LA CITTA’ DI DIO
Sant’Agostino
[Libri XIX-XX]
LIBRO XIX
SOMMARIO
1. Varrone ha ravvisato 288 possibili teorie sul problema dei fini del bene e del male, sul quale ha discusso la teoresi filosofica.
2. Con quale procedimento, a parte le possibili differenze che non sono teorie ma interrogativi, Varrone giunge alla tripartita definizione del bene, di cui una sola si deve scegliere.
3. Delle tre teorie, relative al sommo bene dell'uomo, Varrone stabilisce di sceglierne una seguendo l'opinione della Vecchia Accademia su proposta di Antioco d'Ascalona.
4. Si ha la dottrina dei cristiani sul sommo bene e sommo male contro i filosofi, i quali ritengono che il sommo bene in sé sono essi a se stessi.
5. La vita associata, che soprattutto si deve perseguire, è spesso resa impossibile da molti contrasti.
6. L'umano pensiero cade nell'errore quando la verità è nascosta.
7. Vi sono diversità dei linguaggi a disgiungere l'umana convivenza e la sciagura delle guerre, quelle comprese che si considerano giuste.
8. L'amicizia dei buoni non può essere tranquilla, mentre è indispensabile affannarsi per i pericoli che si hanno in questa vita.
9. V'è l'amicizia dei santi angeli, che non può essere svelata all'uomo in questo mondo per l'inganno dei demoni, in cui sono incappati coloro che pensavano di dover adorare molti dèi.
10. Quale ricompensa è riservata ai santi per il superamento della prova di questa vita.
11. V'è la felicità della pace eterna, nella quale per i santi si avrà il destino finale, cioè la vera perfezione.
12. Anche la crudeltà di coloro che fanno la guerra e tutti i turbamenti degli uomini vogliono giungere al fine della pace, che è nel desiderio di ogni essere.
13. V'è una pace di tutti gli esseri che per legge di natura non può essere sottratta in mezzo a qualsiasi turbamento, poiché nella soggezione a un giusto giudice ciascuno giunge nell'ordine a quel destino che ha meritato con la volontà.
14. V'è un ordine e una legge, tanto terrena che celeste, per cui si provvede all'umana società esercitando il potere poiché, così provvedendo, ad essa si è sottomessi.
15. Si hanno la libertà naturale e anche la schiavitù, la cui causa principale è il peccato, perché un uomo dalla cattiva volontà, anche se non è asservito a un altro uomo, è schiavo della propria passione.
16. Si ha un legittimo diritto di esercitare il potere.
17. Da che cosa deriva la pace che la società del cielo ha con la città terrena e da che cosa la discordia.
18. È molto diversa la volubilità della Nuova Accademia nei confronti della fermezza cristiana.
19. Comportamento e costumi del popolo cristiano.
20. I cittadini dei santi mediante la speranza sono felici anche in questa vita.
21. C'è il problema se secondo le definizioni di Scipione, che si hanno nel dialogo su Lo Stato di Cicerone, vi fu uno Stato romano.
22. V'è un solo vero Dio, a cui sono sottomessi i cristiani e al quale soltanto si devono offrire sacrifici.
23. Quali responsi dà Porfirio sul Cristo dagli oracoli degli dèi.
24. Da quale definizione si evidenzia che non solo i Romani ma anche gli altri Stati si attribuiscono giustamente il nome di popolo e di Stato.
25. Non vi possono essere vere virtù dove non v'è la vera religione.
26. Anche in un popolo non sottomesso a Dio v'è una pace, di cui si serve il popolo di Dio, mentre è in esilio in questo mondo.
27. V'è una pace di coloro che sono sottomessi a Dio, ma la sua completa tranquillità non si può conseguire nella vita posta nel tempo.
28. A quale fine giungerà il destino ultimo degli infedeli.
Libro diciannovesimo
IL FINE DEL BENE E LA PACE IN DIO
Il fine del bene e del male nel pensiero umano (1-9)
Le filosofie e il problema del fine ultimo.
1. 1. Osservo che in seguito dovrò trattare del destino proprio dell'una e dell'altra città, la terrena cioè e la celeste. Ma prima si devono esporre, per quanto lo richiede il criterio di rientrare nei limiti dell'opera, le dimostrazioni degli uomini che si sono affaccendati a costruire la felicità nell'infelicità di questa vita, in modo che la speranza, che Dio ci ha dato, si distingua dai loro vuoti ideali e il vero significato, cioè la felicità, che egli ci darà, sia evidenziato non soltanto con l'autorità divina ma anche con l'impiego del ragionamento che possiamo usare a favore di coloro che non credono. Del fine del bene e del male i filosofi hanno dibattuto nei loro rapporti i vari aspetti in vario modo. Discutendo il problema con la massima diligenza si sono sforzati di stabilire che cosa rende l'uomo felice 1. È fine del nostro bene quello per cui gli altri beni si devono desiderare ed esso per se stesso ed è fine del male quello per cui gli altri mali si devono evitare ed esso per se stesso. In questo modo diciamo fine del bene non là dove termina, sicché cesserebbe di essere, ma là dove raggiunge la compiutezza poiché ha la pienezza; allo stesso modo diciamo fine del male non dove cessa di essere, ma là dove conduce nel danneggiare. Questo fine è dunque il sommo bene e il sommo male. Nell'indagine del suo significato per raggiungere il sommo bene in questa vita e per evitare il sommo male, molto, come ho detto, si sono affaticati coloro che hanno atteso alla ricerca della sapienza nella vuota realtà di questo mondo. Tuttavia la delimitazione imposta dalla natura razionale non ha loro consentito di deviare dal cammino della verità al punto da non porre il fine del bene e del male, alcuni nell'animo, altri nel corpo, altri nell'uno e nell'altro. Da questa tripartita distribuzione di non specificate teorie, Marco Varrone nel libro La filosofia, dopo aver esaminato con diligenza ed acume la grande varietà di dottrine, nota che usando alcune disuguaglianze potrebbe giungere a duecentottantotto teorie, che non si sono ancora verificate ma potrebbero verificarsi.
In Varrone 4 obiettivi e 288 teorie possibili.
1. 2. Per chiarire in breve l'argomento, è opportuno che cominci dalla dottrina che egli ha ideato ed esposto nel libro citato. Dice che vi sono quattro obiettivi, cui gli uomini anelano quasi per istinto naturale, cioè senza precettore, senza l'apporto dell'istruzione, senza l'operosità e la norma del vivere che si chiama virtù e che certamente si apprende. Essi sono il piacere, da cui con diletto è stimolato l'organo del senso, la serenità con cui si ottiene che non si subisca alcun fastidio del corpo, l'uno e l'altro che con un unico termine Epicuro chiama piacere 2 e in genere gli impulsi primi di natura, nei quali si hanno queste esigenze e altre ancora, o nel corpo come l'integrità delle membra e la sua salute o incolumità, o nell'animo come sono le tendenze piccole e grandi che si costatano nel temperamento degli uomini. Dunque questi quattro obiettivi, cioè il piacere, la serenità, l'uno e l'altra e i bisogni più essenziali della natura sono in noi in modo che la virtù, che in seguito l'educazione inculca, si deve desiderare per essi o essi per la virtù o gli uni e gli altri per se stessi. Ne derivano già dodici sistemi giacché con questo metodo ogni settore è triplicato. Se lo rileverò in una, non sarà difficile reperirlo nelle altre. Infatti il piacere del corpo o viene subordinato alla virtù dell'animo o gli è anteposto o associato, quindi è diverso nella tripartita distribuzione dei sistemi. Viene subordinato alla virtù quando è impiegato a favore della virtù. Appartiene infatti a un dovere della virtù vivere per la patria e procreare figli a favore della patria, ma nessuno di questi doveri si può compiere senza il piacere sensibile, perché senza di esso non si consumano per vivere cibo e bevanda né si ha l'accoppiamento affinché si accresca la figliolanza. Quando invece il piacere si antepone alla virtù, esso si appetisce per se stesso e si ritiene che la virtù sia da praticare per esso, nel senso che la virtù produce soltanto l'effetto di ottenere e conservare il piacere sensibile. Tale comportamento è disonorevole perché se la virtù è subordinata al piacere che la domina, non si deve in alcun senso considerare virtù. Tuttavia anche questo detestabile sconcio ha avuto alcuni filosofi come promotori e difensori 3. Il piacere poi si congiunge alla virtù quando non si appetiscono l'uno per l'altra ma l'uno e l'altra per se stessi. Perciò come il piacere o subordinato o preferito o congiunto alla virtù dà origine a tre teorie, così si deduce che la serenità, l'una e l'altro e i bisogni essenziali della vita costituiscono ciascuno tre teorie. Conseguentemente secondo la diversità delle opinioni umane, in alcune questi princìpi sono subordinati alla virtù, in altre preferiti, in altre congiunti e così si giunge a dodici teorie. Ma anche questo numero viene raddoppiato con l'aggiunta di una differenza, cioè della vita associata, poiché chi segue qualcuna di queste dodici teorie o lo fa soltanto per sé o anche per il collega, al quale deve volere il bene che vuole per sé. Perciò vi sono dodici teorie di coloro che ritengono di dover seguire l'una o l'altra soltanto per sé, e altre dodici di coloro, i quali stabiliscono che si deve filosofare in un modo o nell'altro, non soltanto per sé ma anche per gli altri di cui desiderano un bene come il proprio. Queste ventiquattro teorie si duplicano ancora una volta con l'aggiunta delle differenze derivanti dai nuovi accademici e divengono quarantotto. Uno infatti può sostenere e cercare di dimostrare evidente l'una e l'altra di quelle ventiquattro teorie, come cercarono di dimostrare gli stoici che il bene dell'uomo, con cui esser felice, consiste soltanto nei valori dello spirito. Un altro invece può considerare non evidente la teoria, come cercarono di dimostrare i nuovi accademici, poiché ad essi, quantunque non evidente, sembrava probabile. Dunque divengono ventiquattro teorie da parte di coloro che le considerano evidenti a causa della verità, e altre ventiquattro da parte di coloro che, quantunque non evidenti nella verità, pensano di sostenerle a causa della probabilità. Ancora, poiché un tale può seguire l'una o l'altra di queste quarantotto teorie secondo il modo di pensare degli altri filosofi, e un altro secondo il modo di pensare dei cinici, anche da queste diversità le teorie si raddoppiano e diventano novantasei. Inoltre gli uomini possono sostenere e seguire ognuna di esse o per potenziare la vita dedita agli studi, come coloro che hanno voluto e potuto attendere soltanto agli ideali della cultura, ovvero la vita dedita alle attività, come quelli che, sebbene studiassero filosofia, erano molto occupati nell'amministrazione dello Stato o nel regolare gli affari, ovvero organizzata nell'uno e nell'altro settore, come coloro che hanno assegnato intervalli di tempo della propria vita in parte alla libera occupazione degli studi e in parte ad un'attività vincolante. Quindi a causa di queste diversità si può triplicare il numero delle teorie ed estenderlo fino a duecentottantotto.
Il fine ultimo negli Accademici e nei Cinici.
1. 3. Ho desunto questi concetti dal libro di Varrone esponendo con concisione e chiarezza, per quanto mi è stato possibile, i suoi pensieri con parole mie. Sarebbe lungo dimostrare in qual senso, rifiutate le altre teorie, ne scelga una che, a suo avviso, è quella dei vecchi accademici. Egli vuol fare apparire che essi, addottrinati da Platone, professarono dottrine evidenti fino a Polemone che, quarto dopo di lui, resse la scuola la quale fu denominata Accademia. Per questo la distingue dai nuovi accademici per i quali tutte le conoscenze sono prive di evidenza. È un modo di fare filosofia che la scuola ha derivato da Arcesila, successore di Polemone 4. Sarebbe lungo dimostrare esaurientemente che anche quella teoria, cioè dei vecchi accademici, come dal dubbio, così sia immune da ogni errore. Tuttavia l'assunto non si deve tralasciare completamente. Quindi Varrone elimina tutte quelle varianti, che hanno moltiplicato il numero delle teorie, e pensa appunto che si devono eliminare perché non v'è in esse il fine del bene. Ritiene infatti che non si può considerare teoria filosofica se non si differenzia dalle altre nello stabilire un fine diverso del bene e del male. Se infatti non v'è per l'uomo altra ragione del filosofare che essere felice, ciò che lo rende felice è il fine del bene; quindi sola ragione del filosofare è il fine del bene. Perciò non è teoria della filosofia se non è teoria del fine del bene. Si può dunque porre il problema della vita associata, se dev'essere seguita dal saggio, in modo che voglia e provveda il sommo bene, con cui si diviene felici, dell'amico come il proprio, ovvero che in ogni azione agisca soltanto per la propria felicità. Nella fattispecie non v'è il problema del sommo bene ma dell'associare o non associare un compagno alla partecipazione di questo bene, non per la propria persona ma per il compagno, in modo da godere del suo bene come del proprio. Così riguardo ai nuovi accademici, per i quali non vi sono verità evidenti, si pone il problema se i princìpi, in base ai quali si deve filosofare, si devono considerare così, ovvero, come è sembrato opportuno ad altri filosofi, dobbiamo considerarli evidenti. Quindi non si pone il problema se si deve perseguire il fine del bene, ma se si deve dubitare o no sulla verità dello stesso bene che sembra si debba perseguire: cioè, per parlar più chiaramente, se si deve perseguire in maniera che chi lo persegue dica che è vero, ovvero così che chi lo persegue dica che gli sembra vero, sebbene eventualmente sia falso, tuttavia l'uno e l'altro perseguano un solo medesimo bene. Dalla differenza, che si verifica dal contegno e dall'abituale modo di vivere dei cinici non si pone il problema di quale sia il fine del bene, ma se in quel contegno e abituale modo di vivere si deve vivere da chi persegue il bene, qualunque sia il vero da perseguire. In seguito vi furono coloro i quali, sebbene perseguissero diversi beni finali, altri la virtù, altri il piacere, conservavano tuttavia il medesimo contegno e il medesimo abituale modo di vivere, da cui si denominavano cinici. Dunque, qualunque sia il criterio per cui i filosofi cinici si distinguono dagli altri, non valeva assolutamente nulla per scegliere e praticare il bene con cui essere felici. Se infatti vi fosse una differenza, certamente il medesimo contegno costringerebbe a perseguire il medesimo fine e un diverso contegno non lascerebbe raggiungere il medesimo fine.
Da 288 ipotesi a 3 come cominciamento.
2. Anche in relazione ai tre sistemi di vita: uno libero da occupazioni non per pigrizia ma nell'esame attento o nella ricerca della verità, l'altro intento all'amministrazione degli affari, il terzo combinato con l'uno e con l'altro tipo, quando si pone il problema quale dei tre si deve scegliere, non è in discussione il fine del bene ma nel problema si tiene presente quale dei tre procuri impedimento o agevolazione nel conseguire o conservare il fine del bene. Il fine del bene, quando vi si giunge, rende immediatamente felici; invece nel libero esercizio della cultura o nella pubblica occupazione o quando si compie alternativamente l'uno e l'altra non si è senz'altro felici. Molti individui possono vivere in uno di questi tre tipi ed errare nel ricercare il fine del bene con cui l'uomo diviene felice. Dunque il problema del fine del bene e del male, che fonda ogni teoria filosofica, è diverso dal problema sulla vita associata, sul probabilismo degli accademici, sul modo di vestire e di mangiare dei cinici, sui tre tipi di vita, libero da impegni, attivo e combinato dell'uno e dell'altro. Difatti in nessuno di essi si discute del fine del bene e del male. Marco Varrone, adoperando queste quattro varianti, cioè della vita associata, dei nuovi accademici, dei cinici e della tripartizione del tipo di vita è giunto alle duecentottantotto teorie ed altre che possono ugualmente aggiungersi. Eliminandole tutte, perché non introducono alcun problema sul raggiungimento del sommo bene e quindi non si debbono considerare teorie, ritorna a quelle dodici con le quali si pone il problema di quale sia il bene dell'uomo perché, conseguitolo, egli si rende felice, per dimostrare che una è vera, le altre false. Infatti, eliminata la tripartizione del tipo di vita, due terzi del numero si detraggono e rimangono novantasei teorie. Eliminata anche la variante dai cinici, le aggiunte si riducono a metà e divengono quarantotto. Eliminiamo anche ciò che è stato rilevato dai nuovi accademici, di nuovo ne rimane una metà, cioè ventiquattro. Si tolga ugualmente ciò che era stato aggiunto dalla vita associata, le rimanenti sono dodici che la variante suddetta aveva raddoppiato perché divenissero ventiquattro. Di queste dodici non si può affermare affatto che non siano considerate teorie. In esse infatti non v'è altro problema che il fine del bene e del male. Stabilito il fine del bene, all'opposto certamente si ha il fine del male. Affinché esse divengano dodici teorie sono triplicati i quattro princìpi: il piacere, la serenità, l'uno e l'altro e gli impulsi primi di natura che Varrone definisce originari. Questi quattro obiettivi talvolta singolarmente vengono subordinati alla virtù, nel senso che non si perseguono per se stessi, ma a causa dell'imperativo della virtù; talora si antepongono, sicché si ritiene necessaria la virtù non per se stessa, ma per conseguire e conservare questi obiettivi; talvolta si congiungono in modo da reputare che per se stessi si perseguano la virtù ed essi. Quindi moltiplicano per tre il numero quattro e giungono a dodici teorie. Dei quattro obiettivi Varrone ne elimina tre: cioè il piacere, la serenità e l'uno e l'altra, non perché li disapprovi, ma perché gli impulsi originari di natura contengono anche il piacere e la serenità. Non v'è bisogno quindi di questi due obiettivi farne tre, cioè due, quando separatamente si perseguono il piacere e la serenità, e un terzo quando si perseguono insieme, poiché gli impulsi originari di natura li includono e molti altri oltre essi. Quindi Varrone decide di dover indagare diligentemente quale delle tre teorie si deve preferire. Un ragionamento genuino non consente che siano più di una, sia essa in queste tre o in un'altra teoria. Lo vedremo in seguito. Frattanto esaminiamo, il più brevemente e chiaramente possibile, in qual senso Varrone ne scelga una sola delle tre. Infatti queste tre teorie si delineano appunto perché gli impulsi originari di natura si devono perseguire per la virtù o la virtù per gli impulsi originari o l'una e gli altri, cioè la virtù e gli impulsi originari di natura, per se stessi.
Gli impulsi originari e le virtú.
