimanesse tale schiavitù. Il salmo invece celebra che dopo di essa verrà edificata una casa in tutte le parti della terra. Ermes preannunciava questi avvenimenti nel dolore, il profeta nella gioia. E poiché lo Spirito che prediceva l'evento per mezzo dei santi profeti è vincitore, perfino Ermes fu costretto per una suggestione fuori dell'ordinario ad ammettere che le pratiche, la cui abolizione egli non voleva e deplorava, erano state istituite non da uomini saggi, credenti e religiosi ma da individui caduti in errore, miscredenti e lontani dal culto della religione divina. E sebbene egli li consideri dèi, tuttavia quando dice che sono stati fabbricati da individui quali noi non dobbiamo essere, lo voglia o no, mostra che non devono essere adorati da individui che sono diversi da quelli da cui sono stati fabbricati e cioè dai saggi, dai credenti e religiosi. Nello stesso tempo dichiara anche che gli individui che l'hanno fabbricati si sono sobbarcati ad avere dèi che non erano dèi. È vero appunto il detto del Profeta: Se l'uomo fabbrica gli dèi, essi non sono dèi 89. Ermes dunque ha considerato dèi simili esseri, dèi di simili individui, costruiti da simili artigiani, ha considerato cioè come dèi costruiti dagli uomini demoni imprigionati negli idoli con le catene delle proprie passioni e mediante non saprei quale arte. Tuttavia non ha dato loro il potere che ha dato il platonico Apuleio. Ne abbiamo già parlato abbastanza e abbiamo dimostrato quanto sia sconveniente e assurdo. Secondo lui sarebbero interpreti e intercessori fra gli dèi che ha creato Dio e fra gli uomini che il medesimo Dio ha creato, portando dalla terra i desideri e riportando dall'alto i favori. È veramente sciocco credere che gli dèi fabbricati dagli uomini possano di più presso gli dèi creati da Dio che gli uomini creati dal medesimo Dio. Il demone infatti imprigionato con arte detestabile in un idolo è stato reso un dio dall'uomo ma per quell'uomo e non per ogni uomo. Di che stampo è questo dio che l'uomo non produrrebbe se non errasse, se non fosse miscredente e non voltasse le spalle al vero Dio? Dunque non sono intermediari e interpreti fra uomini e dèi i demoni adorati nei templi che mediante non saprei quale arte sono stati inseriti in figurazioni, cioè in idoli visibili, da uomini che con questa arte li hanno resi dèi perché erano caduti in aberrazioni e si erano allontanati dal culto e dalla religione divina. Inoltre i demoni hanno pessima e abominevole moralità e gli uomini, sebbene in errore, miscredenti e lontani dal culto religioso divino, sono indubbiamente migliori degli dèi che hanno fabbricato con la propria arte. Rimane dunque che ciò che i demoni possono lo possono come demoni facendo più del male, perché ingannano di più, o col concedere dei supposti favori o col fare apertamente del male, nell'uno e nell'altro caso soltanto se è loro consentito dall'alta e occulta provvidenza di Dio; ma non possono molto negli uomini mediante l'amicizia degli dèi come intermediari fra gli uni e gli altri. È assolutamente impossibile infatti che siano amici degli dèi buoni, che noi cristiani chiamiamo santi angeli e creature intelligenti della santa abitazione del cielo, siano essi Sedi, Dominazioni, Principati o Poteri 90, perché ne sono tanto lontani per disposizione spirituale come i vizi dalle virtù, la malvagità dalla bontà.

Elevazione spirituale verso gli angeli.
25.
Quindi non si deve affatto ricorrere alla benevolenza o beneficenza degli dèi o piuttosto degli angeli buoni attraverso la funzione intermediaria dei demoni ma attraverso la concordanza della buona volontà. Con essa infatti noi siamo con loro, viviamo con loro e adoriamo con loro il Dio che essi adorano, sebbene non ci sia possibile scorgerli con gli occhi del corpo. Al contrario noi siamo lontani da loro, non nello spazio ma nella perfezione morale, se siamo infelici per difformità del volere e per debolezza nell'inclinazione al male. Che non si comunichi con loro non dipende dunque dal fatto che viviamo sulla terra, data la condizione del nostro essere fisico, ma che aspiriamo alle cose della terra per l'impurità del nostro spirito. Ma quando otteniamo la guarigione in modo da esser come loro, frattanto con la fede ci avviciniamo a loro se crediamo che siamo resi felici da colui dal quale anche essi sono stati resi felici.

Il culto dei martiri nel profetismo ermetico.
26.
1. Ma si deve esaminare il significato di alcune parole di Ermes l'egiziano, quando si rammarica per l'avvento di un tempo nel quale sarebbero state abolite dall'Egitto le pratiche che, come egli stesso riconosce, erano state istituite da individui caduti in un grave errore, miscredenti e lontani dal culto della religione divina. Dice fra l'altro: Allora questa terra, sede santa di luoghi sacri e templi sarà piena di sepolcri e di morti 91. Sembrerebbe quasi che se quelle pratiche non fossero abolite, gli uomini non sarebbero più morti ovvero che i cadaveri si dovessero riporre altrove che sottoterra. Ovviamente quanto più tempo e giorni fossero trascorsi, tanto maggiore sarebbe stato il numero dei sepolcri a causa del maggior numero dei cadaveri. Ma, a me sembra, egli si rammarica che le tombe dei nostri martiri sostituiscano i loro templi e luoghi sacri. Così coloro che leggono con animo empiamente maldisposto verso di noi possono pensare che dai pagani furono venerati gli dèi nei templi, da noi sono venerati i cadaveri nei sepolcri. Gli uomini miscredenti a causa di una grande cecità vanno a sbattere, per così dire, contro i monti e non vogliono vedere cose che colpiscono la loro vista, al punto da non riflettere che in tutta la letteratura pagana non si trovano o a malapena si trovano dèi che non fossero uomini, ai quali dopo morte furono riservati onori divini. Tralascio che secondo Varrone tutti i morti sono da loro considerati dèi mani 92. Lo prova mediante i misteri che sono celebrati quasi esclusivamente per i morti. Fra di essi ricorda gli spettacoli funebri quasi ad indicare che il più grande indizio della divinità è il fatto che abitualmente gli spettacoli si celebrano soltanto in onore delle divinità.

Il culto dei morti della tradizione ermetica.
26.
2. Ermes stesso, di cui ora si parla, nel medesimo libro in cui, quasi prevedendo il futuro, afferma con tristezza che allora questa terra, sede santa di luoghi sacri e templi sarà piena di sepolcri e di morti, dichiara che gli dèi dell'Egitto furono uomini morti. Dopo aver detto infatti che i propri antenati scoprirono l'arte di fabbricare dèi, perché erravano gravemente sulla nozione degli dèi, mancavano di fede e non volgevano l'animo al culto e religione divina, soggiunge: Una volta scopertala, dalla natura del mondo vi aggiunsero, mescolandola, un'energia vitale conveniente, e poiché non avevano il potere di creare anime, evocarono le anime di demoni o di angeli, le introdussero nelle immagini sacre e nei misteri divini in modo che per loro mezzo gli idoli potessero ricevere le forze di fare del bene e del male. Poi quasi a provarlo con esempi continua con queste parole: Un tuo antenato, o Asclepio, è l'inventore della medicina; a lui è stato dedicato un tempio in un monte della Libia in prossimità della spiaggia dei coccodrilli; in esso giace l'uomo terrestre, cioè il corpo, l'altro, o piuttosto l'intero, se l'uomo intero consiste nella coscienza del vivere, perché più perfetto è tornato al cielo per apprestare anche adesso col proprio potere divino agli uomini infermi tutti gli aiuti che era solito offrire con l'arte della medicina 93. In questo passo ha detto dunque che un uomo morto è adorato come dio nel luogo in cui aveva il sepolcro, ingannandosi e ingannando per quanto riguarda il ritorno in cielo. Poi soggiunge: Anche Ermes, l'antenato da cui prendo il nome, dimorando nella patria da lui denominata porge il soccorso per la salute a tutti i mortali che provengono da ogni parte 94. Qui si dichiara che Ermes il vecchio, cioè Mercurio, che, a sentir lui, fu suo antenato, visse ad Ermopoli, la città da lui denominata. Egli dunque afferma che due dèi, Esculapio e Mercurio, furono uomini. Su Esculapio sono d'accordo Greci e Latini, ma per quanto riguarda Mercurio molti ritengono che non fu un mortale. Costui comunque lo dichiara suo antenato. Ma forse, obiettano, sono diversi, sebbene abbiano lo stesso nome. Non sto a polemizzare se sono diversi o no. Comunque anche egli, come Esculapio, da uomo fu fatto dio stando alla testimonianza di un uomo celebre presso i suoi connazionali, questo Trismegisto che era anche suo discendente.

Iside e gli dèi epomini in Ermes.
26.
3. Soggiunge poi queste parole: Sappiamo che Iside, moglie di Osiride, se è propizia concede molti beni, se è irata fa del male in molti modi 95. In seguito dichiara che di tali caratteristiche sono anche gli dèi che gli uomini producono con l'arte di cui si è parlato. Fa capire appunto che secondo la sua opinione i demoni provengono dalle anime degli uomini morti, che mediante un'arte scoperta da uomini caduti in grave errore, miscredenti e irreligiosi sono stati chiusi negli idoli, perché coloro che fabbricavano simili dèi non potevano certamente creare le anime. Dunque dopo il giudizio da me ricordato su Iside, di cui sappiamo che se è irata fa del male in molti modi, soggiunge: Per gli dèi della terra e del mondo è facile andare in collera perché sono prodotti dagli uomini nella mescolanza dall'una e dall'altra natura. Dall'una e dall'altra natura significa dall'anima e dal corpo, perché in luogo dell'anima si ha il demone, in luogo del corpo l'idolo. Da ciò deriva, soggiunge, che essi sono considerati i santi viventi e che nelle singole città si venerano le anime di coloro ai quali erano consacrate mentre erano in vita, in modo che siano rette con le loro leggi e chiamate col loro nome 96. Che cosa significa dunque il lamento che la terra di Egitto, sede santa di luoghi sacri e templi, si sarebbe riempita di sepolcri e di morti? Certamente lo spirito impostore, per la cui suggestione Ermes così parlava, è stato costretto a confessare per suo mezzo che la terra d'Egitto era fin d'allora piena di sepolcri e di morti che gli Egiziani adoravano come dèi. Ma in lui parlava il dolore dei demoni perché lamentavano che erano ormai vicine le proprie future pene presso le tombe dei santi martiri. Infatti in molti di questi luoghi rimangono sconvolti, dichiarano il proprio essere e sono estromessi dal possesso del corpo degli uomini.

Il culto dei santi nel cristianesimo...
27.
1. Comunque noi cristiani non istituiamo per i martiri templi, sacerdozio, misteri e sacrifici perché non essi ma il loro Dio è Dio per noi. Veneriamo, è vero, le loro tombe, in quanto furono uomini di Dio e combatterono fino alla morte fisica per la verità affinché fosse riconosciuta la vera religione nella confutazione delle false dovute alla leggenda. Se alcuni prima del cristianesimo la pensavano così, stavano zitti per timore. Nessuno dei fedeli ha però udito mai che il sacerdote in piedi all'altare, anche se eretto sul corpo di un martire a onore e adorazione di Dio, abbia detto nelle preghiere: "Ti offro il sacrificio, o Pietro, o Paolo, o Cipriano". Sulle loro tombe si offre il sacrificio a Dio che li ha resi uomini e martiri e li ha associati ai suoi angeli nella gloria del cielo. Quindi con quel rito noi ringraziamo il vero Dio per le loro vittorie, ci sproniamo alla imitazione di tali trionfi invocando l'aiuto di lui nel ridestare il loro ricordo. Quindi tutti gli atti di venerazione dei devoti nei sepolcri dei martiri sono decoro delle tombe, non misteri o sacrifici a morti come a dèi. Alcuni vi recano anche il proprio cibo. I cristiani migliori non lo fanno e in molte regioni non esiste questa usanza. Tuttavia quelli che lo fanno, dopo averlo collocato vicino, pregano e poi lo portano via per cibarsene e per offrirne anche ai bisognosi e intendono che il cibo venga santificato per loro mediante i meriti dei martiri nel nome del Signore dei martiri. Chi conosce l'unico sacrificio dei cristiani, che si offre anche sulle tombe, sa che questi non sono sacrifici per i martiri.

...è soltanto sprone all'imitazione.
27.
2. Noi dunque non adoriamo i nostri martiri con onori divini o con delitti umani, come fanno i pagani nell'adorare i propri dèi; non offriamo loro sacrifici e non cambiamo le loro dissolutezze in misteri. Ma torniamo a Iside, moglie di Osiride, dea egiziana, e ai suoi antenati che, stando alla tradizione, furono tutti re. Mentre sacrificava ai propri antenati, scoperse un seminato di orzo e ne fece conoscere le spighe al re suo marito e al consigliere di lui Mercurio. Per questo la identificano anche con Cerere 97. Ma coloro che hanno voglia e possibilità di leggere e coloro che hanno già letto ricordino le molte e gravi azioni malvagie di lei che sono state consegnate al ricordo non dai poeti ma dai loro scritti misterici, come scrive Alessandro alla madre Olimpiade dietro rivelazione del sacerdote Leone. Riflettano quindi a quali uomini morti e in riferimento a quali loro azioni furono istituiti per essi i misteri come a dèi. Non oserebbero in alcun modo paragonarli, sebbene li considerino dèi, ai nostri santi martiri, sebbene noi non li consideriamo dèi. Noi non ordiniamo sacerdoti per i nostri martiri e non offriamo loro sacrifici perché è sconveniente, indebito, illecito e dovuto soltanto all'unico Dio. Non li facciamo divertire con le loro colpe o con spettacoli, nei quali i pagani celebrano le magagne dei propri dèi se, essendo stati uomini, le commisero, oppure celebrano poetici sollazzi di demoni, se non sono stati uomini. Socrate non avrebbe avuto un dio di questa risma di demoni se avesse avuto Dio; ma forse coloro che vollero eccellere nell'arte di fabbricare dèi avrebbero introdotto in un uomo alieno da quell'arte e inoffensivo un dio di quella specie. Ma perché continuare? Nessuno, anche se mediocremente saggio, mette in discussione che questi spiriti non si debbano onorare in vista della vita eterna che si avrà dopo la morte. Ma forse diranno che tutti gli dèi sono buoni e i demoni, alcuni buoni e altri cattivi, e sosterranno che sono da adorarsi quei demoni per mezzo dei quali possiamo raggiungere la vita eternamente felice e che essi ritengono buoni. L'argomento sarà esaminato nel seguente volume.

 

LIBRO IX

SOMMARIO

1. Il punto a cui è giunta la trattazione già svolta e gli argomenti che rimangono per la ricerca che segue.

2. Se fra i demoni, ai quali gli dèi sono superiori, vi sia una parte di buoni col cui aiuto l'anima umana possa giungere alla vera felicità.

3. Le caratteristiche dei demoni secondo Apuleio, con la precisazione che non nega loro il pensiero ma non assegna alcuna virtù.

4. La dottrina dei peripatetici e stoici sulle passioni dello spirito.

5. I sentimenti che influiscono sulla coscienza cristiana non trascinano al vizio ma allenano alla virtù.

6. Per dichiarazione di Apuleio i demoni sono agitati da passioni; eppure afferma che gli uomini sono aiutati dal loro intervento.

7. I platonici affermano che gli dèi sono insultati dalle favole dei poeti nel contrasto di opposti interessi giacché quei ruoli sono propri dei demoni e non degli dèi.

8. La teoria del platonico Apuleio sugli dèi celesti, i demoni aeriformi e gli uomini terreni.

9. L'amicizia degli dèi del cielo non può essere assicurata all'uomo per l'intercessione dei demoni.

10. Secondo l'opinione di Plotino sono meno infelici gli uomini in un corpo corruttibile che i demoni in uno incorruttibile.

11. Fondandosi sulla loro dottrina i platonici ritengono che le anime degli uomini dopo la vita terrena diventano demoni.

12. Le tre coppie di contrari con cui secondo i platonici si distingue la natura dei demoni da quella degli uomini.

13. Non esiste una misura per cui i demoni, se non sono felici con gli dèi né infelici con gli uomini, stiano di mezzo tra l'una e l'altra parte senza partecipare dell'una e dell'altra.

14. Se gli uomini, essendo soggetti a morte, possono essere felici della vera felicità.

15. Il Mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù.

16. Se ragionevolmente i platonici abbiano stabilito che gli dèi celesti non comunichino con gli uomini perché fuggono le contaminazioni terrene e poi i demoni aiuterebbero gli uomini a conseguire l'amicizia con gli dèi.

17. Per conseguire la felicità, che consiste nella partecipazione della vita eterna, l'uomo non ha bisogno di un mediatore qual è il demone ma qual è Cristo soltanto.

18. La falsità dei demoni, nel promettere la via al dio con la propria intercessione, ottiene di allontanare gli uomini dalla via della verità.

19. L'appellativo di demoni non significa niente di buono anche presso i loro adoratori.

20. Il genere di scienza che rende superbi i demoni.

21. Fino a un certo limite il Signore ha voluto farsi riconoscere dai demoni.

22. La differenza fra la scienza dei santi angeli e la scienza dei demoni.

23. L'appellativo di dèi erroneamente si attribuisce agli dèi del paganesimo, sebbene è esteso agli angeli santi e agli uomini dall'autorità della Scrittura.

Libro nono

POLITEISMO, CRISTIANESIMO E MEDIAZIONE

Premessa e compendio (1-2)

Riassunto delle opinioni su dèi buoni e cattivi.
1.
Alcuni hanno opinato che esistono dèi buoni e cattivi, altri invece pensando più rettamente degli dèi hanno assegnato loro un onore e una lode tanto grandi che non osarono sostenere la malvagità di qualcuno degli dèi. Ma coloro i quali hanno affermato che alcuni dèi sono buoni, altri cattivi 1, hanno esteso il concetto di dèi anche ai demoni, sebbene, ma più raramente, anche il concetto di demoni agli dèi. Riconoscono perfino che Giove stesso, considerato re e capo degli altri, sia stato da Omero considerato un demone 2. Coloro, i quali sostengono che gli dèi non possono essere che buoni e molto più perfetti di quegli uomini che sono giudicati buoni, sono giustamente turbati da certe azioni dei demoni che non possono negare. Giudicando impossibile che esse siano compiute dagli dèi, che ritengono tutti buoni, sono costretti a introdurre una differenza fra dèi e demoni. Quindi sostengono che è di demoni e non di dèi tutto ciò che disapprovano nelle azioni e nei sentimenti disonesti con cui gli spiriti occulti manifestano il proprio potere. Ma i pagani, supponendo che nessun uomo può comunicare col dio, affermano che i demoni siano stati stabiliti come intermediari tra gli uomini e gli dèi per portare dal basso le richieste e riportare dall'alto i favori accordati. La pensano così anche i platonici, i più eccellenti e illustri filosofi. Proprio con essi, come i più eminenti, ho deciso di esaminare il problema, se il culto di molti dèi giovi per conseguire la vita felice che si avrà dopo la morte. Nel libro precedente ho preso in considerazione che i demoni godono di fatti che gli onesti e i saggi sdegnano e condannano, cioè delle sacrileghe, scandalose e oscene favole dei poeti, e non nei confronti di un uomo qualunque ma degli dèi stessi, e della scellerata e colpevole profanazione delle arti magiche. Ci si è chiesto dunque in che modo essi, come più vicini e più amici, possano rendere graditi gli uomini buoni agli dèi buoni. Si è concluso che è assolutamente impossibile.

Qual è l'argomento del libro.
2.
Quindi questo libro, come ho promesso alla fine del precedente, dovrà contenere la trattazione sulla differenza, se ne propongono alcuna, non degli dèi fra di loro perché, secondo i platonici, sono tutti buoni, non sulla differenza fra dèi e demoni perché considerano gli dèi molto lontani e superiori agli uomini e i demoni intermediari fra gli dèi e gli uomini, ma sulla differenza fra i demoni stessi. È questo l'argomento della presente trattazione. In molti è abituale il discorso che i demoni siano alcuni buoni e altri cattivi. E se l'opinione è anche dei platonici o di altri filosofi, non si deve evitare di sottoporla ad esame. Non deve avvenire infatti che qualcuno ritenga di dover fidarsi di demoni che suppone buoni e mentre intende ed aspira, con essi come intermediari, di rendersi gradito agli dèi che ritiene tutti buoni per poterli raggiungere dopo la morte, accalappiato e ingannato dalle fandonie di spiriti malvagi, si allontani dal vero Dio. Con lui solo infatti, in lui solo, da lui solo l'anima umana, cioè ragionevole e intelligente, è felice.

Demoni soggetti alla passione (3-11)

Soggezione dei dèmoni alla passione.
3.
Dunque quale differenza esiste fra demoni buoni e cattivi? Il platonico Apuleio, che ne ha trattato in generale e ha parlato a lungo dei loro corpi aeriformi, non ha parlato affatto delle loro virtù spirituali. Eppure ne sarebbero forniti se fossero buoni. Non ha parlato dunque della causa della felicità, ma non ha potuto non dare una indicazione della loro infelicità. Ha ammesso infatti che la loro mente, con la quale a sentir lui sono esseri ragionevoli, non essendo per lo meno penetrata e fortificata dalla virtù, cede alle irragionevoli passioni dell'animo e anche essa, come avviene nella condotta delle coscienze insipienti, è agitata in certo senso da tempestose passioni. Le sue parole sull'argomento sono queste. Riferendosi a questa categoria di demoni, i poeti, senza discostarsi dalla verità, sogliono immaginare che gli dèi siano nemici e amici di alcuni uomini, che favoriscano ed esaltino alcuni, sdegnino e deprimano altri, che sentano dunque compassione e collera, angoscia e gioia, che subiscano ogni mutamento dell'animo umano, che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito siano agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri. Tutti questi turbamenti e tempeste sono ben lontani dalla serenità degli dèi celesti 3. Con queste parole egli ha voluto indicare, non v'è alcun dubbio, che non la parte inferiore dell'animo ma la mente stessa dei demoni, per cui sono esseri animati e ragionevoli, viene sconvolta dalla tempesta delle passioni come un mare agitato. Non si possono quindi paragonare neanche ai saggi, perché questi resistono con la mente imperturbata a simili turbamenti della psiche dai quali non è esente l'umana debolezza, anche quando li provano a causa della soggezione della vita presente. I saggi infatti non cedono ai perturbamenti nel considerare onesta o compiere un'azione che devii dal cammino della saggezza e dalla legge della giustizia. I demoni, al contrario, sono simili non nel corpo ma nella condotta ai mortali insipienti e ingiusti, per non dire peggiori, in quanto più inveterati e incurabili a causa della pena dovuta; sono agitati nel mareggiare della mente stessa, come ha detto Apuleio, e in nessuna parte dello spirito trovano la fermezza nell'ideale di virtù con cui si resiste ai movimenti inquieti e disordinati.

Dottrina filosofica sulle passioni.
4.
1. Due sono le opinioni dei filosofi sui movimenti della psiche che i Greci chiamano , dei nostri alcuni, come Cicerone 4, perturbazioni, altri affezioni o affetti 5, altri infine, come Apuleio 6, con maggiore aderenza al greco, passioni. Alcuni filosofi dunque affermano che simili perturbazioni o affezioni o passioni si verificano anche nel saggio, ma ridotte a misura e sottomesse alla ragione, in modo che il dominio della mente imponga in una determinata misura le leggi con cui siano ricondotte alla necessaria misura. Coloro che la pensano così sono i platonici o anche aristotelici, dato che Aristotele, fondatore della scuola peripatetica, fu discepolo di Platone. Altri invece come gli stoici insegnano che nel saggio non si devono assolutamente avere simili passioni. Ma Cicerone nei libri su I limiti del bene e del male dimostra a costoro, cioè agli stoici, che si battono contro platonici e aristotelici più a parole che a concetti 7. Gli stoici infatti si rifiutano di considerare le passioni come un bene, ma le considerano come un benessere fisico e deteriore perché, secondo loro, bene per l'uomo è soltanto la virtù, come regola della morale che è esclusivamente nella coscienza. Al contrario, i platonici le considerano un bene in senso largo e secondo il comune modo di esprimersi, ma le considerano un bene insignificante e di poco conto nel confronto con la virtù mediante la quale si vive rettamente. Ne consegue che comunque siano chiamate dagli uni e dagli altri, o bene o benessere, sono valutate con eguale criterio e che sull'argomento gli stoici si prendono la soddisfazione di una terminologia nuova. Mi sembra dunque che anche sul problema se si hanno nel saggio le passioni o ne sia del tutto immune facciano questione più di parole che di concetti. A mio avviso la pensano proprio come platonici e peripatetici per quanto attiene al significato dei concetti e non al suono delle parole.