3. 1. Varrone tenta di stabilire con evidenza quale dei tre obiettivi si debba perseguire come vero con il seguente procedimento. Prima di tutto egli ritiene che si deve esaminare che cos'è l'uomo perché in filosofia non si pone il problema del bene della pianta, dell'animale, di Dio, ma dell'uomo. Ritiene infatti come certo che due princìpi sono nella sua natura, il corpo e l'anima, e non pone in discussione che dei due l'anima è più perfetta e di gran lunga più elevata. Ipotizza invece se l'uomo sia soltanto l'anima in modo che il corpo sia come il cavallo per il cavaliere, poiché cavaliere non è l'uomo e il cavallo, ma soltanto l'uomo, e si chiama appunto cavaliere perché in qualche modo è in rapporto col cavallo; ipotizza inoltre se l'uomo sia soltanto corpo in quanto è in rapporto con l'anima come il bicchiere con la bevanda; infatti non si considera bicchiere unitamente la coppa e la bevanda che la coppa contiene, ma soltanto la coppa perché è commisurata a contenere la bevanda; e ancora che non l'anima o il corpo soltanto ma che l'una e l'altro insieme sono l'uomo e che una parte sono tanto l'anima che il corpo ed egli, per essere uomo come un tutto, risulti delle due parti, allo stesso modo che consideriamo biga due cavalli accoppiati, di cui sia quello di destra che quello di sinistra è parte della biga e non consideriamo biga uno solo di loro, comunque sia rapportato all'altro, ma l'uno e l'altro insieme. Delle tre ipotesi ha scelto la terza e ritiene che l'uomo non è soltanto anima o soltanto corpo, ma unitamente anima e corpo. Quindi afferma che il sommo bene dell'uomo, con cui diviene felice, risulta dall'una e dall'altra componente, dall'anima cioè e dal corpo. Perciò decide che per se stessi si devono perseguire gli impulsi primi di natura e la virtù stessa che l'educazione aggiunge come arte del vivere e che fra i suoi beni spirituali è il bene più alto. La medesima virtù, cioè l'arte del regolare la vita, quando accoglie in sé gli impulsi originari di natura, i quali preesistevano ad essa, ma esistevano anche quando mancava loro l'educazione, li persegue tutti per se stessi ma insieme se stessa e di tutti e di se stessa si vale al fine di sentire diletto e appagamento da tutti più o meno secondo che sono più o meno nobili. Gode tuttavia di tutti e tralascia, se la circostanza lo richiede, i beni meno elevati per ottenere e conservare i più elevati. Ma la virtù non antepone a se stessa nulla dei beni dell'anima e del corpo. Essa usa bene di se stessa e degli altri beni che rendono l'uomo felice. Dove essa non è, sebbene vi siano molti beni, non vi sono per il bene di colui che li ha e perciò non si possono considerare un bene per lui perché, se ne usa male, non possono essergli utili. Dunque la vita dell'uomo, regolata in modo che provi l'appagamento dalla virtù e dagli altri beni dell'anima e del corpo, senza di cui non si può avere la virtù, è considerata felice; più felice se prova l'appagamento anche da altri beni, alcuni o più, senza dei quali si può avere la virtù, molto felice se da tutti i beni, in modo che non gli manchi alcun bene dell'anima o del corpo. Quindi non è la medesima cosa la vita e la virtù, perché non qualsiasi vita ma la vita saggia è virtù, e tuttavia vi può essere qualsiasi vita senza la virtù, ma non vi può essere virtù senza la vita. Direi questo anche della memoria e della ragione e di ogni facoltà simile nell'uomo. Si hanno infatti anche prima dell'educazione, ma senza di esse non si può avere l'educazione e quindi neanche la virtù, alla quale si è educati. Correre velocemente, esser bello di corpo, avere il sopravvento per vigorose energie e altri simili pregi sono tali che la virtù si può avere senza di essi ed essi senza la virtù. Tuttavia sono un bene e secondo gli accademici la virtù li ama per se stessi, li utilizza e se ne appaga come conviene alla virtù 5.
Noi e gli altri nel fine del bene e del male.
3. 2. Affermano che nell'uomo la vita felice è anche comunitaria perché ama il bene e gli amici per se stesso come ama il proprio e lo vuole loro per loro come per sé, tanto se sono in casa come la moglie, i figli e i familiari in genere, sia nel luogo dove v'è la sua casa, come la città e quelli che sono chiamati cittadini o in tutto il globo terrestre, come sono i popoli che a lui congiunge l'umana solidarietà, o nell'universo, che è indicato col nome di cielo e terra, come, a loro avviso, sono gli dèi che, secondo loro, sono amici dell'uomo saggio e che noi abitualmente chiamiamo angeli. Affermano che in nessun modo si deve dubitare del fine del bene e del male e che è questa la distinzione tra loro e i nuovi accademici e che non fa differenza se su questo fine, che reputano evidente, si fa filosofia col modo di vestire e di mangiare dei cinici o con un altro qualsiasi. Affermano inoltre che dei tre tipi di vita, dedito agli studi, agli affari e che risulta dall'unione dei due, a loro va a genio il terzo. Varrone afferma, sulla garanzia di Antioco, maestro di Cicerone e suo, che i vecchi accademici hanno ritenuto e insegnato così, sebbene Cicerone vuol fare apparire che in molti punti fu piuttosto stoico che vecchio accademico. Ma che cosa importa a noi, che dobbiamo giudicare i contenuti, anziché conoscere come importante sugli uomini ciò che ciascuno ha opinato?
Il vero fine è in Dio mediante la fede.
4. 1. Se dunque ci si chiede che cosa risponda la città di Dio, interrogata su questi argomenti ad uno ad uno, e prima di tutto che cosa pensi sul fine del bene e del male, essa risponderà che il sommo bene è la vita eterna, il sommo male la morte eterna e che quindi per conseguire la prima ed evitare la seconda si deve vivere onestamente. E per questo è scritto: Il giusto vive di fede 6. Difatti non abbiamo ancora esperienza del nostro bene, perciò è indispensabile che lo cerchiamo credendo ed anche il vivere onestamente non proviene a noi da noi se non ci aiuta nel credere e nel pregare colui che ci ha dato la fede stessa con cui credere che dobbiamo essere da lui aiutati. Vollero invece esser felici in questo mondo e con incredibile leggerezza rendersi felici da sé coloro i quali ritennero che il fine del bene e del male è in questa vita perché stabilirono il sommo bene o nel corpo o nell'anima o in entrambi e, per esprimersi più diffusamente, o nel piacere o nella virtù o in entrambi, oppure nella serenità o nella virtù o in entrambi, oppure nel piacere assieme alla serenità o nella virtù o in entrambe, oppure negli impulsi originari di natura o nella virtù o in entrambi. Li ha scherniti la Verità nel profeta il quale dice: Il Signore conosce i pensieri degli uomini 7, o, come ha interpretato l'apostolo Paolo tale attestazione: Il Signore conosce i pensieri dei sapienti perché sono vani 8.
Vita irriflessa e controllo.
4. 2. Chi infatti è capace, sia pure con un fiume d'eloquenza, di evidenziare le sofferenze di questa vita? Se ne lamentò, come gli fu possibile, Cicerone nel libro La consolazione per la morte della figlia; ma quanto è ciò che ha potuto?. Quando, dove, come è possibile che i così detti impulsi originari di natura si realizzino così bene in questa vita da non declassarsi nella eventualità? Infatti quale dolore contrario al piacere, quale pena contraria alla serenità può non cadere sul corpo del saggio? Certamente l'amputazione o l'impotenza di una parte del corpo abbatte la piena efficienza dell'uomo, l'imperfezione nega l'avvenenza, la cagionevolezza la salute, la stanchezza le forze, l'intorpidimento e la lentezza l'agilità; e quale di questi può non piombare sull'organismo del saggio? La posizione e movimento, quando sono convenienti e appropriati, si annoverano fra gli impulsi primi di natura; ma che succede se un qualche malanno scuote le membra con un tremito? Che cosa avviene se la spina dorsale è curvata fino a costringere le mani al suolo e in qualche modo rende quadrupede l'uomo? Turberebbe la grazia e dignità del conferire posizione e movenza al corpo. Che cosa dire di quelli che sono considerati beni originari dell'animo, fra i quali come primi due rassegnano per la rappresentazione e l'apprendimento della verità il senso e l'intelletto? Ma di quale natura e in qual misura rimane il senso se, per tacere delle altre facoltà, l'uomo divenisse sordo e cieco? E a qual punto si alieneranno ragione e intelligenza qualora si offuscassero se pur per una qualche malattia divenisse pazzo? Quando i pazzi furiosi dicono e compiono parole e azioni assurde, spesso disdicevoli alla loro buona intenzione e comportamento, anzi contrarie alla loro buona intenzione e comportamento, sia che vi pensiamo o che li vediamo, se vi riflettiamo seriamente, a mala pena possiamo trattenere le lacrime o forse neanche lo possiamo. Che dire di quelli che subiscono invasioni dei demoni? Dove hanno la propria intelligenza oppressa e travolta se lo spirito maligno usa secondo la propria volontà della loro anima e corpo? E non ci si può illudere che un simile malanno in questa vita non può colpire il sapiente. Poi di qual tenore e ampiezza è l'apprendimento della cultura in questo corpo mortale? Leggiamo nel veritiero libro della Sapienza: Il corpo corruttibile appesantisce l'anima e l'esperienza terrena affanna il pensiero che recepisce molte immagini 9. V'è inoltre la spinta o stimolo dell'agire, se in questi termini giustamente si traduce in latino quelle spinte che i Greci chiamano
, poiché anche essi l'assegnano ai beni primi di natura. Ed è proprio questa spinta con cui, quando è sconvolta la mente e offuscata la coscienza, si compiono movimenti e gesti degni di pietà che ci fanno rabbrividire.
Conflitto fra la virtú della temperanza e gli impulsi, quindi non fine.
4. 3. C'è poi la virtù, che non è fra gli impulsi primi di natura, poiché si aggiunge in seguito con la mediazione della educazione quando si aggiudica la perfezione dei beni umani. Ma che cosa consegue essa se non lotte continue con le imperfezioni non fisiche ma spirituali, non di altri ma nostre e personali, soprattutto quella virtù che in greco si chiama
, in latino "temperanza", con cui si frenano le passioni della carne affinché non conducano la coscienza a consentire ad ogni azione disonesta? 10. Poiché, come dice l'Apostolo, la carne ha desideri contrari allo spirito, non v'è imperfezione a cui non sia contraria una virtù poiché, come dice ancora l'Apostolo, lo spirito ha desideri contrari alla carne. Ed essi, soggiunge, si ostacolano a vicenda sicché non fate quel che vorreste 11. E noi, quando vogliamo essere perfetti nel fine del sommo bene, non vogliamo altro che la carne non abbia desideri contro lo spirito e che in noi non vi sia questa imperfezione contro cui lo spirito abbia desideri. In questa vita, sebbene lo vogliamo, poiché non siamo in grado di ottenerlo, per lo meno otteniamo con l'aiuto di Dio di non arrenderci con lo spirito fiaccato alla carne, che ha desideri contro lo spirito, e di non essere indotti a commettere il peccato col nostro consenso. Non deve avvenire dunque che in questo dissidio interiore ci illudiamo di aver raggiunto la felicità alla quale intendiamo giungere vincendo. E nessuno è saggio al punto di non avvertire per nulla il conflitto contro il piacere immoderato.
Il fine ultimo nel confronto a prudenza, giustizia, fortezza.
4. 4. E che cosa ottiene la virtù che si chiama prudenza? Essa con la sua grande accortezza distingue il bene dal male, affinché nel compiere l'uno ed evitare l'altro non s'insinui l'errore e perciò anch'essa comprova che noi siamo nel male o che il male è in noi. Insegna appunto che il male è consentire al piacere immoderato per peccare e che il bene è non consentirgli per non peccare. E la temperanza ottiene che non si consenta al male al quale la prudenza c'insegna a non consentire, tuttavia né la prudenza né la temperanza lo eliminano da questa vita. Compito della giustizia è assegnare a ciascuno il suo. Ne consegue un giusto ordine naturale in modo che l'anima sia sottomessa a Dio e il corpo all'anima e perciò l'anima e il corpo a Dio. Fa notare perciò che ancora attende a questa funzione anziché serenarsi nel fine di tale funzione. L'anima è tanto meno sottomessa a Dio quanto meno accoglie Dio nei suoi pensieri e tanto meno il corpo è sottomesso all'anima quanto più accoglie desideri contro lo spirito. Finché dunque rimangono in noi questa mollezza, questo contagio, questo sfinimento, come oseremo considerarci già sani e se ancora non sani, come già felici di quella felicità che è nel fine? La virtù che ha nome fortezza, sia pure in una grande saggezza, è testimone irrefutabile dei mali umani che essa è costretta a sopportare con la rassegnazione. Mi stupisco della sfrontatezza con la quale i filosofi stoici sostengono che questi mali non sono mali perché ammettono che da essi, se sono tanto grandi che il saggio non li possa o non li debba sopportare, egli è costretto a infliggersi la morte e uscire da questa vita. È grande l'insensatezza dell'orgoglio in questi individui che pongono nella vita presente il fine del bene e che pensano di rendersi felici da se stessi. Infatti il loro saggio, come essi con sorprendente millanteria lo delineano, anche se diviene cieco, sordo e muto, sia fiaccato nell'organismo e affranto dai dolori e se un qualche altro di simili mali che dire o pensar si possa gli piombi addosso, per cui sia costretto a infliggersi la morte, non deve evitare di considerare felice questa vita sebbene afflitta da questi mali. O vita felice che, per essere finalizzata, chiede aiuto alla morte! Se è felice si persista in essa. In qual senso questi non sono mali, se debellano il bene della fortezza e costringono la fortezza stessa non solo ad arrendersi a loro, ma anche a vaneggiare al punto che essa considera felice la vita e induce ad abbandonarla? Non si può essere tanto ciechi da non avvertire che, se fosse felice, non dovrebbe essere abbandonata. Ma con un chiaro accenno di sofferenza ammettono che si deve abbandonare. Non v'è ragione dunque, una volta fiaccata l'alterezza della presunzione, non ammettere che è infelice. E, per piacere, il celebre Catone si è suicidato per sopportazione o insopportazione? Non l'avrebbe fatto se non avesse accolto con insofferenza la vittoria di Cesare. Dov'è la fortezza? In realtà si arrese, si afflosciò, fu sconfitta al punto da abbandonare, rinunziare, fuggire una vita felice. Ma non era già felice? Era dunque infelice. Dunque erano mali se rendevano la vita infelice tanto da evaderne.
Incongruenza in proposito dell'Accademia e del Peripato.
4. 5. Perciò anche coloro i quali hanno ammesso che queste condizioni sono un male, come i peripatetici e i vecchi accademici, di cui Varrone sostiene la teoria, si esprimono in forma più accettabile, ma anche il loro errore desta sorpresa. La vita è felice, sostengono, nonostante questi mali, sebbene siano tanto gravi e da schivare con la morte irrogata a se stesso da colui che li subisce. I dolori strazianti del corpo, dice Varrone, sono un male e tanto più grave in quanto potrebbero aggravarsi; per liberarsene si deve uscire da questa vita. Da quale, prego? Da questa, dice, perché è tormentata da tanti mali 12. Senz'altro dunque è felice negli stessi mali per i quali affermi che si deve fuggire? Ovvero la consideri felice perché ti è permesso di sfuggire da quei mali con la morte? E che diresti se per un giudizio divino fossi irretito in essi, non ti fosse permesso di morire e mai ti fosse consentito di liberartene? In tal caso veramente considereresti infelice una tal vita. Dunque non è infelice per il fatto che si lascia subito. Difatti se fosse eterna, anche da te sarebbe giudicata infelice e non perché è breve deve sembrare che non sia infelicità ovvero, ed è più assurdo, poiché è un'infelicità breve, che si possa considerare felicità. V'è un grande potere in questi mali perché inducono un uomo saggio secondo i filosofi a togliersi quel principio per cui è uomo. Dicono infatti, e dicono il vero, che questo è il primo e più grande richiamo della natura che l'uomo sia in armonia con se stesso, perciò fugga la morte per istinto naturale, così amico di sé da volere con ardore e bramare di essere una creatura animata e di vivere nell'unione di anima e corpo 13. V'è un grande potere in questi mali perché con essi è sopraffatto codesto sentimento naturale, per cui in ogni modo con tutte le forze e tentativi si evita la morte, ed è così sopraffatto che la morte che si evitava è scelta desiderata e se non sopraggiungesse da altra parte verrebbe irrogata personalmente dall'individuo stesso. V'è un grande potere in questi mali che rendono omicida la fortezza, se tuttavia si deve ancora considerare fortezza. Difatti essa è talmente sopraffatta da questi mali che non solo non può con la sopportazione difendere l'uomo, che in quanto virtù ha accolto per guidarlo e proteggerlo, ma che inoltre essa stessa è costretta ad uccidere. Certamente il saggio deve accettare pazientemente anche la morte, ma che proviene da un'altra causa. Ma se, stando a costoro, uno è costretto a infliggersela, si deve anche ammettere che non si tratta soltanto di mali ma di mali intollerabili, perché lo costringono a compiere una simile azione. Quindi una vita che è afflitta dal peso o soggiace all'eventualità di mali tanto grandi e tanto gravi, non sarebbe affatto considerata felice se gli individui, i quali la pensano così, allo stesso modo che, sopraffatti da mali sempre più gravi, si arrendono alla sfortuna quando si irrogano la morte, così soggiogati da determinate riflessioni degnassero di arrendersi alla verità quando cercano la vera felicità. Non devono cioè pensare per sé che si può godere del fine del sommo bene nell'attuale soggezione alla morte perché in questa condizione le virtù stesse, di cui attualmente nell'uomo non si riscontra valore più nobile e vantaggioso, quanto sono un aiuto più valido contro la violenza del pericolo, travaglio e sofferenza, tanto sono più attendibili testimonianze dell'infelicità. Se infatti sono vere virtù, e non possono esserlo se non in coloro in cui è un vero sentimento religioso, non pretendono di ottenere che non soggiacciano alle condizioni d'infelicità gli uomini che le hanno. Le virtù vere non sono ingannevoli, quindi non lo pretendono. Ma fanno sì che la vita umana, la quale è condizionata ad essere infelice per i tanti e grandi mali di questo mondo, allo stesso modo che è immune da morte, sia felice nella speranza dell'aldilà. Non potrebbe essere felice se non fosse immune dalla morte. Quindi l'apostolo Paolo, non degli uomini privi di prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, ma di quelli che vivano secondo il vero sentimento religioso e abbiano quindi vere le virtù che hanno, dice: Nella speranza siamo diventati liberi dalla morte. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con fortezza 14. Come dunque nella speranza siamo diventati liberi dalla morte, così nella speranza siamo diventati felici e non abbiamo in atto la liberazione dalla morte e la felicità ma le attendiamo nel futuro e questo mediante la fortezza. Siamo appunto nei mali che dobbiamo sopportare con fortezza fino a che giungiamo a quei beni, nei quali vi sarà tutto ciò da cui siamo resi felici in maniera ineffabile e nulla che dobbiamo ancora sopportare. E la libertà dalla morte, che vi sarà nell'aldilà, sarà anche la felicità finale. E poiché i filosofi suddetti non vogliono credere a questa felicità perché non la sperimentano, tentano di conquistarne una assai falsa con una virtù tanto più superba quanto più illusoria.