Lo stoico in pericolo in Gellio.
4.
2. Ometto altre considerazioni che valgano a dimostrarlo per non farla lunga. Mi limito a fare una osservazione che sia veramente evidente. Nei libri intitolati Le notti attiche, Aulo Gellio, buon letterato e uomo di vasta cultura, narra di avere una volta viaggiato per mare con un noto filosofo stoico. Gellio racconta diffusamente e con molti particolari l'episodio che io esporrò brevemente 8. Lo stoico, poiché la nave era sbattuta con grave pericolo dal mare in orribile tempesta, divenne pallido di paura. Il fatto fu notato dai presenti che osservavano con molta curiosità, sebbene fossero in prossimità della morte, se il filosofo fosse turbato o no. Passata la burrasca, appena la cessazione del pericolo offrì l'opportunità di parlare o anche di chiacchierare, uno dei viaggiatori, un ricco dissoluto dell'Asia, apostrofa il filosofo schernendolo perché era impallidito dalla paura, mentre egli era rimasto intrepido nella sciagura imminente. E quegli gli diede la risposta di Aristippo, discepolo di Socrate, il quale, avendo in una circostanza simile udite le medesime parole da un individuo della medesima risma, rispose che l'altro giustamente non si era preoccupato per la vita di un dissoluto fannullone, lui invece doveva temere per la vita di Aristippo. Avuta questa risposta il riccone se la batté. Allora A. Gellio chiese al filosofo, non con l'intenzione di umiliarlo ma di apprendere, quale fosse il motivo della sua paura. Ed egli per insegnare a un individuo profondamente preso dal desiderio di sapere, tirò subito fuori da un suo fagotto il libro dello stoico Epitteto. Vi erano esposte le dottrine che corrispondevano più a fondo agli insegnamenti di Zenone e di Crisippo che, come sappiamo, furono i capi degli stoici. Gellio dice di aver letto in quel libro la seguente dottrina stoica. Le rappresentazioni, che essi chiamano fantasie, quando provengono da fenomeni terrificanti e paurosi, non dipendono da noi nel modo e nel tempo in cui si hanno nella coscienza. È necessario quindi che turbino anche la coscienza del saggio, in modo che per un po' tremi di paura o sia afflitto dalla tristezza, nel senso che queste passioni precorrono la funzione della mente e della ragione; ma non per questo nella mente si ha l'accettazione del male, né le passioni si ritengono oneste o ad esse si consente. Questo, secondo loro, dipende da noi e a loro avviso la differenza fra la coscienza del saggio e quella dell'insipiente consiste nel fatto che la coscienza dell'insipiente cede alle passioni applicando ad esse l'assenso della mente, mentre la coscienza del saggio, sebbene le tolleri perché ineluttabili, conserva con la fermezza dello spirito una vera e coerente valutazione delle cose che si devono desiderare o evitare secondo ragione. Ho esposto queste notizie non certo più esaurientemente di A. Gellio ma, a mio avviso, più brevemente e più chiaramente. Egli dichiara di averle lette nel libro di Epitteto che a sua volta le avrebbe esposte in conformità agli insegnamenti degli stoici.

I filosofi concordano sul concetto di serenità.
4.
3. Se le cose stanno così, non si ha alcuna o una minima differenza fra la teoria degli stoici e quella degli altri filosofi sulle passioni e le perturbazioni dell'anima. In definitiva gli uni e gli altri sostengono che la facoltà spirituale del saggio è immune dal loro dominio. E forse gli stoici dicono che esse non si hanno nell'animo del saggio perché non offuscano con l'errore e non eliminano con la colpa la saggezza per cui è saggio. Ma in verità le passioni, salva la serenità della saggezza, si hanno nell'animo del saggio a causa di quelli che gli stoici definiscono benessere o malessere, sebbene preferiscano non chiamarli bene e male 9. Certamente se quel filosofo non avesse tenuto in considerazione i beni che, come prevedeva, avrebbe perduto col naufragio, come sono la vita e il benessere fisico, non avrebbe avuto paura del pericolo al punto di esternarla col pallore. Tuttavia poteva anche inibire il turbamento e tener fisso nella mente il criterio che la vita e la salute fisica, minacciate dalla violenza della tempesta, non sono beni che rendono buoni coloro che li hanno come fa la giustizia. L'affermare poi che non si devono considerare un bene ma un benessere si deve attribuire a una contesa di parole e non alla interpretazione dei concetti. Che differenza fa se siano chiamati con maggiore proprietà un bene ovvero un benessere se hanno timore e paura di esserne privi tanto lo stoico che il peripatetico? Alla fin fine li denominano in maniera diversa ma li valutano alla stessa maniera. Tutti e due infatti, se siano spinti dai rischi di questo bene o benessere a una colpa o a una cattiva azione, sicché non sia loro possibile conservarli in altra maniera, affermano che preferiscono perderli perché con essi si conserva e si rende incolume l'essere fisico, anziché commettere azioni con cui si viola la giustizia. In tal modo la mente, in cui è incrollabile questo criterio, non permette che in se stessa le perturbazioni, anche se si verificano nella parte inferiore dell'anima, prendano il sopravvento contro la ragione. Anzi essa le domina e non consentendo e piuttosto resistendo loro esercita l'impero della virtù. Anche Virgilio descrive così Enea con le parole: La mente si mantiene immobile, invano scorrono le lacrime (di Didone) 10.

Dottrina cristiana sulla moderazione, e stoica sulla compassione.
5.
Non è necessario mostrare diffusamente e accuratamente che cosa insegni sulle passioni la sacra Scrittura da cui deriva la dottrina cristiana. Essa infatti considera la mente sottomessa all'ordine e al soccorso di Dio e le passioni alla misura e al limite della mente perché siano volte a vantaggio della giustizia. Inoltre nell'insegnamento cristiano non si chiede tanto se l'animo va in collera ma perché va in collera 11, non se è triste ma per quale motivo è triste 12, non se teme ma che cosa teme 13. Non so infatti se si possa biasimare con un retto criterio l'andare in collera con chi pecca perché si ravveda, il rattristarsi con chi è triste perché si riscatti dalla tristezza, il temere per chi è in pericolo affinché non vi perisca. Gli stoici sono soliti incolpare la compassione 14, ma quanto più onesto del timore del naufragio sarebbe stato nello stoico di Gellio il turbamento della compassione per riscattare un uomo. Con molta proprietà, umanità e corrispondenza al sentimento delle anime compassionevoli ha parlato Cicerone a lode di Cesare con le parole: Nessuna delle tue virtù è così ammirevole e gradita come la compassione 15. E la compassione non è altro che la partecipazione del nostro sentimento alla infelicità degli altri perché con essa, se ci è possibile, siamo spinti ad andare loro incontro. E questo movimento è utile alla ragione quando la compassione si offre in modo da assecondare la giustizia, tanto nel contribuire al bisognoso come nel perdonare il pentito. Cicerone, illustre oratore, non ha esitato a considerarla virtù, mentre gli stoici non hanno difficoltà a inserirla fra i vizi. Essi tuttavia, come ha dato a conoscere il libro dell'illustre stoico Epitteto, affermano in base agli insegnamenti di Zenone e Crisippo, iniziatori della scuola, che esistono le passioni nell'animo del saggio, sebbene lo dichiarino immune da tutti i vizi. Ne consegue che non considerano vizi le passioni quando si verificano nel saggio in modo da non ostacolare la virtù e l'egemonia razionale della mente. Quindi è identica la dottrina dei peripatetici, dei platonici e degli stessi stoici ma, come dice Cicerone, la controversia sulle parole da lungo tempo turba i Greci desiderosi più della polemica che della verità 16. Inoltre è opportuno chiedersi ancora se è proprio della debolezza della vita presente provare certi sentimenti anche in alcuni doveri morali. Anche gli angeli puniscono senza collera coloro che devono punire secondo l'eterna legge di Dio, aiutano gli infelici senza partecipare alla loro infelicità e soccorrono senza timore le persone da loro amate che si trovano nei pericoli. Eppure anche nei loro confronti, in base alla tecnica della lingua umana, vengono usate parole indicanti le passioni per denotare una certa somiglianza delle azioni e non la soggezione ai turbamenti. Stando alle Scritture, Dio stesso va in collera eppure non è turbato da alcuna passione. L'effetto della punizione, e non un suo affetto perturbatore, ha indotto a usare questa parola.

Mente demoniaca adeguata alla passione.
6.
Rimandiamo frattanto la questione sugli angeli. Esaminiamo per ora in che senso i platonici dicano che i demoni posti di mezzo fra gli dèi e gli uomini sono agitati dai flutti delle passioni. Se infatti subissero tali movimenti con la mente che rimane sgombra da essi e li domina, Apuleio non direbbe che nel mutare del sentimento e nel mareggiare dello spirito sono agitati attraverso tutti i flutti dei pensieri 17. Quindi la loro mente stessa, cioè la parte superiore dello spirito, per cui sono esseri ragionevoli e in cui si hanno virtù e saggezza, seppure ne hanno, sarebbe dominata dalle passioni turbatrici delle parti inferiori dello spirito che dovrebbero essere sottomesse e dominate: la loro mente stessa, dico, come dichiara questo platonico, è agitata dal mareggiare delle passioni. Dunque la mente dei demoni è resa schiava dalle passioni della libidine, del timore, dell'ira e dalle altre. Quindi non v'è in essi una facoltà libera e partecipe di sapienza con cui esser graditi agli dèi e orientare gli uomini alla conformità con la legge morale. La loro mente soggetta e oppressa dalle imperfezioni delle passioni volge all'inganno e alla mistificazione ogni potere razionale che ha per natura, e tanto più intensamente quanto maggiore è il desiderio di fare del male che la possiede.

Anche gli dèi soggetti alla passione.
7.
Ma qualcuno potrebbe osservare che non di tutti i demoni ma soltanto di quelli che sono nel numero dei malvagi i poeti, non andando lontani dalla verità, immaginano che si comportino da dèi nemici e amici di alcuni uomini. Proprio di loro ha detto Apuleio che nel mareggiare dello spirito si agitano attraverso tutti i flutti dei pensieri. Ma come potremmo accettare questa spiegazione se egli con quell'affermazione intendeva fissare la posizione di mezzo, fra gli dèi e gli uomini, a causa del corpo aeriforme, non di alcuni cioè dei malvagi, ma di tutti i demoni? Ha affermato appunto che i poeti mediante l'impunita licenza della poesia mitica costruiscono favole nel considerare dèi alcuni di questi demoni, nell'attribuire loro i nomi degli dèi e nel classificarli arbitrariamente come amici o nemici di alcuni uomini, perché considera gli dèi alieni dalla condotta dei demoni per la dimora nel cielo e per la pienezza della felicità. Questo è dunque il favoleggiare dei poeti: considerare come dèi esseri che dèi non sono e farli combattere fra di loro con la denominazione di dèi a favore di uomini che essi con parzialità amano o odiano. E sostiene che la favola non è lontana dalla verità perché, sebbene designati con i nomi di dèi che non sono, sono fatti agire come demoni quali sono. Inoltre dichiara che di questo stampo è la Minerva di Omero che interviene fra le schiere dei Greci per frenare Achille 18. Dichiara dunque che quella Minerva è una finzione poetica perché egli considera Minerva una dea e la pone, lontana dal trattare con gli uomini, nell'alta dimora dell'etere fra gli dèi che ritiene tutti buoni e felici. Vi sarebbe dunque qualche demone fautore dei Greci e nemico dei Troiani come qualche altro fautore dei Troiani contro i Greci, che Omero ricorda col nome di Venere o di Marte. Invece Apuleio li pone nelle dimore del cielo lontani da tali azioni. E questi demoni avrebbero combattuto fra di loro a favore di coloro che amavano contro quelli che odiavano. Apuleio ha confessato che i poeti hanno detto queste cose senza discostarsi dalla verità. Le hanno infatti affermate nei confronti di esseri che, stando a lui, col mutare del sentimento e col mareggiare dello spirito, simile a quello degli uomini, si agitano attraverso tutti i flutti delle rappresentazioni. Possono dunque provare l'amore e l'odio non a favore della giustizia, come fa la massa, che loro somiglia e che mantiene i propri favoritismi per gli uni contro gli altri nei confronti dei campioni del circo e dell'arena 19. Il filosofo platonico, come è evidente, si è dato pensiero affinché non si credesse che certe azioni, per il fatto che erano cantate dai poeti, non fossero compiute dai demoni posti in mezzo, ma dagli dèi stessi, giacché i poeti nel favoleggiare fanno i loro nomi 20.

L'idea di demone è contraria a sapienza e felicità.
8.
Ma forse è opportuno esaminare la stessa definizione dei demoni perché in essa Apuleio stabilendone i dati essenziali li ha inclusi tutti. In essa ha dichiarato che i demoni sono viventi nel genere, soggetti alle passioni nello spirito, ragionevoli per mente, aeriformi nel corpo, immortali nell'esistenza 21. Non ha incluso affatto fra le cinque caratteristiche elencate una per cui possa sembrare che essi abbiano in comune con gli uomini buoni un qualcosa che non sia nei malvagi. Infatti parlando nel luogo conveniente degli uomini stessi come di esseri di rango inferiore perché terreni, ne elenca un po' più diffusamente le caratteristiche essenziali. Prima aveva parlato degli dèi esistenti nel cielo. Così dopo aver ricordato i due estremi del rango più alto e del più basso, per ultimo al terzo posto ha parlato dei demoni in quanto posti in mezzo. Dice dunque: Quindi gli uomini capaci di pensiero, dotati di parola, dall'animo immortale, dall'organismo soggetto alla morte, dallo spirito soggetto al piacere e al dolore, dal corpo inerte e schiavo, dalla condotta morale diversa, dalla identica inclinazione all'errore, dalla inflessibile audacia, dalla invincibile speranza, dall'inutile affaticarsi, dalla fortuna destinata a finire, individualmente mortali, perenni universalmente come razza, che si sostituiscono a vicenda mediante la riproduzione della prole, dall'esistenza fuggevole, dalla saggezza tarda a venire, dalla morte pronta a venire, dalla vita incline al lamento, abitano la terra 22. Pur avendo elencato varie caratteristiche che sono proprie di moltissimi uomini, non ne ha taciuta una che riconosceva a pochi quando ha detto dalla saggezza tarda a venire. Se l'avesse tralasciata, l'accurata esattezza di questa descrizione non avrebbe affatto determinato le proprietà della razza umana. Nell'evidenziare poi la superiorità degli dèi, ha affermato che in essi è eminente la felicità che gli uomini vogliono conseguire con la sapienza. Quindi se intendesse far capire che alcuni demoni sono buoni, nell'elencarne le caratteristiche, porrebbe una dote, mediante la quale s'intenda che hanno in comune o con gli dèi una determinata parte di felicità o con gli uomini una qualunque sapienza. Al contrario non ha ricordato alcun loro bene col quale i buoni si distinguono dai malvagi. E sebbene si sia astenuto dal dichiarare più apertamente la loro malvagità, non tanto per non offendere loro quanto per non oltraggiarne gli adoratori ai quali si rivolgeva, ha indicato tuttavia alle persone sagge che cosa debbano pensare di loro. Infatti ha ritenuto gli dèi, che stando alla sua teoria sono tutti buoni e felici, del tutto immuni dalle passioni o, come egli dice, dai turbamenti dei demoni e li ha ritenuti eguali soltanto per l'immortalità dei corpi. Al contrario, per quanto riguarda lo spirito, ha dichiarato con estrema chiarezza che i demoni non sono simili agli dèi ma agli uomini, e non in considerazione del bene della sapienza, di cui anche gli uomini possono esser partecipi, ma del turbamento delle passioni che domina gli insipienti e i malvagi, ma viene dominato dai sapienti e dagli onesti al punto che preferiscono non provarlo che superarlo. Se avesse voluto far capire che i demoni hanno in comune con gli dèi non l'immortalità del corpo ma dello spirito, non avrebbe negato agli uomini la comunanza di questa prerogativa, giacché come platonico ritiene indubbiamente che lo spirito umano è immortale. E per questo nel determinare le caratteristiche degli uomini ha affermato che sono viventi dallo spirito immortale e dall'organismo soggetto alla morte. Pertanto se gli uomini non hanno in comune con gli dèi l'immortalità perché sono mortali nel corpo, certamente i demoni l'hanno in comune perché nel corpo sono immortali.

Il demone sbilanciato fra dèi e uomini.
9.
Che razza di intermediari tra uomini e dèi sono i demoni, tanto che per loro mezzo gli uomini debbano aspirare all'amicizia con gli dèi, se la parte più perfetta in un vivente, cioè lo spirito, l'hanno meno perfetta assieme agli uomini e la parte meno perfetta, cioè il corpo, l'hanno più perfetta assieme agli dèi? Un vivente, cioè un essere animato, è composto di anima e di corpo e di essi l'anima, anche se difettosa e infiacchita, è certamente più perfetta del corpo, anche del corpo più sano e vigoroso, poiché la sua natura è più eccellente e non può essere ritenuta inferiore al corpo a causa delle imperfezioni. Anche l'oro grezzo vale più dell'argento e del piombo per quanto raffinati. Invece questi intermediari fra dèi e uomini, giacché mediante la loro interposizione le cose umane si congiungono alle divine, hanno il corpo immortale assieme agli dèi e lo spirito imperfetto assieme agli uomini, come se la religione, con cui gli uomini intendono unirsi mediante i demoni agli dèi, sia collocata nel corpo e non nello spirito. E quale malvagità o pena tengono sospesi questi intermediari, falsi e ingannatori, per così dire a testa all'ingiù? Hanno infatti con gli esseri più alti la parte più bassa del vivente, cioè il corpo, e con quelli più bassi la parte più alta, cioè lo spirito, e sono uniti con la parte che è schiava agli dèi che stanno in cielo e sono infelici nella parte che è dominatrice con gli uomini che stanno sulla terra. Il corpo infatti è schiavo, come ha detto anche Sallustio: Possediamo principalmente il dominio dello spirito e la sottomissione del corpo. E aggiunge: L'uno ci è comune con gli dèi, l'altro con i bruti 23. Parlava degli uomini che hanno un corpo mortale come i bruti. I demoni invece, che i filosofi ci hanno rimediato come intermediari fra noi e gli dèi, possono certamente dire parlando del loro spirito e del loro corpo: "L'uno ci è comune con gli dèi, l'altro con gli uomini". Ma essi, come ho detto, quasi sospesi alla rovescia con una corda, hanno il corpo schiavo assieme agli dèi felici e lo spirito dominatore assieme agli uomini infelici, posti in alto con la parte bassa e in basso con la parte alta. Quindi anche nell'ipotesi che abbiano l'eternità assieme agli dèi, perché il loro spirito non viene sciolto dal corpo con la morte, come avviene dei viventi terrestri, non si deve ritenere che il loro corpo sia eterno portatore di spiriti gloriosi ma carcere eterno di spiriti dannati.

Nel demone immoralità contro felicità.
10.
Plotino vissuto nei tempi più vicini a noi viene lodato per essersi distinto nella conoscenza di Platone 24. Egli parlando dello spirito umano dice: Il Padre misericordioso costruiva per loro un carcere destinato a finire 25. Quindi ha sostenuto che il fatto stesso che gli uomini sono mortali nel corpo è dovuto alla bontà di Dio padre, in modo che gli uomini non fossero legati per sempre alla infelicità di questa vita. La malvagità dei demoni è stata da lui giudicata indegna di questa bontà perché l'infelicità di uno spirito soggetto alle passioni ha avuto un corpo immortale e non mortale come gli uomini. Sarebbero più fortunati degli uomini se avessero come loro un corpo mortale e uno spirito sereno come gli dèi. Sarebbero invece eguali agli uomini se avessero ottenuto di avere come loro, assieme allo spirito infelice, per lo meno un corpo mortale. Praticando la pietà sarebbero almeno dopo la morte liberi dalla sofferenza. Nello stato attuale invece non sono più felici degli uomini, ma a causa della infelicità dello spirito sono ancora più infelici in considerazione della immortalità del corpo. Dicendo esplicitamente che i demoni sono immortali, Apuleio ha voluto far comprendere che da demoni non diventano dèi, perché non possono rendersi migliori con una qualche disciplina religiosa o sapienziale.

Aspetti demoniaci nell'uomo.
11.
Apuleio afferma inoltre che anche l'anima umana è un demone e che gli uomini divengono Lari se hanno fatto del bene, fantasmi o spettri se hanno fatto del male e che sono considerati dèi Mani se è incerta la loro qualificazione 26. E chi non vedrebbe, purché rifletta un tantino, quale voragine spalancano con questa teoria al dilagare dell'immoralità? Infatti gli uomini, ritenendo che diverranno spettri o anche dèi Mani, sebbene siano stati iniqui, divengono tanto peggiori quanto sono più desiderosi di far del male al punto da convincersi che per far del male saranno invocati dopo la morte con sacrifici propri di onori divini. Dice infatti che gli spettri sono uomini divenuti demoni malvagi. Ma ne sorge un altro problema. Egli, confermando che anche lo spirito umano è un demone, dichiara che in greco gli uomini felici sono appunto chiamati perché sono spiriti buoni, cioè demoni buoni 27.

Il demone non è mediatore (12-23)

Tra caratteristiche opposte fra dèi e uomini.
12.
Ma ora trattiamo di quei demoni che egli ha delineato in un particolare esser di mezzo fra gli dèi e gli uomini perché sono esseri animati per genere, ragionevoli per intelligenza, soggetti alle passioni nello spirito, aeriformi nel corpo, immortali nell'esistenza. Prima ha distribuito gli dèi nell'altezza del cielo e gli uomini nell'infimità della terra, in quanto separati dallo spazio e dal diverso valore dell'essere. Infine ha concluso: Avete frattanto due tipi di viventi, gli dèi che differiscono moltissimo dagli uomini per l'altezza nello spazio, per la perennità dell'esistenza, per la perfezione dell'essere; non v'è fra di loro alcuna diretta partecipazione, poiché la grande lontananza del culmine separa le sedi più alte dalle più basse; lassù l'esistenza è eterna e indefettibile, qui passeggera e precaria, lassù l'intelligenza è sublimata nella felicità, qui depressa nell'infelicità 28. Noto che nel passo sono ricordate tre coppie di caratteristiche contrarie relative alle due parti estreme dell'essere, cioè la più alta e la più bassa. Infatti ha enunciato tre caratteristiche significative di dignità per gli dèi e le ha ripetute, ovviamente con altre parole, in modo da contrapporre da parte degli uomini le tre contrarie. Le tre caratteristiche degli dèi sono: l'altezza nello spazio, l'immortalità dell'esistenza, la perfezione dell'essere. Le ha ripetute con altre parole, in modo da contrapporre ad esse le tre caratteristiche contrarie della condizione umana. Dice: La grande lontananza del culmine separa le sedi più alte dalle più basse, perché aveva parlato dell'altezza nello spazio. Soggiunge: Lassù l'esistenza è eterna e indefettibile, qui passeggera e precaria, perché aveva parlato della perennità dell'esistenza. Ancora: Lassù l'intelligenza è sublimata nella felicità, qui depressa nell'infelicità, perché aveva parlato della perfezione dell'essere. Dunque da lui sono state considerate tre caratteristiche degli dèi, cioè l'altezza nello spazio, l'immortalità, la felicità e ad esse opposte tre caratteristiche degli uomini, cioè la bassezza nello spazio, la mortalità, la infelicità.

Posizione di mezzo per immoralità e infelicità...
13.
1. Non v'è alcuna discussione sulla posizione occupata dai demoni che Apuleio ha collocato in mezzo fra queste tre coppie di caratteristiche relative agli dèi e agli uomini. Fra il più alto e il più basso v'è e si concepisce precisamente uno spazio di mezzo. Vi sono le altre due coppie di caratteristiche, alle quali si deve volgere un esame più attento, in modo da chiarire se siano estranee ai demoni ovvero siano ripartite, come sembra richiedere la posizione di mezzo. Ma non possono essere loro estranee. Si può concepire infatti che lo spazio non sia né il più alto né il più basso, ma non si può concepire che i demoni non siano né felici, dato che sono esseri animati ragionevoli, né infelici, come sono le piante che sono prive di sensazione e le bestie che sono prive di ragione. Gli esseri spirituali dotati di ragione sono necessariamente o felici o infelici. Allo stesso modo non si può dire ragionevolmente che i demoni non siano né mortali né immortali. Tutti gli esseri viventi o vivono per sempre o terminano con la morte l'esistenza. Ora Apuleio ha affermato che i demoni sono immortali nell'esistenza. Non rimane dunque altro che essi, posti nel mezzo, abbiano una caratteristica dagli esseri posti in alto e una da quelli posti in basso. Se avranno l'una e l'altra o da quelli in basso o da quelli in alto, non saranno in mezzo ma o risalgono o discendono verso l'una o l'altra parte. Quindi poiché non possono essere privi, come è stato dimostrato, dell'una e dell'altra rispettiva caratteristica, sono posti in mezzo col prenderne una dall'una parte e una dall'altra. Pertanto dato che non possono prendere l'immortalità dagli esseri posti in basso perché non l'hanno, ricevono questa caratteristica da quelli in alto e quindi non v'è altro da ricevere da quelli in basso che l'infelicità a rendere compiuta la loro posizione di mezzo.

...caratterizzante il demone...
13.
2. Si ha dunque secondo i platonici o la felice immortalità o l'immortale felicità degli dèi, perché posti in alto; degli uomini, al contrario, perché posti in basso, o l'infelicità per soggezione alla morte o l'infelice soggezione alla morte; dei demoni invece, perché posti in mezzo, o l'infelice immortalità o l'immortale infelicità 29. Apuleio difatti mediante le cinque proprietà che ha proposto nella definizione dei demoni non ha mostrato, come prometteva, che sono collocati nel mezzo. Ha affermato appunto che hanno tre caratteristiche in comune con noi, e cioè che per genere sono viventi, per intelligenza capaci di pensiero e soggetti alle passioni nello spirito; con gli dèi una caratteristica, che sono immortali nell'esistenza, e una particolare, che sono aeriformi nel corpo. In che senso sono dunque nel mezzo se hanno una proprietà in comune con gli esseri più in alto e tre con quelli più in basso? Chi non vedrebbe in quali proporzioni, abbandonando la posizione di mezzo, siano volti e trascinati verso il basso? Potrebbero certamente trovarsi in mezzo se avessero una caratteristica propria che è il corpo aeriforme, come l'hanno anche gli estremi dell'alto e del basso, e cioè gli dèi il corpo etereo e gli uomini il corpo terrestre e se si avessero inoltre due proprietà in comune a tutti e tre e cioè che siano viventi nel genere e capaci di pensiero per intelligenza. Lo stesso Apuleio, parlando degli dèi e degli uomini dice: Sono due tipi di viventi; e i platonici parlano sempre degli dèi come di esseri dotati d'intelligenza 30. Rimangono due caratteristiche dei demoni e cioè che sono soggetti alle passioni nello spirito ed immortali nell'esistenza. Di esse hanno una in comune con quelli in basso e l'altra con quelli in alto, sicché la posizione di mezzo bilanciata col calcolo della proporzione non scatta verso l'alto e non scivola verso il basso. Ed essa è appunto la infelice immortalità o l'immortale infelicità dei demoni. Apuleio, che li ha dichiarati soggetti alle passioni nello spirito, li avrebbe dichiarati anche infelici, se non avesse avuto ritegno per i loro adoratori. Ora poiché il mondo non è retto da un destino cieco ma dalla provvidenza del sommo Dio, come anche i platonici sostengono, non si avrebbe l'immortale infelicità dei demoni se non si avesse la loro grande malvagità.

...che quindi è di mezzo fra dèi e uomini.
13.
3. Se dunque i felici sono giustamente considerati eudemoni, i demoni non sono eudemoni perché i platonici li hanno collocati in mezzo fra uomini e dèi. Qual è dunque il luogo di buoni demoni che in un grado superiore agli uomini e inferiore agli dèi offrano agli uni il soccorso, agli altri il servizio? Se infatti sono buoni ed immortali, sono anche felici. Ma una felicità immortale non permette che siano nel mezzo perché li eguaglia sensibilmente agli dèi e li differenzia sensibilmente dagli uomini. Quindi invano i platonici tenteranno di chiarire il criterio per cui i demoni buoni, se sono anche immortali e felici, siano ragionevolmente collocati in mezzo fra gli dèi liberi dalla morte e dal male e gli uomini soggetti alla morte e al male. Essi avrebbero due proprietà in comune con gli dèi, cioè la felicità e l'immortalità, e nessuna con gli uomini infelici e mortali. Per quale ragione dunque non sono considerati lontani dagli uomini e uniti agli dèi, anziché posti nel mezzo fra gli uni e gli altri? Sarebbero nel mezzo se avessero due determinate caratteristiche proprie, non comuni a due altre degli uni o degli altri ma a una di entrambi. Anche l'uomo è un qualcosa di mezzo, ma fra le bestie e gli angeli. Difatti poiché la bestia è un vivente irragionevole e mortale, l'angelo al contrario ragionevole e immortale, l'uomo è di mezzo, inferiore agli angeli, superiore alle bestie, perché ha in comune con le bestie la soggezione alla morte e con gli angeli l'intelligenza. È appunto un essere animato, ragionevole, mortale. Dunque allo stesso modo quando si cerca la posizione di mezzo fra esseri felici immortali ed esseri infelici mortali, si deve trovare o che l'essere mortale è felice o l'immortale è infelice.

L'uomo fra moralità e felicità.
14.
Esiste nel mondo umano il grande problema se l'uomo può essere contemporaneamente felice e mortale. Alcuni hanno esaminato con maggiore umiltà la propria condizione e hanno affermato che l'uomo non può essere capace di felicità finché vive nella soggezione alla morte. Altri invece per orgoglio hanno osato affermare che, pur mortali, gli uomini in possesso della sapienza possono essere felici. Se è così, perché essi piuttosto non vengono collocati in mezzo fra infelici mortali e felici immortali, dato che hanno in comune la felicità con gli immortali felici e la soggezione alla morte con i mortali infelici? Certamente se sono felici non invidiano alcuno, poiché l'invidia è la più grande infelicità. Pertanto aiuterebbero, secondo le proprie possibilità, gli infelici mortali a conseguire la felicità, in modo da essere anche immortali dopo la morte ed essere uniti agli angeli immortali e felici.

Cristo mediatore come uomo-Dio...
15.
1. Se poi, ed è la teoria più attendibile e probabile, tutti gli uomini, finché sono soggetti alla morte, sono ineluttabilmente anche infelici, si deve pensare a un intermediario che non soltanto sia uomo ma anche dio. Soltanto la felice soggezione alla morte di questo intermediario potrà condurre col suo intervento gli uomini dalla infelice soggezione alla morte a una felice immortalità. Ed era opportuno che egli divenisse mortale e non rimanesse mortale. È divenuto mortale senza abbassare la divinità del Verbo ma assumendo la bassezza della carne; e non è rimasto mortale nella carne ma l'ha risuscitata dalla morte, poiché fine della sua mediazione è che non rimanessero nella morte perpetua, sia pure della carne, coloro per la cui riabilitazione egli era divenuto mediatore. Per questo fu necessario che egli, mediatore fra noi e Dio, avesse una temporanea soggezione alla morte e la felicità perenne, in modo che mediante la dimensione con cui diviene si adatti a esseri destinati a morire e una volta morti li trasferisca alla dimensione che non diviene. Gli angeli buoni dunque non possono essere di mezzo fra gli infelici mortali e i felici immortali, perché anche essi sono felici e immortali; lo possono invece gli angeli cattivi, perché sono immortali con gli uni e infelici con gli altri. Contrario a loro è il mediatore buono che in opposizione alla loro immortalità e infelicità volle essere mortale nel tempo e poté rimanere felice nell'eternità. Così con l'umiltà della propria morte e col bene della propria felicità ha sconfitto negli uomini gli immortali superbi e infelici operatori del male, affinché con l'esca della immortalità non li attirassero all'infelicità. Egli appunto ha liberato il loro spirito dal loro impuro dominio purificandolo per mezzo della fede in lui.

...e come datore di salvezza.
15.
2. Dunque l'uomo mortale e infelice, separato per grande distanza dagli esseri immortali e felici, quale intermediario potrà scegliere per cui mezzo congiungersi all'immortalità e alla felicità? Ciò che potrebbe attrarre nell'immortalità dei demoni è infelicità; ciò che potrebbe contrariare nella soggezione del Cristo alla morte non è più infelicità. In quella immortalità ci si deve guardare dalla eterna infelicità; in questa soggezione al morire non si deve temere la morte che non poteva essere eterna e si deve scegliere la felicità eterna. A quel destino s'interpone un intermediario immortale e infelice per impedire di passare all'immortalità felice perché permane in lui ciò che la impedisce, cioè la stessa infelicità; per l'altro destino si è interposto un intermediario mortale e felice per rendere gli uomini, una volta passata la soggezione alla morte, da morti a immortali sul modello che ha mostrato in sé risorgendo, da infelici a felici in quella vita da cui mai si era allontanato. L'uno è dunque un intermediario cattivo perché separa gli amici, l'altro buono perché riconcilia i nemici. Gli intermediari che disuniscono sono molti appunto perché la moltitudine che è felice lo diviene nella partecipazione del Dio uno, mentre la moltitudine degli angeli cattivi è infelice per mancanza di tale partecipazione. Ed essa si oppone per impedire, anziché interporsi per far conseguire la felicità e tumultua, per così dire, anche mediante la moltitudine stessa affinché non sia possibile giungere all'unico bene che rende felici. E per essere condotti a lui non erano necessari molti mediatori ma uno solo, e quello stesso di cui partecipando si diviene felici, cioè il Verbo di Dio, non creato, perché per suo mezzo sono state create tutte le cose 31. Tuttavia non è mediatore in quanto Verbo perché il Verbo sommamente immortale e felice è ben lontano dagli infelici mortali, ma è mediatore perché è uomo 32. Con questo fatto stesso mostra che per il bene, non solo felice ma che rende felici, non è necessario cercare altri intermediari e supporre di costruirci con essi una scala con cui raggiungerlo, perché il Dio felice e che rende felici, divenuto partecipe della nostra umanità, ci ha offerto la via più breve per partecipare alla sua divinità. Liberandoci dalla soggezione alla morte e al male non ci eleva fino agli angeli immortali e felici per essere anche noi immortali e felici, ma alla Trinità perché anche gli angeli sono felici della sua partecipazione. Perciò quando nella forma di schiavo 33, per essere mediatore, volle essere inferiore agli angeli, rimase loro superiore nella forma di Dio, perché è sempre lui che in basso è la via della vita e in alto è la vita 34.

Assurda teoria della incontaminabilità degli dèi...
16.
1. Non è vero infatti l'aforisma che il citato platonico attribuisce a Platone: Nessun dio comunica con l'uomo; e ha aggiunto che principale indizio della loro sublimità è che non sono contaminati dal contatto con gli uomini 35. Ammette dunque che i demoni ne sono contaminati. Ne consegue dunque che non possono render puri coloro dai quali sono contaminati e tutti e due sono egualmente impuri, i demoni mediante il contatto con gli uomini e gli uomini mediante l'adorazione dei demoni. Ovvero se i demoni possono avere contatti e comunicazioni con gli uomini senza esserne contaminati, sono evidentemente più perfetti degli dèi, perché questi sarebbero contaminati se comunicassero. È infatti caratteristica principale degli dèi, secondo la loro teoria, che il contatto umano non li può contaminare perché inaccessibili per elevatezza 36. Apuleio afferma inoltre che il Dio sommo, creatore di tutti, che noi cristiani riconosciamo per il vero Dio, è considerato da Platone come il solo che è impossibile esprimere, sia pure lontanamente, con parole a causa della povertà del linguaggio umano; ma che appena ai filosofi, se col dinamismo spirituale, quanto è loro consentito, si siano allontanati dalla materia, la conoscenza di questo Dio, sebbene raramente, brillerebbe quasi attraverso folte tenebre come candida luce in un rapidissimo balenare 37. Dunque il Dio veramente sommo, perché sopra tutte le cose, si manifesterebbe in una determinata intelligibile e ineffabile presenza, sebbene raramente, sebbene brillando come candida luce in un rapidissimo balenare, all'intelligenza dei filosofi, purché, quanto è consentito, si siano distolti dalla materia; ed egli non potrebbe esserne contaminato. Che ragionamento è dunque questo che gli dèi vengono relegati lontano, nello spazio più alto, perché non siano contaminati dal contatto umano? Basta solamente vedere i corpi celesti, dato che la terra è illuminata, quanto basta, dalla loro luce. Ora se con l'esser visti non sono contaminati gli astri che Apuleio considera tutti dèi visibili 38, neanche i demoni sono contaminati dallo sguardo umano, anche se fossero visti da vicino. Ma forse gli dèi sono contaminati dalla voce umana, sebbene non lo siano dalla vista? E per questo forse avrebbero come mediatori i demoni, da cui sia loro riferita la voce degli uomini, dato che sono da loro lontani per rimanere pienamente incontaminati? Che dire degli altri sensi? Neppure gli dèi, se fossero più vicini, potrebbero esser contaminati usando l'olfatto e neanche i demoni, quando sono vicini, possono essere contaminati dalle esalazioni dei corpi umani vivi, se non sono contaminati dal fumo delle carogne nei sacrifici. Per quanto riguarda la sensazione del gusto non sono stimolati dal bisogno di ristorare il corpo mortale tanto che, spinti dalla fame, chiedano da mangiare agli uomini. Il tatto poi dipende da loro. Infatti quantunque sia evidente che il contatto derivi etimologicamente da questo senso, gli dèi comunicherebbero, qualora lo volessero, con gli uomini soltanto per vedere ed essere veduti, ascoltare ed essere ascoltati. Che necessità vi sarebbe di toccare? Neanche gli uomini oserebbero desiderarlo se potessero godere della vista o colloquio con gli dèi o con i buoni demoni. E se la curiosità arrivasse al punto che lo vogliano, in qual modo potrebbe un individuo toccare loro malgrado un dio o un demone se non può toccare un passero se non dopo averlo preso?.

...e dei dèmoni.
16.
2. Dunque gli dèi potrebbero comunicare con gli uomini vedendo e offrendosi alla vista, parlando e ascoltando. Se quindi i demoni comunicano nel modo che ho detto e non ne sono contaminati, gli dèi invece lo sono, i demoni, a sentir loro, sono incontaminabili e gli dèi contaminabili. Se poi sono contaminati anche i demoni, che cosa conferiscono agli uomini per la felicità dopo la morte se, rimanendo contaminati, non li possono purificare per ricongiungerli puri agli dèi incontaminati, dato che sono mediatori fra gli uni e gli altri? E se non tributano questo soccorso, che cosa giova agli uomini l'amichevole mediazione dei demoni? Forse affinché gli uomini non passino dopo la morte agli dèi attraverso i demoni, ma affinché vivano entrambi contaminati e quindi né gli uni né gli altri felici? A meno che non si dica che i demoni purifichino i propri amici col sistema delle spugne e simili e che perciò diventino tanto più sporchi quanto più puliti diventano gli uomini mediante questa abluzione. Ma se è così, gli dèi comunicano con i demoni più contaminati degli uomini; eppure hanno evitato la vicinanza e il contatto degli uomini per non rimanerne contaminati. O forse gli dèi possono purificare i demoni contaminati dagli uomini e non essere contaminati da loro e per gli uomini non sarebbe possibile? E chi la penserebbe così se non fosse tratto in inganno dai demoni grandi impostori? Se poi l'esser visti e il vedere contaminano e si vedono dagli uomini gli dèi che Apuleio dichiara visibili 39 come le luci più fulgide del mondo 40, e così per gli astri, forse che sono più immuni i demoni da questa contaminazione umana, dato che non possono esser veduti se non vogliono? E se non l'esser visto ma il vedere rende impuri, affermino che gli uomini non sono visti da queste fulgidissime luci del mondo che ritengono dèi, sebbene facciano giungere i loro raggi fino alla terra. Tuttavia questi raggi diffusi su tanti oggetti immondi non sono contaminati. E rimarrebbero contaminati gli dèi se comunicassero con gli uomini, anche se al soccorso fosse indispensabile il contatto? Infatti la terra viene colpita dai raggi del sole e della luna; eppure non rende immonda la loro luce.

Cristo mediatore per somiglianza.
17.
Mi meraviglio assai che uomini così dotti, sebbene abbiano giudicato tutte le cose materiali e sensibili inferiori alle spirituali e intelligibili, sull'argomento della felicità accennino ai contatti corporali. Non vi si riscontra affatto il celebre detto di Plotino: Si deve dunque fuggire verso la patria diletta, perché in essa è il padre, in essa tutto; e soggiunge: Qual è dunque la lotta o la fuga? Divenire simile a Dio 41. Se si diviene tanto più vicini a Dio quanto si è più simili a lui, la sola lontananza da lui è essergli dissimili. L'anima dell'uomo quindi è tanto più dissimile da lui che è immateriale eterno e fuori del divenire quanto più è attaccata alle cose del tempo che sono nel divenire. Bisogna guarire da questo male. Ma poiché le cose soggette alla morte e alla materia che sono in basso non possono essere proporzionate alla somma immaterialità che è in alto, si ha bisogno di un mediatore. Tuttavia egli non deve essere tale che abbia un corpo sia pure immortale, vicino agli esseri più alti, e lo spirito soggetto al male come gli esseri più bassi, perché piuttosto ci ostacolerebbe dall'esserne guariti che aiutarci a guarirne. Il mediatore deve essere tale che, reso simile per soggezione alla morte nel corpo a noi che siamo in basso, possa porgere un aiuto veramente divino alla nostra catarsi e liberazione per immortale giustizia dello spirito mediante la quale rimase in alto non per distanza nello spazio ma per sovrana eguaglianza. Ed è impossibile che egli, Dio immutabile, temesse la contaminazione da parte dell'uomo che ha assunto o degli uomini in mezzo ai quali è vissuto come uomo. Frattanto non sono trascurabili questi due benefici che egli con la sua incarnazione ci ha rivelati, e cioè che la vera divinità non può essere contaminata dalla terrenità e che i demoni non si devono ritenere migliori di noi per il fatto che non partecipano della terrenità. Egli è, come dichiara la sacra Scrittura, il mediatore di Dio e degli uomini, l'uomo Cristo Gesù 42. Non è qui il momento di parlare espressamente, sia pure nei limiti delle nostre possibilità, della sua divinità, per cui è eternamente eguale al Padre, e della sua umanità, per cui si è reso simile a noi.

Via fra cielo e terra.
18.
Al contrario i demoni, mediatori mentiti e mentitori, quantunque, pur soggetti all'infelicità e al male a causa dell'impurità dello spirito, esercitino il loro influsso su molti avvenimenti, approfittando tuttavia delle distanze nello spazio materiale e della leggerezza del loro corpo aeriforme, tramano di distoglierci definitivamente dall'elevazione spirituale. Quindi non mostrano la via a Dio ma impediscono che si tenga la via. Comunque una parola sulla via dello spazio corporeo. Essa è ingannevole ed è fitta di errori, perché per essa non passa la giustizia, dato che dobbiamo salire a Dio non attraverso l'altezza fisica ma per somiglianza spirituale, cioè non corporea. Comunque anche per quanto riguarda la via dello spazio corporeo, che gli adoratori dei demoni dispongono fra gli dèi eterei e gli uomini terreni stabilendo come intermediari i demoni, essi ritengono in definitiva che gli dèi abbiano come principale caratteristica di non essere contaminati dal contatto umano in virtù della distanza nello spazio. Con questa teoria sostengono piuttosto che i demoni sono contaminati dagli uomini, anziché gli uomini siano purificati dai demoni e che gli dèi stessi possono rimanere contaminati se non fossero difesi dall'altezza nello spazio 43. Chi è tanto sciagurato da pensare di raggiungere la catarsi per questa via, giacché in essa gli uomini contaminano, i demoni sono contaminati e gli dèi contaminabili? E perché non dovrebbe scegliere la via in cui si evitino i demoni che contaminano 44, e gli uomini dal Dio incontaminabile siano liberati dalla contaminazione per raggiungere la società degli angeli non contaminati?

Angeli e dèmoni.
19.
Ma non deve sembrare che facciamo questione di terminologia, poiché alcuni di questi, per così dire, demonicoli, fra cui è anche Labeone, affermano che da alcuni sono chiamati angeli quelli che essi chiamano demoni. Prendo atto quindi che si deve esporre qualche concetto sugli angeli buoni. I pagani non ne negano l'esistenza ma preferiscono chiamarli demoni buoni anziché angeli. Noi invece, come insegna la Scrittura in base alla quale siamo cristiani, sentiamo parlare di angeli, che in parte sono buoni e in parte cattivi, mai comunque di demoni buoni. In qualunque parte della Scrittura si trovi questo nome, siano denominati dèmoni o demòni, sono sempre indicati come spiriti malvagi. E dovunque gli individui ormai hanno adottato questo modo di parlare al punto che non esiste alcuno, di quelli che sono chiamati pagani e difendono il culto di molti dèi e demoni, anche se letterato e colto, che osi dire a titolo di lode sia pure al proprio schiavo: Hai un demone 45. Al contrario, non può avere alcun dubbio di essere interpretato soltanto nel senso che ha inteso ingiuriare, chiunque sia l'individuo a cui si è rivolto. Non v'è ragione dunque che ci costringa a giustificare la nostra affermazione, data la ripugnanza di moltissimi individui, ormai quasi tutti, abituati a interpretare soltanto in cattivo senso la parola. Usando la parola angeli possiamo evitare la ripugnanza che può manifestarsi se si usa la parola demoni.

Scienza e superbia nei dèmoni.
20.
Comunque anche l'etimologia di questo nome, se consideriamo attentamente i libri della Scrittura, ci induce a una importante considerazione. Demoni, stando alla radice greca del nome [], derivano etimologicamente da scienza 46. Ora l'Apostolo parlando nello Spirito Santo afferma: La scienza gonfia, la carità costruisce 47. Il detto non significa altro che la scienza giova soltanto quando si ha la carità 48 e che senza di essa gonfia e cioè innalza a una vuota altezzosità. V'è dunque nei demoni la scienza senza la carità e quindi sono così gonfi, cioè così superbi al punto che si sono industriati perché fossero loro tributati onori divini e il servizio religioso che, come sanno, si devono al vero Dio; tuttora si dan da fare per quanto è loro possibile e con chi è possibile. Ora l'anima degli uomini gonfia della colpa dell'orgoglio non sa, perché simile ai demoni nella superbia e non nella scienza, quanto potere ha l'umiltà di Dio che si è manifestata in Cristo contro la superbia dei demoni, dalla quale era meritatamente reso schiavo il genere umano.

Cristo si palesa ai dèmoni.
21.
E i demoni sanno anche questo. Hanno perfino detto al Signore mentre era rivestito della debolezza della carne: Che c'è fra noi e te, o Gesù di Nazareth? Sei venuto a mandarci in rovina [prima del tempo]? 49. È chiaro da queste parole che esisteva in essi una grande scienza e non vi era la carità. Temevano la pena da lui ma non amavano in lui la giustizia. Si fece conoscere da loro nei limiti che volle e lo volle nei limiti dell'indispensabile. Però non si fece conoscere come agli angeli santi i quali godono nella partecipazione alla sua eternità secondo la relazione per cui è il Verbo di Dio 50, ma come si doveva far conoscere dai demoni per atterrirli. Stava appunto per liberare dal loro potere, in certo senso tirannico, i predestinati al suo regno e alla sua gloria verace e veracemente eterna. Si fece dunque conoscere dai demoni non nella dimensione della vita eterna e della luce indefettibile che illumina i credenti, giacché per conoscerlo mediante la fede che proviene da lui si richiede la purificazione dello spirito; si è fatto conoscere soltanto mediante manifestazioni nel tempo e segni della sua presenza invisibile che potevano essere palesi alle facoltà angeliche, anche di spiriti malvagi, anziché alla debolezza umana. Poi quando credette opportuno di occultarli e si tenne maggiormente nascosto, il principe dei demoni dubitò di lui e per scoprire se era il Cristo lo provò nei limiti in cui egli consentì di esser messo alla prova, per commisurare l'uomo che era in lui a modello della nostra imitazione. Ma dopo quella prova, come è scritto, lo servirono gli angeli 51, certamente quelli buoni e santi e perciò temibili e terribili agli spiriti immondi. Quindi sempre di più si palesava ai demoni la sua grandezza, sicché nessun demone osò resistere al suo comando, sebbene in lui potesse sembrare oggetto di disprezzo la debolezza della carne.

Conoscenza degli angeli e dei dèmoni.
22.
Quindi per gli angeli buoni è senza valore ogni conoscenza delle cose fisiche poste nel tempo, mentre i demoni se ne inorgogliscono. Non che gli angeli ne siano ignari, ma per essi ha valore la carità di Dio dalla quale sono resi santi. In ordine alla bellezza non solo spirituale ma anche immutevole e ineffabile di lui, dal cui santo amore sono infiammati, essi ritengono senza valore tutte le cose che gli sono inferiori e che non sono quelle che lui è, e se stessi per partecipare nel tutto del bene che sono di quel bene per cui sono un bene. Perciò conoscono più distintamente anche le cose poste nel tempo e nel divenire, perché ne intuiscono le ragioni ideali nel Verbo di Dio per mezzo del quale è stato creato il mondo; e in queste ragioni alcune cose sono approvate, alcune disapprovate, tutte ordinate. I demoni al contrario non intuiscono nella Sapienza di Dio le ragioni eterne che, analogicamente parlando, reggono i tempi ma, attraverso una maggiore conoscenza immediata di segni a noi occulti, prevedono molto più degli uomini eventi futuri e talora predicono perfino le proprie iniziative. Ma i demoni spesso s'ingannano, gli angeli mai. Una cosa è infatti congetturare eventi nel tempo e nel divenire da altri eventi e inserire in essi una dimensione, posta nel tempo e nel divenire, della propria volontà e potere; e questo in una maniera determinata è consentito ai demoni. Altro è prevedere il divenire dei tempi nelle leggi di Dio che sono fuori del tempo e del divenire e sussistono nella sua Sapienza e conoscere nella partecipazione del suo Spirito la volontà di Dio che fra tutte, quanto è più efficace, tanto è più determinante; e questo con retto criterio è stato concesso agli angeli santi. Perciò non solo sono immortali ma anche felici. E Dio, da cui sono stati creati, è per loro il bene da cui sono felici. Godono infatti nella sua partecipazione e visione indefettibilmente.

Significato di dèi nella Scrittura.
23.
1. Se i platonici preferiscono chiamare dèi anziché demoni gli angeli e ad essi aggiungere quelli che Platone, loro capo e maestro, dichiara creati dal Dio sommo, facciano pure 52. Con essi non ci si deve affannare per questioni di terminologia. Se infatti affermano che sono immortali, ma ciò nonostante creati dal Dio sommo e che non da sé sono felici, ma nell'unione a lui dal quale sono stati creati, dicono quel che diciamo noi, qualunque sia il nome con cui li chiamino. Che questa è la dottrina dei platonici, di tutti o dei migliori, è documentato dai loro libri. Non v'è poi quasi nessun dissenso tra noi e loro sul nome stesso con cui designano come dèi tale creatura immune dalla morte e dal male, anche perché nei nostri scritti sacri si legge: Il Dio signore degli dèi ha parlato 53; e altrove: Lodate il Dio degli dèi 54; e ancora: Il re grande su tutti gli dèi 55. Al contrario, poco dopo viene dichiarato il motivo per cui è stato scritto: È terribile su tutti gli dèi. Segue infatti: Perché tutti gli dèi delle genti sono demoni, mentre il Signore ha creato i cieli 56. Ha detto dunque su tutti gli dèi ma delle genti, cioè che le genti considerano dèi, mentre sono demoni e perciò è terribile. E sotto simile terrore domandavano al Signore: Sei venuto a mandarci in rovina? 57. Invece, l'altra frase il Dio degli dèi non può avere il significato del Dio dei demoni; ed è impossibile che anche l'altra il re grande su tutti gli dèi significhi il re grande su tutti i demoni. Ma il medesimo libro della Scrittura chiama dèi anche gli uomini appartenenti al popolo di Dio. Dice: Io ho detto che siete dèi e figli dell'Altissimo tutti 58. Si può interpretare che è il Dio di questi dèi quello che è stato definito il Dio degli dèi, e re grande su tutti gli dèi quello che è stato definito re grande su tutti gli dèi.