Crisi dei rapporti familiari...
5. Essi sostengono che la vita dell'uomo saggio è socievole, noi lo ammettiamo con significato più ampio. Infatti questa città di Dio, sulla quale noi ormai rigiriamo fra mano il libro diciannovesimo dell'opera, da dove inizierebbe all'origine o continuerebbe nell'evolversi o raggiungerebbe il fine dovuto se la vita dei credenti non fosse socievole? Ma non si può calcolare di quanti e quanto gravi mali sovrabbondi l'umana società nell'angoscia di questa soggezione alla morte. Non si è capaci di valutarli. Ascoltino dai loro commediografi un individuo che col modo di pensare e consenso di tutti dice: Ho preso moglie, che pena ho provato! Sono nati i figli, altro affanno 15. Parimenti le umane condizioni hanno in ogni caso incontrato quelle manchevolezze che il citato Terenzio richiama alla memoria: Ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta e di nuovo la pace 16. Tali contrasti hanno coinvolto tutti gli avvenimenti umani e si verificano spesso anche negli onesti affetti degli amici, ne sono ripieni gli avvenimenti umani in ogni fatto in cui sperimentiamo come mali indiscutibili ingiustizie, diffidenze, inimicizie, lotta; la pace invece come un bene incerto, perché non conosciamo il cuore di coloro con i quali vogliamo conservarla e se oggi possiamo conoscerlo, non sappiamo certamente come sarà domani. E quali individui sono soliti o devono essere più amici fra di loro che quelli i quali convivono nella medesima casa? Eppure nessuno è sicuro di questo fatto, dato che spesso dalle loro malignità nascoste possono emergere mali tanto più spiacevoli quanto più piacevole fu la pace che fu creduta vera, mentre era molto astutamente simulata. Perciò tocca il cuore di tutti tanto da costringere al lamento ciò che dice Cicerone: Non v'è inganno più nascosto di quello che si cela nel pretesto del dovere o in un certo orpello del vincolo naturale. Tu infatti, stando in guardia, puoi agevolmente schivare colui che ti è ostile, ma questo male nascosto di casa e di famiglia non solo avviene ma angustia prima che tu possa scorgerlo e verificarlo 17. Per questo con grande afflizione si ascolta la parola del Signore: Nemici dell'uomo sono quelli della sua casa 18. Difatti anche se un individuo è tanto forte da sopportare con animo sereno o tanto accorto da schivare con preveggente perspicacia i tranelli che una finta amicizia prepara contro di lui, è indispensabile che egli sia gravemente afflitto dalla perversità di quegli uomini sleali quando sperimenta, se egli è buono, che essi sono pessimi tanto se sono stati sempre cattivi e si sono atteggiati a buoni, come se sono passati dalla bontà a simile malvagità. Se dunque la casa, asilo comune in questi mali del genere umano, non è sicura, che dire della città? Essa infatti, quanto è più grande, tanto il suo tribunale è più gremito da cause civili e criminali, anche se mancano le agitazioni sovversive e assai spesso sanguinose e le guerre civili. E sebbene talora le città siano libere dalle loro vicissitudini, mai lo sono dalla minaccia.
... civili, soprattutto nei processi...
6. Quali pensiamo che siano i processi giudiziari degli uomini sugli uomini, giacché non possono mancare negli Stati che persistono in una pace per grande che sia, e quanto siano meschini e deplorevoli? Difatti quelli che giudicano non possono scorgere la coscienza di coloro sui quali giudicano. Quindi spesso sono costretti a scoprire la verità riguardante un altro processo con la tortura di testimoni innocenti. E che dire quando un tale subisce la tortura in un proprio processo e viene straziato quando s'investiga se è colpevole e un innocente subisce pene certissime per un reato incerto, non perché si scopre che l'ha commesso, ma perché non si sa se l'ha commesso? Perciò l'inconsapevolezza del giudice è spesso rovina dell'innocente. E v'è un altro caso più intollerabile, deplorevole, da bagnare con un fiume di lacrime, se fosse possibile. Quando il giudice infligge la tortura all'accusato, appunto per non uccidere un innocente nell'ignoranza, avviene, per la sventura dell'inconsapevolezza, che uccide il torturato innocente che aveva fatto torturare per non uccidere un innocente. Se dunque secondo la teoria di costoro un tale ha scelto di uscire da questa vita anziché sopportare più a lungo quei tormenti, dichiara di aver commesso ciò che non ha commesso. Se egli è stato condannato e giustiziato, il giudice ancora non sa se ha fatto morire un colpevole o un innocente, sebbene lo ha fatto torturare per non uccidere inconsapevolmente un innocente e perciò ha fatto torturare un innocente per sapere e poiché non sapeva lo ha fatto morire. In questo buio della vita associata il giudice saggio sederà in tribunale o non oserà? Certo che vi sederà. Lo vincola infatti e induce a questo incarico la convivenza umana che egli giudica illecito abbandonare. Infatti non ritiene illecito che testimoni innocenti siano torturati in processi riguardanti altre persone. Vi sono poi coloro che, incolpati e sopraffatti talora dalla violenza del dolore e accusando se stessi ingiustamente, sono anche puniti pur essendo innocenti quando già, sebbene innocenti, sono stati torturati. Inoltre, sebbene non siano puniti con la morte, spesso muoiono nella tortura o in seguito ad essa. Infine talvolta anche gli accusatori, desiderando forse di giovare all'umana convivenza nel senso che i delitti non rimangano impuniti e non riuscendo a provare ciò che contestano ai testimoni che depongono il falso, se il reo resiste disumanamente ai tormenti e non confessa, sebbene contestino il vero, sono condannati dal giudice che ignora. E il giudice non ritiene che tanti e sì grandi mali siano peccati perché, se è assennato, non lo fa nella necessità di fare del male e tuttavia, poiché ve lo induce la convivenza umana, nella necessità di giudicare. Questa è dunque quella che con certezza consideriamo condizione infelice dell'uomo, sebbene non è malvagità del saggio. Forse che egli, nella necessità di giudicare pur ignorando, sottopone a tortura e punisce gli innocenti ed è poco per lui non esser colpevole se in più non è anche felice? Tanto più ponderatamente e in modo più degno dell'uomo avverte in tale necessità una disdetta e la odia in sé e, se è educato alla pietà, grida a Dio: Liberami dalle mie necessità! 19.
... e nel mondo a causa delle diversità di lingua e delle guerre.
7. Dopo lo Stato ovvero città viene il mondo intero, nel quale i filosofi riconoscono il terzo livello dell'umana convivenza, iniziando dalla casa e da essa alla città e poi giungendo fino al mondo. Esso certamente, come l'oceano, quanto è più grande, tanto è più denso di pericoli. Prima di tutto nel mondo la diversità delle lingue rende estraneo un uomo all'altro. Se due s'incontrano e non possano passare oltre ma siano costretti da una qualche circostanza a rimanere insieme e nessuno dei due conosca la lingua dell'altro, i muti animali, anche se di specie diversa, s'intendono più facilmente di loro, sebbene entrambi siano uomini. Infatti poiché soltanto per la diversità della lingua non possono manifestare l'uno all'altro i propri pensieri, non giova nulla a stabilire rapporti una grande affinità di natura al punto che un uomo sta più volentieri col proprio cane anziché con un estraneo. Ma, si obietta, si è avuto un ordinamento in modo che lo Stato dominatore, mediante la pace della convivenza, non solo ha imposto la soggezione ai popoli sottomessi, ma anche la lingua e riguardo ad essa non mancava, anzi era a disposizione un gran numero d'insegnanti di lingua 20. È vero, ma questo risultato è stato raggiunto con molte e immani guerre, con grande scempio di uomini e grande spargimento di sangue umano. Trascorsi questi avvenimenti, non ebbe termine la sventura di simili mali. Difatti non sono mancati e non mancano come nemici i popoli stranieri, contro i quali sempre sono state condotte e si conducono guerre. Però anche l'ampiezza del dominio ha suscitato guerre di una peggiore specie, cioè sociali e civili, dalle quali il genere umano è più miserevolmente sconvolto, tanto mentre si guerreggia per sospenderle una buona volta come quando si teme che scoppino di nuovo. Se io volessi trattare, come conviene, i molti e svariati massacri, le spietate e funeste vicissitudini di tale calamità, sebbene non lo potrei mai come l'argomento richiede, non vi sarebbe un limite a una prolungata trattazione. Ma il saggio, dicono, dovrà sostenere una guerra giusta. Quasi che, se si ricorda di essere uomo, non dovrà affliggersi che gli viene imposta la necessità di guerre giuste perché, se non fossero giuste, non dovrebbe sostenerle e perciò per il saggio non si avrebbero guerre. È infatti l'ingiustizia del nemico che obbliga il saggio ad accettare guerre giuste e l'uomo deve dolersi di questa ingiustizia perché appartiene agli uomini, sebbene da essa non dovrebbe sorgere la necessità di far guerra. Chiunque pertanto considera con tristezza queste sventure così grandi, così orribili, così spietate, deve ammetterne l'infelice condizione; chiunque invece o le subisce o le giudica senza tristezza della coscienza, molto più infelicemente si ritiene felice perché ha perduto il sentimento d'umanità.
Il male degli amici e congiunti ci affligge.
8. Ma supponiamo che non si verifichi un tipo d'ignoranza simile alla follia, che tuttavia nella sventurata condizione di questa vita si verifica spesso in maniera che si crede amico chi è nemico e nemico chi è amico. Allora in questa umana convivenza assai colma di errori e di sofferenze ci confortano soltanto la fede non simulata e la solidarietà di veri e buoni amici. E quanti più amici e in più luoghi ne abbiamo, tanto più lungamente e profondamente temiamo che non provenga loro un qualche malanno dal cumulo di malanni di questa vita. Non solo siamo preoccupati che siano afflitti dalla fame, dalle guerre, malattie e oppressioni e che in tale schiavitù subiscano pene tali che non riusciamo neanche ad immaginare ma anche, e il timore è ancora più pungente, che non passino alla slealtà, alla malvagità e all'ingiustizia. E talora questi fatti avvengono, e tanto più numerosi quanto più numerosi sono gli amici, e giungono alla nostra conoscenza. E un uomo non può comprendere da quali vampe sia bruciato il nostro cuore a meno che anch'egli non le provi. Preferiremmo apprendere che sono morti, sebbene senza dolore neppure questa notizia possiamo apprendere. Non può avvenire che non provochi in noi melanconia la morte di coloro, la cui vita ci allietava per i conforti dell'amicizia. Se qualcuno la condanna, condanni, se ci riesce, le conversazioni fra amici, proibisca o interrompa l'affetto amichevole, spezzi con disumana insensibilità della coscienza i legami di tutti gli umani rapporti e dimostri che se ne deve usare in maniera che da essi nessun allettamento invada l'animo. Se questo non può assolutamente avvenire, non potrà in alcun modo accadere che non ci rechi amarezza la morte di uno la cui vita ci arreca dolcezza. Ne deriva infatti anche il pianto come una ferita o lesione di un cuore non disumano e per guarirla si usano doverose parole di conforto. Infatti non per questo non si guarisce, che anzi quanto l'animo è più buono, tanto in esso più prontamente e facilmente si guarisce la ferita. Sebbene dunque la vita dei mortali venga afflitta ora in forma più tenue ora più aspra dalla morte delle persone più care, soprattutto di quelli che hanno legami di parentela all'umana convivenza, tuttavia preferiremmo udire o vedere che i nostri cari sono morti anziché decaduti dalla fede o dai buoni costumi, cioè morti nell'anima stessa. La terra è piena di questa smisurata congerie di mali e perciò è stato scritto: Forse non è tentazione la vita dell'uomo sulla terra? 21. Il Signore stesso ha detto: Guai al mondo a causa degli scandali! 22 e ancora: Poiché è sovrabbondata la malvagità, la carità di molti si raffredderà 23. Ne consegue che ci rallegriamo per i buoni amici morti e sebbene la loro morte ci affligga, essa stessa con maggior certezza ci conforta perché essi sono stati immuni dai mali da cui in questa vita anche gli uomini buoni sono sopraffatti o depravati o sono esposti all'uno e all'altro pericolo.
Insicurezza con gli esseri dell'aldilà.
9. V'è poi la società dei santi angeli assegnata da quei filosofi, i quali hanno sostenuto che gli dèi sono nostri amici, al quarto grado, quasi a passare dalla terra all'universo per includere in qualche modo anche il cielo. Non temiamo affatto che simili amici in questa società ci affliggano con la loro morte o depravazione. Però essi non comunicano con noi, come gli uomini, in un rapporto di familiarità e anche questo fa parte delle pene di questa vita. Satana poi, come leggiamo, si trasforma talvolta in un angelo della luce 24 per tentare coloro che è opportuno ammaestrare in tal modo o è giusto ingannare. È quindi necessaria una grande misericordia di Dio affinché l'uomo, quantunque creda di avere come amici gli angeli, non subisca al contrario come finti amici i demoni e tanto più dannosi quanto più astuti e lusinghieri. E la grande misericordia di Dio è indispensabile alla grande infelicità umana la quale è gravata da tanta ignoranza che facilmente è tratta in inganno dalla loro falsità. Ed è assolutamente certo che nella città empia i filosofi, i quali hanno sostenuto di avere gli dèi per amici, sono incappati nei demoni malvagi ai quali la città stessa è sottomessa per avere con essi un tormento eterno. Infatti dai loro riti sacri o meglio sacrilegi, con i quali hanno pensato di onorarli, e dai giuochi veramente spudorati in cui sono esaltati i loro delitti e con i quali hanno pensato di renderseli propizi, dato che gli dèi stessi operavano ed esigevano simili e sì gravi ignominie, appare evidente di qual genere erano quelli da loro onorati.
Universalità e ineluttabilità della pace (10-20)
La pace nell'eternità.
10. Ma neanche i santi e fedeli adoratori dell'unico vero sommo Dio sono immuni dai loro inganni e dalla tentazione di varia specie. In questo luogo d'insicurezza e tempi di malvagità non è vana neanche quest'ansia di raggiungere con un desiderio più fervido quella sicurezza in cui è pace sommamente piena e certissima. In quello stato infatti si avranno le componenti dell'essere, quelle cioè che al nostro essere sono conferite dal Creatore di tutti gli esseri, non solo buone ma perenni, non solo nello spirito che si redime con la pienezza del pensiero, ma anche nel corpo che sarà restituito alla vita con la risurrezione; vi saranno le virtù che non lottano contro gli impulsi o i vari mali, ma che hanno come premio della vittoria la pace eterna che nessun nemico può turbare. È infatti la felicità finale il fine stesso della perfezione che non ha limite. Qui ci consideriamo felici, quando abbiamo la pace nei limiti in cui qui si può conseguire con una vita onesta, ma questa felicità, paragonata alla felicità che consideriamo finale, è piuttosto infelicità. Quando come uomini posti nel divenire abbiamo nel divenire delle cose la pace che si può avere in questa vita, se viviamo onestamente, la virtù usa bene dei suoi beni; quando invece non l'abbiamo, la virtù usa bene anche i mali che l'uomo sopporta. Ma allora è vera virtù quando volge tutti i beni, di cui usa bene, tutto ciò che ottiene col buon uso del bene e del male e se stessa a quel fine, in cui per noi vi sarà una pace tanto bella e tanto grande che non ve ne può essere una più bella e più grande.
Pace e vita eterna come fine.
11. Perciò potremmo dire che la pace è il fine del nostro bene, come l'abbiamo detto della vita eterna, soprattutto perché alla città di Dio, della quale tratta questa nostra dissertazione assai impegnativa, si dice in un Salmo: Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda, Sion, il tuo Dio, perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte; in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli colui che ha posto la pace come tuo fine 25. Quando infatti saranno state rinforzate le sbarre delle sue porte, nessuno entrerà in essa e nessuno ne uscirà. Perciò come suo fine in questo caso dobbiamo ravvisare quella che intendiamo dimostrare come pace finale. Anche il nome simbolico della città, cioè Gerusalemme, come ho già detto, s'interpreta "visione della pace". Ma poiché il termine "pace" si usa frequentemente anche per le cose nel divenire, in cui perciò non si avrà la vita eterna, ho preferito denominare "vita eterna" anziché "pace" il fine della città celeste in cui si avrà il sommo bene. Di questo fine dice l'Apostolo: Ora infatti liberati dal peccato e divenuti servi di Dio, avete la vostra maturazione nella santificazione e come fine la vita eterna 26. Però da quelli che non hanno dimestichezza con la Bibbia si può intendere per vita eterna anche la vita dei malvagi o secondo alcuni filosofi a causa dell'immortalità dell'anima o anche secondo la nostra fede a causa della pena perpetua dei reprobi che non potranno essere tormentati in eterno se non vivranno in eterno. Pertanto, affinché più agevolmente si comprenda da tutti, si deve considerare fine della città eletta, in cui essa avrà il sommo bene, o la pace nella vita eterna o la vita eterna nella pace. È così grande il bene della pace che, anche negli eventi posti nel divenire di questo mondo, abitualmente nulla si ode di più gradito, nulla si desidera di più attraente, infine nulla si consegue di più bello. E se volessimo parlarne più a lungo, non saremmo, come suppongo, di peso ai lettori tanto in relazione al fine della città eletta, di cui stiamo parlando, come in relazione all'attrattiva della pace che a tutti è cara.
Tutti vogliono la pace.
12. 1. Chiunque in qualsiasi modo considera i fatti umani e il comune sentimento naturale ammette con me questa verità; come infatti non v'è alcuno che non voglia godere, così non v'è chi non voglia avere la pace. Anche quelli che vogliono la guerra non vogliono altro che vincere, desiderano quindi con la guerra raggiungere una pace gloriosa. La vittoria infatti non è altro che il soggiogamento di coloro che oppongono resistenza e quando questo si sarà verificato, vi sarà la pace. Dunque con l'intento della pace si fanno le guerre anche da coloro che si adoperano a esercitare il valore guerresco dirigendo le battaglie. Ne risulta che la pace è il fine auspicabile della guerra. Ogni uomo cerca la pace anche facendo la guerra, ma nessuno vuole la guerra facendo la pace. Anche quelli i quali vogliono che sia rotta la pace, nella quale vivono, non odiano la pace ma desiderano che sia trasmessa al loro libero potere. Dunque non vogliono che non vi sia la pace ma che vi sia quella che essi vogliono. Inoltre, sebbene con un complotto si oppongono agli altri, non ottengono quel che intendono se non conservano una sembianza di pace con gli stessi cospiratori e congiurati. Anche i briganti, per essere più violentemente e sicuramente pericolosi alla pace degli altri, vogliono mantenere la pace dei gregari. Ma anche se un tale sia tanto superiore di forze e rifiuti i confidenti al punto che non si affida ad alcun gregario e da solo compie rapine, insidiando e prevalendo sulle persone che ha potuto assalire e uccidere, conserva certamente una certa parvenza di pace con coloro che non può uccidere e ai quali vuole che sia tenuto nascosto quel che fa. In casa certamente si adopera di essere in pace con la moglie e i figli e riceve da essi gioia se gli obbediscono a un cenno. Se ciò non avviene, si adira, reprime, punisce e, se è necessario, anche infierendo stabilisce la pace nella propria casa. Difatti avverte che essa non vi può essere se le altre componenti della compagine domestica non sono sottomesse a un capo quale egli è nella propria casa. Perciò se gli si offrisse la dipendenza di più persone, di una città, di un popolo che gli fossero sottomessi come voleva che gli fossero sottomessi quelli della propria casa, non si nasconderebbe più come un brigante nei covi ma si esalterebbe come un distinto sovrano, sebbene in lui persista la medesima cupidigia e cattiveria. Dunque tutti desiderano conservare la pace con i propri associati perché vogliono che essi vivano secondo il loro arbitrio. Vogliono perfino, se è possibile, rendere a sé soggetti coloro con i quali fanno la guerra e imporre loro le leggi della propria pace.