...appellativo più confacente all'uomo che all'angelo...
23.
2. Tuttavia ci si può obiettare: se gli uomini sono stati considerati dèi perché appartengono al popolo di Dio, al quale egli parla per mezzo di angeli o uomini, quanto più sono degni di questo nome esseri immortali che posseggono la felicità alla quale gli uomini aspirano a giungere adorando Dio? Risponderemo che non a caso nella Scrittura sono stati considerati dèi più esplicitamente gli uomini che gli spiriti immortali e felici ai quali noi saremo eguali, come ci è stato promesso, dopo la resurrezione. Si doveva evitare che la debolezza nella fede osasse a causa della loro superiorità stabilire come dio per noi qualcuno degli angeli. Trattandosi dell'uomo era più facile evitarlo. Inoltre gli uomini dovevano più apertamente essere considerati dèi se appartenenti al popolo di Dio, affinché fossero più stabili nella fiducia che il loro Dio è quello che è stato chiamato il Dio degli dèi 59. E sebbene siano chiamati dèi gli spiriti immortali e felici che sono nei cieli, tuttavia non sono stati considerati dèi degli dèi, cioè dèi degli uomini appartenenti al popolo di Dio ai quali è stato detto: Io ho detto che siete dèi e figli dell'Altissimo tutti 60. Da qui le parole dell'Apostolo: Vi sono esseri considerati dèi tanto nel cielo come sulla terra; e siccome vi sono molti dèi, vi sono anche molti signori. Ma noi abbiamo un solo Dio Padre, dal quale tutte le cose e anche noi in lui e un solo signore Gesù il Cristo, per mezzo del quale tutte le cose e anche noi per mezzo di lui 61.

...comunque non oggetto di culto.
23.
3. Non si deve discutere sul nome perché il concetto è tanto chiaro che è esente da ogni dubbio per quanto scrupoloso. Tuttavia noi cristiani affermiamo che dal numero degli spiriti immortali e beati alcuni sono mandati come angeli per annunziare agli uomini la volontà di Dio. Il discorso non piace ai platonici, perché sostengono che questa funzione non è esercitata da quelli che essi considerano dèi, cioè immortali e felici, ma dai demoni che considerano soltanto immortali. Non osano considerarli felici o, se immortali e felici, soltanto come demoni buoni, non dèi che sono collocati nello spazio più alto e lontani dal contatto umano. E sebbene questo sembri un dissenso di terminologia, tuttavia la denominazione di demoni è così detestabile che noi cristiani dobbiamo assolutamente considerarla sconveniente ai santi angeli. A questo punto si deve chiudere il presente libro. Abbiamo accertato infatti che gli spiriti immortali e felici, comunque siano chiamati, purché siano stati prodotti dal nulla, non sono intermediari per i mortali infelici da guidarsi all'immortale felicità, perché ne sono disgiunti dall'una e dall'altra differente proprietà. Al contrario quelli che sono nel mezzo, poiché hanno in comune con quelli collocati in alto l'immortalità e con quelli collocati in basso l'infelicità, dato che sono infelici per colpa della soggezione al male, possono piuttosto invidiarci che offrirci la felicità che non hanno. Quindi gli amici dei demoni non hanno nulla da proporci che valga a farceli adorare come soccorritori anziché evitarli come ingannatori. Vi sono infine gli spiriti buoni, e quindi non solo immortali ma anche felici, riguardo ai quali i platonici sostengono che si devono adorare con misteri e sacrifici per conseguire la felicità dopo la morte. Ma quali che siano e comunque siano denominati, noi nel seguente libro esporremo più accuratamente la nostra dottrina, e cioè che non si devono adorare essi con un simile culto religioso ma un solo Dio dal quale sono stati creati e della cui partecipazione sono felici.

 

LIBRO X

SOMMARIO

1. Anche i platonici hanno insegnato che solamente dall'unico Dio la felicità è concessa tanto agli angeli che agli uomini; ma si deve esaminare se i demoni, che secondo loro si devono adorare allo scopo, vogliano che si sacrifichi soltanto a Dio o anche a loro.

2. Il pensiero del platonico Plotino sulla illuminazione dall'alto.

3. I platonici, adorando angeli buoni e cattivi con onore divino, hanno deviato dal vero culto di Dio, sebbene ne avessero avuto intuizione come di creatore dell'universo.

4. Il sacrificio si deve al solo vero Dio.

5. Dio non richiede certi sacrifici ma ha voluto che fossero offerti come simbolo dei beni che richiede.

6. Il vero e perfetto sacrificio.

7. L'amore degli angeli per noi è tale che non ci vogliono loro adoratori ma del solo vero Dio.

8. A confermare la fede dei credenti, Dio si è degnato di associare alle proprie promesse alcuni miracoli anche mediante il ministero degli angeli.

9. Illecite pratiche nella demonolatria, di cui s'interessa il platonico Porfirio, approvandone alcune e altre apparentemente condannando.

10. La teurgia promette la catarsi dell'anima con l'invocazione dei demoni.

11. La lettera di Porfirio all'egiziano Anebon che gli chiedeva di essere erudito sulla diversità dei demoni.

12. I miracoli che il vero Dio compie col ministero degli angeli santi.

13. Dio è invisibile ma è apparso visibilmente non per quel che è ma per quel che potevano sopportare coloro che lo hanno visto.

14. Si deve adorare un solo Dio non soltanto per i beni eterni ma anche per quelli terreni, perché tutto è in potere della sua provvidenza.

15. La funzione degli angeli che sono al servizio del volere di Dio.

16. Se in merito al conseguimento della felicità si deve credere agli angeli che esigono di essere adorati con onore divino, ovvero a quelli che ordinano di prestare con una santa religione servizio a un solo Dio.

17. L'arca del Testamento e i miracoli compiuti per confermare l'autorevolezza della Legge e della promessa messianica.

18. Contro coloro i quali affermano che non si deve credere ai Libri della Chiesa nei confronti dei miracoli con cui il popolo di Dio è stato istruito.

19. Il motivo del sacrificio visibile che la vera religione insegna ad offrire all'unico vero Dio invisibile.

20. Il Mediatore di Dio e degli uomini si è reso sommo e vero sacrificio.

21. I limiti del potere concesso ai demoni per glorificare attraverso la sopportazione delle sofferenze i santi che hanno sconfitto gli spiriti dell'aria non placandoli ma confidando in Dio.

22. L'origine del potere dei santi contro i demoni e la sorgente della vera purificazione del cuore.

23. I platonici affermano che la purificazione dell'anima deriva dai principi.

24. Un unico e vero principio solamente purifica e rinnova la natura umana.

25. Tutti i santi al tempo della Legge e nei tempi anteriori furono giustificati nel mistero e nella fede del Cristo.

26. L'incoerenza di Porfirio che si dibatte fra il riconoscimento del vero Dio e il culto dei demoni.

27. La miscredenza di Porfirio per cui sorpassa l'errore di Apuleio.

28. Porfirio accecato da certe convinzioni non riuscì a riconoscere la sapienza vera che è il Cristo.

29. La miscredenza dei platonici si vergogna di ammettere l'incarnazione di Gesù il Cristo nostro Signore.

30. Porfirio ha rifiutato e rettificato col dissenso molta parte della dottrina platonica.

31. Contro l'argomentazione dei platonici con cui dichiarano coeterna a Dio l'anima umana.

32. La via aperta a tutti per la liberazione dell'anima che Porfirio cercando male non ha trovato e soltanto la grazia cristiana ha dischiuso.

Libro decimo

LA RELIGIONE DELLA SALVEZZA

Concetti attinenti alla vera religione (1-11)

Gli angeli e il culto religioso.
1.
1. È opinione generale di coloro i quali possono a qualsiasi livello usare la ragione che tutti gli uomini vogliono essere felici 1. Al contrario, nell'atto che l'insufficienza umana si pone il problema del soggetto che è felice e dell'oggetto da cui lo diviene, sono sorte molte e grandi controversie. In esse i filosofi hanno profuso studio e tempo. Ma è lungo e non necessario citarle ed esaminarle. Se il lettore richiama il criterio che nel libro ottavo abbiamo esposto nello scegliere i filosofi con cui trattare il problema della felicità che sopraggiungerà dopo la morte, se cioè possiamo raggiungerla col servizio religioso e rituale a un solo vero Dio, che è anche creatore degli dèi, o a più dèi, non si aspetti che tali concetti siano ripetuti, tanto più che se li ha dimenticati, può aiutare la memoria rileggendoli 2. Abbiamo infatti scelto i platonici, i più illustri meritatamente di tutti i filosofi, appunto perché sono riusciti a stabilire filosoficamente che l'anima dell'uomo, sebbene immortale e ragionevole o intelligente, può essere felice soltanto nella partecipazione del lume di quel Dio da cui sono stati creati essa e il mondo. Affermano quindi che non si conseguirà il bene che tutti desiderano, cioè la felicità, se non ci si unisce in purezza di casto amore all'unico sommo bene che è il Dio immutevole 3. Tuttavia anche essi, sia per adattarsi alla ubbia ed errore popolare, sia perché, come dice l'Apostolo, sragionarono nei propri pensieri 4, credettero o lasciarono credere che si devono adorare molti dèi. Alcuni di loro anzi ritennero che i divini onori dei misteri e dei sacrifici si devono tributare anche ai demoni. A costoro abbiamo risposto abbastanza esaurientemente. Ora nella trattazione si deve esaminare, per quanto Dio lo concede, in qual senso si deve ritenere che gli esseri immortali e felici stabiliti nella sede, nel dominio, nel primato e nel potere del cielo 5, che i platonici chiamano dèi e di essi alcuni demoni buoni o anche, con noi cristiani, angeli 6, vogliono che da noi siano praticate la religione e la pietà. Per dirlo più apertamente, si cerca se piace a loro che compiamo misteri e sacrifici, che consacriamo con riti religiosi alcune cose nostre o noi stessi anche a loro o soltanto al loro Dio che è anche il nostro.

Latria e culto.
1.
2. Questo è infatti il culto dovuto alla divinità, o, per esprimersi più propriamente, alla deità. Per indicarlo con una sola parola, poiché non me ne sovviene una latina abbastanza appropriata, manifesto il mio pensiero, dove è necessario, con una parola greca. I nostri scrittori, in qualsiasi passo della Scrittura si trovi, tradussero con "servizio" 7. Ma il servizio che è dovuto agli uomini, in virtù del quale, come ordina l'Apostolo, i servi devono essere soggetti ai propri padroni 8, di solito si designa con un altro vocabolo greco 9; al contrario, per secondo l'uso con cui hanno parlato coloro che ci hanno trasmesso la parola divina, s'intende o sempre o così frequentemente che è quasi sempre quel servizio che appartiene al culto di Dio 10. Pertanto, se si vuol indicare soltanto il culto per sé, è chiaro che non è dovuto soltanto a Dio. Si dice anche che si onorano (colere) gli uomini che vengono esaltati in un ricordo o in una manifestazione celebrativa. E non solo per quegli oggetti, ai quali ci assoggettiamo con religiosa umiltà, ma anche per oggetti a noi sottoposti, si adopera la parola colere. Da questa parola sono denominati gli agricoltori, i coloni e gli abitanti (incolae). I pagani chiamano gli dèi stessi celicoli per il solo motivo che onorano il cielo, non certo adorandolo ma abitandovi, quasi come coloni del cielo 11. E questo non nel senso dei coloni che debbono la propria condizione al suolo in cui sono nati per l'esercizio dell'agricoltura sotto il dominio dei proprietari, ma nel senso indicato da un grande autore della lingua latina: Vi fu un'antica città fondata dai coloni di Tiro 12. Li ha chiamati "coloni" da incolere (abitare) e non da agricoltura. Per questo le città fondate da città più grandi, come da uno sciamare dei cittadini, si chiamano colonie. È quindi proprio vero che il culto nel significato originario della parola è dovuto soltanto a Dio, ma poiché culto significa anche altri oggetti, non si può in latino con una sola parola indicare il culto dovuto a Dio.

Religione e pietà.
1.
3. Anche la religione per sé sembrerebbe indicare non un culto qualsiasi ma quello dovuto a Dio e per questo i nostri hanno tradotto con questo vocabolo la parola greca 13. Tuttavia nell'uso linguistico latino, non degli analfabeti ma dei grandi letterati, si dice che la religione è dovuta ai vincoli umani di parentela, di affinità e di qualunque altro legame sociale 14. Dunque quando si tratta il problema del culto della deità, anche con la parola religione non si evita l'ambiguità in modo da poter dire con sicurezza che la religione è soltanto il culto a Dio, perché sembra che questa parola per eccezione si estenda ad indicare il rispetto dell'umana consanguineità 15. Anche la pietà, che i Greci chiamano, propriamente significa di solito il culto a Dio 16. Tuttavia si trova scritto che per deferenza si ha anche verso i genitori. Nel gergo popolare questa parola si usa anche per indicare le opere di misericordia 17. Penso che il fatto si sia verificato perché Dio ordina che si compiano soprattutto queste opere e dichiara che gli sono gradite in luogo o a preferenza dei sacrifici. Da questo modo di parlare è derivato che anche Dio è considerato pio 18. I Greci invece non lo considerano pio () a causa di un loro particolare modo di esprimersi, sebbene il loro volgo usi in luogo di misericordia 19. Perciò in alcuni passi della Scrittura 20, affinché la distinzione appaia più chiara, gli scrittori hanno preferito dire non che deriva per composizione dal culto buono ma che deriva dal culto a Dio 21. Noi latini non possiamo esprimere ambedue i significati con una sola parola. Dunque la parola greca in latino si traduce "servizio", ma quello con cui onoriamo Dio; anche la parola greca in latino significa "religione", ma quella che abbiamo verso Dio. Però noi non possiamo esprimere con una sola parola quella che essi chiamano, ma possiamo chiamarla il culto di Dio 22. Affermiamo che essa è dovuta soltanto al Dio che è il vero Dio e rende dèi i suoi adoratori 23. Tutti gli esseri dunque che sono immortali e felici nelle dimore del cielo, se non ci amano e non vogliono che noi siamo felici, non si devono certamente adorare. Se invece ci amano e ci vogliono felici, lo vogliono da quell'essere da cui anche essi sono felici. Forse che da un essere sono felici essi e da un altro noi?

Partecipazione in Plotino e all'inizio del quarto Vangelo.
2.
Ma per quanto riguarda questo problema, noi cristiani non abbiamo alcun dissenso con questi filosofi più eccellenti. Compresero infatti e nei loro scritti insegnarono esaurientemente in molti modi che essi sono felici da quello stesso principio da cui lo siamo anche noi, nell'essere raggiunti da un lume intelligibile che per loro è Dio e che è altro da loro. Da lui sono illuminati affinché risplendano e permangano perfetti e felici della partecipazione di lui 24. Plotino, spiegando il pensiero di Platone, spesso e diffusamente dichiara che anche quella che ritengono l'anima dell'universo è felice, come la nostra, da un medesimo principio e che esso è un lume altro da lei perché da esso è stata creata e di esso splende intelligibilmente perché intelligibilmente la illumina 25. Per chiarire queste realtà immateriali presenta anche un'analogia dai corpi luminosi e grandi del cielo visibile, come se egli sia il sole e lei la luna 26. Ritengono infatti che la luna sia illuminata dall'interporsi del sole 27. Il grande platonico parla dell'anima razionale, che più propriamente si dovrebbe chiamare intellettuale e stabilisce filosoficamente che anche le anime degli esseri immortali e felici sono del medesimo genere e non dubita che dimorino nelle sedi del cielo. Egli dichiara appunto che l'anima non ha superiore a sé se non l'essenza di Dio, che ha creato il mondo e da cui anch'essa è stata creata, e che a quegli spiriti posti in alto soltanto dal medesimo principio, che elargisce anche a noi, vengono assicurati la felicità e il lume dell'intelligenza della verità 28. E in questo si accorda col Vangelo in cui si legge: Vi fu un uomo mandato da Dio che aveva nome Giovanni; questi venne in testimonianza, per offrire testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce ma era per rendere testimonianza alla luce. Questi era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo 29. Nella distinzione si mostra assai chiaramente che l'anima razionale, cioè intellettuale, quale era in Giovanni, non poteva essere luce a sé ma splendeva della partecipazione di un'altra luce vera. Giovanni stesso lo conferma quando rendendogli testimonianza afferma: Noi tutti abbiamo ricevuto della sua pienezza 30.

Platonici fra politeismo e monoteismo.
3.
1. Stando così le cose, se i platonici e tutti gli altri che la pensassero così, dopo aver conosciuto Dio, lo onorassero come Dio, lo ringraziassero, non sragionassero nei propri pensieri 31, non divenissero da una parte fautori dei pregiudizi popolari e dall'altra non osassero opporvisi, affermerebbero certamente che tanto dagli spiriti immortali e felici come da noi mortali e infelici, per poter essere immortali e felici, si deve adorare l'unico Dio degli dèi che è il nostro e il loro.

Vera religione e salvezza.
3.
2. A lui dobbiamo il servizio, che in greco si dice , tanto nelle varie pratiche rituali come nelle nostre coscienze. Tutti insieme e ciascuno di noi siamo suoi templi 32, perché si degna di essere presente nell'unione comunitaria di tutti e in ciascuno, non più grande in tutti che in ciascuno, perché non si accresce nell'estensione e non diminuisce per divisibilità. Quando il nostro cuore è presso di lui diviene il suo altare; lo plachiamo mediante il sacerdozio del suo Unigenito; gli offriamo vittime cruenti se combattiamo fino al sangue per la sua verità; bruciamo per lui un incenso dal profumo delicato 33 quando bruciamo di pio e santo amore alla sua presenza; promettiamo e rendiamo a lui i suoi doni in noi e noi stessi; gli dedichiamo e consacriamo il ricordo dei suoi benefici nelle celebrazioni festive e nei giorni stabiliti, affinché col trascorrere del tempo non sopravvenga l'ingrato oblio; a lui sacrifichiamo nell'altare del cuore l'offerta dell'umiliazione e della lode fervente del fuoco della carità 34. Per averne visione, come potrà aversene, e per unirci a lui, ci purifichiamo da ogni contaminazione dei peccati e delle passioni disoneste e ci consideriamo cose divine nel suo nome. Egli è infatti principio della nostra felicità, egli fine di ogni desiderio. Scegliendolo, anzi scegliendolo di nuovo, perché l'avevamo perduto scartandolo dalla nostra scelta; scegliendolo di nuovo (religere) dunque, poiché proprio da questo si fa derivare religione 35, tendiamo a lui con una scelta di amore per cessare dall'affanno all'arrivo, felici appunto perché in possesso della pienezza in quel fine. Il nostro bene infatti, sul cui fine fra i filosofi esiste una grande controversia, non è altro che vivere in unione con lui, perché l'anima intellettuale si riempie e si feconda delle vere virtù soltanto nell'abbraccio incorporeo, se si può dire, di lui. Ci viene comandato di amare questo bene con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la virtù. Dobbiamo inoltre esser condotti a questo bene da coloro che ci amano e condurvi coloro che amiamo. Così sono adempiuti i due comandamenti da cui dipendono tutta la Legge e i Profeti: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, e: Amerai il prossimo tuo come te stesso 36. Perché infatti l'uomo sapesse amare se stesso, gli fu stabilito un fine al quale dirigere tutte le sue azioni per essere felice; chi si ama infatti non vuole altro che essere felice. E questo fine è unirsi a Dio 37. Dunque a chi sa amare se stesso, quando gli si comanda di amare il prossimo come se stesso, gli si comanda soltanto che, per quanto gli è possibile, lo sproni ad amare Dio. Questo è il culto di Dio, questa la vera religione, questa la retta pietà, questo il servizio dovuto soltanto a Dio. Quindi qualunque spirito immortale, di qualsiasi valore sia insignito, se ci ama come ama se stesso, vuole che noi, per esser felici, siamo soggetti a colui al quale anche egli è soggetto. Se dunque non adora Dio è infelice perché è privo di Dio; se poi adora Dio, non vuole essere adorato in luogo di Dio. Piuttosto accetta e favorisce con la forza dell'amore la parola di Dio che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto 38.

Culto divino e culto umano.
4.
Per tacere ora di altre cose che sono pertinenti all'ossequio religioso con cui si adora Dio, non v'è alcuno il quale osi dire che il sacrificio non è dovuto soltanto a Dio. Molti atti poi sono stati usurpati dal culto per essere deferiti a onori umani o per eccessiva umiltà o per detestabile adulazione. Tuttavia coloro ai quali vengono deferiti sono considerati uomini, ritenuti degni di onore e di venerazione e, se si riconosce loro molto, anche di adorazione. Ma chi ha potuto ritenere di dover sacrificare se non a colui che ha riconosciuto o pensato o immaginato come dio? Quanto infine sia antico il culto di Dio mediante il sacrificio lo indicano sufficientemente i due fratelli Caino ed Abele, perché Dio riprovò il sacrificio del maggiore di essi e accolse quello del minore 39.

Religione e sacrificio.
5.
Chi è poi tanto sciocco da ritenere che le cose offerte nei sacrifici siano indispensabili ad alcuni bisogni di Dio? La Scrittura lo dichiara in molti passi. Per non farla lunga, basterà citare da un salmo il versicolo: Ho detto al Signore: tu sei il mio Dio perché non hai bisogno dei miei beni 40. Si deve dunque ammettere che Dio non solo non ha bisogno di un animale o di altra cosa corruttibile e terrena ma neanche dell'onestà dell'uomo. Tutto ciò che riguarda il culto di Dio giova all'uomo e non a Dio. Non si potrà certamente dire di aver provveduto alla sorgente se si beve o alla luce se si vede. Dagli antichi Patriarchi furono offerti altri sacrifici immolando come vittime gli animali 41. Ora il popolo di Dio li conosce leggendo nella Scrittura ma non li offre più. In proposito si deve intendere soltanto che con quei riti furono significati gli atti che si compiono nella nostra coscienza affinché ci uniamo a Dio e per lo stesso fine veniamo in aiuto al prossimo. Dunque il sacrificio visibile è sacramento, cioè segno sacro di un sacrificio invisibile. Per questo il penitente nel profeta o lo stesso profeta, che vuole avere Dio clemente ai propri peccati, dice: Se tu avessi voluto un sacrificio, te lo avrei offerto ma tu non prendi diletto degli olocausti. È sacrificio a Dio un cuore contrito; Dio non sprezzerà un cuore contrito e umiliato 42. Osserviamo come in un medesimo passo dice che Dio non vuole e vuole il sacrificio. Non vuole dunque il sacrificio dell'animale ucciso e vuole il sacrificio del cuore contrito. Ha detto dunque che Dio non vuole il primo ma con esso viene indicato quello che, come ha soggiunto, egli vuole. Dio ha detto di non volere quei sacrifici nel senso con cui si ritiene dagli insipienti che egli li voglia quasi in vista di una sua soddisfazione. Ci sono dei sacrifici che egli vuole, fra cui uno è il cuore contrito e umiliato dal dolore del pentimento. Se egli però non volesse che fossero significati dagli altri che, come si è pensato, avrebbe desiderato come apportatori di piacere per sé, certamente nell'antica Legge non avrebbe prescritto di offrirli 43. Dovevano perciò essere cambiati al momento opportuno affinché non si ritenesse che fossero oggetto di desiderio da parte di Dio e di propiziazione per noi anziché le realtà che essi significavano. Perciò dice in un passo di un altro salmo: Se avessi fame, non lo direi a te, perché mia è la terra e quanto contiene. Forse che dovrò mangiare le carni dei tori e bere il sangue dei capri? 44. Sembra che voglia dire: "Se ne avessi bisogno, non chiederei a te le cose che ho in potere". Poi, spiegando il significato delle parole, soggiunge: Offri a Dio il sacrificio della lode e rendi all'Altissimo le tue offerte e invocami nel giorno della sofferenza, io te ne libererò e tu mi darai gloria 45. In un altro profeta si dice: Mediante che cosa raggiungerò il Signore e afferrerò il mio Dio altissimo? Lo raggiungerò forse mediante gli olocausti e gli agnelli di un anno? Forseché il Signore gradirà mille arieti o diecimila capri grassi? Forse dovrò dare per la mia empietà i primogeniti dei miei animali e per il mio peccato il figlio delle mie viscere? Ma, o uomo, ti è stato annunziato che cos'è il bene, ovvero che cosa il Signore richiederà da te? Soltanto operare la giustizia, praticare il bene ed essere pronto a camminare col Signore tuo Dio 46. Nelle parole di questo profeta è distinto e chiaramente determinato l'uno e l'altro, e cioè che Dio non richiede i sacrifici visibili e che con essi sono indicati i sacrifici interiori che Dio richiede. Nella lettera intestata agli Ebrei l'autore dice: Non dimenticare di fare il bene e di comunicarlo con gli altri; con questi sacrifici si è graditi a Dio 47. Quindi nella frase della Scrittura: Preferisco opere di bene al sacrificio 48 si deve intendere soltanto che un sacrificio è preferito all'altro, perché quello che comunemente è considerato sacrificio è segno del vero sacrificio. Pertanto, fare il bene è dunque il vero sacrificio. Per questo è stata scritta la frase che ho citato poco fa: Con tali sacrifici si è graditi a Dio. Tutte le prescrizioni dunque che in merito al ministero del tabernacolo e del tempio, come si legge nella Scrittura, sono state in varie maniere ordinate da Dio riguardo ai sacrifici, si riferiscono ad indicare l'amore di Dio e del prossimo. A questi due comandamenti infatti, come è stato scritto, si riducono tutta la Legge e i Profeti 49.

Sacrificio e spirito comunitario.
6.
Dunque vero sacrificio è ogni opera con cui ci si impegna ad unirci in santa comunione a Dio, in modo che sia riferita al bene ultimo per cui possiamo essere veramente felici. Quindi anche il bene con cui si soccorre l'uomo, se non si compie in relazione a Dio, non è sacrificio. Infatti, sebbene il sacrificio sia compiuto e offerto dall'uomo, è cosa divina; tanto è vero che anche i vecchi Latini l'hanno chiamato così 50. Pertanto l'uomo stesso consacrato nel nome di Dio e a lui promesso, in quanto muore al mondo per vivere di Dio, è un sacrificio. Anche questo appartiene al bene che l'uomo compie in favore di se stesso. Perciò è stato scritto: Abbi pietà della tua anima col renderti gradito a Dio 51. Quando castighiamo anche il nostro corpo con la temperanza, se lo facciamo, come è dovere, in relazione a Dio per non offrire le nostre membra come armi d'iniquità al peccato, ma come armi di giustizia a Dio 52, anche questo è un sacrificio. Ad esso esortandoci l'Apostolo dice: Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi come offerta viva, santa, gradita a Dio, come vostro ossequio ragionevole 53. Allora il corpo che per la sua debolezza l'anima usa come un servo o uno strumento, quando il suo impiego morale e onesto si riferisce a Dio, è un sacrificio. A più forte ragione dunque diviene un sacrificio l'anima stessa quando si pone in relazione con Dio affinché, accesa dal fuoco del suo amore, perda la forma della terrena passione e sottomessa si riformi a lui come a forma che non muta, resa quindi a lui gradita perché ha ricevuto della sua bellezza. L'Apostolo citato esprime questo pensiero soggiungendo: Non conformatevi a questo mondo che passa, ma riformatevi in un rinnovamento della coscienza, per rendervi consapevoli qual è il volere di Dio, l'azione buona, gradita, perfetta 54. Ora i veri sacrifici sono le opere di misericordia verso noi stessi e verso il prossimo che sono riferite a Dio. Le opere di misericordia inoltre si compiono per liberarsi dalla infelicità e così divenire felici; e questo si ottiene solamente con quel bene di cui è stato detto: Il mio bene è unirmi a Dio 55. Ne consegue dunque che tutta la città redenta, cioè l'assemblea comunitaria dei santi, viene offerta a Dio come sacrificio universale per la mediazione del sacerdote grande che nella passione offrì anche se stesso per noi nella forma di servo perché fossimo il corpo di un capo così grande 56. Ha immolato la forma di servo, in essa è stato immolato, perché in essa è mediatore, sacerdote e sacrificio. L'Apostolo dunque ci ha esortato a presentare il nostro corpo come offerta viva, santa e gradita a Dio, come nostro ossequio ragionevole, a non conformarci al mondo che passa ma a riformarci nel rinnovamento della coscienza, per renderci consapevoli qual è la volontà di Dio, l'azione buona, gradita e perfetta. E questo sacrificio siamo noi stessi. Poi soggiunge: Dico nella grazia di Dio, che mi è stata data, a tutti quelli che sono nella vostra comunità di non esaltarvi più di quanto è necessario, ma di valutare con moderazione, nel modo con cui Dio ha distribuito a ciascuno la regola della fede. Come infatti nel corpo abbiamo molte membra che non hanno tutte la medesima funzione, così molti siamo in Cristo un solo corpo e ciascuno è membro dell'altro perché abbiamo carismi diversi secondo la grazia che ci è stata data 57. Questo è il sacrificio dei cristiani: Molti e un solo corpo in Cristo. La Chiesa celebra questo mistero col sacramento dell'altare, noto ai fedeli, perché in esso le si rivela che nella cosa che offre essa stessa è offerta.

Gli angeli nel disegno della salvezza.
7.
Dunque gli spiriti immortali e felici, stabiliti nelle sedi del cielo, che godono della partecipazione del loro Creatore, perché sono stabili della sua eternità, certi della sua verità, santi nel suo servizio, usano misericordia nell'amare noi mortali e infelici, affinché diveniamo immortali e felici. Giustamente quindi non vogliono che noi sacrifichiamo a loro ma a colui del quale sanno di essere sacrificio assieme a noi. Assieme a loro infatti siamo un'unica città di Dio. Ad essa si dice in un salmo: Di te si narrano imprese molto gloriose, o città di Dio 58. Una sua parte è esule in noi, l'altra ci viene in soccorso con loro. Dalla celeste città, in cui la volontà di Dio è legge intelligibile e immutabile, da essa che in certo senso è la curia celeste, perché in essa si ha cura di noi, proviene a noi, somministrata mediante gli angeli santi, la Scrittura che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto 59. Grandi prodigi hanno comprovato questo passo della Scrittura, questa legge, simili comandamenti. È manifesto dunque a chi vogliono che noi sacrifichiamo gli spiriti eternamente felici i quali desiderano per noi il medesimo bene che per se stessi.

Prodigi nell'Antico Testamento.
8.
Infatti se richiamo i fatti più antichi, potrà sembrare che torno indietro più di quanto si richiede per ricordare i miracoli avvenuti a comprovare le promesse di Dio con cui migliaia di anni prima predisse ad Abramo che nel suo seme tutti i popoli avrebbero ricevuto benedizione 60. Ognuno infatti si meraviglia che la moglie sterile generò ad Abramo un figlio in quel periodo della vecchiaia in cui neanche una donna feconda potrebbe più generare 61. Inoltre in un sacrificio che Abramo offrì, una fiamma venuta dal cielo passò fra le vittime divise a metà 62. Al medesimo Abramo fu predetto, per mezzo di angeli in forma umana che aveva ospitato, il prodigioso incendio di Sodoma e da essi ebbe la conferma della promessa fatta da Dio sul figlio che doveva nascere 63. Inoltre, essendo imminente l'incendio, c'è la prodigiosa liberazione di Loth, figlio di un fratello di Abramo, per mezzo dei medesimi angeli, mentre sua moglie, voltatasi indietro e divenuta immediatamente di sale 64, stava ad ammonire, con un grande prodigio, che nella via della propria liberazione non si deve avere nostalgia del passato. Molti e grandi sono i prodigi, strepitosamente compiuti mediante Mosè in Egitto, per liberare il popolo di Dio dalla schiavitù. Fu consentito ai maghi del faraone, cioè del re di Egitto, che opprimeva tirannicamente il popolo, di compiere alcune azioni strepitose affinché fossero più strepitosamente sconfitti. Essi le compivano con stregonerie e incantesimi ai quali sono dediti gli angeli cattivi, cioè i demoni. Mosè li superò facilmente, attraverso il ministero degli angeli, con potere pari alla giustizia nel nome di Dio che ha fatto il cielo e la terra 65. Infine, essendo stati superati i maghi alla terza piaga, mediante Mosè, attraverso uno straordinario susseguirsi di avvenimenti arcani, furono condotte a termine le dieci piaghe con cui il duro cuore del faraone e degli Egiziani fu piegato a lasciar andare il popolo di Dio. Se ne pentì subito il faraone e tentò d'inseguire gli ebrei che si allontanavano; ma mentre essi, divisosi il mare, passarono sull'asciutto, gli Egiziani furono travolti e sommersi dalle acque che si riunirono dall'una e dall'altra parte 66. Che dire di quei miracoli che si moltiplicarono per uno straordinario intervento divino mentre il popolo era guidato nel deserto? Acque non potabili con l'immersione di un bastone, come Dio aveva ordinato, perdettero il sapore amaro e dissetarono gli ebrei assetati 67. Poiché avevano fame, venne dal cielo la manna ed essendo stata stabilita una misura nel raccoglierla, qualora se ne raccoglieva di più, marciva per i vermi, ma raccolta il doppio nel giorno prima del sabato, dato che di sabato era proibito raccoglierla, era immune da imputridimento 68. Quando desiderarono cibarsi di carne, anche se sembrava impossibile averne a sufficienza per un popolo tanto numeroso, le tende si riempirono di uccelli e l'ardente desiderio finì nell'uggia 69. I nemici, venuti incontro per impedire il passaggio con azioni militari, furono sconfitti senza che alcun ebreo cadesse, mentre Mosè pregava con le braccia distese in forma di croce 70. I sediziosi nel popolo di Dio, che operavano scissioni in una società ordinata per intervento divino, furono inghiottiti vivi dalla terra apertasi improvvisamente ad esempio visibile di una pena invisibile 71. Una pietra colpita da una verga sgorgò acque abbondanti per una così grande moltitudine 72. I morsi letali di serpenti, giusta pena di peccati, furono guariti col guardare un serpente di bronzo innalzato sopra un'asta di legno, perché fosse soccorso il popolo colpito e perché la morte sconfitta dalla morte fosse figurata quasi nell'analogia della morte sulla croce 73. E quando il popolo incorso nell'errore cominciò ad adorare come idolo il serpente di bronzo conservato a ricordo del fatto, Ezechia, sovrano che esercitò il potere a servizio di Dio, con gesto altamente benemerito per la religione lo distrusse 74.

Teurgia e magia.
9.
1. Questi fatti ed altri simili, che è troppo lungo enumerare, avvenivano per inculcare l'adorazione di un solo Dio e impedire quella di molti e falsi dèi. Avvenivano mediante la schietta e confidente fede religiosa e non con incantesimi e formule composte con l'arte di un'infame curiosità che chiamano magia, o con termine più detestabile stregoneria o con uno più accettabile teurgìa 75. I pagani pretendono di discriminare queste pratiche e vogliono far apparire degni di condanna individui dediti ad arti illecite, perché anche il volgo li considera operatori di maleficio. Sono quelli che, dicono, si dedicano alla stregoneria. Fanno apparire invece degni di lode gli altri che considerano dediti alla teurgia. Eppure gli uni e gli altri sono asserviti ai falsi riti dei demoni sotto il nome di angeli.

Teurgia catartica e le incertezze di Porfirio.
9.
2. Anche Porfirio promette una determinata catarsi dell'anima mediante la teurgia ; ma lo fa con esitazione e con discorso piuttosto riguardoso. Afferma al contrario che questa pratica non offre ad alcuno il ritorno a Dio. Puoi rilevare quindi che egli con espressioni date ora in un senso ora nell'altro si destreggia fra la colpa di una sacrilega curiosità e la professione della filosofia. Talora infatti ammonisce che questa arte si deve evitare come falsa, pericolosa nella pratica e vietata dalle leggi. Talora invece, assentendo ai suoi sostenitori, la considera utile per la catarsi di una parte dell'anima, non di quella intellettuale, con la quale si conosce con certezza la verità degli oggetti intelligibili che non hanno alcuna analogia con i sensibili, ma di quella pneumatica con cui si percepisce la forma degli oggetti sensibili. Egli afferma che mediante alcune cerimonie teurgiche, che chiamano iniziazioni, l'anima diviene perfetta, disposta ad accogliere gli spiriti e gli angeli e a vedere gli dèi 76. Tuttavia confessa che da queste iniziazioni teurgiche non si aggiunge alcuna purificazione all'anima intellettuale che la renda idonea a vedere il suo Dio e ad avere conoscenza degli oggetti che sono veri. Se ne può dedurre di quali dèi parli e quale visione si abbia, mediante i riti teurgici, poiché con essa non si avrebbe visione degli oggetti che sono veri. Afferma inoltre che l'anima razionale o, come preferisce dire, intellettuale può elevarsi nel suo cielo anche se ciò che in lei v'è di pneumatico non è stato purgato con alcuna pratica teurgica; che anzi anche la pneumatica dall'operatore di teurgia è limitatamente purgata, ma non per questo può giungere alla sfera delle cose immortali ed eterne. Egli comunque separa gli angeli dai demoni dimostrando che la sfera dell'aria è dei demoni e quella dell'etere o empireo degli angeli, esorta a valersi dell'amicizia di qualche demone, con la cui forza elevatrice ci si può innalzare un tantino da terra dopo la morte, ma dichiara che altra è la via per giungere alla più alta comunione con gli angeli. Afferma tuttavia piuttosto espressamente che il rapporto con i demoni deve esser evitato, là dove dice che dopo la morte l'anima, per scontare la pena, ha in orrore il culto dei demoni dai quali era raggirata. Non poté inoltre negare che la stessa teurgia, che esalta come conciliatrice degli angeli e degli dèi, agisce nei confronti di alcuni spiriti in modo che anche essi ostacolino la catarsi dell'anima o agevolino le pratiche di coloro che la ostacolano. In proposito riferisce la lamentela di non saprei quale caldeo. Un buon uomo della Caldea, egli dice, lamenta che in un suo grande impegno per purificare l'anima i risultati furono resi vani, perché un uomo competente nelle medesime pratiche, preso dall'invidia, legò con pratiche misteriche gli spiriti supplicati in modo che non concedessero i favori richiesti. Dunque uno legò, l'altro non sciolse. Con questa indicazione venne ad affermare che la teurgia si configura come disciplina del fare tanto il bene quanto il male, sia presso gli dèi come presso gli uomini. Anche gli dèi, secondo lui, sono condizionati e sono indotti a quelle perturbazioni o passioni che Apuleio ritiene comuni ai demoni e agli uomini 77. Apuleio tuttavia divide gli dèi dagli altri per l'altezza della sede nell'etere e in questa differenziazione ricalca l'opinione di Platone 78.

Teurgia che impedisce il favore degli dèi.
10.
Comunque l'altro platonico che dicono più dotto, Porfirio, afferma che mediante non saprei quale teurgica disciplina anche gli dèi sono condizionati alle passioni e alle perturbazioni. È stato possibile infatti che con riti misterici siano stati scongiurati e costretti a non conferire la purificazione dell'anima e siano stati spaventati dall'individuo che ordinava il male da non poter essere, mediante la medesima pratica teurgica, sciolti dal timore con l'aiuto dell'altro che chiedeva il bene e lasciati liberi di concedere il beneficio. Soltanto un individuo, che è loro sciaguratissimo schiavo e privo della grazia del vero liberatore, non riflette che queste sono suggestioni di demoni bugiardi. Infatti se queste faccende si trattassero presso dèi buoni, varrebbe certamente in quella sede più un benefico datore di catarsi dell'anima che uno il quale per malevolenza la impedisce. Ovvero se a dèi giusti sembrava immeritevole l'uomo, per cui si trattava la causa, dovevano negare la catarsi per libero giudizio e non perché spaventati da un individuo o perché impediti, come egli dice, dal timore di una divinità più potente. C'è da meravigliarsi che quel caldeo dabbene, il quale desiderava purificare l'anima con misteri teurgici, non trovò un altro dio più bravo. Costui poteva costringere gli dèi atterriti ad agir bene atterrendoli di più o allontanare da loro chi li atterriva affinché liberamente agissero bene; ma questo nel caso che al buon operatore di teurgia mancassero misteri con cui prima purificare dalla soggezione al timore gli dèi stessi che invocava come purificatori dell'anima. Ma che discorso sarebbe questo infatti, che un dio più potente si possa impegnare perché siano da lui atterriti e non si possa perché siano liberati dal timore? Si trova forse un dio che esaudisce l'invidioso e incute timore agli dèi perché non facciano il bene e non si trova un dio che esaudisca l'uomo benevolo e bandisca il timore dagli dèi affinché facciano il bene? O illustre teurgia, o encomiabile catarsi dell'anima, in cui l'invidia spietata influisce di più di quanto ottenga l'onesto far del bene. Piuttosto si deve evitare e detestare l'inganno degli spiriti maligni ed ascoltare la dottrina della salvezza. Infatti che coloro, i quali compiono queste immonde purificazioni con riti sacrileghi, veggano (se è vero che è così), quasi nella condizione di uno spirito purificato, alcune immagini meravigliosamente belle, come narra Porfirio, di angeli o di dèi si spiega con quanto dice l'Apostolo: Che satana si è trasfigurato nelle sembianze di un angelo della luce 79. Sono suoi quei fantasmi, perché egli desidera irretire anime disgraziate con i menzogneri misteri di molti e falsi dèi e allontanarle dal vero culto del vero Dio da cui solo sono mondate e guarite. Si cambia cioè, come è stato detto di Proteo, in tutte le forme 80, perseguitando da nemico, soccorrendo da impostore, facendo del male nell'uno e nell'altro caso.

Porfirio denuncia ad Anebon gli aspetti deteriori...
11.
1. Questo Porfirio fu più saggio quando scrisse all'egiziano Anebon perché, da pari con chi lo interpellava e interrogava, dichiarò sacrileghe le arti teurgiche e le condannò. Nella lettera riprova tutti i demoni perché afferma che per mancanza di conoscenza accolgono il soffio umido e che quindi non sono nell'etere ma nell'aria sublunare o anche nel globo stesso della luna; non osa tuttavia attribuire a tutti i demoni gli inganni, le malvagità e assurdità di cui è giustamente indignato. Secondo il costume degli altri filosofi considera benigni alcuni demoni, sebbene ammetta che tutti in generale manchino di conoscenza. Si meraviglia che non solo gli dèi siano allettati dalle vittime ma che siano anche indotti per costrizione a fare ciò che gli uomini vogliono. Dato che gli dèi sono distinti dai demoni per soggezione o immunità dalla materia, si chiede anche in qual senso si deve intendere che sono dèi il sole, la luna e gli altri oggetti celesti visibili che indubbiamente ritiene corpi; e se sono dèi, in qual senso si afferma che alcuni sono benefici ed altri malefici e in qual senso, sebbene abbiano il corpo, si uniscano a quelli che non lo hanno. Si chiede con perplessità se negli indovini e negli altri operatori di fatti straordinari siano le modificazioni dell'anima ovvero se vengano spiriti dal di fuori a determinare questi effetti. Propende a opinare che provengano dal di fuori perché, usando pietre ed erbe, fanno cadere in trance alcuni individui, aprono porte chiuse o producono in modo fuori del comune effetti di questo genere. Perciò, afferma Porfirio, altri filosofi ritengono che esistano spiriti di una certa categoria, il cui compito è di porsi in contatto con gli uomini. Essi sono impostori per natura, assumono ogni figura e molti aspetti, scimmiottando dèi, demoni e anime dei defunti e sarebbero essi a compiere tutte queste azioni che all'apparenza possono esser buone o cattive. Del resto, per quanto riguarda le azioni che sono buone secondo verità, essi non servono a nulla. Anzi neanche le conoscono ma rendono discordi, calunniano e ostacolano talora i diligenti operatori della virtù. Sono pieni di sfrontatezza e alterigia, godono del lezzo delle vittime, sono allettati dalle adulazioni. Infine, Porfirio non afferma come convinzioni proprie le altre teorie che riguardano questa categoria di spiriti menzogneri e maligni che dal di fuori vengono nell'anima e ingannano i sensi umani nel sonno e nella veglia; ma le propone in forma di opinione infondata o di dubbio al punto da affermare che sono gli altri a pensarla così 81. Fu difficile a un filosofo per quanto grande conoscere e riprovare apertamente la lega diabolica che qualsiasi vecchietta cristiana ammette senza esitazione e detesta in piena libertà. Ma forse egli teme di offendere lo stesso Anebon a cui scrive, poiché era sacerdote illustre di simili misteri, e altri ammiratori di tali riti considerati religiosi e relativi al culto degli dèi.

...e le incoerenze della teurgia.
11.
2. Prosegue tuttavia e nella sua indagine ricorda pratiche che esaminate senza prevenzioni si possono attribuire soltanto a spiriti maligni e impostori. Si chiede infatti perché con l'invocare quelli che sembrano migliori ci si impone ai peggiori affinché eseguano ingiusti ordini umani; per quale motivo non esaudiscono chi li invoca perché assalito dalla passione amorosa, mentre essi non esitano ad indurre chiunque ad amplessi incestuosi; perché dichiarano indispensabili che i propri sacerdoti si astengano dalle carni di animali affinché non siano contaminati dalle esalazioni dei corpi ed essi si deliziano di altre esalazioni e del lezzo delle vittime e mentre si proibisce al celebrante il contatto con un cadavere, spesso essi sono celebrati con i cadaveri; per quale motivo un individuo colpevole rivolge minacce non a un demone o all'anima di un defunto ma al sole stesso, alla luna o ad un altro dei corpi celesti e li spaventa con la menzogna per estorcere da loro la verità. Infatti un tizio minaccia di far cadere il cielo e altre simili imprese umanamente impossibili affinché gli dèi, come fanciulli sciocchi, atterriti da fasulle e ridicole minacce, compiano ciò che è loro comandato. Un certo Cheremone, continua Porfirio, esperto di simili riti sacri o piuttosto sacrileghi, ha scritto che i misteri celebrati con grida nei confronti di Iside e del marito Osiride hanno la massima efficacia per costringere ad eseguire gli ordini. Il tizio che costringe mediante le formule magiche minaccia di cacciarli via e di sterminarli e dice perfino con accento terribile che sparpaglierà le membra di Osiride se trascurano di eseguire i suoi comandi 82. Dunque l'uomo rivolge agli dèi una minaccia così sciocca e brutale e non a uno qualsiasi ma a quelli celesti splendenti di luce stellare, e non senza effetto, ma costringendoli con un mezzo violento e inducendoli con questi spaventi a fare quel che egli vorrà. Porfirio giustamente se ne meraviglia. Anzi l'atteggiamento di chi si meraviglia e ricerca le ragioni di simili fatti dà a capire che si comportano così gli spiriti dei quali in precedenza, riportando l'opinione di altri, ha esposto la caratteristica. Essi non essendo, come egli ha affermato, impostori per natura ma per difetto, scimmiottano gli dèi e le anime dei defunti. Però non scimmiottano, come egli dice, i demoni, perché lo sono. A lui sembra che con erbe, pietre e animali, con determinati suoni della voce e delineazioni di figure ed anche con l'attenzione ad alcuni movimenti degli astri nella rivoluzione del cielo si ottengano in terra dagli uomini poteri adatti a raggiungere i vari effetti. Ma tutto questo è proprio degli stessi demoni che ingannano le anime ad essi soggette e che dagli errori degli uomini offrono divertimenti a se stessi. Dunque Porfirio, essendo in stato di dubbio e di ricerca, espone queste pratiche perché siano confutate e condannate e si mostri così che non appartengono a quegli spiriti che ci aiutano nel conseguire la felicità ma a demoni impostori; oppure, per pensare più benevolmente del filosofo, non volle con l'altera autorevolezza dell'insegnante offendere l'egiziano che era dedito a tali errori e si illudeva di conoscere una grande dottrina e non volle turbarlo apertamente con una diatriba ma, quasi con l'umiltà di chi ricerca e desidera di sapere, stimolarlo a rifletterci sopra e mostragli così che tali errori si devono disprezzare ed anche evitare. Poi verso la fine della lettera chiede di essere informato da lui quale, secondo la filosofia egiziana, sia la via alla felicità 83. Del resto per quanto riguarda gli individui che avessero un rapporto con gli dèi al punto da infastidire l'intelligenza divina per ritrovare uno schiavo fuggitivo o per comprare un terreno, o per le nozze, il commercio e simili, egli afferma che, secondo lui, invano si dedicano alla filosofia 84. Per quanto poi riguarda le divinità, con cui sarebbero in rapporto, anche se nelle altre cose predicessero il vero, tuttavia, poiché non dichiarano nulla di sicuro e di sufficientemente idoneo sulla felicità, non sono dèi né demoni benigni ma o quello che è detto l'impostore o senz'altro una mistificazione umana.

Apologetica della vera religione (12-32)

Immutabilmente Dio interviene con segni nel mondo...
12.
Tuttavia con queste pratiche si ottengono effetti così grandi e di tale portata da superare ogni limite dell'umana possibilità. Gli eventi straordinari, come predizione o prodigi, sembrano dovuti a un intervento divino ma non sono relativi al culto dell'unico Dio, dato che unirsi a lui con semplicità, anche per confessione e ripetute dichiarazioni dei platonici, è l'unico bene che rende felici. Rimane dunque che si debbano spiegare come scherni e ingannevoli ostacoli dei demoni da evitarsi con la vera pietà. Si deve credere inoltre che i vari miracoli compiuti o mediante gli angeli o con altra forma dell'intervento divino in modo che inculchino il culto e la religione dell'unico Dio, in cui soltanto è la felicità, sono operati veramente da loro o mediante loro che ci amano secondo verità e pietà, con l'intervento di Dio che opera in loro. In proposito non si devono ascoltare coloro i quali dicono che Dio invisibile non può operare visibili miracoli, poiché, anche secondo loro, ha creato il mondo che certamente, non lo possono negare, è visibile. Quindi ogni evento straordinario in questo mondo è evidentemente di minore entità di tutto questo mondo, cioè del cielo e della terra e di tutte le cose in essi esistenti che certamente Dio ha creato. E come egli che li ha creati, così anche il modo con cui li ha creati è occulto e incomprensibile per l'uomo. Dunque sebbene il miracolo degli esseri visibili si è svilito per l'assiduità nel vederlo, tuttavia, se lo esaminiamo saggiamente, è più grande di quelli più inusitati e rari. L'uomo infatti è un miracolo più grande di qualsiasi miracolo che si compie mediante l'uomo. Pertanto Dio che ha creato visibili il cielo e la terra non sdegna di operare miracoli visibili nel cielo e nella terra. Con essi sollecita l'anima ancora dedita alle cose visibili a onorare lui invisibile. Dove e quando li operi è decisione immutevole che rimane in lui, perché nel suo ordinamento sono già in atto tutti i tempi futuri. Infatti nel muovere le cose nel tempo egli non si muove nel tempo e non conosce in modo diverso i fatti che devono avvenire da quelli avvenuti e non esaudisce chi lo invoca in modo diverso da come vede chi lo invocherà. Quando esaudiscono i suoi angeli, è lui che esaudisce in essi come in suo tempio non costruito dall'uomo e allo stesso modo nei suoi uomini santi. Nel tempo si compiono i suoi decreti che ha contemplato nella sua legge eterna 85.