Pace anche in Caco e nelle fiere.
12. 2. Ma supponiamo un individuo quale lo canta un poetico mitico racconto che, forse a causa dell'insocievole selvatichezza, hanno preferito considerare un semiuomo anziché un uomo 27. Il suo regno dunque fu la solitudine di un'orribile spelonca quasi emblema di una cattiveria senza pari. Da essa infatti derivò il nome, perché in greco "cattivo" si dice
, perché così si chiamava. Non v'era una moglie che ascoltasse e scambiasse con lui una parola affettuosa; non avrebbe scherzato con i figli piccini e comandato ai grandicelli; non avrebbe goduto della conversazione di un amico e neanche di Vulcano, suo padre, di cui soltanto fu non poco più felice, perché egli non aveva messo al mondo un mostro simile. Non doveva dare nulla a nessuno ma portar via tutto ciò che volesse e, se gli fosse possibile, chi volesse. Tuttavia nella sua spelonca solitaria il cui suolo sempre, come si narra, era intriso di un sangue recente, niente altro voleva che la pace e dentro di essa nessuno doveva essergli importuno, né la violenza o la paura di un altro doveva turbare la sua tranquillità. Inoltre bramava avere la pace con il proprio corpo e si sentiva bene nelle proporzioni con cui l'aveva. Quando s'imponeva alle parti del corpo sottomesse e per calmare il più presto possibile la propria soggezione alla morte, che a causa del bisogno gli si ribellava e provocava la ribellione della fame per separare e cacciare l'anima fuori del corpo, rapiva, uccideva e divorava e sebbene brutalmente selvaggio provvedeva in modo brutalmente selvaggio alla pace della propria vita e salute. Perciò se avesse voluto avere anche con gli altri la pace, che si adoperava con sufficiente avvedutezza di avere nella propria spelonca e in se stesso, non sarebbe considerato né cattivo né un mostro né un semiuomo. Ovvero se la forma del corpo e il rigurgito di orride fiamme allontanava da lui la compagnia degli uomini, forse incrudeliva non per il desiderio di nuocere ma per la necessità di vivere. In verità costui forse non è esistito o, e questo è più verosimile, non era quale è rappresentato dall'immaginazione poetica; infatti se Caco non fosse molto accusato, Ercole sarebbe poco lodato. Un uomo simile o meglio un semiuomo, più ragionevolmente, come ho detto, si crede che non sia esistito, come molte altre fantasticherie dei poeti. Le stesse fiere più crudeli, da cui egli ha derivato una parte, giacché è stato considerato una semifiera 28, difendono la propria specie con una forma di pace accoppiandosi, generando, partorendo, curando e nutrendo la prole, sebbene la maggior parte siano asociali e solitari, non cioè come le pecore, i cervi, le colombe, gli storni, le api, ma come i leoni, i lupi, le volpi, le aquile, le civette. Qualsiasi tigre sussurra teneramente ai propri nati e, calmata la ferocia, li accarezza. E lo sparviero, sebbene da solo si disponga in volute alle rapine, opera l'accoppiamento, costruisce il nido, cova le uova, nutre i pulcini e con la sua quasi madre di famiglia conserva nella pace che gli è possibile il vincolo familiare. A più forte ragione l'uomo è indotto in certo senso dalle leggi della propria natura a stringere un vincolo e a raggiungere la pace con tutti gli uomini per quanto dipende da lui. Anche i malvagi fanno la guerra per la pace dei propri associati e vorrebbero, se possibile, che tutti lo fossero affinché tutti e tutte le cose siano sottomesse a uno solo per il semplice motivo che con l'amore o con il timore tutti si accordino nella sua pace. In tal modo la superbia imita Dio alla rovescia. Odia infatti con i compagni l'eguaglianza nella sottomissione a lui, ma vuole imporre ai compagni un potere dispotico invece di lui. Odia dunque la giusta pace di Dio e ama la propria ingiusta pace. Tuttavia non può non amare la pace qualunque sia. Di nessuno si ha una deformità tale contro la natura da cancellare le ultime tracce della natura.
Pace nelle cose che sembrano negarla.
12. 3. Chi sa anteporre l'onestà alla depravazione, l'ordine al disordine nota che la pace dei disonesti nel confronto con quella delle persone oneste non si può considerare pace. Ma è anche indispensabile che un essere nel disordine sia in pace in qualche, da qualche e con qualche parte delle cose nelle quali esiste o delle cose di cui è composto, altrimenti non esisterebbe affatto. Ad esempio, se qualcuno fosse appeso con la testa all'ingiù, è certamente in disordine la posizione del corpo e l'ordine delle sue parti, perché la sezione che la natura pone in alto sta in basso e quella che essa vuole in basso sta in alto. Questo disordine ha turbato la pace del fisico e perciò è penoso, ma l'anima è in pace col corpo e si preoccupa della sua salute e quindi v'è chi se ne duole. E se l'anima messa fuori dalle sue sofferenze se ne separasse, finché rimane la connessione delle membra, quel che rimane non è senza una certa connessione delle parti e quindi è ancora nella pace chi è appeso. E poiché il corpo è spinto alla terra e oppone resistenza al laccio col quale è sospeso, tende all'ordine della pace e in certo senso chiede con la voce del peso il luogo in cui riposare e, sebbene esanime e senza alcuna percezione, non si estrania dalla pace naturale del proprio ordine o perché la possiede o perché ad essa è mosso. Se infatti si adoperasse un intervento con preparati che non permettano alla conformazione del cadavere di corrompersi e dissolversi, una certa pace ancora unirebbe le parti alle parti e congiungerebbe tutta la massa ad uno spazio terreno e conveniente, e perciò in pace. Se invece non s'impiegasse premura nell'imbalsamare, ma si lasciasse il corpo al procedimento naturale per un certo tempo, esso si scomporrebbe con esalazioni contrastanti che contrariano il nostro senso, fatto che si percepisce nella puzza, finché si ricongiunge agli elementi del mondo e ritorna alla loro pace nelle singole parti un po' alla volta. Ma di questo fenomeno non sfugge assolutamente nulla alle leggi del sommo Creatore e Ordinatore, dal quale è retta la pace dell'universo. Infatti anche se dal cadavere di un animale più grande spuntino fuori piccoli animali, per la medesima legge del Creatore i singoli piccoli corpi sono sottomessi alle piccole anime con la pace della salute. Ed anche se la carne degli animali morti viene divorata da altri animali, trova le medesime leggi partecipate al tutto che accordano nella pace le cose convenienti alle convenienti per la sopravvivenza di ogni specie degli esseri posti nel divenire, in qualunque spazio siano distribuiti, a qualunque componente siano uniti e in qualunque essere siano trasformati e mutati.
La pace e l'ordine.
13. 1. La pace del corpo dunque è l'ordinata proporzione delle parti, la pace dell'anima irragionevole è l'ordinata pacatezza delle inclinazioni, la pace dell'anima ragionevole è l'ordinato accordo del pensare e agire, la pace del corpo e dell'anima è la vita ordinata e la salute del vivente, la pace dell'uomo posto nel divenire e di Dio è l'obbedienza ordinata nella fede in dipendenza alla legge eterna, la pace degli uomini è l'ordinata concordia, la pace della casa è l'ordinata concordia del comandare e obbedire d'individui che in essa vivono insieme, la pace dello Stato è l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini, la pace della città celeste è l'unione sommamente ordinata e concorde di essere felici di Dio e scambievolmente in Dio, la pace dell'universo è la tranquillità dell'ordine. L'ordine è l'assetto di cose eguali e diseguali che assegna a ciascuno il proprio posto. Perciò gli infelici, poiché in quanto infelici, non sono certamente nella pace, sono privi della tranquillità dell'ordine, in cui non v'è turbamento, tuttavia, poiché a ragione per giustizia sono infelici, nella loro stessa infelicità non possono essere fuori dell'ordine, non perché uniti agli uomini felici ma perché separati da loro nell'imperativo dell'ordine. Essi, se vivono senza turbamento, si uniformano con adattamento per quanto insufficiente alle condizioni in cui si trovano e perciò v'è in loro una certa tranquillità dell'ordine, v'è dunque una certa pace. Però sono infelici poiché, sebbene a causa di una certa serenità non provano dolore, non si trovano tuttavia nella condizione in cui devono essere sereni e non sentir dolore, più infelici ancora se non sono in pace con la legge da cui è retto l'ordine naturale. Quando provano dolore, è avvenuto il turbamento della pace in quella componente in cui provano dolore; v'è invece ancora la pace in quella componente in cui il dolore non brucia e il coordinamento non si è dissolto. Come dunque v'è una vita senza dolore, ma il dolore non vi può essere senza la vita, così v'è una pace senza la guerra, ma la guerra non vi può essere senza una determinata pace, non nel senso che è guerra, ma nel senso che si conduce da individui o in individui che sono determinati esseri. Non lo sarebbero certamente se non persistessero in una pace, qualunque essa sia.
Relatività della pace e del bene nella vita.
13. 2. Pertanto v'è un essere in cui non v'è alcun male o meglio in cui non vi può essere alcun male, ma è impossibile che vi sia un essere in cui non vi sia alcun bene. Neanche l'essere del diavolo, in quanto è essere, è un male, è il pervertimento che lo rende malvagio. Quindi non si mantenne nella verità 29, ma non eluse il giudizio della verità, non perseverò nella tranquillità dell'ordine, però non sfuggì al potere dell'Ordinatore. Il bene di Dio, che è nel suo essere, non lo sottrae alla giustizia di Dio, dalla quale viene restituito all'ordine e con essa Dio non riprova il bene che ha creato ma il male che il diavolo ha commesso. Infatti non toglie il tutto che ha dato all'essere, ma sottrae qualcosa, qualcosa lascia affinché vi sia chi prova dolore per ciò che ha sottratto. E il dolore è attestazione del bene sottratto e del bene lasciato. Se non fosse stato lasciato del bene, egli non potrebbe dolersi del bene perduto. Infatti chi pecca è più malvagio se gioisce del detrimento dell'onestà; chi si rattrista, invece, anche se non ottiene alcun bene, prova dolore per il detrimento della salute. Difatti l'onestà e la salute sono entrambe un bene e si deve provar dolore anziché rallegrarsi per la perdita di un bene, se non v'è il compenso d'un bene migliore ed è migliore l'onestà della coscienza che il benessere del corpo. Perciò, senza dubbio, il disonesto si duole nella pena più convenientemente di come si è rallegrato nella colpa. Come dunque il rallegrarsi del bene perduto con la colpa è prova della volontà cattiva, così il dolersi del bene perduto con la pena è prova di un essere buono. Chi infatti si duole di avere perduto la pace del proprio essere, si duole per determinati residui della pace in base ai quali avviene che il suo essere è a lui caro. Con giustizia poi avviene che nella pena finale i disonesti e gli infedeli rimpiangano nei tormenti la perdita del bene dell'essere nell'avvertire che lo ha sottratto Dio infinitamente giusto perché lo hanno disprezzato come donatore infinitamente buono. Dio dunque, Creatore infinitamente sapiente e Ordinatore infinitamente giusto di tutti gli esseri che ha costituito l'uman genere posto nel divenire come il più grande dei valori terreni, ha concesso agli uomini alcuni beni convenienti a questa vita, cioè la pace nel tempo in conformità con la vita posta nel divenire mediante la salute, la sopravvivenza e la solidarietà della propria specie e tutti i mezzi che sono indispensabili a difendere e riacquistare questa pace. Ad esempio, sono quegli oggetti che adeguatamente e convenientemente sono a disposizione dei sensi: la luce, il suono, l'aria da respirare, l'acqua da bere e ogni cosa che è adatta a nutrire, coprire, curare e abbellire il corpo. E questo nell'intesa molto ragionevole che chi abbia usato rettamente di questi beni nel divenire, proporzionati alla pace di esseri posti nel divenire, ne ottenga altri notevolmente più importanti, cioè la pace fuori del divenire e la gloria e l'onore ad essa corrispondenti nella vita eterna per essere felici di Dio e del prossimo in Dio; chi invece ne avrà usato male non consegua quei beni e perda questi.
La pace con se stessi e con gli altri.
14. Quindi per sé l'uso dei beni temporali è in relazione al godimento della pace terrena nella città terrena, nella città celeste è in relazione al godimento della pace eterna. Se fossimo animali irragionevoli, non tenderemmo ad altro che all'ordinata conformazione delle parti del corpo e alla placazione degli impulsi, a niente dunque fuorché all'appagamento della sensibilità e all'abbondanza delle soddisfazioni affinché la pace del corpo giovi alla pace dell'anima. Se manca la pace del corpo è ostacolata la pace dell'anima irragionevole perché non può raggiungere la placazione degli impulsi. L'una e l'altra insieme favoriscono quella pace che hanno l'anima e il corpo nel loro rapportarsi, cioè la pace di una vita ordinata in buona salute. Come infatti gli esseri viventi mostrano di amare la pace del corpo quando sfuggono al dolore e la pace dell'anima quando, per placare l'insorgere degli impulsi, cercano il piacere, così sottraendosi alla morte indicano chiaramente quanto amino la pace con cui si rapportano l'anima e il corpo. Ma poiché nell'uomo è operante l'anima ragionevole, egli sottopone alla pace dell'anima ragionevole tutto ciò che ha in comune con le bestie, per rappresentarsi un oggetto col pensiero e agire in conformità a tale oggetto, in modo che in lui vi sia un'ordinata armonia del conoscere e dell'agire, che avevo considerato come pace dell'anima ragionevole. Allo scopo necessariamente vuole non essere afflitto dal dolore, non turbato dallo stimolo, non distrutto dalla morte per conoscere il da farsi e in base a tale conoscenza organizzare vita e comportamento. Ma affinché nell'indagine sulla conoscenza, a motivo del potere ridotto dell'uman pensiero, non incorra nella falsità di qualche errore, ha bisogno del magistero divino al quale sottomettersi con certezza e dell'aiuto al quale sottomettersi con libertà. Ma finché è in questo corpo soggetto al divenire, è in viaggio lontano dal Signore, cammina nella fede e non nella visione 30. Perciò riferisce ogni pace tanto del corpo come dell'anima e insieme dell'anima e del corpo a quella pace che l'uomo, posto nel divenire, ha con Dio che è fuori del divenire, in modo che gli sia ordinata dalla fede con l'obbedienza sotto la legge eterna. Ora Dio maestro insegna due comandamenti principali, cioè l'amore di Dio e l'amore del prossimo 31, nei quali l'uomo ravvisa tre oggetti che deve amare: Dio, se stesso, il prossimo, e che nell'amarsi non erra chi ama Dio. Ne consegue che provvede anche al prossimo affinché ami Dio perché gli è ordinato di amarlo come se stesso, così alla moglie, ai figli, ai familiari e alle altre persone che potrà e vuole che in tal modo dal prossimo si provveda a lui, se ne ha bisogno. Perciò sarà in pace con ogni uomo, per quanto dipende da lui, mediante la pace degli uomini, cioè con un'ordinata concordia nella quale v'è quest'ordine, prima di tutto che non faccia del male a nessuno, poi che faccia del bene a chi può. Dapprima dunque v'è in lui l'attenzione ai suoi cari, perché ha l'occasione più favorevole e facile di provvedere loro tanto nell'ordinamento della natura come della stessa convivenza umana. Dice l'Apostolo: Chi non provvede ai suoi cari e soprattutto ai familiari ha abiurato la fede ed è peggiore di un infedele 32. Da tali condizioni sorge appunto la pace della casa, cioè l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari. Comandano infatti quelli che provvedono, come l'uomo alla moglie, i genitori ai figli, i padroni ai servi. Obbediscono coloro ai quali si provvede, come le donne ai mariti, i figli ai genitori, i servi ai padroni. Ma nella casa del giusto, che vive di fede 33 ed è ancora esule dalla sublime città del cielo, anche coloro che comandano sono a servizio di coloro ai quali apparentemente comandano 34. Non comandano infatti nella brama del signoreggiare ma nel dovere di provvedere, non nell'orgoglio dell'imporsi, ma nella compassione del premunire.
Pace e ordine anche nella schiavitú.
15. Lo prescrive l'ordine naturale perché in questa forma Dio ha creato l'uomo. Infatti egli disse: Sia il padrone dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e di tutti i rettili che strisciano sulla terra 35. Volle che l'essere ragionevole, creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l'uomo dell'uomo, ma l'uomo del bestiame. Per questo i giusti dell'antichità furono stabiliti come pastori degli armenti e non come re degli uomini 36, ed anche in questo modo Dio suggeriva che cosa richiede l'ordine delle creature, che cosa esige la penalità del peccato. Si deve capire che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all'uomo peccatore. Perciò in nessun testo della Bibbia leggiamo il termine "schiavo" prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio 37. Quindi la colpa e non la natura ha meritato simile appellativo. Si avanza l'ipotesi che l'etimologia degli addetti alla servitù sia derivata nella lingua latina dal fatto che coloro i quali per legge di guerra potevano essere ammazzati, se conservati dai vincitori, venivano asserviti ed erano denominati appunto dal conservare 38. Ed anche questo non avviene senza la sanzione del peccato. Infatti, anche quando si conduce una guerra giusta, dalla parte avversa si combatte per il peccato ed ogni vittoria, anche se favorisce i malvagi, umilia i vinti per giudizio divino tanto se corregge le colpe, come se le punisce. Ne è testimone il profeta Daniele quando, essendo in prigionia, confessa a Dio i propri peccati e i peccati del suo popolo e con devoto dolore confessa che questa è la causa della prigionia stessa 39. Dunque prima causa della schiavitù è il peccato per cui l'uomo viene sottomesso all'uomo con un legame di soggezione, ma questo non avviene senza il giudizio di Dio, nel quale non v'è ingiustizia ed egli sa distribuire pene diverse alle colpe di coloro che le commettono. Il Padrone di tutti dice: Chiunque commette peccato è schiavo del peccato 40; e per questo molti fedeli sono schiavi di padroni ingiusti ma non liberi perché: Ciascuno è aggiudicato come schiavo a colui dal quale è stato vinto 41. E certamente con maggior disimpegno si è schiavi di un uomo che della passione poiché la passione del dominio, per non parlare delle altre, sconvolge con un dominio molto crudele il cuore dei mortali. In quell'ordine di pace col quale alcuni uomini sono soggetti ad altri, come giova l'umiltà a quelli che sono schiavi, così nuoce la superbia a coloro che sono padroni. Per natura, secondo la quale all'inizio Dio formò l'uomo, non v'è schiavo dell'uomo o del peccato. Però la schiavitù come pena è ordinata secondo quella legge che comanda di mantenere l'ordine naturale e proibisce di violarlo perché, se il peccato non fosse avvenuto contro quella legge, non vi sarebbe nulla da reprimere dalla schiavitù come pena. Perciò l'Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà 42. Così, se non possono essere lasciati in libertà, essi stessi rendano libera la propria schiavitù, non prestando servizio con perfida paura ma con un affetto leale perché abbia fine l'ingiustizia e siano privati di significato la supremazia e il potere umano 43, e Dio sia tutto in tutti 44.