...e nei fatti umani.
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Né deve turbare il fatto che, sebbene sia invisibile, è apparso visibilmente, come si narra, ai patriarchi 86. Come il suono infatti con cui si ode un pensiero formulato nel silenzio dell'intelligenza non è il pensiero stesso, così la figura con cui si manifestò Dio costituito nel suo essere invisibile non era ciò che è lui. Tuttavia egli appariva nella figura visibile come il pensiero stesso si ode nel suono della voce. I patriarchi non ignoravano di vedere il Dio invisibile nella figura visibile che non era lui. Mosè parlava con lui che parlava e tuttavia gli diceva: Se ho trovato grazia davanti a te, mostrami te stesso affinché ti conosca col pensiero 87. Era necessario dunque che si desse la legge di Dio mediante ordinanze degli angeli in forma terrificante 88, non a un solo uomo o a pochi saggi ma a tutta una nazione e a un popolo numeroso. Quindi grandi prodigi furono operati davanti al popolo su un monte, quando per mezzo di uno solo veniva concessa la legge 89, mentre la moltitudine vedeva i fatti temibili e terribili che avvenivano. Infatti il popolo d'Israele non credette allo stesso modo con cui gli Spartani credettero al loro Licurgo che avesse ricevuto da Giove o Apollo le leggi da lui istituite 90. Mentre si dava al popolo una legge con cui si comandava di adorare un solo Dio, davanti al popolo stesso con straordinari segni e movimenti delle cose, nei limiti in cui la divina provvidenza giudicava indispensabile, si rendeva manifesto che per dare quella legge la creatura era sottomessa al Creatore.

...per educare alla fede nella provvidenza...
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Come la retta educazione dell'individuo così anche quella del genere umano, per quanto riguarda il popolo di Dio, progredì attraverso traguardi di tempi, in analogia allo sviluppo delle età, affinché si formasse dalle cose divenienti all'apprendimento delle cose eterne e dalle visibili a quello delle invisibili 91. Quindi anche in quel tempo in cui da Dio si promettevano ricompense visibili, si inculcava che si deve adorare un solo Dio. Così l'intelligenza umana, anche per quanto riguarda gli stessi beni terreni della vita che fugge, si doveva sottomettere soltanto al vero Creatore e Signore dell'anima. È irragionevole infatti chi nega che tutte le cose, che gli angeli e gli uomini possano concedere agli uomini, sono in potere di un solo Onnipotente. Il platonico Plotino ammette senza esitazione la provvidenza e dimostra dalla bellezza dei fiori e delle piante che essa dal sommo Dio, che ha bellezza ineffabilmente intelligibile, giunge fino alle cose più basse della terra. Dichiara che tutte queste cose spregevoli ed estremamente precarie possono avere i gradi convenienti delle proprie forme soltanto se le ricevono dall'essere in cui permane la forma intelligibile e non diveniente che ha in atto la totalità dell'essere 92. Gesù lo dichiara con le parole: Osservate i gigli del campo, non lavorano e non tessono. Ma io vi dico che neanche Salomone in tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così un'erba del campo che oggi è e domani si getta nel braciere, quanto più voi, uomini di poca fede? 93. Giustamente quindi l'anima ancora legata ai terreni desideri si abitua ad attendere soltanto dall'unico Dio i beni infimi della terra che desidera nel tempo, perché indispensabili alla vita che fugge, ma spregevoli al confronto con i beni della vita eterna. Così, pur nel desiderio dei beni terreni, non si allontana dal culto a lui che deve raggiungere disprezzandoli e volgendosi in senso contrario ad essi.

...e all'ascolto della parola di Dio nella rivelazione.
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Pertanto è piaciuto alla divina provvidenza di ordinare il corso dei tempi così che, come ho detto e come si legge negli Atti degli Apostoli 94, si emanasse mediante le ordinanze degli angeli una legge sul culto dell'unico vero Dio. In esse la persona di Dio stesso poteva manifestarsi visibilmente, non certo nella sua esseità che rimane sempre invisibile a una vista condizionata alla materia, ma con determinati segni mediante la creatura soggetta al Creatore. Allo stesso modo egli, sillaba su sillaba, cioè attraverso piccole lunghezze di tempo poste in una successione, parlava con i suoni della lingua umana, sebbene egli nel suo essere, cioè in una dimensione non fisica ma spirituale, non sensibile ma intelligibile, non posta nel tempo ma, per così dire, nell'eternità, non è soggetto all'inizio e alla fine del parlare 95. Gli spiriti che eseguono e annunziano i suoi comandi ascoltano vicino a lui questa sua parola in una dimensione più pura, non con l'udito del corpo ma della mente, perché godono eternamente beati della sua verità, che non è nel divenire, e senza indugio e difficoltà eseguono ciò che in modo ineffabile ascoltano di dover eseguire e calare nella realtà sensibile e visibile. Questa legge è stata data in tempi diversi perché prima doveva contenere, come è stato detto, le promesse terrene, sebbene con esse venissero significate le eterne che molti celebravano con riti visibili e pochi comprendevano 96. Tuttavia in esse è comandato con una apertissima affermazione di tutte le parole e di tutti i fatti il culto di un solo Dio, non di uno fra una folla di dèi, ma di colui che ha creato il cielo e la terra, ogni anima e ogni spirito che sono altro da lui 97. Egli li ha creati ed essi sono stati creati e hanno bisogno di lui che li ha creati per esistere e raggiungere il fine.

Ministero angelico come manifestazione di Dio nel mondo.
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1. A quali angeli dunque riteniamo si debba credere per quanto riguarda la felicità eterna? A quelli che pretendono di essere adorati con riti religiosi esigendo che dai mortali siano loro resi misteri e sacrifici; ovvero a quelli i quali affermano che l'adorazione è dovuta a un unico Dio, creatore del cielo e della terra, e comandano che gli sia resa con genuina pietà, perché della sua visione anche essi sono beati e promettono che anche noi lo saremo? Infatti la visione di Dio è visione di una bellezza così grande e degna di un amore così grande che Plotino non esita a considerare veramente disgraziato l'individuo che senza di essa fosse abbondantemente fornito di qualsiasi altro bene 98. Dunque alcuni angeli stimolano con segni straordinari ad adorare l'unico Dio, altri invece ad adorare col culto di latria se stessi, ma con la clausola che i primi proibiscono di adorare questi ultimi e questi non osano proibire di adorare un unico Dio. Rispondano i platonici a chi si deve credere, lo rispondano i vari filosofi, lo rispondano i teurgi o piuttosto periurgi, perché tutte quelle pratiche sono più meritevoli di questo nome. Rispondano infine gli uomini se in qualche modo vive in loro un intimo naturale sentimento di essere stati creati ragionevoli. Rispondano, dico, se si deve sacrificare a dèi e angeli che ordinano di sacrificare a se stessi ovvero a quell'unico al quale ordinano di sacrificare quelli che lo vietano per sé e per gli altri. Se né gli uni né gli altri facessero miracoli ma si limitassero a comandare, gli uni di sacrificare a se stessi, gli altri lo vietassero ma lo ordinassero soltanto per l'unico Dio, la schietta pietà ne avrebbe abbastanza per distinguere che cosa provenga dal loro orgoglio e che cosa dalla vera religione. Dico anche di più. Se soltanto quelli che esigono sacrifici per se stessi stimolassero la coscienza dell'uomo con fatti straordinari, mentre quelli che lo proibiscono e comandano di sacrificare soltanto a un unico Dio non si degnassero di operare visibili miracoli, si dovrebbe, fidandosi non del senso ma del pensiero, preferire la loro autorità. Dio ha agito così per garantire la manifestazione della propria verità. Quindi mediante questi immortali messaggeri, che non hanno esaltato il proprio orgoglio ma la sua maestà, egli ha compiuto miracoli più grandi, più certi, più evidenti. Questo affinché gli angeli che esigono sacrifici per sé non inducano con maggior facilità i credenti deboli a una falsa religione nel mostrare ai loro sensi alcuni fatti strepitosi. Dunque chi si compiace di essere tanto sciocco da non scegliere di accettare una dottrina vera quando scopre di dover ammirare eventi più straordinari?

...di cui il politeismo è privo.
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2. Ora parliamo dei miracoli degli dèi pagani che la storia ricorda. Non parlo quindi di quei fatti strepitosi che avvengono ogni tanto per occulti agenti del mondo stesso ma costituiti sotto la divina provvidenza e diretti al fine, come ad esempio, inconsueti parti degli animali e manifestazioni insolite nel cielo e sulla terra che provocano soltanto terrore o anche sciagure. Si fa credere dalla bugiarda astuzia dei demoni che possono essere provocate o mitigate mediante i loro misteri. Parlo di quei prodigi che abbastanza evidentemente, come si può vedere, sono operati per effetto del loro potere: si narra che il simulacro degli dèi penati, che Enea fuggendo trasportò da Troia, è passato da un luogo a un altro 99; Tarquinio tagliò la cote col rasoio 100; il serpente di Epidauro accompagnò Esculapio che navigava per Roma 101; una donnetta, a testimonianza del proprio pudore, fece muovere e avanzare, legandosela alla cintura, la nave con cui era trasportata la statua di Cibele rimasta immobile nonostante gli sforzi di uomini e di buoi 102; una vergine vestale, dato che si trattava la causa della sua prostituzione, pose fine alla discussione attingendo dal Tevere con un crivello acqua senza spargerla 103. Dunque questi miracoli e simili non si possono affatto paragonare per significato e grandezza a quelli che leggiamo avvenuti nel popolo di Dio. A più forte ragione non reggono il confronto quelli che dalle leggi dei popoli che onorarono questi dèi sono stati giudicati meritevoli di proscrizione con pena, cioè i miracoli magici e teurgici. Di essi alcuni ingannano solo nell'apparenza i sensi umani con una burlesca mistificazione, qual è far scendere la luna fino a che, come dice Lucano, da vicino non si spanda sull'erba che si stende al di sotto 104. E sebbene alcuni sembrino eguagliarsi nell'azione ad alcuni fatti dei credenti, il fine stesso, per cui si differenziano, mostra che i nostri prodigi eccellono senza possibilità di confronto. Tanto meno i molti dèi si devono adorare con quei sacrifici quanto più li esigono. Con i nostri si onora l'unico Dio il quale dichiara mediante l'attestazione delle sue Scritture 105 e in seguito con la rimozione dei medesimi sacrifici di non averne alcun bisogno. Se dunque vi sono angeli che esigono un sacrificio per sé, si devono a loro preferire quelli che li esigono non per sé ma per il Dio creatore di tutti al quale sono sottomessi. Proprio da questo dimostrano con qual sincero amore ci amano, quando mediante il sacrificio non intendono renderci sottomessi a sé, ma a lui della cui visione essi stessi sono beati, e farci giungere fino a lui dal quale non si sono allontanati. Ma poniamo che vi siano angeli i quali vogliano che si rendano sacrifici non a un unico Dio ma a più, non a sé ma a quegli dèi di cui sono angeli. Anche in questo caso si devono preferire quelli che sono angeli dell'unico Dio degli dèi, perché comandano di sacrificare a lui solo e vietano di sacrificare a qualunque altro, mentre i primi non impediscono di offrire sacrifici a colui al quale solamente costoro comandano di sacrificare. Ma supponiamo, come sta ad indicare soprattutto la loro superba volontà di mentire, che non siano angeli buoni e di dèi buoni ma demoni malvagi, poiché esigono che si onorino con sacrifici non l'unico solo sommo Dio ma se stessi. Quale maggiore difesa contro di loro si deve scegliere, in tal caso, di quella dell'unico Dio al quale sono sottomessi gli angeli buoni che comandano di offrire il servizio sacrificale non a sé ma a lui di cui noi stessi dobbiamo essere sacrificio?

Prodigi nella storia del popolo ebraico...
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In seguito la legge di Dio, che fu promulgata con ordinanze degli angeli 106 e con cui si comandò di adorare con la religione dei sacrifici il solo Dio degli dèi e si proibì di adorarne altri, fu deposta in un'arca 107. Si chiamava l'arca della testimonianza. Col termine s'indica abbastanza chiaramente che non Dio, il quale era adorato per mezzo di tutte quelle strutture, era racchiuso e compreso in quel luogo, sebbene dall'arca si davano i suoi responsi e determinate indicazioni ai sensi umani, ma che da lì si offrivano le testimonianze del suo volere. E questo indica anche la legge scritta in tavole di pietra e riposta, come ho detto, nell'arca. Durante il periodo del pellegrinaggio nel deserto i sacerdoti col dovuto rispetto la trasportavano assieme alla tenda chiamata anche essa la tenda della testimonianza 108. Ed era un segno il fatto che durante il giorno appariva una nube che di notte splendeva come fuoco. Quando la nube si muoveva venivano mossi gli accampamenti e quando si fermava gli accampamenti venivano deposti 109. Oltre questi miracoli che ho esposto e oltre alle voci che venivano emesse dal luogo in cui era l'arca, furono rese a quella legge le testimonianze di un grande miracolo. Infatti mentre entravano nella terra della promessa e passava l'arca, il fiume Giordano, fermandosi a monte e scorrendo a valle, offrì un passaggio asciutto all'arca e al popolo 110. In seguito le mura della città nemica che per prima s'incontrò e che adorava secondo l'usanza dei pagani molti dèi, dopo che l'arca fu trasportata per sette volte attorno ad esse, caddero all'improvviso senza che fossero attaccate dall'esercito e colpite dall'ariete 111. Dopo questi fatti, quando già gli ebrei erano nella terra della promessa, a causa delle loro colpe l'arca fu presa dai nemici. Costoro la posero con rispetto nel tempio del dio che preferivano agli altri, chiusero e se ne andarono. Il giorno dopo, aperto il tempio, trovarono l'idolo che imploravano caduto a terra e malamente infranto. In seguito mossi dai prodigi e puniti più aspramente restituirono l'arca della divina testimonianza al popolo al quale l'avevano sottratta. La restituzione fu strepitosa. La posero sopra un carro che fecero trainare da giovenche dalle quali avevano allontanato i vitellini lattanti. Le lasciarono andare dove volevano, perché desideravano verificare anche in questo caso la potenza divina. Ed esse, senza che l'uomo le indirizzasse e guidasse, prendendo con sicurezza la via che portava agli ebrei e non lasciandosi stornare dai muggiti dei figli affamati, riportarono l'oggetto sacro agli uomini che lo onoravano 112. Questi e simili prodigi per quanto riguarda Dio sono piccole opere ma grandi per intimorire salutarmente e ammonire gli uomini. Si riconosce infatti a loro lode che i filosofi e principalmente i platonici hanno avuto maggiore sapienza degli altri, come dianzi ho affermato 113, perché hanno insegnato, adducendo l'argomento di armoniose bellezze, che la divina provvidenza dirige al fine anche le infime cose della terra che si producono non solo nel corpo degli animali ma anche nelle erbe da fieno. A più forte ragione dunque i fatti citati rendono testimonianza alla divinità, perché si verificano al momento del suo manifestarsi, quando si inculca una religione che vieta di sacrificare ad esseri celesti, terrestri ed infernali e ordina di sacrificare soltanto a Dio, dato che egli solo amandoci e amato da noi ci rende felici. Egli predeterminando i tempi stabiliti per quei sacrifici e preannunciando che dovevano divenire più perfetti mediante un sacerdote più perfetto attesta che non li desidera per sé ma che attraverso essi ne significa altri più eccellenti. Questo non perché egli viene elevato con simili onori ma affinché noi incendiati dal fuoco del suo amore ci sentiamo spronati ad amarlo e a unirci a lui. Ed è un bene per noi, non per lui.

...ineccepibili per testimonianza storica e significato religioso.
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Qualcuno potrà dire che sono falsi miracoli e che non avvennero ma furono inventati. Chi lo afferma, se intende dire che in merito a questi fatti non si deve prestar fede ad alcuni documenti scritti, può per lo stesso motivo affermare che non vi sono dèi a curare le cose umane. Infatti indussero a farsi adorare soltanto attraverso il compimento di fatti meravigliosi. Ne è testimone anche la letteratura dei pagani, i cui dèi preferirono offrirsi alla meraviglia che rendersi utili. Per questo con la presente nostra opera, di cui abbiamo sotto mano il libro decimo, non abbiamo inteso confutare coloro che negano l'esistenza di Dio o dichiarano che non provvede alle cose umane, ma coloro che credono superiori i propri dèi al nostro Dio fondatore di una santa e veramente gloriosa città. Essi non riflettono infatti che egli è anche il creatore invisibile e immutabile di questo mondo visibile e mutevole ed è vero datore della felicità derivante non dalle cose che ha creato ma da se stesso. Un suo profeta veritiero ha detto: Il mio bene è unirmi a Dio 114. Tra i filosofi si discute del fine del bene che per essere raggiunto subordina a sé tutti i doveri 115. Il profeta non ha detto: "Per me esser carico di ricchezze è il bene", ovvero: "essere insignito di porpora e dominare con lo scettro e con la corona regale". Non ha detto ciò che alcuni filosofi non si vergognano di dire: "Per me il piacere fisico è il bene" 116; ovvero ciò che di più nobile parve di dire ad alcuni più nobili: "Per me la dignità della mia coscienza è il bene" 117. Ha detto invece: Il mio bene è unirmi a Dio. Glielo aveva insegnato colui al quale soltanto si devono sacrifici, come hanno avvertito anche i santi angeli mediante la testimonianza dei prodigi 118. Anche il profeta quindi era divenuto suo sacrificio perché ardeva investito dal suo fuoco intelligibile ed era portato da un santo desiderio al suo abbraccio ineffabile e immateriale. Dunque i politeisti, quali che siano i loro dèi secondo loro, fondandosi sulla storia dei fatti civili o sui libri di magia ovvero, dato che la ritengono più onorata, di teurgia, credono che da loro siano stati operati miracoli. Quale motivo c'è allora per non credere in base ai libri della Scrittura che questi miracoli sono avvenuti? Ad essi si deve tanto maggior fede quanto è superiore a tutti gli dèi il Dio al quale solo comandano che si deve sacrificare.

Anche il sacrificio visibile è dovuto solo a Dio.
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Vi sono alcuni i quali ritengono che i sacrifici visibili convengono agli altri dèi, a lui invece in quanto invisibile convengono invisibili, in quanto più grande più grandi, in quanto più perfetto più perfetti, quali sono gli omaggi di un'anima pura e di una buona volontà 119. Costoro non riflettono che i sacrifici visibili sono segni degli altri come le parole pronunziate sono segni dei concetti. Quando lo lodiamo con le parole rivolgiamo a lui dei suoni che hanno un significato, perché gli offriamo le cose cui diamo significato nel cuore. Dunque quando sacrifichiamo dobbiamo riconoscere che il sacrificio visibile non si deve offrire ad altri che a lui poiché noi stessi dobbiamo essere l'invisibile suo sacrificio nel nostro cuore. Allora i vari angeli e gli spiriti più alti e potenti per bontà e pietà ci sostengono e godono con noi aiutandoci allo scopo secondo le loro forze. Se volessimo offrire sacrifici a loro non li accettano e lo vietano apertamente, quando sono inviati agli uomini in maniera che la loro presenza sia avvertita. Ve ne sono esempi nelle sacre Scritture. Alcuni ritennero di dover con l'adorazione o col sacrificio deferire agli angeli l'onore dovuto a Dio ed è stato loro proibito dall'avvertimento degli angeli stessi e ordinato di deferirlo a lui. Appresero così che a lui solo è lecito deferirlo 120. Anche i santi uomini di Dio hanno imitato i santi angeli. Infatti Paolo e Barnaba in Licaonia, avendo compiuto un miracolo di guarigione, furono creduti dèi e i Licaoni volevano immolare loro delle vittime; ed essi rifiutando con umile sentimento religioso annunziarono loro il Dio in cui credere 121. I demoni falsi si arrogano orgogliosamente tali onori soltanto perché sanno che sono dovuti al Dio vero. Infatti, come dice Porfirio e alcuni ritengono, in realtà non godono del lezzo delle carogne ma degli onori divini 122. In definitiva hanno dovunque grande abbondanza di lezzi e se ne volessero di più potrebbero offrirseli. Dunque gli spiriti che si arrogano la divinità non si dilettano dell'odor di bruciato di un corpo qualsiasi, ma della coscienza del loro devoto per dominarlo dopo averlo ingannato e sottomesso. Così sbarrano il cammino verso il Dio vero affinché l'uomo non sia suo sacrificio nell'atto che si rende sacrificio ad altri che Dio non è.

Cristo uomo, unico sacrificio anche nella prefigurazione.
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Quindi il Mediatore, in quanto prendendo la forma di schiavo 123 è divenuto l'uomo Cristo Gesù mediatore di Dio e degli uomini 124, riceve nella forma di Dio il sacrificio assieme al Padre con cui è un solo Dio. Tuttavia nella forma di schiavo preferì essere che accettare il sacrificio affinché con questo pretesto non si pensasse che si deve sacrificare a una creatura. Per questo è sacerdote, egli offerente, egli offerta. E volle che il sacramento quotidiano di questa realtà sia il sacrificio della Chiesa la quale, essendo il corpo di lui in quanto capo, sa di offrire se stessa per mezzo di lui 125. Gli antichi sacrifici dei Patriarchi erano i molteplici e vari segni di questo sacrificio vero, perché in molti si figurava l'unico come se con diverse parole si esprimesse un solo concetto. Così veniva fortemente inculcato senza destare avversione 126. Tutti i falsi sacrifici cedettero il posto a questo sommo e vero sacrificio.

Il martirio cristiano vero eroismo.
21.
In tempi stabiliti dalla provvidenza è stato anche concesso ai demoni il potere di provocare odi contro la città di Dio istigando gli individui loro sottomessi e non solo di ricevere sacrifici dai devoti e di esigerli da chi è disposto ma anche di estorcerli violentemente con la persecuzione da chi non è disposto. Ma questo potere non è dannoso, anzi riesce utile alla Chiesa perché si compia il numero dei martiri 127. La città di Dio li ritiene cittadini tanto più illustri e onorati quanto con maggiore fortezza combattono fino all'effusione del sangue contro il peccato di idolatria 128. Se il linguaggio ecclesiastico lo permettesse, molto più elegantemente li chiameremmo nostri eroi 129. Si dice che la parola sia derivata da Giunone, perché in greco Giunone si dice . Quindi secondo la mitologia greca un suo figlio, non saprei quale, sarebbe stato chiamato Eroe. Quanto dire che il mito verrebbe nel caso a significare che l'aria è attribuita a Giunone perché, come dicono costoro, in essa abiterebbero con i demoni gli eroi. Con questo nome designano le anime dei defunti di un certo rango. Ma i nostri martiri sarebbero considerati eroi da una prospettiva opposta se, come ho detto, il linguaggio ecclesiastico lo permettesse. Non sarebbero infatti in compagnia dei demoni nell'aria ma vincerebbero i medesimi demoni, cioè gli spiriti dell'aria e in essi, qualunque cosa s'intenda simboleggiare con lei, Giunone. Ella non del tutto inconvenientemente viene indicata dai poeti come nemica delle virtù e invidiosa degli uomini forti che raggiungono il cielo. Ma disgraziatamente ancora una volta a lei soggiace e le si arrende Virgilio. Difatti ella dice nella sua opera: Sono vinta da Enea 130; ma Eleno ammonisce Enea stesso quasi con una motivazione religiosa col dire: Manifesta liberamente i desideri a Giunone e supera la potente signora con doni che la rendano propizia 131. Da questo modo di pensare Porfirio, quantunque non in base a un parere suo ma altrui, afferma che il dio buono, ossia genio, non viene a dimorare in un uomo se prima il cattivo non è stato placato 132. Sembrerebbe che secondo i pagani siano più forti le divinità cattive che quelle buone. Le cattive, salvo che rese propizie cedano il posto alle buone, possono impedire il loro intervento. Inoltre le divinità buone non possono rendersi utili se le cattive non lo permettono e le cattive possono nuocere perché le buone non riescono a resister loro. Non è questo il modo di procedere della vera e veramente santa religione. I nostri martiri non vincono così Giunone e gli spiriti dell'aria che invidiano le virtù dei credenti. I nostri eroi propriamente non vincono, se l'uso permettesse l'espressione, Giunone con i doni che la rendono propizia ma con il valore che viene da Dio. Scipione è stato chiamato Africano per avere vinto l'Africa col valore più convenientemente che se avesse placato i nemici con doni affinché lo risparmiassero.