Pace nella famiglia anche per gli schiavi.
16. Perciò anche se i nostri onesti patriarchi ebbero degli schiavi regolavano la pace domestica in modo da distinguere, per quanto riguarda i beni temporali, l'eredità dei figli dalla condizione degli schiavi, ma per quanto riguarda il culto di Dio, nel quale si sperano i beni eterni, provvedevano con eguale amore a tutti i componenti della propria famiglia 45. L'ordine naturale impone questa prescrizione sicché da essa è derivata la denominazione di padre di famiglia e si è così universalmente diffusa che anche i padroni, che esercitano il potere ingiustamente, godono di essere così denominati 46. Ma coloro che sono veri padri di famiglia spronano tutti nella famiglia come propri figli ad onorare e rendersi propizio Dio, perché desiderano vivamente di giungere alla famiglia del cielo dove non è più necessario il dovere di comandare a individui soggetti a morire. Non sarà necessario infatti il dovere di spronare esseri beati di una sublime immortalità. E per giungervi debbono sopportare di più i capi di famiglia nel comandare che gli schiavi nell'obbedire. E se qualcuno nella casa ostacola la pace della famiglia, viene rimproverato o con la parola o con la sferza o con un altro qualsivoglia genere di pena consentita dalla giustizia, per quanto lo permette l'umana convivenza, a favore di colui che viene rimproverato perché sia riordinato alla pace dalla quale si era distolto. Come infatti non è proprio della disposizione a fare il bene ottenere approvando che si perda un bene più grande, così non è proprio della disposizione a non fare il male permettere, perdonando, che s'incorra in un male più grave. Compete dunque al dovere di chi non fa il male, non solo non fare del male ad alcuno, ma reprimere il peccato o punirlo affinché o chi viene colpito sia corretto dal castigo o gli altri siano ammoniti dall'esempio. Ora la famiglia dell'individuo è un inizio o una piccola parte dello Stato ed ogni inizio è in relazione a un determinato compimento del proprio modo di essere e ogni parte all'interezza del tutto di cui è parte. Ne consegue dunque evidentemente che la pace familiare sia in relazione a quella civile, cioè che l'ordinata concordia del comandare e obbedire dei familiari sia in relazione all'ordinata concordia del comandare e obbedire dei cittadini. Pertanto conviene che il padre di famiglia tragga dalla legge dello Stato le disposizioni con cui regolare la propria famiglia in modo che si armonizzi alla pace dello Stato.
Pace, ordine e religione nelle due città.
17. Ma la famiglia di persone, che non vivono di fede, persegue la pace terrena dagli utili e interessi di questa vita che scorre nel tempo. Invece la famiglia delle persone che vivono di fede attende quei beni che sono stati promessi come eterni nell'aldilà e usa i beni terreni posti nel tempo come un esule in cammino. Non usa cioè di quelli da cui sia attratta e stornata dalla via con cui tende a Dio, ma di quelli con cui sia sorretta a sostenere più agevolmente e non accrescere affatto i fardelli del corpo corruttibile che appesantisce l'anima 47. Perciò l'uso dei beni necessari a questa vita, posta nel divenire, è comune alle une e alle altre persone, all'una e all'altra famiglia, ma l'intento dell'uso è esclusivamente personale ad ognuno e assai diverso. Così anche la città terrena, che non vive di fede, desidera la pace terrena e stabilisce la concordia del comandare e obbedire dei cittadini, affinché vi sia un certo consenso degli interessi nei confronti dei beni pertinenti alla vita soggetta al divenire. Invece la città celeste o piuttosto quella parte di essa, che è esule in cammino nel divenire e vive di fede, necessariamente deve trar profitto anche da questa pace fino a che cessi la soggezione al divenire, alla quale è indispensabile una tale pace. Perciò, mentre nella città terrena essa conduce una vita prigioniera del suo cammino in esilio, ricevuta ormai la promessa del riscatto e il dono della grazia spirituale come caparra, non dubita di sottomettersi alle leggi della città terrena, con le quali sono amministrati i beni messi a disposizione della vita che è nel divenire. Così, essendo comune l'essere nel divenire, nei beni che lo riguardano è mantenuta la concordia fra le due città. La città terrena però ha avuto alcuni dotti, che l'insegnamento divino condanna, i quali, o per una loro ipotesi o perché ingannati dai demoni, hanno creduto che molti dèi si devono rendere benevoli agli interessi umani e che determinati oggetti spettano per assegnazione a determinate loro competenze, ad uno il corpo, a un altro lo spirito e nel corpo ad uno la testa, ad un altro il collo e ognuna delle altre parti a ognuno di loro. Ugualmente nello spirito a uno spetta l'intelligenza, all'altro la scienza, ad uno l'ira, all'altro l'avidità, e per le cose che sono necessarie alla vita, a uno il bestiame, a un altro il grano, a uno il vino, a un altro l'olio, ad uno i boschi, a un altro il denaro, ad uno la navigazione, a un altro guerre e vittorie, ad uno i matrimoni, a un altro parti e fecondità, e ad altri altri beni. La città del cielo sa invece che un solo Dio si deve adorare e ritiene con vero sentimento religioso che a lui soltanto si deve essere sottomessi con quella sottomissione la quale in greco è detta
, e soltanto a Dio si deve. È avvenuto quindi che non poteva avere in comune le leggi della religione con la città terrena e che a loro difesa necessariamente doveva dissentire da essa e che era di peso agli altri, i quali la pensavano diversamente, e che doveva sopportare la loro collera, gli odî e gli assalti delle persecuzioni, salvo quando riuscì a trattenere l'efferatezza degli avversari, qualche volta per paura del numero e sempre con l'aiuto di Dio. Dunque questa città del cielo, mentre è esule in cammino sulla terra, accoglie cittadini da tutti i popoli e aduna una società in cammino da tutte le lingue. Difatti non prende in considerazione ciò che è diverso nei costumi, leggi e istituzioni, con cui la pace terrena si ottiene o si mantiene, non invalida e non annulla alcuna loro parte, anzi conserva e rispetta ogni contenuto che, sebbene diverso nelle varie nazioni, è diretto tuttavia al solo e medesimo fine della pace terrena se non ostacola la religione, nella quale s'insegna che si deve adorare un solo sommo e vero Dio. Dunque anche la città del cielo in questo suo esilio trae profitto dalla pace terrena, tutela e desidera, per quanto è consentito dal rispetto per il sentimento religioso, l'accordo degli umani interessi nel settore dei beni spettanti alla natura degli uomini soggetta al divenire e subordina la pace terrena a quella celeste. Ed essa è veramente pace in modo che unica pace della creatura ragionevole dev'essere ritenuta e considerata l'unione sommamente ordinata e concorde di avere Dio come fine e l'un l'altro in lui. Quando si giungerà a quello stesso stato, non vi sarà la vita destinata a morire, ma definitivamente e formalmente vitale, né il corpo animale che, finché è soggetto a corruzione, appesantisce l'anima, ma spirituale senza soggezione al bisogno e interamente sottomesso alla volontà. La città del cielo, mentre è esule in cammino nella fede, ha questa pace e vive onestamente di questa fede, quando al conseguimento della sua pace eterna subordina ogni buona azione, che compie verso Dio e il prossimo, perché la vita della città è essenzialmente sociale.
Teoresi contro gli Accademici per dubbio, certezza, opinione.
18. Per quanto riguarda la famosa caratteristica che Varrone ha applicato ai nuovi accademici, per i quali non v'è certezza 48, la città di Dio respinge assolutamente come irrazionale una tale forma di dubbio. Essa possiede infatti una conoscenza irrefutabilmente certa degli oggetti che si rappresenta con pensiero e ragionamento, sebbene limitata a causa del corpo corruttibile che appesantisce l'anima perché, come dice l'Apostolo: Conosciamo da un aspetto 49. Inoltre per l'evidenziarsi di qualsiasi oggetto ha fiducia dei sensi dei quali, tramite il corpo, la coscienza si serve, perché s'inganna, fino a destare compassione, chi ritiene che non si deve affatto aver fiducia in essi 50. Crede anche ai testi della sacra Scrittura dell'Antico e Nuovo Testamento, che riteniamo canonici, da cui ha avuto origine la fede, della quale vive il credente 51 e mediante la quale procediamo senza dubitare finché siamo in cammino lontani dal Signore 52. Tuttavia, rimanendo integra ed evidente la fede, noi dubitiamo senza disapprovazione critica di alcune nozioni che non ci siamo rappresentati né con la sensazione né col pensiero, non ci sono state rese evidenti dalla Scrittura canonica e che non sono pervenute alla nostra conoscenza mediante testimonianze cui è assurdo non credere.
Prassi contro i Cinici nei tre tipi di vita.
19. Non importa certamente nulla alla città celeste con quale contegno e tenore di vita, se non è contro i divini comandamenti, si professi la fede con cui si giunge a Dio; quindi neanche ai filosofi, quando diventano cristiani, impone di mutare il contegno e modo di vivere, se non ostacolano la religione, ma di mutare solamente le false dottrine. Quindi non si preoccupa affatto di quella caratteristica che Varrone ha desunto dai cinici 53, se non induce a un comportamento contro la decenza e la temperanza. Riguardo poi ai tre tipi di vita: dedito agli studi, attivo e misto, sebbene, salva la fede, si possa in ognuno di essi trascorrere la vita e giungere al premio eterno, importa tuttavia che cosa si raggiunga nella ricerca della verità e che cosa s'impegni per dovere di carità. Così non si deve essere dediti allo studio al punto che non si pensi al bene del prossimo, né così attivi che non si attui la conoscenza metafisica di Dio. Nello studio non deve allettare l'inetta assenza d'impegni, ma la ricerca e il raggiungimento della verità, in maniera che si abbia un progresso e non si rifiuti all'altro quel che si è raggiunto. Nella vita attiva non si devono amare le dignità in questa vita o il potere, poiché tutto è vanità sotto il sole 54, ma l'attività stessa che si esercita con la dignità o potere, se si esercita con onestà e vantaggio, cioè affinché contribuisca a quel benessere dei sudditi che è secondo Dio. Ne ho parlato precedentemente 55. Ha detto perciò l'Apostolo: Chi aspira all'episcopato aspira a un nobile lavoro 56. Volle spiegare che cos'è l'episcopato perché è denominazione di un lavoro e non di una dignità. La parola è greca e se ne ha etimologicamente il significato. Infatti chi è preposto sovrintende a coloro ai quali è preposto perché ne ha la cura.
appunto significa essere intento, quindi, se si vuole,
si può tradurre "soprintendere", affinché capisca che non è vescovo chi si illude di avere il comando senza giovare. Perciò non ci si distoglie dall'attitudine di conoscere la verità perché è attitudine pertinente a un lodevole impegno nello studio. Al contrario, non conviene aspirare a una carica superiore senza la quale non può essere governato uno Stato, sebbene in termini di amministrazione sia governato come conviene. Pertanto l'amore della verità cerca un religioso disimpegno, l'obbligo della carità accetta un onesto impegno. E se questo fardello non viene imposto, si deve attendere e ricercare e intuire la verità, e se viene imposto, si deve accettarlo per obbligo di carità, ma anche in questo caso non si deve abbandonare del tutto il diletto della verità, affinché non venga a cessare quell'attrattiva e non opprima questa obbligazione.
Pace nell'eternità e pace nel tempo.
20. Pertanto il sommo bene della città di Dio è la pace eterna definitiva, non quella attraverso la quale i mortali passano col nascere e il morire, ma quella in cui gli immortali rimangono senza alcuna soggezione ai contrari. Chi dunque può negare che quella vita è sommamente felice e nel confronto non giudica sommamente infelice questa che trascorre nel tempo anche se è colma dei beni dell'anima, del corpo e del mondo esteriore? Ma chiunque la giudica in maniera da riferire il suo scorrere al fine di quella vita che ama con grande ardore e che spera con grande fiducia, non assurdamente si può considerare felice anche in questo tempo di quella speranza anziché di questa vicenda. La vicenda presente senza la speranza è una falsa felicità e una grande infelicità. Difatti non ha esperienza dei veri beni dell'anima poiché non è vera saggezza quella la quale, nelle azioni che giudica con la prudenza, compie con la fortezza, frena con la temperanza, distribuisce con la giustizia, non orienta la propria scelta a quel fine in cui Dio sarà tutto in tutti 57, in un'eternità certa e in una pace definitiva.
Il vero Stato e lo Stato romano (21-28)
Implicanza di popolo, Stato, diritto, giustizia.
21. 1. Perciò è ora l'occasione di esporre, con la brevità e chiarezza che potrò, la tesi che ho promesso di dimostrare nel secondo libro di questa opera 58, sulla base delle definizioni che in Cicerone usa Scipione, nei libri su Lo Stato, e cioè che non è mai esistito uno Stato romano. Definisce in sintesi che lo Stato (res publica) è la cosa del popolo 59. Se la definizione è vera, non è mai esistito lo Stato romano, perché mai fu cosa del popolo, ed egli ha dimostrato che questa è la definizione dello Stato. Ha infatti definito il popolo come l'unione di un certo numero d'individui, messa in atto dalla conformità del diritto e dalla partecipazione degli interessi 60. Nel dibattito spiega che cosa intende per conformità del diritto, poiché dimostra che senza la giustizia non si può amministrare lo Stato; è impossibile dunque che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia. L'atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l'atto che si compie contro la giustizia. Infatti non si devono definire e considerare diritto le illegali istituzioni di certi individui, poiché anch'essi considerano diritto la norma che promana dalla sorgente della giustizia. È falso inoltre ciò che per sistema si afferma da alcuni, i quali sostengono l'erronea opinione che è diritto quel che promuove l'interesse del più forte 61. Pertanto nello Stato, in cui non si ha la vera giustizia, non vi può essere l'unione d'individui messa in atto dall'uniformità del diritto e quindi neanche il popolo secondo la definizione di Scipione e Cicerone; e se non v'è il popolo, non v'è neanche la cosa del popolo, ma di una massa d'individui che non merita il nome di popolo. Quindi se lo Stato è cosa del popolo, ma non si ha un popolo perché non è associato nella conformità del diritto, inoltre non si ha il diritto perché non v'è la giustizia, si conclude senza alcun dubbio che lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell'uomo quella che sottrae l'uomo stesso al Dio vero e lo rende sottomesso ai demoni infedeli. Questo non è distribuire a ciascuno il suo. Chi estorce il campo di colui dal quale è stato acquisito e lo cede a chi non ha alcun diritto su di esso è ingiusto, a più forte ragione non è giusto chi sottrae se stesso al Dio Signore, da cui è stato creato, e si rende schiavo degli spiriti malvagi.
Sottomissione religiosa, politica, morale.
21. 2. Nei medesimi libri su Lo Stato si discute con chiara, aspra e accesa polemica contro l'ingiustizia a favore della giustizia. In precedenza, poiché si dibatteva a favore di alcuni aspetti dell'ingiustizia contro la giustizia e si affermava che soltanto mediante l'ingiustizia lo Stato può essere costituito e amministrato, si pose come principio validissimo che è ingiusto che gli uomini siano sottomessi al potere di altri uomini. Tuttavia se una città dominatrice, che amministra uno Stato esteso, non applica l'ingiustizia così intesa, non può signoreggiare le province. Si ebbe in risposta da parte della giustizia che è giusto che per simili individui sia operatrice d'interessi la sottomissione e che per loro interesse si verifichi il fatto, quando si verifica con giustizia, cioè quando si toglie agli scellerati l'insubordinazione della violenza e quando, assoggettati, si troveranno in condizioni migliori, poiché non assoggettati si trovarono in condizioni peggiori. Si aggiunse che fosse tenuto presente un tale criterio, come a trarre un palese modello dalla natura e si formulò questo pensiero: "Perché dunque Dio domina sull'uomo, l'anima sul corpo, la ragione sulla passione e sulle altre inclinazioni depravate dell'anima?". Da questo modello si trasse l'insegnamento che per alcuni è vantaggiosa la sottomissione e che per tutti è vantaggioso essere sottomessi a Dio. L'anima spirituale, che è sottomessa a Dio, domina secondo onestà il corpo e nell'anima la ragione, sottomessa a Dio Signore, domina secondo onestà la passione e gli altri impulsi. Perciò se l'uomo non è sottomesso a Dio si deve ritenere che in lui non v'è giustizia, poiché è assolutamente impossibile che l'anima non sottomessa a Dio domini secondo giustizia il corpo e la ragione umana gli impulsi. E se in un individuo di tale tipo non v'è giustizia, certamente neanche nell'associazione d'individui di questo tipo. Non v'è dunque la conformità del diritto che rende popolo un certo numero d'individui dal quale lo Stato ha il nome come di cosa del popolo. Che dire poi degli interessi, dato che il gruppo di uomini associati, anche dalla partecipazione ad essi, come comporta la suddetta definizione, si denomina popolo? Se infatti rifletti con attenzione, non v'è alcun interesse per i viventi che vivono senza religione, come vive ogni individuo che non è sottomesso a Dio ed è sottomesso a demoni tanto maggiormente irreligiosi, perché pretendono che si sacrifichi a loro come a divinità, sebbene siano spiriti molto immondi. Ritengo tuttavia che è sufficiente quanto ho detto della conformità del diritto, perché da questa definizione si deduca che non v'è popolo da cui derivi la denominazione di cosa del popolo, se in esso non v'è la giustizia. Obiettano forse che i Romani nel loro Stato furono sottomessi non a spiriti immondi ma a buoni e santi dèi. Ma perché ripetere critiche che ho già trattato quanto è necessario, anzi più del necessario? Chi tramite i libri dell'opera è giunto a questa parte non può mettere in dubbio che i Romani si sono sottomessi a demoni malvagi e impuri, a meno che non sia un cretino o sfacciatamente attaccabrighe. Ma per tacere di quale stampo siano gli dèi che onoravano con sacrifici, nella Legge del vero Dio è scritto: Chi sacrificherà agli dèi e non soltanto al Signore, sarà votato allo sterminio 62. Dunque colui, che con una sì grande punizione ha dato questo comandamento, volle che non si sacrificasse a dèi né buoni né cattivi.