Mediazione del Cristo purificazione salvezza.
22.
Mediante la vera pietà gli uomini di Dio scacciano lo spirito dell'aria nemico e avversario della pietà esorcizzandolo 133, non rendendolo propizio, e superano tutti i suoi attacchi ostili pregando non lui ma il proprio Dio contro di lui. In definitiva egli vince e assoggetta soltanto con l'associare al peccato. Viene quindi vinto nel nome di colui che senza peccato assunse e portò l'umanità. Perciò in lui che è insieme sacerdote e sacrificio, cioè nel Mediatore di Dio e degli uomini l'uomo Cristo Gesù 134, avviene la remissione dei peccati, perché per suo mezzo ci riconciliamo a Dio con la remissione dei peccati. Infatti soltanto con i peccati gli uomini si separano da Dio, poiché in questa vita la purificazione non si ottiene con la nostra virtù ma per sua misericordia, attraverso la sua indulgenza e non mediante un nostro potere. Anche la minima virtù che si ritiene nostra ci è concessa dalla sua bontà. Ci arrogheremmo molto mentre viviamo in questa carne se fino al suo dissolversi non vivessimo di perdono. Proprio per questo attraverso il Mediatore ci è stata data la grazia affinché, macchiati come siamo dalla terrenità del peccato, fossimo purificati dalla somiglianza con la terrenità del peccato 135. Dalla grazia di Dio, con cui egli ha mostrato la grande sua misericordia verso di noi 136, siamo regolati in questa vita mediante la fede e dopo questa vita mediante la partecipazione stessa della immutabile verità saremo condotti alla piena perfezione.

Ipostasi e purificazione in Porfirio.
23.
Porfirio dice anche che, secondo il responso degli oracoli degli dèi, noi non siamo purificati con le iniziazioni della luna e del sole. Si affermava così che l'uomo non può esser purificato con le iniziazioni di alcun dio. Di quale dio infatti purificano le iniziazioni se non purificano quelle della luna e del sole? Li ritengono appunto gli dèi celesti più eminenti. Afferma inoltre che secondo una dichiarazione del medesimo oracolo i principi possono purificare. Essendo stato detto, cioè, che le iniziazioni del sole e della luna non purificano, non si doveva pensare che le iniziazioni di un qualche altro dio della folla fossero valide per la purificazione. Sappiamo quali sono i principi di cui come platonico intende parlare. Parla infatti di Dio Padre e di Dio Figlio che in greco denomina intelletto o mente del Padre 137. Non dice nulla o per lo meno non apertamente dello Spirito Santo. Non capisco quindi quale sia il principio che pone di mezzo fra i due. Se volesse far intendere che la terza ipostasi è la natura dell'anima, come fa Plotino quando discute sulle tre principali ipostasi 138, non direbbe certamente che è di mezzo fra i due, cioè il Padre e il Figlio. Plotino appunto pone l'anima dopo l'intelletto del Padre, egli invece col dire di mezzo non lo pone dopo ma fra l'uno e l'altro 139. Naturalmente ha considerato così, come ha potuto o come ha voluto, quello che noi consideriamo lo Spirito Santo che è Spirito non solo del Padre e non solo del Figlio ma dell'uno e dell'altro. I filosofi però parlano liberamente e in argomenti veramente difficili per l'intelligenza non si preoccupano di offendere l'udito dei credenti. A noi invece è consentito di esprimerci in base a una regola determinata affinché il libero uso delle parole non generi una erronea credenza anche in merito a oggetti che si esprimono con quelle parole.

Incarnazione umiltà purificazione.
24.
Noi pertanto, quando parliamo di Dio, non intendiamo due o tre principi, come non ci è consentito pensare a due o tre dèi. Tuttavia parlando in particolare o del Padre o del Figlio o dello Spirito Santo ammettiamo che ognuno singolarmente è Dio. Non accettiamo comunque la teoria degli eretici sabelliani, che il Padre è il medesimo col Figlio e che lo Spirito Santo è il medesimo col Padre e col Figlio 140; al contrario che il Padre è il padre del Figlio e che il Figlio è il figlio del Padre e che lo Spirito Santo del Padre e del Figlio non è né il Padre né il Figlio. È pertanto vera l'affermazione che l'uomo è purificato soltanto dal Principio, sebbene nei platonici si parli di principi al plurale. Ma Porfirio, soggetto a poteri malevoli dei quali arrossiva, ma che temeva di denunziare liberamente, non volle capire che Cristo Signore è Principio dalla cui incarnazione siamo purificati. Lo disprezzò appunto a causa della carne che egli assunse in ordine al sacrificio della nostra purificazione 141. Non capiva un grande mistero a causa di quella superbia che il vero e benevolo Mediatore distrusse con la propria umiltà, perché ad esseri soggetti a morire si mostrò con la soggezione alla morte. Al contrario i malevoli e falsi mediatori, non avendo tale soggezione, si inorgoglirono più superbamente e promisero, come non soggetti a morire, un aiuto ingannevole all'umanità infelice soggetta a morire. Il buono e vero Mediatore ha mostrato che male è il peccato e non l'esseità ossia la natura della carne, perché è stato possibile che senza peccato sia ricevuta e portata assieme all'anima umana, sia deposta con la morte e resa più perfetta con la resurrezione 142. Ha mostrato anche che la morte, sebbene fosse pena del peccato e che egli tuttavia senza aver peccato ha sofferto per noi, non si deve evitare col peccare ma piuttosto, se si presenta l'occasione, accettare per riparare alla giustizia. Egli ha potuto appunto riscattare i peccati con la morte, perché è morto, ma non in riparazione d'un suo peccato. Il platonico Porfirio non conobbe che egli è principio perché nel caso l'avrebbe riconosciuto come datore di purificazione. Infatti non sono principio né la carne né l'anima umana ma il Verbo, perché in lui sono state create tutte le cose 143. Non la carne dunque purifica da se stessa ma il Verbo da cui è stata assunta, perché il Verbo è divenuto carne e si è intrattenuto con noi 144. Un giorno parlò simbolicamente che si doveva mangiare la sua carne. Alcuni che non capirono se ne andarono scandalizzati dicendo: Questo è un discorso duro, chi può ascoltarlo? Ed egli disse a quelli che erano rimasti: È lo spirito che dà la vita, la carne non ha alcun valore 145. Dunque il Principio, assumendo l'anima e la carne, purifica l'anima e la carne dei credenti. E per questo ai Giudei che gli chiesero chi fosse rispose di essere il Principio 146. Noi carnali, deboli, soggetti ai peccati, avvolti nelle tenebre dell'ignoranza, non potremmo riconoscerlo se non fossimo purificati e guariti mediante ciò che eravamo e non eravamo. Eravamo uomini ma non giusti 147; invece nella sua incarnazione c'è la natura umana ma giusta, non peccatrice. Questa è la mediazione con cui è stata stesa la mano ai caduti incapaci di risollevarsi. Questo è il seme gettato per mezzo degli angeli, giacché con le loro dichiarazioni veniva promulgata una legge con cui si ordinava di adorare un solo Dio e si prometteva la venuta di un Mediatore 148.

Il salmista fra terrenità e salvezza.
25.
Con la fede nel mistero del Mediatore anche gli antichi giusti poterono essere purificati se vissero religiosamente, non solo prima che fosse data la legge al popolo ebraico, dato che Dio e gli angeli se ne fecero annunziatori, ma anche al tempo della legge stessa, sebbene poteva sembrare che essa per simboleggiare i beni spirituali contenesse promesse terrene. Per questo è detto l'Antico Testamento 149. Infatti vi erano allora i profeti, mediante i quali, come prima mediante gli angeli, fu resa nota la medesima promessa. Era del loro numero quegli di cui poco fa ho ricordato la grande e divina concezione sul fine ultimo dell'uomo: Il mio bene è unirmi a Dio 150. In questo salmo è sufficientemente determinata la distinzione dei due Testamenti chiamati l'Antico e il Nuovo. In relazione alle promesse carnali e terrene, poiché osservava che esse erano abbondantemente elargite agli empi, dice che i suoi piedi si stavano quasi mettendo in moto e i suoi passi si avviavano ormai alla caduta. Gli sembrava quasi che invano rendesse servizio a Dio, poiché osservava che i miscredenti godevano di quella prosperità che egli attendeva da lui. Aggiunge che egli si affannò nell'esame di questo problema, dato che voleva scoprire perché le cose stessero così, fino a che entrò nel santuario e comprese il destino ultimo di quegli uomini che a lui, poiché era in errore, sembravano felici. Allora comprese, come dice, che furono atterrati perché si erano innalzati e che erano declinati e andati in rovina a causa delle loro iniquità 151 e che l'apogeo della prosperità terrena divenne per loro come il sogno di chi si sta svegliando. Egli si trova privo all'improvviso delle fallaci gioie che sognava. E poiché si ritenevano grandi in questa terra, ossia nella città terrena, soggiunse: Signore, tu nella tua città ridurrai al nulla la loro figura 152. E come fosse stato per lui vantaggioso chiedere all'unico vero Dio anche i beni terreni, poiché in suo potere sono tutte le cose, lo ha dimostrato chiaramente con le parole: Davanti a te sono diventato come una bestia, ma io sono sempre con te 153. Ha detto Come una bestia per far comprendere che non capiva. Avrei dovuto desiderare da te i beni che non possono essermi comuni con i miscredenti; ma io vedendo che essi ne abbondavano, ho pensato di averti reso servizio inutilmente, perché li avevano anche coloro che non avevano voluto renderti servizio. Tuttavia io sono sempre con te, perché pur nel desiderio di quei beni terreni non ho cercato altri dèi. E perciò continua: Hai afferrato con la mano la mia destra, mi hai condotto secondo il tuo volere e mi hai ricevuto con onore 154. Sembrerebbe che alla sinistra appartengono quei beni, a causa dei quali, poiché li aveva visti elargiti in abbondanza ai miscredenti, era quasi caduto nella colpa. Poi soggiunge: Che cosa v'è per me nel cielo e da te che cosa ho voluto sopra la terra? 155. Si è rimproverato e giustamente non era contento di se stesso, poiché pur avendo un gran bene in cielo (lo ha capito dopo) ha richiesto in terra dal suo Dio un bene passeggero, una prosperità fragile e in certo senso banale. O Dio del mio cuore, soggiunge, il mio cuore e la mia carne son venuti meno 156, certamente di un onesto venir meno, cioè dalle cose più basse alle più alte. Quindi in un altro salmo dice: La mia anima anela e vien meno nel desiderio del tempio del Signore 157; e in un altro: La mia anima è venuta meno nel muovermi alla tua salvezza 158. Tuttavia avendo parlato del venir meno del cuore e della carne, non ha soggiunto: "Dio del mio cuore e della mia carne", ma Dio del mio cuore. La carne è purificata appunto mediante il cuore. Per questo dice il Signore: Purificate le cose che son dentro e saranno pure anche le cose di fuori 159. Continuando il salmista afferma che Dio è sua eredità, non un qualcosa che viene da lui ma lui stesso. O Dio del mio cuore, afferma, tu Dio mia eredità per i secoli 160, perché fra molte cose che gli uomini scelgono, egli ha deciso di dover scegliere lui. In breve, egli afferma, coloro che si allontanano da te si perderanno, tu hai dato alla perdizione chi si dà alla dissolutezza lontano da te 161, cioè chi vuole essere il luogo d'infamia di molti dèi. Poi segue quel pensiero, al quale mi è sembrato opportuno riferire gli altri dal medesimo salmo: Il mio bene è unirmi a Dio 162, non andar lontano, non darsi alla dissolutezza in molteplici esperienze. Allora l'unirsi a Dio sarà compiuto quando tutto ciò che deve essere liberato sarà liberato. Per ora si avvera il concetto che vien di seguito: Porre in Dio la mia speranza. Dice appunto l'Apostolo: Una speranza che si scorge non è speranza. Come si può infatti scorgere un oggetto e sperarlo? Se quindi speriamo ciò che non vediamo, lo attendiamo con costanza 163. Fondati su questa speranza, dobbiamo mettere in opera quel che segue nel salmo ed essere anche noi nel nostro limite angeli di Dio, cioè suoi messaggeri, annunziando la sua volontà e lodandone la gloria e la grazia. Quindi dopo le parole Porre in Dio la mia speranza, aggiunge: per annunziare tutte le tue lodi alle porte della figlia di Sion 164. Questa è la gloriosissima città di Dio; ella conosce e adora un solo Dio; l'hanno annunziata i santi angeli che ci hanno invitato alla sua vita comunitaria e hanno voluto che in essa noi fossimo loro concittadini. Non vogliono che li onoriamo come nostri dèi ma assieme ad essi il loro e nostro Dio; non vogliono che sacrifichiamo loro ma assieme ad essi siamo sacrificio a Dio. Non v'è alcun dubbio in proposito se senza una maligna ostinazione si considerano le cose. Tutti gli immortali felici ci vogliono bene. Se non lo volessero, non sarebbero felici. Ci vogliono bene appunto affinché anche noi siamo felici con loro, ci soccorrono e ci aiutano di più se adoriamo con loro il solo Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo, che se adorassimo loro stessi con sacrifici.

Sprazzi di luce nell'angelologia porfiriana.
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Non so in quale misura ma, per quanto ne capisco io, Porfirio si vergognava dei suoi amici. Aveva in proposito una teoria filosofica ma non la difendeva liberamente contro il politeismo 165. Sostenne anche che vi sono alcuni angeli i quali, discendendo in basso, annunziano agli uomini della teurgia riti religiosi; e altri i quali rivelano in terra gli attributi del Padre e la sua immensità. Dunque si può credere forse che questi angeli, la cui funzione è rivelare la volontà del Padre, non intendano che siamo sottomessi soltanto a lui, di cui ci manifestano il volere? E per questo il filosofo platonico ci avverte che essi si devono piuttosto imitare che invocare 166. Non dobbiamo dunque temere che spiriti immortali e felici sottomessi all'unico Dio si offendano se ad essi non si offrono sacrifici. Essi sanno che il sacrificio si deve al solo Dio vero, perché anche essi unendosi a lui sono felici. Quindi indubbiamente non vogliono che siano resi loro gli onori significati dai misteri tanto mediante una figura simbolica quanto nella realtà stessa. Dei demoni infelici nella loro superbia è questa presunzione ed è quindi molto diverso l'ossequio di spiriti sottomessi a Dio, felici soltanto nella unione con lui. È necessario che essi con sincera benevolenza aiutino anche noi a raggiungere questo bene e che non si arroghino l'ossequio di sottomissione a loro ma ci rivelino lui, affinché a lui sottomessi ci associamo a loro nella pace. Perché, o filosofo, trepidi ancora di alzare la libera voce contro i poteri contrari ai veri poteri e ai doni del Dio vero? Hai già distinto gli angeli che annunziano il volere del Padre da quelli che, mossi da non saprei quale pratica, discendono agli uomini della teurgia. Perché dunque li onori ancora al punto di dire che inculcano riti religiosi? Alla fin fine quali riti religiosi inculcano se non annunziano il volere del Padre? Naturalmente, come tu affermi, sono quelli che una persona malevola ha legato con pratiche misteriche affinché non concedano la catarsi e non hanno potuto essere sciolti dall'impedimento e restituiti alla propria funzione da una persona onesta che desiderava la catarsi. E ancora dubiti che essi sono demoni maligni, ovvero, preoccupato di non urtare i teurghi, fingi di non saperlo, perché ingannato dalla curiosità hai appreso da loro come enorme favore queste teorie insensate e malefiche? 167. Oseresti innalzare fino al cielo, nel superamento della sfera dell'aria, questa malevola infamia, che non è potere, e non direi padrona ma schiava (lo ammetti tu stesso) di uomini malevoli e porla fra i vostri dèi anche stellari, ossia imbrattare perfino le stelle con simili turpitudini?.

Incoerenze ed esoterismo di Porfirio sulla catarsi teurgica.
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Molto più ragionevolmente e accettabilmente di te ha errato Apuleio, platonico della tua medesima scuola 168. Egli, lo volesse o no, ha ammesso, pur onorandoli, che soltanto i demoni, stabiliti nel mondo sublunare, sono agitati dal male delle passioni e dai turbamenti dello spirito. Tuttavia con un discorso, il più diffuso possibile, ha dimostrato immuni dal contagio delle umane passioni gli dèi superiori del cielo appartenenti allo spazio etereo, sia i visibili, che vedeva splendere perché esposti alla vista, come il sole, la luna e le altre stelle, sia gli invisibili che immaginava. Tu invece hai appreso non da Platone ma da maestri caldei la teoria di innalzare i vizi umani alle alte sfere eteree o empiree e nelle regioni immobili del cielo affinché i vostri dèi potessero indicare i riti religiosi ai teurghi. Tu comunque col pretesto della cultura ti ritieni superiore a questi riti, sicché per te, che sei filosofo, non sembrano affatto necessarie le purificazioni della teurgia. Comunque le fai conoscere agli altri per dare ai tuoi maestri questa plausibile ricompensa, che seduci a tali pratiche chi non è capace di filosofare ma le consideri inutili per te che sei capace di catarsi più elevate. Così coloro che sono lontani dalla dignità della filosofia, che è di pochi perché troppo difficile, mossi dalla tua autorità, vanno in cerca degli uomini della teurgia affinché li purifichino se non nell'anima intellettuale per lo meno in quella spirituale. Poiché la folla di coloro che sono inabili al filosofare è senza confronto più numerosa, quelli che sono spinti a frequentare i tuoi maestri dediti a pratiche occulte e proibite sono di più di quelli che sono invitati a frequentare le scuole di Platone. Infatti, fingendosi dèi eterei, i demoni immondi, di cui sei divenuto annunziatore e messaggero, ti hanno fatto intendere che i purificati nell'anima spirituale con la pratica teurgica non tornano, è vero, al Padre ma abiteranno sopra le regioni dell'aria in mezzo agli dèi eterei 169. Non ascolta questa dottrina la moltitudine degli uomini, per la cui liberazione dal potere dei demoni è venuto il Cristo. In lui infatti conseguono una misericordiosa purificazione della mente, dello spirito e del corpo. Egli ha preso tutto l'uomo senza il peccato appunto per guarire dalla contaminazione del peccato il tutto di cui è composto l'uomo. Magari anche tu lo avessi riconosciuto e ti fossi per una guarigione più sicura affidato a lui anziché alla tua virtù, che è umana, fragile e debole, o a una deleteria curiosità. Egli non ti avrebbe tratto in inganno. I vostri oracoli, come tu stesso scrivi, lo hanno dichiarato santo e immortale. Di lui anche il più alto poeta ha detto, certo con un discorso poetico perché nella persona vagamente accennata di un altro, ma con verità se a lui lo riferisci: Con la tua guida, se rimangono alcune tracce del nostro peccato, (i nuovi tempi) libereranno il mondo dalla vana perenne paura 170. Anche se non di peccati, ha parlato tuttavia di tracce di peccati, perché anche in uomini molto avanzati in virtù possono rimanere a causa della insufficienza della vita terrena. Esse saranno guarite soltanto da quel Salvatore, per il quale è stato formulato il verso citato. Infatti Virgilio nel quarto verso dell'egloga dichiara che non è una sua affermazione personale quando dice: È giunta già l'ultima età dell'oracolo di Cuma 171. Da ciò appare indubbiamente che il fatto fu preannunciato dalla sibilla di Cuma. I teurghi al contrario o piuttosto i demoni che simulano la sembianza e gli aspetti degli dèi, anziché purificare, contaminano lo spirito umano con l'impostura delle apparizioni e con la burla menzognera di forme vane. Come infatti rendono puro lo spirito umano se hanno impuro il proprio? Altrimenti non sarebbero impediti dalle formule magiche di un individuo malevolo e non inibirebbero per paura o non negherebbero per analoga malevolenza l'inutile favore che sembravano voler concedere. Basta a dimostrarlo che, come tu dici, non è possibile con la catarsi teurgica purificare l'anima intellettuale, cioè la nostra mente. In quanto a quella spirituale, cioè la parte della nostra anima inferiore alla mente, che, a sentir te, si può purificare con simile pratica, tu stesso ammetti che con quel rito non può esser resa immortale ed eterna. Il Cristo invece promette la vita eterna. Per questo il mondo, malgrado la vostra stizza congiunta comunque a meraviglia e stupore, si accalca attorno a lui 172. Che te ne viene in definitiva? Non hai potuto negare che con la disciplina teurgica gli uomini sono tratti in errore, che moltissimi gabbano mediante un cieco e sciocco responso e che è innegabile errore degradarsi a invocare con pratiche e formule spiriti superiori e angeli. Poi, quasi per dare a vedere che non hai sprecato la fatica apprendendo la teurgia, indirizzi gli uomini dai teurghi affinché per loro mezzo sia purificata l'anima spirituale degli individui che non vivono secondo l'anima intellettuale.

Universale messaggio di Cristo alla salvezza...
28.
Dunque indirizzi gli uomini a un innegabile errore e non ti vergogni di un'azione così malvagia, sebbene ti professi amatore della virtù e della sapienza. Se tu l'avessi amata con genuina coerenza, avresti riconosciuto il Cristo Virtù e Sapienza di Dio 173 e non saresti balzato lontano dalla sua umiltà apportatrice di salvezza perché tronfio dell'orgoglio di una vana scienza. Ammetti tuttavia che anche l'anima spirituale può esser purificata con la virtù della continenza senza le pratiche teurgiche e senza le iniziazioni. Tu allora senza vantaggio ti sei affaticato ad apprenderle. In altri passi dici anche che le iniziazioni non elevano l'anima dopo la morte. Sembra quindi che esse non giovino affatto dopo la fine di questa vita neanche all'anima che chiami spirituale. Tuttavia rigiri queste dottrine in varie maniere e le riesamini al solo intento, come penso, di apparire informato in simili argomenti e di renderti gradito ai curiosi di pratiche illecite o di renderli tu stesso curiosi. Dici bene comunque che la teurgia è da evitarsi, sia per il rischio delle leggi come della pratica in sé. Magari i poveri disgraziati ascoltino da te questo avvertimento e si allontanino da essa per non esserne trascinati o meglio non vi si appressino neanche. Affermi anche che l'ignoranza e i molti vizi che ne conseguono non sono purificati mediante alcuna iniziazione ma solo mediante il, cioè la mente ossia intelletto del Padre perché conosce la volontà del Padre. Tu non credi che sia il Cristo perché lo disprezzi a causa del corpo ricevuto da una donna e dell'umiliazione della croce. Ti ritieni cioè capace di cogliere dalle sfere superiori una più alta sapienza per avere rifiutato sprezzantemente le cose più basse 174. Ma egli dà compimento a ciò che i santi profeti hanno con verità preannunziato di lui: Manderò in rovina la sapienza dei sapienti e riproverò la prudenza dei prudenti 175. Infatti non manda in rovina e non riprova la propria sapienza in essi, perché egli l'ha donata, ma quella che si arrogano coloro che non hanno la sua. Per questo, dopo aver ricordato il passo profetico citato, l'Apostolo continua con le parole: Dov'è un sapiente? dove un letterato? dove uno scienziato di questo mondo? Forse che Dio non ha reso insipiente la sapienza di questo mondo? Infatti poiché il mondo per colpa della propria sapienza non ha conosciuto Dio nella sapienza di Dio, egli ha deciso di salvare i credenti nella insipienza della evangelizzazione. Dato che, soggiunge, i Giudei chiedono i prodigi e i Greci ricercano la sapienza, noi invece annunziamo con l'evangelizzazione il Cristo crocefisso, scandalo per i Giudei, insipienza per i Greci, ma per i Giudei e i Greci chiamati Cristo Virtù e Sapienza di Dio, poiché ciò che è insipiente di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debole di Dio è più forte degli uomini 176. I sapienti e i forti di un proprio supposto valore disprezzano questa dottrina come insipiente e debole. Ma questa è la grazia che sana i deboli, i quali non vantano per orgoglio una propria falsa felicità ma dichiarano piuttosto con umiltà una infelicità vera.

...e alla grazia rifiutate dai neoplatonici...
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1. Ammetti il Padre e il suo Figlio, che consideri intelletto ossia mente del Padre, e uno in mezzo fra di essi. Noi riteniamo che intendi lo Spirito Santo 177. Tu secondo il vostro modo di pensare li consideri tre dèi 178. In proposito, sebbene usiate parole non rette, vedete in qualche modo, e quasi attraverso gli ombreggiamenti di un vago fantasticare, l'obiettivo a cui tendere ma non volete ammettere l'incarnazione dell'immutabile Figlio di Dio. Eppure da essa noi otteniamo la salvezza per raggiungere quei valori che accettiamo per fede o che, per quanto poco, riusciamo a comprendere. Pertanto vedete in qualche modo, sebbene di lontano, sebbene con la vista annebbiata, la patria in cui si deve abitare ma non prendete la via per cui giungervi. Tu comunque ammetti la grazia, quando affermi che a pochi è accordato di giungere a Dio con la dignità dell'intelligenza. Non dici: "pochi hanno scelto" o "pochi hanno voluto"; ma quando dici che è stato accordato, indubbiamente parli della grazia divina e non della autonomia umana. Usi più esplicitamente questa parola in un passo in cui spieghi la dottrina di Platone 179. Come lui anche tu non metti in dubbio che in questa vita l'uomo non può assolutamente raggiungere la perfezione della sapienza, ma che per chi vive secondo l'intelletto tutto ciò che manca può esser condotto a pienezza dopo questa vita dalla provvidenza e dalla grazia divina 180. Se tu avessi riconosciuto la grazia mediante il Signor nostro Gesù Cristo e la sua incarnazione, con cui ha assunto l'anima e il corpo dell'uomo, avresti potuto scorgere che vi è un sublime modello di grazia. Ma che dovrei fare? So che inutilmente sto parlando a un morto, per quanto riguarda te personalmente. Forse non inutilmente al contrario per quanto riguarda coloro che ti stimano e ti prediligono o per un certo amore della sapienza o per curiosità delle pratiche teurgiche, che non avresti dovuto apprendere. In definitiva apostrofando te mi rivolgo a loro. La grazia di Dio non poteva esser fatta valere in una forma più gratuita di quella per cui lo stesso Figlio di Dio, rimanendo in sé fuori del divenire, ha assunto l'uomo e ha dato agli uomini lo Spirito del suo amore con la mediazione dell'uomo. Così mediante la grazia gli uomini sono venuti a lui che era da loro distante come un immortale da mortali, come un immune dal divenire da soggetti al divenire, come giusto da empi, come felice da infelici. E poiché per natura ha impresso in noi il desiderio di essere felici e immortali, rimanendo felice e assumendo l'essere mortale, per darci ciò che amiamo, ci ha insegnato con la sua passione a disprezzare ciò che temiamo.