V'è un unico vero Dio.
22. Ma si può obiettare: "Ma chi è questo Dio e con quali argomenti si dimostra che i Romani dovevano essergli sottomessi al punto da non onorare con sacrifici se non lui?". È indice di grande accecamento chiedere ancora chi è questo Dio. Egli è il Dio di cui i Profeti hanno predetto gli eventi che costatiamo. Egli è il Dio da cui Abramo ebbe l'annunzio: Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli 63. E anche quelli stessi, che sono rimasti nemici del nome cristiano, lo vogliano o no, riconoscono che l'annunzio si è compiuto in Cristo il quale, secondo la stirpe, proviene da quella discendenza. Egli è il Dio, di cui lo Spirito divino ha parlato per mezzo di uomini e gli eventi da loro predetti si sono avverati per mezzo della Chiesa, che vediamo diffusa in tutto il mondo. Ne ho trattato nei libri precedenti. È lo stesso Dio che Varrone, il più illustre letterato romano, ritiene sia Giove, sebbene non sappia quel che dice; ho ritenuto tuttavia di esporre il suo pensiero, poiché un uomo di così grande erudizione non ha potuto ammettere che il Dio in parola non esistesse o fosse di bassa estrazione. Egli credette che fosse quel che riteneva come il Dio supremo 64. Infine è lo stesso Dio che Porfirio, il filosofo più dotto, sebbene durissimo avversario dei cristiani, ammette come il grande Dio attraverso gli oracoli di quelli che egli ritiene dèi 65.
Porfirio con Apollo oltraggia il Cristo...
23. 1. Nell'opera che intitola La filosofia degli oracoli Porfirio raccoglie e distribuisce i responsi ritenuti divini su argomenti riguardanti la filosofia. Devo usare le stesse sue parole come risultano tradotte dal greco. Egli dice: A uno che chiedeva quale dio doveva propiziarsi nel ricondurre la moglie dal cristianesimo, Apollo diede questa risposta in versi. Queste sono le parole attribuite ad Apollo: Forse potrai più facilmente scrivere nell'acqua con lettere stampate o, sbattendo delle leggere piume, volare come un uccello nell'aria, che dissuadere il sentimento dell'empia moglie depravata. Prosegua come vuole, insistendo nelle insignificanti falsità e cantando di compiangere con le falsità il Dio morto, che la morte più obbrobriosa, collegata con l'uso della lancia, ha ucciso negli anni più belli perché condannato da giudici che agivano rettamente. Dopo questi versi di Apollo, tradotti in latino senza metrica, Porfirio ha aggiunto le parole: Con questi versi egli ha svelato il fallimento della loro credenza, perché afferma che i Giudei onorano Dio più dei cristiani. È il passo in cui, sfigurando il Cristo, ha preferito i Giudei ai cristiani, perché sostiene che i Giudei onorano Dio. Così ha interpretato i versi di Apollo, nei quali afferma che il Cristo fu fatto uccidere da giudici che agivano rettamente, come se Egli sia stato giustamente punito da loro che giudicavano con onestà. Riflettano su che cosa ha detto di Cristo il menzognero aruspice di Apollo e che Porfirio ha creduto, ovvero egli stesso forse ha immaginato che l'aruspice abbia detto ciò che non ha detto. In seguito esamineremo com'è coerente con se stesso o come faccia corrispondere fra di loro gli stessi oracoli. Al momento afferma che i Giudei, come difensori di Dio, hanno giudicato giustamente il Cristo, perché hanno ritenuto che doveva essere straziato con la morte più obbrobriosa. Quindi si doveva ascoltare il Dio dei Giudei, al quale rende testimonianza, quando dice: Chi sacrificherà agli dèi e non soltanto al Signore sarà votato allo sterminio 66. Ma veniamo ad argomenti più evidenti e ascoltiamolo affermare che il Dio dei Giudei è un Dio grande. Così, riguardo alla domanda con cui interrogò Apollo, che cosa sia meglio: la parola, il pensiero o la legge, dice: Rispose in versi con queste parole. E aggiunge i versi di Apollo, fra i quali vi sono questi che io riporterò quanto può bastare. Dice: Davanti a Dio, creatore e re prima di tutte le cose, tremano cielo e terra, il mare, i luoghi occulti degli abissi e rabbrividiscono perfino i numi. Loro legge è il Padre che i santi ebrei molto onorano 67. Con questo oracolo del suo dio Apollo Porfirio ha affermato che il Dio degli ebrei è tanto grande che perfino gli dèi ne hanno timore. Avendo detto Dio: Chi sacrifica agli dèi sarà votato allo sterminio, mi meraviglio che lo stesso Porfirio non l'abbia temuto e sacrificando agli dèi non abbia temuto di essere sterminato.
... con Ecate lo onora...
23. 2. Questo filosofo parla bene del Cristo, come se abbia dimenticato l'ingiuria di cui poco fa ho parlato, ovvero come se i suoi dèi nel sonno abbiano oltraggiato il Cristo e svegliandosi lo abbiano ritenuto buono e lodato secondo il merito. Poi, come se stesse formulando una verità sorprendente e incredibile, dice: Certamente al di là di ogni aspettativa può sembrare quel che sto per dire. Gli dèi hanno considerato il Cristo molto devoto e hanno ricordato che è stato reso immortale anche per la sua predicazione. Gli dèi - soggiunge - dicono che i cristiani al contrario sono corrotti, depravati, avviluppati nell'errore e proferiscono molti oltraggi contro di loro. Aggiunge poi altri brani come responsi degli dèi che oltraggiano i cristiani, e dopo di essi afferma: A coloro che chiedevano se Cristo è Dio, Ecate rispose: Tu sai come l'anima umana dopo il corpo si perfeziona, ma separata dalla sapienza è sempre in errore. Quell'anima è di un uomo insigne; essi lo adorano perché la verità non è in loro. Quindi collegando, dopo questo responso, parole sue, dice: Dunque Ecate ha detto che era un uomo molto devoto e che la sua anima, come quella degli altri uomini devoti dopo la morte, fu stimata degna dell'immortalità e perciò i cristiani, che sono insipienti, lo adorano. E aggiunge: A coloro che interrogavano: Ma perché dunque è stato condannato?, la dea diede questo responso: Il corpo è sempre soggetto a tormenti che lo spossano; invece l'anima degli uomini devoti ha la propria dimora nella casa del cielo. Però quell'anima diede per fatalità ad altre anime d'impigliarsi nell'errore e ad esse il destino non concesse di ottenere i doni degli dèi né di avere il riconoscimento di Giove l'immortale. Sono perciò detestati dagli dèi perché, sebbene ad essi per destino non fu dato di conoscere il Dio né di ricevere doni dagli dèi, Egli fatalmente permise loro d'impigliarsi nell'errore. Egli, essendo devoto, come tutti i devoti, ebbe dimora in cielo. Quindi non lo biasimerai e avrai pietà della pazzia degli uomini, facile pericolo in essi di cadere da lui con la testa all'ingiù 68.
... ma l'uno e l'altra sono contro il Cristianesimo.
23. 3. Non si può essere tanto stolti da non capire che questi oracoli furono contraffatti da un uomo astuto e insieme grande avversario dei cristiani o con una eguale intenzione furono trasmessi dagli impuri demoni. Difatti, poiché lodano Cristo, si può credere che con verità biasimano i cristiani e così, se ci riescono, sbarrano la via della salvezza eterna in cui si diviene cristiani. Capiscono che non contrasta la loro svariata furbizia nel nuocere se si crede a loro quando lodano il Cristo, purché si creda loro quando biasimano i cristiani. Difatti rendono colui, che crede l'uno e l'altro, un tale elogiatore del Cristo da non voler essere cristiano in modo che il Cristo, da lui lodato, non lo liberi dalla tirannia dei demoni, soprattutto perché essi lodano il Cristo in un senso che chi lo ritiene come essi lo dichiarano non è un cristiano ma un eretico fotiniano. Questi ammette Cristo soltanto come uomo e non anche come Dio, in modo che per la sua mediazione non si può avere la salvezza ed evitare o sciogliere i tranelli di questi diavoli spacciatori di frottole. Noi non possiamo accettare né Apollo, che infama il Cristo, né Ecate che lo decanta. Quegli infatti pretende che il Cristo sia ritenuto un disonesto, perché afferma che fu condannato da giudici che agivano rettamente; questa afferma che fu un uomo molto devoto, ma uomo soltanto. Però una è la mira di lui e di lei: adoperarsi cioè che gli uomini non siano cristiani perché, se non saranno cristiani, non potranno essere liberi dal loro potere. Questo filosofo, o piuttosto coloro che accolgono simili così detti oracoli contro i cristiani, ottengano prima, se ci riescono, che Ecate e Apollo si accordino nei confronti del Cristo e che l'una e l'altro insieme o lo condannino o lo onorino. Se ci riuscissero, noi per lo meno eluderemmo i demoni imbroglioni che oltraggiano e insieme lodano il Cristo. Poiché infatti un dio e una dea loro dissentono fra sé sul Cristo, poiché quegli lo oltraggia, questa lo loda, gli uomini, se reagiscono giudiziosamente, non li credono quando parlano male dei cristiani.
Incoerenza del politeista.
23. 4. Certamente però Ecate, ovverosia Porfirio, quando loda il Cristo, nel dire che per fatalità egli permise ai cristiani che s'impigliassero nell'errore, manifesta tuttavia le ragioni di quello che egli ritiene un errore. Prima di esporle con le sue parole, chiedo, qualora per fatalità il Cristo permise ai cristiani l'impiglio nell'errore, se l'ha permesso volendo o non volendo. Se volendo, in che senso è giusto? Se non volendo, in che senso è nella beatitudine? Ma ormai ascoltiamo le ragioni dell'errore. Vi sono - dice - in un determinato luogo i più piccoli spiriti terreni soggetti al potere di demoni cattivi. I sapienti degli ebrei dei quali uno è stato Gesù, come hai appreso dalle divinazioni di Apollo riferite precedentemente, gli ebrei dunque allontanavano gli uomini devoti da questi demoni pessimi e dagli spiriti di minore entità e impedivano che si dedicassero a loro, ma volevano che venerassero prevalentemente gli dèi del cielo e soprattutto Dio Padre. Anche gli dèi - soggiunge - lo ingiungono e in precedenza abbiamo dimostrato in qual senso suggeriscono di volgere la mente a Dio e comandano di adorarlo in ogni luogo. Però gli ignoranti d'indole cattiva, ai quali in verità il destino non ha concesso di ottenere doni dagli dèi e di avere il concetto dell'immortale Giove, non ascoltando né gli dèi né gli uomini di Dio, hanno rifiutato tutti gli dèi e perfino non hanno odiato ma onorato i demoni proibiti e, pur fingendo di onorare Dio, non compiono soltanto le azioni con cui Dio si adora. Certamente Dio, come Padre di tutti, non ha bisogno di alcuno, ma per noi è bene, quando lo adoriamo mediante la giustizia, la castità e le altre virtù, rendendo la nostra vita un'invocazione a lui mediante l'imitazione e la ricerca su lui. La ricerca infatti purifica, l'imitazione rende simili a Dio operando l'attaccamento a lui 69. Certamente Porfirio ha parlato bene di Dio Padre e ha dichiarato con quale tenore di vita si deve onorare. I libri profetici degli ebrei sono pieni di tali insegnamenti, quando è raccomandata o lodata la santità della vita. È in errore soltanto nei confronti dei cristiani ovvero li calunnia tanto quanto gli suggeriscono i demoni che egli ritiene dèi. Eppure non è difficile ad alcuno richiamare alla memoria le rappresentazioni oscene ed indecenti che si tenevano nei teatri e nei templi in ossequio agli dèi e volgere l'attenzione ai riti, preghiere e discorsi che si svolgono nelle chiese e a ciò che si offre al Dio vero e dedurne dove si ha l'edificazione e dove la demolizione della moralità. Soltanto una suggestione diabolica ha potuto imbeccare o suggerire a Porfirio una menzogna così insignificante ed evidente che i cristiani onorano, anziché odiare, i demoni che gli ebrei vietano di adorare. Ma il Dio, che hanno adorato i saggi degli ebrei, vieta di sacrificare anche ai santi angeli del cielo e alle virtù di Dio, che in questo nostro cammino verso la morte veneriamo ed amiamo come cittadini della somma beatitudine. Difatti egli proclama solennemente nella Legge, che ha dato al suo popolo ebreo, e dice molto minacciosamente: Chi sacrifica agli dèi sarà sterminato 70. E non si deve pensare che è stato prescritto di non sacrificare ai demoni più cattivi e agli spiriti della terra, che Porfirio considera i più piccoli o più piccoli 71. Infatti nella sacra Scrittura costoro sono stati considerati dèi non degli ebrei ma dei pagani, concetto che evidentemente in un Salmo i Settanta hanno espresso traducendo: Poiché tutti gli dèi dei pagani sono demoni 72. E affinché dunque non si pensasse che è stato proibito di sacrificare a questi demoni e che sia permesso sacrificare agli dèi del cielo, a tutti o ad alcuni, subito soggiunge: Se non al Signore solo, affinché nelle parole: Al Signore solo non si ritenga che il sole è il Signore, cui si deve sacrificare. Nella Scrittura in greco si riscontra facilmente che non si deve interpretare in quel senso.
Ritorna l'assunto della sottomissione religiosa, politica, morale.
23. 5. Dunque il Dio degli ebrei, al quale anche l'illustre filosofo rende una così grande testimonianza, diede la Legge al suo popolo ebraico, scritta in ebraico, non ermetica e ignota, ma già divulgata presso tutti i popoli. In essa è stato scritto: Chi sacrifica agli dèi e non soltanto al Signore sarà sterminato 73. Non occorre ricercare molte nozioni su tale argomento in questa sua Legge e nei suoi Profeti. Non occorre ricercarle perché non sono incomprensibili e sporadiche, occorre raccoglierle, perché sono evidenti e abbondanti, e inserirle in questo mio dibattito perché da esse risulti un concetto, più splendente della luce, che il Dio vero e sommo non ha voluto che si sacrificasse ad alcuno, ma soltanto a sé. Ecco questo solo comando, espresso in poche parole, senza dubbio con grandiosità e veemenza ma con verità, da quel Dio che i più dotti fra i pagani esaltano con accento sublime; si ascolti questo comando, si tema e si osservi affinché lo sterminio non colga i trasgressori. Dice: Chi sacrifica agli dèi e non soltanto al Signore sarà sterminato, non perché Egli abbia bisogno di qualche cosa, ma perché conviene a noi essere suoi. Nelle sacre Scritture degli ebrei si canta a lui: Ho detto al Signore: Tu sei il mio Dio perché non hai bisogno dei miei beni 74. Suo splendido e ottimo sacrificio siamo noi stessi, cioè la sua città. Celebriamo il rito di questo significato con le nostre offerte, che sono note ai fedeli, come nei libri precedenti ho dichiarato 75. La parola di Dio ha fatto udire per mezzo dei Profeti ebrei che sarebbero cessate le vittime che, come figura simbolica del futuro, offrivano i Giudei e che i popoli dell'Oriente e dell'Occidente avrebbero offerto un unico sacrificio 76, come costatiamo che già sta avvenendo. Ne ho allegato, nei limiti della sufficienza, alcuni brani e li ho già inseriti in quest'opera 77. Vi sono però luoghi in cui non v'è questo giusto ordinamento che il Dio vero e sommo domini secondo la sua grazia su una città sottomessa, in modo che essa non offra sacrifici se non a lui e perciò in tutti gli individui, appartenenti alla medesima città e a Dio sottomessi, l'anima spirituale con un ordinamento regolare secondo la fede domini sul corpo e la ragione sugli impulsi. Così che come un solo giusto così l'unione del popolo dei giusti vive di fede, la quale opera mediante l'amore con cui si ama Dio, come si deve amare, e il prossimo come se stesso. Dove dunque non v'è un simile tipo di giustizia, certamente il popolo non è l'unione degli uomini associata dalla conformità del diritto e della partecipazione degli interessi. Se non lo è, non è popolo, se è vera questa definizione del popolo. Quindi non v'è neanche lo Stato come cosa del popolo perché non si ha la cosa del popolo se non si ha il popolo.
Roma e gli altri paesi della storia furono popolo e Stato.
24. Il popolo si può definire non con questa formula, ma con un'altra, cioè: il popolo è l'unione di un certo numero d'individui ragionevoli associati dalla concorde partecipazione degli interessi che persegue. Quindi per stabilire di quali caratteristiche sia ciascun popolo, si devono tener presenti gli interessi che esso persegue. Tuttavia, quali che siano gli interessi che persegue, se l'unione è di un certo numero non di animali ma di persone ragionevoli ed è costituita dalla concorde partecipazione agli interessi che persegue, a ragione è considerata un popolo e tanto più civile quanto più è unito da costituzioni civili, tanto più barbaro quanto più è unito da costituzioni incivili. Secondo questa nostra definizione il popolo romano è un popolo e il suo è senz'altro uno Stato. La storia attesta quali interessi quel popolo perseguì nei primi tempi e quali nei periodi successivi e con quali usanze, giungendo a sanguinose sommosse e da esse alle guerre sociali e civili, rese vana con la depravazione la concordia che in certo senso è la prosperità del popolo. Ne ho parlato abbondantemente nei libri precedenti 78. Tuttavia non direi che esso non è un popolo e che il suo non è uno Stato, finché perdura una determinata unione di un certo numero di esseri ragionevoli, associato dalla concorde partecipazione agli interessi che persegue. Quel che ho detto di questo popolo e di questo Stato s'intenda che lo dico e lo penso di Atene e degli altri paesi della Grecia, dell'Egitto, della primeva Babilonia d'Assiria e di qualsiasi altro popolo, mentre nei propri Stati ressero piccole e grandi estensioni di territorio. In genere la città dei non credenti difetta della lealtà della giustizia perché ad essa Dio non ingiunge, come se fosse a lui sottomessa, di offrire sacrifici a lui soltanto e perciò in essa l'anima non ingiunge secondo onestà e fede al corpo e la ragione agli impulsi.
Corrispondenza di vita religiosa e dignità morale.
25. Sebbene dunque sembri che l'anima eserciti con dignità il dominio sul corpo e la ragione sugli impulsi, se l'anima e la ragione non sono sottomesse a Dio, come Egli stesso ha ordinato di essergli sottomessi, certamente esse non esercitano in senso morale il dominio sul corpo e sugli impulsi. È impossibile infatti che eserciti il dominio sul corpo e sugli impulsi la coscienza che non conosce il vero Dio e non è sottomessa al suo dominio, ma è profanata da demoni molto viziosi che la depravano. Quindi anche le virtù che le sembra di avere, con cui può esercitare il dominio sul corpo e sugli impulsi, se le riferirà a conseguire e conservare un fine che non sia Dio, sono piuttosto impulsi che virtù. E sebbene da alcuni si ritenga che le virtù siano veramente morali quando sono rapportate a se stesse e non sono conseguite per altro scopo, anche in questo senso sono gonfie di orgoglio e non devono essere considerate virtù ma impulsi. Come infatti non deriva dalla carne, ma è superiore alla carne il principio che la fa vivere, così non deriva dall'uomo, ma è superiore all'uomo il principio che fa vivere l'uomo nella felicità e non soltanto l'uomo ma qualsiasi potestà e virtù del cielo.
Nel tempo pace tra le due città.
26. Dunque, come l'anima è vita del corpo, così vita felice dell'anima è Dio, di cui dice la sacra Scrittura dell'Antico Testamento: Felice il popolo, di cui Dio è il Signore 79. Dunque è infelice il popolo estraniato da questo Dio. Anch'esso tuttavia persegue una certa sua pace non riprovevole, che però non manterrà per il fine perché non ne usa bene prima del fine. Ma interessa anche a noi che frattanto, in questa vita, l'abbia poiché, mentre le due città sono ancora commischiate, anche noi utilizziamo la pace di Babilonia. Da essa il popolo di Dio si svincola mediante la fede per porsi in cammino frattanto nel suo territorio. Per questo anche l'Apostolo esorta la Chiesa di pregare per i sovrani e dignitari di lei aggiungendo le parole: Per trascorrere una vita serena e tranquilla in tutta pietà e carità 80. Anche il profeta Geremia, nel predire la schiavitù all'antico popolo di Dio e nell'ingiungere per divina ispirazione che andassero con sottomissione a Babilonia, perché obbedivano a Dio anche con tale sopportazione, esortò che si pregasse per essa con le parole: Perché nella sua pace v'è anche la vostra pace 81, certamente quella nel tempo perché essa è comune ai buoni e ai cattivi.
La vera pace terrena verso la pace celeste.
27. La pace propriamente nostra si ha con Dio anche nel tempo mediante la fede e nell'eternità si avrà con lui nella visione 82. Ma nel tempo tanto la pace comune come quella propriamente nostra è pace più come sollievo dell'infelicità che come godimento della felicità. Anche la nostra dignità morale, sebbene sia vera in riferimento al vero fine del bene al quale si rapporta, è così relativa in questa vita da consistere più nella remissione dei peccati che nella pienezza della virtù. Lo conferma la preghiera di tutta la città di Dio che è in cammino sulla terra. Difatti lo grida a Dio in tutti i suoi adepti: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori 83. E questa preghiera non è valida per coloro la cui fede è morta, perché senza le opere 84, ma per coloro la cui fede è operante mediante l'amore 85. Infatti la ragione, sebbene sottomessa a Dio, tuttavia nell'attuale soggezione alla morte e nel corpo corruttibile, che appesantisce l'anima 86, non pienamente domina gli impulsi, perciò è indispensabile alle persone oneste una tale preghiera. Sebbene si abbia il dominio, non si ha senza contrasto il dominio sugli impulsi. Inoltre in questa condizione di debolezza qualcosa s'insinua anche in chi sa bene contrastare o domina già su tali nemici vinti e sottomessi e perciò si pecca, se non con un'azione deliberata, certamente con una parola che sfugge o con un pensiero vagabondo. E quindi, finché si esercita un dominio sugli impulsi, non v'è pace piena perché gli impulsi che resistono sono superati con una lotta pericolosa e quelli che sono stati superati non ancora sono debellati in un tranquillo riposo, ma sono sempre contenuti da un affannoso esercizio della libertà. Di tutte queste tentazioni nella sacra Scrittura è stato detto brevemente: Forseché la vita dell'uomo sulla terra non è una tentazione? 87. Quindi nessuno, salvo un esaltato, può presumere di vivere in maniera da non ritenere necessario di dire a Dio: Rimetti a noi i nostri debiti. Ma costui non è un grande ma un borioso tronfio, al quale con giustizia si oppone colui che dà la grazia agli umili. Perciò si ha nella Scrittura: Dio resiste ai superbi ma dà la grazia agli umili 88. In questo mondo dunque si ha la giustizia in ogni individuo affinché Dio domini sull'uomo sottomesso, l'anima spirituale sul corpo, la ragione sugli impulsi, anche se insorgono, o sottomettendoli o contrastandoli, inoltre affinché si chieda a Dio la grazia delle buone opere, il perdono dei peccati e si offra il ringraziamento per i beni ricevuti. V'è poi la pace finale, alla quale si deve riferire e per il conseguimento della quale si deve osservare l'attuale giustizia. In essa la nostra natura, liberata per mezzo della non soggezione alla morte e al divenire, non avrà più impulsi e non resisterà più ad ognuno di noi o tramite l'altro o da se stessa. In quella pace dunque non è necessario che la ragione domini gli impulsi perché non ci saranno, ma Dio dominerà l'uomo, l'anima spirituale il corpo e sarà così grande la serenità e la disponibilità alla sottomissione, quanto è grande la delizia del vivere e dominare. E allora in tutti e singoli questa condizione sarà eterna e si avrà la certezza che è eterna e perciò la pace di tale felicità ossia la felicità di tale pace sarà il sommo bene.
Per i reprobi dolore e guerra nell'eternità.
28. Al contrario, per coloro che non appartengono alla città di Dio si avrà un'infelicità eterna, la quale è considerata una seconda morte 89. Difatti non si può affermare che l'anima in quello stato vive, perché è estraniata dalla vita di Dio, e neanche il corpo, perché sarà soggetto ad eterni tormenti e perciò la seconda morte sarà più atroce perché non potrà aver fine con la morte. Ma come l'infelicità è contraria alla felicità e la morte alla vita, così la guerra appare contraria alla pace. Perciò giustamente si pone il problema, dato che la pace è stata precedentemente esaltata come fine degli eletti, che cosa o di quale natura al contrario si deve intendere guerra come fine dei reprobi. Chi si pone questo problema esamini che cosa vi sia di funesto e di esiziale nella guerra e costaterà che non v'è altro che l'urto degli avvenimenti in reciproco conflitto. E non si può pensare a una guerra più grave e più rovinosa di quella in cui la volontà è contraria all'inclinazione e l'inclinazione alla volontà, in modo che simili contrasti non cessano con la vittoria dell'una sull'altra, e in cui la veemenza del dolore è in tale conflitto con la natura del corpo che l'una non cede all'altra. In questo mondo allorché capita questo conflitto o vince il dolore e la morte strappa la sensitività, o vince la natura e la guarigione fa cessare il dolore. Di là invece rimane il dolore per affliggere e persiste la natura per soffrire, perché né l'una né l'altra cessa affinché non cessi la pena. Ai due fini del bene e del male, il primo da raggiungere, l'altro da evitare, passeranno mediante il giudizio, al primo i buoni, al secondo i malvagi. Parlerò di questo giudizio, nei limiti che Dio mi concederà, nel libro seguente.
LIBRO XX
SOMMARIO
1. Sebbene Dio giudichi in ogni tempo, in questo libro si deve trattare espressamente del suo ultimo giudizio.
2. V'è una varietà di cose pertinenti all'uomo, alla quale non si può dire che manchi il giudizio di Dio, sebbene non possa manifestarsi.
3. Che cosa Salomone nel Qoèlet ha esposto su quelle cose che in questa vita sono comuni ai buoni e ai cattivi.
4. Agostino nel trattare il giudizio finale di Dio addurrà dapprima testi del Nuovo Testamento e poi dell'Antico.
5. Sono riferite le parole del Signore, con cui si afferma che il giudizio divino avverrà alla fine del mondo.
6. Si espone che cosa è la prima risurrezione, che cosa la seconda.
7. Che cosa è scritto nell'Apocalisse di Giovanni sulle due risurrezioni e sui mille anni e che cosa di essi si deve intendere con criterio.
8. Il diavolo sarà legato e sciolto.
9. Che significa il regno dei santi col Cristo per mille anni, ma in che cosa esso si distingue dal regno dell'eternità.
10. Che cosa si deve rispondere a coloro, i quali ritengono che la risurrezione è soltanto dei corpi e non delle anime.
11. Vi sono Gog e Magog che il diavolo, sciolto alla fine del mondo, istigherà a perseguitare la Chiesa di Dio.
12. Si ha il problema se spetti all'ultimo tormento dei reprobi l'accenno che è disceso un fuoco dal cielo e li ha dissolti.
13. Si chiede se il tempo della persecuzione dell'Anticristo si deve computare in mille anni.
14. Sulla condanna del diavolo con i suoi adepti e in compendio sulla risurrezione dei corpi di tutti i morti e sul giudizio del destino finale.
15. Quali sono i morti che il mare ha rimesso per il giudizio e quelli che la morte e l'aldilà hanno restituito.
16. Vi saranno un nuovo cielo e una nuova terra.
17. Si avrà senza fine dopo la fine l'inserimento della Chiesa nella gloria.
18. Ciò che l'apostolo Pietro ha previsto sul finale giudizio di Dio.
19. Ciò che l'apostolo Paolo ha scritto ai cristiani di Tessalonica sulla comparsa dell'Anticristo a cui farà seguito il giorno del Signore.
20. Ciò che il medesimo apostolo ha insegnato sulla risurrezione dei morti nella prima lettera a quei fedeli.
21. Ciò che ha detto il profeta Isaia sulla risurrezione dei morti e sull'esito del giudizio.
22. Che cosa significa l'uscita degli eletti per vedere le pene dei dannati.
23. Daniele ha profetato sulla persecuzione dell'Anticristo, sul giudizio di Dio e il regno dei santi.
24. Nei salmi di Davide vi sono predizioni sulla fine del mondo e sul giudizio finale di Dio.
25. Nella profezia di Malachia si preannunzia il giudizio finale di Dio e si parla del riscatto di alcuni mediante le pene purificatrici.
26. I sacrifici che i santi offriranno saranno graditi a Dio come furono graditi nei primi giorni e negli anni antichi.
27. Vi sarà la separazione dei buoni e dei cattivi mediante la quale si rende palese l'esito del giudizio finale.
28. La legge di Mosè si deve intendere secondo lo spirito affinché non incorra nelle dannose suggestioni di una interpretazione secondo la carne.
29. Prima del giudizio si avrà la comparsa di Elia, dalla cui predicazione, che svela le verità occulte delle Scritture, i Giudei si convertiranno al Cristo.
30. Quando nei libri dell'Antico Testamento si legge che Dio giudicherà, non si parla esplicitamente della persona del Cristo ma da alcuni testi in cui Dio Signore parla in prima persona, appare indubbiamente che si tratta del Cristo.
Libro ventesimo
ASPETTI DELL'ULTIMO GIUDIZIO
Impostazione del problema (1-4)
Autorità della Scrittura sul giudizio finale.
1. 1. Dovendo esporre sul giorno dell'ultimo giudizio di Dio ciò che Egli ci concederà e discuterne contro infedeli e miscredenti, devo prima porre, come a fondamento di un edificio, le testimonianze della sacra Scrittura. Coloro che non vogliono credere in esse tentano di negarle con meschine dimostrazioni umane, false e ingannatrici, allo scopo di dimostrare o che ha un altro significato il testo riportato dalla sacra Scrittura o di negare che è d'ispirazione divina. Ritengo infatti che non vi sia un individuo il quale, se ha compreso i testi come sono stati trasmessi e ha creduto che sono stati trasmessi dal sommo, vero Dio mediante persone sante, non li accetti e non presti loro consenso, tanto se lo confessa apertamente, come se si vergogna o teme di ammetterlo per un qualche pregiudizio, o anche se per una caparbietà, molto simile all'idiozia, si affanna a difendere con grande accanimento ciò che ritiene o crede falso contro ciò che ritiene o crede vero.
Giudizio finale argomento del libro.
1. 2. Nella ufficiale professione di fede ogni Chiesa del vero Dio ritiene che il Cristo verrà dal cielo a giudicare i vivi e i morti 1. Consideriamo questo evento come il giorno dell'ultimo giudizio, cioè la fine del tempo. È incerto per quanti giorni si prolunghi il giudizio, ma ogni individuo che ha letto, sia pure distrattamente, quelle pagine, sa che, secondo il modo d'esprimersi della sacra Scrittura, di solito "giorno" si usa in luogo di "tempo". Perciò, quando parliamo del giudizio di Dio, aggiungiamo: l'ultimo o finale, perché anche adesso giudica e ha giudicato fin dall'origine del genere umano, cacciando dal paradiso terrestre e allontanando dall'albero della vita i progenitori che avevano commesso il grande peccato 2. Anzi senza dubbio proferì un giudizio anche quando non risparmiò gli angeli che avevano peccato 3, il cui principe, in sé pervertito, pervertì per invidia gli uomini e non senza il suo sovrano, giusto giudizio, nell'atmosfera e sulla terra l'esistenza dei demoni e degli uomini è molto infelice a causa di errori e di sofferenze. Però se non vi fosse stato il peccato, non senza un giudizio favorevole e giusto manterrebbe nella felicità eterna ogni creatura ragionevole unita con grande fedeltà a lui suo Signore. Decide con giudizio non solo in generale del modo di essere dei demoni e degli uomini affinché siano infelici per la colpa del primo peccato, ma anche delle opere personali dei singoli, che essi compiono con l'arbitrio della volontà. Anche i demoni supplicano di non essere tormentati 4 e non senza giustizia o sono risparmiati o afflitti, ciascuno secondo la particolare perversità. Anche gli uomini, il più delle volte palesemente, sempre in segreto, espiano con ordinamento divino per le proprie azioni, sia in questa vita sia dopo la morte, sebbene nessun uomo compie buone azioni se non è soccorso dall'aiuto di Dio e nessun demone o uomo compie cattive azioni se non è permesso dall'uno, identico, giustissimo giudizio di Dio. Dice l'Apostolo: In Dio non v'è ingiustizia 5, e in un altro passo: Sono imperscrutabili i suoi giudizi e misteriose le sue vie 6. Dunque in questo libro tratterò, per quanto egli lo concederà, non dei primi e degli intermedi giudizi di Dio ma del giudizio finale, quando il Cristo verrà dal cielo per giudicare i vivi e i morti 7. Esso infatti propriamente è considerato giorno del giudizio, poiché allora non vi sarà appiglio a una cavillosa lamentela che l'ingiusto sia felice e il giusto infelice. Allora si manifesterà unicamente la vera e piena felicità di tutti i buoni e la degna e grandissima infelicità di tutti i malvagi.
Il giudizio di Dio e la vita umana.
2. In questa vita impariamo a tollerare con animo sereno i mali che subiscono anche i buoni e a non sopravvalutare i beni che conseguono anche i cattivi e perciò nelle circostanze, in cui non si manifesta la giustizia di Dio, è salutare il suo insegnamento. Noi non sappiamo in base a quale giudizio di Dio il buono sia povero e il malvagio sia ricco, perché questi goda, sebbene noi presumiamo che dovrebbe essere afflitto da tormenti per la sua depravata condotta e l'altro sia nel pianto, sebbene la vita lodevole suggerisce che dovrebbe essere nella gioia; non sappiamo come l'innocente esca dal tribunale, non solo invendicato ma anche condannato, o perché angariato dal sopruso del giudice o perché travolto da false testimonianze, e al contrario il suo avversario criminale lo schernisca non solo perché impunito ma anche indennizzato; non sappiamo perché il miscredente goda ottima salute e il credente si strugga nella malattia; perché giovani sanissimi si diano al brigantaggio e bimbi, che neanche a parole hanno potuto offendere qualcuno, siano afflitti dalla violenza di varie infermità; perché un individuo utile agli interessi umani sia rapito da una morte immatura e un altro, che all'apparenza non sarebbe dovuto neanche nascere, viva per di più molto a lungo; perché uno zeppo di delitti sia elevato a cariche onorifiche e invece il buio di un'esistenza ignobile occulti un uomo senza macchia. E vi sono altri casi del genere che è impossibile elencare e calcolare. Facciamo l'ipotesi che simili evenienze, nel loro quasi non senso, si ripetano, sicché in questa vita, in cui, come dice un Salmo: L'uomo è divenuto come un'apparenza e i suoi giorni trascorrono come un'ombra 8, soltanto i cattivi conseguano questi beni effimeri e soltanto i buoni subiscano questi mali. Il fatto si potrebbe riferire al giusto o anche benevolo giudizio di Dio in modo che coloro, i quali non conseguiranno i beni eterni che rendono felici, si illudano secondo la loro malvagità o siano compensati secondo la misericordia di Dio con i beni nel tempo; invece coloro, che non dovranno subire le pene eterne, siano afflitti dai mali nel tempo a causa dei loro peccati di qualsiasi specie ed entità e siano stimolati dai mali a potenziare le virtù. Ma poiché in questa vita non solo i buoni sono nel male e i cattivi nel bene, e ciò sembra ingiusto, ma spesso anche ai cattivi tocca in sorte il male e ai buoni il bene, più imperscrutabili divengono i suoi giudizi e misteriose le sue vie 9. Noi dunque ignoriamo con quale giudizio Dio, in cui si ha somma potenza, sapienza e giustizia e non si ha alcuna debolezza, insipienza e ingiustizia, operi tali fatti o permetta che avvengano. Impariamo tuttavia a nostro vantaggio a non sopravvalutare il bene e il male, che osserviamo comuni ai buoni e ai cattivi, a perseguire il bene che è proprio dei buoni ed evitare il male che è proprio dei cattivi. Quando poi giungeremo al giudizio di Dio, il cui tempo fin d'ora si denomina propriamente giorno del giudizio e talora giorno del Signore, si manifesteranno sommamente giuste non solo le sentenze di giudizio allora emesse, ma tutte quelle emesse dal principio e tutte quelle che fino a quel tempo saranno emesse. Allora si manifesterà anche per quale giusto giudizio di Dio avviene che attualmente molti e quasi tutti i giusti giudizi di Dio siano un mistero per la conoscenza e il pensiero dei mortali, sebbene non è un mistero per la fede dei credenti che è giusto sia un mistero.
Salomone sul giudizio di Dio e sulla vita umana.