...perché rifiutano incarnazione e resurrezione...
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2. Ma per potere accogliere con fiducia questa verità vi era necessaria l'umiltà che può essere difficilmente inculcata alla vostra alterigia. Che cosa d'incredibile si dice, soprattutto a voi che sostenete certe dottrine filosofiche, con cui dovreste stimolare a credere questa verità; che cosa, ripeto, vi si dice d'incredibile, quando vi si dice che un Dio ha assunto l'anima umana e il corpo? Voi, è vero, assegnate un grande ruolo all'anima ragionevole, che è appunto l'anima umana. Affermate infatti che può divenire consostanziale alla mente paterna che dichiarate figlio di Dio. Perché è dunque incredibile se una determinata anima intelligente in modo ineffabile e singolare è stata assunta per la salvezza di molti? Sappiamo bene, per conferma della nostra stessa natura, che per avere la interezza e la pienezza dell'uomo il corpo è unito all'anima. Se il fatto non fosse nella nostra immediata esperienza, sarebbe certamente ancora più incredibile. Più facilmente infatti si può accogliere per fede che uno spirito è unito a un altro spirito, quantunque uno umano con uno divino, uno diveniente con uno indiveniente o, per usare la vostra abituale terminologia, un incorporeo con un incorporeo, che non l'unione di un corpo con un incorporeo. Vi urta forse lo straordinario concepimento del corpo da una vergine? Anche questo fatto non deve urtarvi, anzi addurvi ad accogliere la religione, perché un individuo fuori del comune è nato in modo fuori del comune. O forse vi rifiutate di credere che ha levato in alto il corpo abbandonato con la morte, reso perfetto con la resurrezione, ormai incorruttibile e non più soggetto a morte? Fate così perché sapete che Porfirio in quei libri Sul regresso dell'anima, da cui ho citato molti passi, ha ripetutamente insegnato che il mondo corporeo si deve fuggire affinché sia consentito all'anima di rimanere costantemente serena con Dio 181. Egli piuttosto, che la pensava così, doveva essere emendato, soprattutto perché accettate con lui tante teorie incredibili sull'anima del mondo visibile e dell'ingente massa corporea. Dietro l'autorità di Platone infatti affermate che il mondo è un vivente e un vivente assolutamente felice perché, a sentir voi, sarebbe anche eterno 182. Come avviene dunque che esso non sarà mai libero dal corpo e nello stesso tempo non sarà mai privo di felicità se per la felicità dell'anima si deve fuggire il mondo della materia? Insegnate non solo nei vostri libri che il sole e le altre stelle sono corpi, e l'umanità intera non ha difficoltà a costatarlo ed affermarlo assieme a voi, ma con una dottrina esoterica, a vostro parere più nobile, dichiarate che sono viventi altamente felici ed eterni assieme ai loro corpi 183. Quale sistema dunque è il vostro che, quando vi si inculca la fede cristiana, dimenticate o fate lo gnorri sulla dottrina che siete soliti sostenere e insegnare? Che motivo v'è dunque di non volere essere cristiani in base alle vostre opinioni che voi stessi confutate, se non quello che il Cristo è venuto nell'umiltà e voi siete superbi? Fra gli uomini più dotti della letteratura cristiana si può trattare con un approfondimento il discorso sulle caratteristiche che avranno i corpi nella resurrezione 184, tuttavia noi non dubitiamo che saranno indefettibili e corrispondenti al modello che il Cristo ha mostrato nella sua resurrezione. Qualunque caratteristica abbiano, da noi si ritiene che saranno del tutto immuni dalla corruzione e dalla morte e che non impediranno in alcun modo la visione con cui l'anima si figge in Dio; ma anche voi dite che negli spazi celesti vi sono corpi immortali di esseri immortalmente felici. Per quale ragione dunque ritenete che per essere felici si deve fuggire il mondo corporeo tanto per dare a vedere che ragionevolmente rifiutate la religione cristiana? La ragione è quella e la ripeto: il Cristo è umile, voi siete superbi. Vi vergognate forse di dovervi ricredere? Anche questo difetto è soltanto dei superbi. Come individui superbi vi vergognate appunto di diventare da discepoli di Platone discepoli di Cristo che col suo spirito ha insegnato a un pescatore a pensare e dire: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Questo era nel principio presso Dio. Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui e senza di lui non è stato fatto nulla di quel che è stato fatto. In lui era la vita e la vita era luce degli uomini e la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno accolta 185. È l'inizio del santo Vangelo che ha il nome di Giovanni. Un platonico, come ho udito frequentemente dire dal santo vecchio Simpliciano, che poi resse la Chiesa di Milano come vescovo 186, affermava che si doveva scrivere in lettere d'oro ed esporlo presso tutte le chiese in luoghi facilmente visibili. Ma il Dio maestro è stato misconosciuto dai superbi, perché il Verbo si è fatto carne e si è intrattenuto con noi 187. In definitiva sarebbe poco per miserabili lo star male se per di più non insuperbissero nel loro male e non si vergognassero della medicina con cui potevano essere guariti. Perché non si comportano così per rialzarsi ma per perdersi più rovinosamente nella caduta.

...malgrado la platonica metempsicosi respinta peraltro da Porfirio.
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Se dopo Platone si crede sconveniente rettificare una sua dottrina, perché Porfirio stesso ne ha rettificate alcune e piuttosto importanti? Platone ha scritto, è innegabile, che l'anima umana dopo la morte è ricondotta anche in corpi belluini 188. Anche Plotino, maestro di Porfirio, ha sostenuto questa dottrina; e giustamente Porfirio non l'accolse 189. Ha ritenuto però che l'anima umana non torna nel proprio corpo che ha abbandonato, ma in altri. Ebbe ritegno appunto a credere che una madre trasformata in mula trasportasse eventualmente un figlio e non ebbe ritegno a credere che una madre, una volta ritornata fanciulla, sposasse eventualmente un figlio. Molto più ragionevolmente si crede ciò che gli angeli santi e veritieri hanno insegnato, ciò che hanno affermato i profeti mossi dall'ispirazione divina, ciò che ha affermato colui che messaggeri inviati davanti a lui preannunciarono come il Salvatore, ciò che hanno affermato gli Apostoli da lui inviati a riempire il mondo della buona novella. Molto più ragionevolmente, dico, si crede che le anime tornano una sola volta ai propri corpi, anziché tornare tante volte ad altri. Tuttavia, come ho detto, Porfirio su questa dottrina si è in gran parte ravveduto, tanto da ritenere che le anime umane possono essere calate soltanto in uomini e non ebbe alcuna esitazione a demolire le carceri belluine. Afferma anche che Dio ha dato l'anima al mondo affinché conoscendo il male della materia tornasse al Padre e non rimanesse, altre volte ancora, macchiata dal contagio degli esseri materiali. Ragiona un po' incoerentemente, perché l'anima è stata data al corpo per operare il bene e non conoscerebbe il male se non lo facesse. Però ha rettificato, e non in un tema insignificante, la teoria degli altri platonici, perché ha ammesso che l'anima purificata da tutti i mali e posta stabilmente nel Padre non avrebbe più soggiaciuto al male del mondo 190. Con questa teoria ha eliminato la dottrina, che si tramanda come eminentemente platonica, cioè che perpetuamente i morti divengono dai vivi e i vivi dai morti 191. Ha inoltre dichiarato ciò che Virgilio con reminiscenza, come sembra, platonica ha cantato. Le anime purificate sarebbero mandate ai Campi Elisi. Con questo termine si designano nella mitologia i godimenti dei beati. Poi sarebbero condotte al fiume Lete, cioè all'oblio del passato, affinché resi immemori, tornino a guardare la superiore volta del cielo e ricomincino a voler tornare nel corpo 192. Giustamente Porfirio non accolse questa fola. In realtà è sciocco credere 193 che da quella vita, la quale non potrà essere sommamente felice se non nell'assoluta certezza della propria eternità, le anime desiderino la bruttura dei corpi soggetti a corruzione e che di lì tornino in questa vita, come se la consumata purificazione comporti che si torni a cercare la contaminazione. Se infatti il raggiungere la compiuta catarsi comporta che le anime si dimentichino di tutti i mali ma l'oblio dei mali comporta a sua volta il desiderio del corpo, in cui di nuovo siano imbrigliate nel male, allora la consumata felicità sarà causa di infelicità, la perfezione della sapienza causa dell'insipienza, la consumata purificazione causa della contaminazione. L'anima in quello stato, fintantoché vi sarà, non sarà felice nella verità, perché per esser felice è necessario che sia nell'errore. Infatti non sarà felice se non è tranquilla, ma per esser tranquilla dovrà pensare erroneamente che sarà sempre felice; invece tornerebbe ancora ad essere infelice. Ma se l'errore sarà causa del godimento, non si godrà certamente della verità. Lo capì Porfirio e per questo affermò 194 che l'anima purificata torna al Padre affinché non rimanga, altre volte ancora, macchiata dalla contaminazione del male. Erroneamente dunque fu ritenuto da alcuni platonici quasi necessario il ciclo del regresso e ritorno dell'identico. Ed anche se fosse vero, che vantaggio se ne cava nel conoscerlo? A meno che eventualmente i platonici osino considerarsi migliori di noi, perché noi ignoreremmo in questa vita ciò che essi ignorerebbero, sebbene già posti all'apice della purificazione e della sapienza, e diverrebbero felici credendo il falso? Ma è proprio assurdo e sciocco l'affermarlo. Quindi l'opinione di Porfirio si deve preferire a quella di coloro che hanno ammesso i cicli delle anime in un perenne alternarsi di felicità e infelicità. Se è così, un platonico dissente da Platone per una dottrina più perfetta; ha visto ciò che l'altro non ha visto e, sebbene seguace di un così grande maestro, non ha rifiutato la rettifica e ha preferito la verità all'uomo.

Infondatezza del platonismo sulla preesistenza delle anime.
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Perché dunque più che sugli argomenti, che non possiamo investigare con l'intelligenza umana, non crediamo piuttosto alla rivelazione divina la quale afferma che l'anima stessa non è coeterna a Dio ma creata perché prima non esisteva? I platonici per non ammetterlo ritenevano di dovere addurre questa ragione per loro valida, che in seguito non poteva essere indefettibile se non fosse preesistita da sempre. Eppure Platone, sull'argomento del mondo e degli dèi che, come scrive, furono creati da Dio nel mondo, dice apertamente che hanno avuto una origine e un inizio e che tuttavia non avranno una fine e sostiene che rimarranno in eterno per un atto della volontà potentissima del Creatore 195. Però hanno trovato come spiegarlo: sarebbe, cioè, non un inizio di tempo ma di surrogazione. Se un piede, dicono essi, sempre dall'eternità fosse stato nella polvere, sempre sotto di esso vi sarebbe l'orma. Non si può mettere in dubbio che l'orma è stata prodotta da chi ha calpestato la polvere; eppure l'uno non sarebbe prima dell'altro, sebbene uno sia stato prodotto dall'altro. Allo stesso modo, dicono, il mondo e gli dèi in esso creati sono esistiti nell'eternità, perché nell'eternità esisteva chi li ha fatti e tuttavia sono stati fatti 196. Ma allora se l'anima è sempre esistita, si deve affermare forse che è sempre esistita la sua infelicità? Se dunque in essa qualcosa cominciò nel tempo, giacché non era dall'eternità, perché sarebbe impossibile che anche essa sia esistita nel tempo, poiché prima non esisteva? Inoltre, anche la sua felicità resa più stabile e indefettibile dopo l'esperienza del male, senza dubbio, come Porfirio ammette, cominciò nel tempo, eppure durerà per sempre, sebbene prima non si sia avuta. Quindi è demolito tutto il ragionamento con cui si dimostra che si può esistere senza cessare nel tempo, soltanto se non si ha inizio nel tempo. Ci si presenta la felicità dell'anima che, pur avendo inizio nel tempo, non avrà la fine nel tempo. Pertanto la scarsa intelligenza umana si arrenda all'autorità divina. Inoltre, per quanto riguarda la vera religione, crediamo agli spiriti felici e immortali i quali non si arrogano l'onore che sanno dovuto al loro Dio che è anche il nostro. Essi ci ordinano di offrire il sacrificio soltanto a lui, del quale anche noi con essi, come spesso ho detto e spesso si deve ripetere, dobbiamo divenire sacrificio per essere immolati mediante quel sacerdote che perfino con la morte si è degnato di divenire sacrificio per noi nell'uomo che ha assunto e nella cui forma ha voluto anche esser sacerdote.

Porfirio e la via universale della salvezza.
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1. Questa è la religione che indica la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima. Senza di essa non se ne libera alcuna. Questa è, analogamente parlando, la via regia, perché essa soltanto conduce non a un regno vacillante per altezza terrena ma a un regno duraturo nella stabile eternità. Dice Porfirio alla fine del primo libro Sul regresso dell'anima che ancora non è stata accolta in una qualche setta la dottrina che indichi la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima, né per derivazione da una filosofia sommamente vera o dalla dottrina ascetica degli Indiani o dalla iniziazione dei Caldei o da una qualsiasi altra via e che non era ancora venuta a sua conoscenza una via trasmessa dalla storiografia. Senza dubbio quindi ammette che ve n'è una ma che ancora non era venuta a sua conoscenza. Perciò non gli bastava la dottrina che sulla liberazione dell'anima aveva appreso con tanta diligenza e di cui sembrava avere una profonda conoscenza non tanto per sé quanto per gli altri. Sentiva che gli mancava ancora una dottrina sommamente autorevole da cui era necessario lasciarsi guidare in un problema tanto importante. Quando poi dice che neanche da una filosofia sommamente vera era giunta a sua conoscenza una scuola che indichi la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima, dichiara, per quanto ne capisco io, che neanche la filosofia, nella quale egli attese al filosofare, è sommamente vera e che neanche in essa è indicata la via suddetta. E come potrebbe essere sommamente vera se in essa non è indicata questa via? Infatti la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima è quella soltanto in cui tutte le anime sono liberate e senza di cui non se ne libera alcuna. Aggiunge poi le parole: O dalla dottrina ascetica degli Indiani o dall'evocazione dei Caldei o da qualsiasi altra via 197. Dichiara dunque in termini molto espliciti che la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima non era indicata nelle dottrine che aveva appreso dagli Indiani e dai Caldei. Eppure non poté passare sotto silenzio che dai Caldei aveva appreso gli oracoli divini. Ne parla in continuazione 198. Quale via dunque vuol far intendere come aperta a tutti per la liberazione dell'anima? Essa non era ancora accolta né per derivazione da una filosofia sommamente vera né dalle dottrine dei popoli, che erano considerate importanti per presunte esperienze religiose, perché presso di loro si verificò l'interesse smodato di conoscere e onorare certi angeli e comunque non era ancor giunta a sua conoscenza mediante la storiografia. Qual è questa via valevole per tutti? Non certamente quella propria di un popolo ma quella che è stata offerta da Dio perché fosse comune a tutti i popoli. E questo uomo dotato di non mediocre ingegno non dubita che vi sia. Non può ammettere che la divina provvidenza abbia potuto abbandonare il genere umano senza una via aperta a tutti per la liberazione dell'anima. Non ha dichiarato che non v'è, ma che un così grande bene e aiuto non è ancora stato riconosciuto e che ancora non è stato fatto giungere a sua conoscenza. Non c'è da meravigliarsene. Porfirio attendeva alla cultura quando Dio permetteva che la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima, non altra dalla religione cristiana, fosse attaccata dagli adoratori degli idoli e demoni e dai re della terra; e questo per accrescere ed immortalare il numero dei martiri, cioè dei testimoni della verità. Per loro mezzo si dimostrava appunto che tutti i mali fisici si devono sopportare per la fedeltà alla religione e la difesa della verità. Porfirio conosceva questi fatti e pensava che a causa di persecuzioni di quel genere questa via sarebbe scomparsa e che pertanto non fosse quella aperta a tutti per la liberazione dell'anima. Non capiva che il fatto che lo turbava e che temeva di subire nello sceglierla si volgeva al consolidamento e irrobustimento della religione stessa.

...che è il cristianesimo per conferma di profezie e miracoli.
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2. Questa è dunque la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima, cioè concessa per divina bontà a tutti i popoli. La notizia della sua esistenza ad alcuni è venuta, ad altri verrà. Non le si doveva né le si dovrà dire: "Perché adesso? così tardi?". La decisione di chi la invia non può essere penetrata dall'intelligenza umana. Lo capì anche Porfirio quando disse che questo dono di Dio non era ancora conosciuto e che non ancora era stato fatto giungere a sua conoscenza. Per questo si è guardato dal ritenerlo falso, perché non l'aveva accolto nella sua fede o non ne aveva ancora avuto conoscenza. Questa, ripeto, è la via aperta a tutti per la liberazione dei credenti. In proposito Abramo uomo di fede ricevette il responso di Dio: Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli 199. Egli era caldeo di stirpe; ma gli si ordinò di uscire dalla propria terra, dal proprio clan, dalla casa di suo padre per accogliere le promesse. Da lui si sarebbe propagata la discendenza ordinata al fine per mezzo dei santi angeli in mano al Mediatore 200, nel quale fosse la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima, cioè concessa a tutti i popoli 201. Egli stesso, liberato per primo dalle superstizioni dei Caldei 202, adorò seguendolo un solo vero Dio e credette fedelmente a queste sue promesse. Questa è la via aperta a tutti. Di essa nel libro ispirato è stato detto: Dio abbia pietà di noi e ci benedica, faccia risplendere il suo volto sopra di noi affinché conosciamo la tua via in terra e la tua salvezza in tutti i popoli 203. Per questo, tanto tempo dopo, il Salvatore presa la carne dalla discendenza di Abramo diceva di se stesso: Io sono la via, la verità e la vita 204. Questa è la via aperta a tutti, di cui tanto tempo prima fu preannunciato: Negli ultimi tempi il monte della casa del Signore sarà manifesto, perché sarà sulla montagna e si alzerà sopra tutti i colli. Verranno ad esso tutti i popoli e lo saliranno molte nazioni e diranno: venite, saliamo sul monte del Signore e nella casa del Dio di Giacobbe. Ci annunzierà la sua via ed entreremo in essa. Da Sion infatti uscirà la legge e la parola del Signore da Gerusalemme 205. Questa via dunque non è di un popolo ma di tutti i popoli, la legge e la parola del Signore non rimasero in Sion e in Gerusalemme ma di lì avanzarono per diffondersi in tutto il mondo. E per questo il Mediatore stesso dopo la sua resurrezione dichiarò ai discepoli impauriti: Era necessario che si adempissero le cose che sono state scritte su di me nella Legge, nei Profeti e nei salmi. Allora manifestò loro il significato perché intendessero le Scritture e disse loro che era necessario che il Cristo subisse la passione e risorgesse da morte il terzo giorno e che fossero annunziate da loro in mezzo a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme, la conversione e la remissione dei peccati 206. Questa è dunque la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima. Gli angeli santi e i santi profeti l'hanno significata col tabernacolo, col tempio, col sacerdozio e i sacrifici e l'hanno preannunciata con parole, qualche volta aperte, più spesso allegoriche, dapprima a pochi uomini che scoprivano, se riuscivano, la grazia di Dio, soprattutto fra il popolo ebraico. Il suo stato, analogicamente parlando, era stato consacrato alla predizione e al preannuncio del raduno della città di Dio da tutti i popoli. Il Mediatore stesso presente nel mondo e i suoi Apostoli, che rivelavano ormai la grazia del Nuovo Testamento, dichiararono più apertamente le cose che nei tempi precedenti erano state figurate e significate in forma più misteriosa in considerazione della ripartizione delle epoche del genere umano, come Dio sapiente volle stabilirla. I segni degli straordinari interventi divini erano una conferma. Precedentemente ne ho già citato alcuni. Non si manifestarono soltanto visioni angeliche e non si udirono soltanto parole di messaggeri celesti, ma anche per opera di uomini di schietta pietà con la parola di Dio furono scacciati dal corpo e dai sensi degli uomini gli spiriti immondi, furono guariti i difetti fisici e le malattie, gli animali selvaggi della terra e dell'acqua, i volatili, gli alberi, gli elementi e le stelle eseguirono gli ordini divini, le forze dell'inferno si arresero, i morti tornarono in vita 207. Si passano sotto silenzio i fatti straordinari riguardanti personalmente il Salvatore, soprattutto quelli della nascita e della resurrezione. Nel primo presentò soltanto il mistero della maternità verginale, nell'altro il modello di quelli che risorgeranno alla fine. Questa via purifica tutto l'uomo e sebbene mortale lo dispone all'immortalità dalla prospettiva di tutte le sue componenti. Infatti perché non si cercasse una purificazione a quella componente che Porfirio chiama intellettuale, un'altra a quella che chiama spirituale e un'altra al corpo stesso, il Purificatore e Salvatore, che è sommamente veritiero e potente, ha assunto tutto l'uomo. Fuori di questa via che mai è mancata al genere umano, né prima quando questi fatti si attendevano come futuri, né poi quando si rivelarono come passati, nessuno fu liberato, nessuno è liberato, nessuno sarà liberato.

Predizioni teurgiche e profezia della salvezza.
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3. Porfirio dice che la via aperta a tutti per la liberazione dell'anima non era stata fatta giungere alla sua conoscenza mediante la storiografia. Che cosa si può scoprire di più illustre di questa storia che ha conquistato tutto il mondo con un'autorità tanto sublime? che cosa di più degno di fede, giacché in essa si narra il passato in modo da predire anche gli eventi futuri? Di essi, come sappiamo, molti si sono adempiuti e attendiamo che i rimanenti si adempiano. Porfirio e gli altri platonici non possono disdegnare la predizione da parte di Dio, sia pure nell'ordine di eventi apparentemente terreni e attinenti all'esistenza destinata a finire. Essi stessi a buon conto lo fanno con la mantica e con le divinazioni dalle varie forme e pratiche. Affermano appunto che anche le predizioni riguardanti grandi uomini non si devono tenere in molta considerazione; e giustamente. Infatti possono avvenire o per un certo presentire gli agenti naturali, come dalla medicina si precorrono molte condizioni che si verificheranno nella salute in base ad alcuni sintomi già presenti; oppure i demoni immondi preavvertono avvenimenti, perché da loro disposti, anzi se ne arrogano in certo senso il diritto tanto sulle passioni della mente degli empi per condurle a determinati fatti corrispondenti, come pure sulla materia più bassa della umana debolezza. I santi uomini, che hanno camminato su questa via aperta a tutti per la liberazione delle anime, non si sono curati di predire questi eventi come importanti, sebbene loro non sfuggissero e spesso per stimolare la fede dei presenti abbiano predetto fatti che non potevano essere comunicati ai sensi e tradotti immediatamente in esperienza. Erano ben altri gli avvenimenti divinamente grandi che annunziavano come futuri pur nei limiti loro consentiti dalla conoscenza della volontà di Dio. Nelle Scritture di questa via sono state promesse mediante profezia la venuta di Cristo nella terrenità, i grandi fatti da lui compiuti e quelli operati in suo nome: la penitenza degli uomini e la conversione delle volontà a Dio, la remissione dei peccati, la grazia della giustificazione, la fede dei credenti e la moltitudine di coloro che per tutto il mondo credono in una vera divinità, la fine dell'idolatria e demonolatria, la prova delle persecuzioni, la santificazione di chi avanza nella perfezione e la sua liberazione da ogni male, il giorno del giudizio, la risurrezione dei morti, l'eterna condanna della società degli empi e il regno eterno della gloriosissima città di Dio che eternamente godrà della visione di lui. Osserviamo che molti di questi fatti sono avvenuti; attendiamo quindi con fede ragionevole il verificarsi degli altri. Chi non ha fede e per questo neanche intelletto che questa via è la linea retta fino alla visione di Dio e alla eterna unione con lui, in base alla verità delle Scritture da cui viene formalmente dichiarata, può combatterla, non abbatterla.

Uno sguardo di retrospezione e di anticipo.
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4. Dunque in questi dieci libri, anche se meno di quanto si riprometteva l'attesa di alcuni individui, ho soddisfatto tuttavia, nei limiti in cui il vero Dio e Signore si è degnato di aiutarmi, all'interesse di altri col confutare le contraddizioni degli infedeli che ritengono superiori i propri dèi al fondatore della città di cui ho preso a trattare. Dei dieci libri i primi cinque sono stati scritti contro coloro i quali ritengono che gli dèi si devono adorare per i beni di questa vita; gli altri cinque contro coloro i quali sostengono che il culto degli dèi si deve mantenere per la vita che verrà dopo la morte. In seguito dunque, come ho promesso nel primo libro, tratterò con l'aiuto di Dio quel che riterrò di dover dire sull'origine, sullo svolgimento e relativi fini delle due città che, come ho detto, in questo mondo sono indiscriminatamente mescolate assieme.