3. Salomone, il più sapiente re d'Israele, che regnò in Gerusalemme, ha così esordito nel libro che è denominato l'Ecclesiaste ed anche dai Giudei è incluso nel canone della sacra Scrittura: Insignificanza di coloro che sono nell'insignificanza, ha detto l'Ecclesiaste, insignificanza di coloro che sono nella insignificanza, tutto è insignificanza. Quale vantaggio per l'uomo in ogni suo affanno in cui si affanna sotto il sole? 10. E da questo suo pensiero, deducendone altri, ricorda le tribolazioni e gli inganni di questa vita e insieme il fluire e il dileguarsi del tempo, perché in esso nulla si conserva di duraturo, nulla di stabile. Deplora anche in certo senso che nell'insignificanza delle cose sotto il sole, sebbene vi sia il prevalere della saggezza sulla stoltezza, della luce sulle tenebre e sebbene gli occhi del saggio siano sulla sua testa e lo stolto invece cammini nelle tenebre, un'identica evenienza tocca a tutti, sia pure in questa vita che si trascorre sotto il sole. Evidentemente indica i mali che costatiamo comuni a buoni e cattivi 11. Afferma anche che i buoni subiscono il male come se fossero cattivi, e i cattivi conseguono il bene come se fossero buoni, quando dice: V'è un'insignificanza che è avvenuta sulla terra, perché vi sono i giusti ai quali è toccata la sorte degli empi, ed empi ai quali è toccata la sorte dei giusti. Questo ho detto che è insignificante 12. Per quanto gli è parso sufficiente, l'uomo altamente sapiente ha dedicato, a segnalare tale insignificanza, tutto il libro suddetto, soltanto nell'intento di farci desiderare quella vita che non ha l'insignificanza sotto questo sole, ma la verità in colui che ha creato questo sole. Dunque forseché non è vero che l'uomo diviene insignificante perché soltanto per un giusto e retto giudizio di Dio è reso simile alla insignificanza 13? Però nei giorni della sua insignificanza è di notevole rilievo se resiste o si adegua alla verità e se è privo o partecipe della vera pietà, non per conseguire i beni ed evitare i mali di questa vita, effimeri nel loro dileguarsi, ma in vista del futuro giudizio con il quale vi saranno per il giusto il bene, per i cattivi il male, che saranno senza fine. Infine questo sapiente ha concluso il libro citato con le parole: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è ogni uomo; infatti Dio addurrà in giudizio qualsiasi azione anche in ogni individuo spregevole, buona e cattiva 14. Non era possibile un'affermazione più breve, più vera, più utile. Dice: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché guesto è ogni uomo. Chi infatti è qualche cosa è questo: custode dei comandamenti di Dio, perché chi non lo è, è un nulla; non si restituisce al modello della verità chi rimane nella conformità alla insignificanza. Poiché ogni azione, cioè ogni atto che si compie dall'uomo in questa vita, buona e cattiva Dio l'addurrà in giudizio anche in ogni individuo spregevole, cioè in ogni individuo che in questo mondo è considerato degno di disprezzo e quindi neanche è considerato, però Dio considera anche lui, non lo disprezza e quando giudica non lo tralascia.
Prima il Nuovo e poi il Vecchio Testamento.
4. Fra le testimonianze della sacra Scrittura sull'ultimo giudizio di Dio, che ho stabilito di scegliere, prima si devono addurre quelle dai libri del Nuovo Testamento e poi quelle dell'Antico Testamento. Sebbene quelle dell'Antico siano anteriori nel tempo, tuttavia per la loro importanza si devono anteporre quelle del Nuovo, perché le antiche sono preannuncio delle nuove. Dunque saranno allegate prima le nuove testimonianze e, per suffragarle più autorevolmente, saranno addotte anche le antiche. Fra le antiche si hanno la Legge e i Profeti, fra le nuove il Vangelo e le Lettere degli Apostoli. Dice infatti l'Apostolo: Per mezzo della Legge infatti si ha la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti, giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono 15. Tale giustizia di Dio appartiene al Nuovo Testamento ed ha la testimonianza dai libri dell'Antico Testamento, cioè dalla Legge e dai Profeti. Prima quindi si deve esporre il motivo processuale e poi introdurre i testimoni. Nel dimostrare che si deve rispettare tale procedimento Cristo Gesù stesso afferma: Lo scriba divenuto istruito nel regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo forziere cose nuove e cose vecchie 16. Non ha detto: "Cose vecchie e cose nuove", e l'avrebbe detto se non avesse preferito rispettare l'ordine dei valori anziché i tempi.
Il giudizio finale nel Nuovo Testamento (5-20)
In Matteo Gesú annunzia il giudizio finale...
5. 1. Quindi il Salvatore stesso, nel rimproverare le città in cui aveva compiuto grandi prodigi, e non avevano creduto, e nel preferire ad esse città straniere, dice: Ebbene vi dico che per Tiro e Sidone vi sarà maggiore indulgenza che per voi 17; e poco dopo per un'altra città afferma: Vi dico in verità che nel giorno del giudizio per la città di Sodoma vi sarà maggiore indulgenza che per te 18. Nel passo con molta evidenza annunzia che vi sarà il giorno del giudizio. In un altro passo afferma: Gli uomini di Ninive si alzeranno nel giudizio contro questa progenie e la condanneranno perché fecero penitenza alla predicazione di Giona ed ora qui v'è uno più grande di Giona. La regina del Sud si alzerà nel giudizio contro questa progenie e la condannerà perché venne dai confini della terra ad ascoltare la sapienza di Salomone ed ora qui vi è uno più grande di Salomone 19. Da questo passo apprendiamo due verità: che si avrà il giudizio e che si avrà assieme alla risurrezione dei morti. Infatti quando accennava agli avvenimenti degli abitanti di Ninive e della regina del Sud, senza dubbio parlava di persone morte, ma di essi predisse che sarebbero risorti nel giorno del giudizio. Non ha detto però che condanneranno, come se fossero essi a giudicare, ma perché gli altri nel confronto con loro saranno condannati.
... nella separazione di buoni e cattivi.
5. 2. In un altro passo ha parlato della mescolanza di buoni e cattivi nel tempo e poi della separazione che avverrà certamente nel giorno del giudizio. Ha usato la parabola della semina del grano e in seguito della zizzania; e spiegandola ai suoi discepoli disse: Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo; il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del Regno, la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo; la mietitura rappresenta la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori d'iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda 20. In questo passo non ha nominato il giudizio o il giorno del giudizio, ma lo ha indicato molto più evidentemente con i concetti stessi e ha predetto che avverrà alla fine del tempo.
Anche gli eletti giudicheranno.
5. 3. Allo stesso modo disse ai suoi discepoli: In verità vi dico che voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sederà sul trono del suo potere, anche voi sederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele 21. Da questo passo apprendiamo che Gesù giudicherà assieme ai suoi discepoli. Quindi in un'altra circostanza disse ai Giudei: Se io in Belzebub scaccio i demoni, i vostri figli in chi li scacceranno? Perciò essi saranno i vostri giudici 22. E poiché ha detto che sederanno sopra dodici troni non dobbiamo pensare che giudicheranno con lui soltanto dodici individui. Col numero dodici infatti è stata indicata una particolare totalità d'individui che giudicano sulla base delle due componenti del numero sette con cui è espresso frequentemente un tutto. Le due componenti, cioè tre e quattro, moltiplicati fra loro, dànno il dodici; infatti quattro per tre e tre per quattro fanno dodici. Si può dare anche un'altra analisi del numero dodici che valga allo scopo. Altrimenti, poiché al posto di Giuda il traditore, come si legge, fu scelto l'apostolo Mattia 23, l'apostolo Paolo, che si è affaticato più degli altri 24, non avrebbe il trono in cui assidersi per giudicare. Eppure dichiara che anche egli appartiene, assieme agli altri santi, al numero dei giudici, quando afferma: Non sapete che giudicheremo gli angeli? 25. La medesima osservazione sul numero dodici si deve fare per coloro che devono essere giudicati. È stato detto: A giudicare le dodici tribù d'Israele, ma non per questo la tribù di Levi, che è la tredicesima, non dovrà essere giudicata da loro, ovvero giudicheranno soltanto quel popolo e non anche le altre nazioni. Poiché poi ha detto: Nella nuova creazione 26, senza dubbio nel concetto di nuova creazione ha voluto che s'intendesse la risurrezione dei morti. Infatti la nostra carne sarà nuovamente creata mediante la non soggezione al divenire come la nostra anima è stata nuovamente donata all'essere mediante la fede.
Confronto fra le testimonianze scritturistiche.
5. 4. Tralascio molte testimonianze, le quali sull'ultimo giudizio sembrano riferite in modo che, considerate attentamente, appaiono ambigue o piuttosto relative ad altro argomento. Possono, cioè, riferirsi alla venuta del Salvatore con la quale egli viene alla sua Chiesa nel durare di questo tempo, cioè nei suoi membri, uno a uno, di volta in volta, perché tutta intera è il suo corpo; oppure alla devastazione della Gerusalemme terrena perché anche di essa spesso parla come se parlasse della fine del mondo e dell'ultimo universale giudizio. Ne consegue che è possibile discernere soltanto quelle testimonianze che, riferite con un medesimo significato dai tre evangelisti Matteo, Marco e Luca 27, vengono confrontate fra di loro. Difatti uno esprime l'argomento in forma più oscura, l'altro più chiara, sicché si può evidenziare con quale intento si espongono concetti che si esprimono sul medesimo argomento. Ho cercato in qualche modo di ottenere questo risultato in una lettera che ho scritto all'uomo di felice memoria Esichio, vescovo di Salona. La lettera ha per titolo: La fine del mondo 28.
Giudizio e discriminazione in Matteo e Giovanni.
5. 5. Quindi ora esporrò il testo che si ha nel Vangelo di Matteo sulla separazione dei buoni e dei cattivi mediante il giudizio strettamente di persona e finale del Cristo. Egli dice: Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si sederà sul trono della sua gloria e saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra. Allora il Re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Io infatti ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo il Re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete compiuto queste azioni per uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli che saranno alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli 29. Poi egualmente anche ad essi rammenta che non hanno compiuto le opere che, come ho ricordato, hanno compiuto quelli alla destra. Ed egualmente ad essi, i quali chiedono quando lo hanno visto in condizione di indigenza di quelle opere, risponde che ciò che non è stato fatto per i suoi amici più piccoli non è stato fatto per lui. E nel concludere il discorso afferma: E andranno questi al tormento eterno, i giusti alla vita eterna 30. L'evangelista Giovanni poi afferma esplicitamente che egli ha preannunciato il verificarsi del giudizio nella risurrezione dei morti. Ha premesso appunto: Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio affinché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre; chi non onora il Figlio non onora il Padre che lo ha mandato. E subito aggiunge: In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita 31. In questo passo ha detto che i suoi eletti non andranno al giudizio. Dunque essi mediante il giudizio saranno separati dai malvagi e posti alla sua destra perché in questo passo ha usato giudizio in luogo di condanna. Non andranno a un simile giudizio coloro che ascoltano la sua parola e credono a colui che lo ha mandato.
Le due risurrezioni in Giovanni...
6. 1. Quindi soggiunge: In verità, in verità vi dico che è venuto il tempo, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l'avranno ascoltata avranno la vita. Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di avere la vita in se stesso 32. Non parla ancora della seconda risurrezione, cioè del corpo, poiché si avrà alla fine, ma della prima che avviene nel tempo. Per distinguerla ha detto: È venuto il tempo, ed è questo. Essa infatti non è del corpo ma dell'anima. Anche l'anima ha la sua morte mediante la mancanza di fede e i peccati. Sono morti di questa morte coloro di cui il Signore dice: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti 33, nel senso, cioè, che i morti nell'anima seppelliscano i morti nel corpo. E appunto per questi morti nell'anima per mancanza di fede e di onestà egli dice: È venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l'udranno vivranno. In coloro che udranno ha inteso coloro che obbediranno, crederanno e persevereranno fino alla fine. In questo passo non ha indicato alcuna differenza di buoni e cattivi. Per tutti infatti è un bene udire la sua voce e vivere passando alla vita della fede dalla morte della mancanza di fede. Di questa morte ha detto l'apostolo Paolo: Quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro 34. Dunque tutti sono morti, nessuno escluso, nel peccato tanto originale che volontario o perché ignorano o perché, pur sapendo, non operano il bene. E per tutti i morti è morto un solo vivo che, cioè, non aveva assolutamente alcun peccato affinché coloro, che vivono mediante la remissione, non vivano più per se stessi ma per colui che è morto per tutti a causa dei nostri peccati ed è risuscitato per la nostra giustificazione 35. Questo affinché tutti noi, credendo in lui che redime l'incredulo 36, riscattati dalla incredulità, quasi restituiti alla vita dalla morte, potessimo appartenere alla prima risurrezione che avviene nel tempo. Alla prima infatti non appartengono se non coloro che saranno felici nell'eternità; ed egli insegnerà che alla seconda, di cui sta per parlare, fanno parte i felici e gli infelici. L'attuale è della misericordia, l'altra del giudizio. Per questo in un Salmo è stato scritto: Ti canterò, Signore, misericordia e giudizio 37.
... e i due giudizi, uno di condanna.
6. 2. Riguardo a tale giudizio aggiunge le parole: E gli ha dato il potere di giudicare perché è il Figlio dell'uomo 38. Nel passo lascia intendere che verrà per giudicare nella medesima carne in cui era venuto per essere giudicato. Nell'intento dice: Poiché è il Figlio dell'uomo. E soggiungendo sull'argomento di cui trattiamo dice: Non vi meravigliate di questo, poiché verrà il tempo in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno, quelli che operarono il bene per una risurrezione di vita, quelli che operarono il male per una risurrezione di giudizio 39. È il concetto di giudizio che poco prima, come adesso, aveva usato per condanna. Disse infatti: Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita 40. Difatti, poiché appartiene alla prima risurrezione, con cui nel tempo si passa dalla morte alla vita, non andrà incontro alla condanna che ha indicato col termine di giudizio, come anche nel passo in cui dice: Coloro che hanno operato il male andranno incontro alla risurrezione del giudizio, cioè alla condanna. Risorga nella prima risurrezione chi non vuole essere condannato nella seconda. Infatti viene un tempo, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e coloro che l'avranno ascoltato vivranno 41, cioè non andranno incontro alla condanna che è considerata la seconda morte. In essa, dopo la seconda risurrezione, che sarà dei corpi, andranno a finire coloro che non risorgono nella prima che è delle anime. Infatti dice ancora: Verrà un tempo dunque, in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno 42. Non ha detto secondo il modo della prima risurrezione: E coloro che l'ascolteranno vivranno. Infatti non tutti vivranno di quella vita che sola si deve considerare vita perché è felice. Certamente non senza una qualche vita potrebbero udire e, poiché la carne è risuscitata, uscire dai sepolcri. Indica la ragione per cui non tutti vivranno con le parole che seguono: Coloro che hanno operato il bene, egli dice, andranno nella risurrezione della vita; sono questi quelli che vivranno; coloro poi che hanno operato il male andranno nella risurrezione del giudizio 43; ed essi sono coloro che non vivranno poiché moriranno della seconda morte. Hanno operato il male perché sono vissuti male; sono vissuti male perché non sono rivissuti nella prima risurrezione delle anime, che è nel tempo, o anche non hanno perseverato fino alla fine nella condizione in cui erano. Due sono dunque le nuove creazioni, di cui ho già parlato, una secondo la fede che avviene nel tempo mediante il battesimo; l'altra secondo la carne che avverrà con la sua immortalità, fuori del divenire mediante l'universale, ultimo giudizio. Così si hanno due risurrezioni, una prima che è nel tempo ed è dell'anima, ed essa non consente di giungere alla seconda morte; e una seconda che non è nel tempo, ma sarà alla fine del tempo, e non è dell'anima ma del corpo ed essa, attraverso il giudizio finale, introduce alcuni alla seconda morte, altri a quella vita che non ha morte.
Un passo dell'Apocalisse e i millenaristi.
7. 1. Giovanni evangelista ancora, nel libro intitolato l'Apocalisse, ha parlato delle due risurrezioni in termini tali che la prima di esse, non compresa da alcuni dei nostri, è stata anche per di più volta in favole grottesche. Dice appunto nel libro menzionato l'apostolo Giovanni: Ho visto poi un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell'abisso e una gran catena in mano. Afferrò il dragone, il serpente antico, soprannominato il diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni, lo gettò nell'abisso, ve lo chiuse e ne sigillò la porta affinché non traesse più in errore le nazioni fino al compimento di mille anni; dopo questi avvenimenti dovrà essere sciolto per un po' di tempo. Poi ho visto alcuni troni e alcuni che vi si sedettero e fu dato il potere di giudicare. E le anime degli uccisi a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio e coloro che non hanno adorato la bestia e la sua statua e non hanno ricevuto il marchio sulla fronte o sulla mano regnarono con Gesù mille anni; gli altri non tornarono in vita fino al compimento dei mille anni. Questa è la prima risurrezione. Beato e santo chi ha parte in questa prima risurrezione. Su di essi non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni 44. Coloro, che sulla base delle parole di questo libro hanno congetturato che la prima risurrezione sarà dei corpi, sono stati spinti soprattutto dal numero di mille anni. Sembrò loro opportuno che nei santi in quella condizione avvenisse la celebrazione del sabato di un sacrale grande periodo di tempo, cioè con un periodo di riposo dopo seimila anni, da quando è stato creato l'uomo e per la pena del grande peccato fu espulso dalla felicità del paradiso nelle tribolazioni dell'attuale soggezione alla morte. Poiché si ha nella Scrittura: Un solo giorno nel Signore come mille anni e mille anni come un sol giorno 45, passati seimila anni come sei giorni, dovrebbe seguire il settimo del sabato negli ultimi mille anni per celebrare, cioè, il sabato con la risurrezione dei santi. L'opinione sarebbe comunque ammissibile se in quel sabato fosse riservato ai santi qualche godimento spirituale. Anch'io una volta ho avuto questa opinione. Ma essi dicono che coloro, i quali risusciteranno in quel tempo, attenderanno a sfrenate orge carnali, nelle quali sarebbe così abbondante il cibo e le bevande non solo da violare la moderazione, ma da sorpassare perfino la misura dell'incredibile. Ma queste storie possono essere credute soltanto dai carnali. Gli spirituali definiscono coloro che le credono con la parola greca
che noi, derivando parola da parola, potremmo denominare i "millenaristi". È lungo ribatterli dettagliatamente; piuttosto dobbiamo esporre come si deve interpretare questo passo della Scrittura.
Simbologia del numero mille.
7. 2. Lo stesso Signore Gesù Cristo dice: Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rubare i suoi arnesi se prima non ha incatenato l'uomo forte 46. Per forte ha voluto intendere il diavolo, perché ha potuto tenere prigioniero il genere umano, e per gli arnesi, che avrebbe sottratto, Gesù ha inteso i suoi futuri credenti che quegli teneva avvinti nelle varie azioni immorali. Affinché dunque quest'essere forte fosse incatenato, il suddetto Apostolo nell'Apocalisse vide un angelo che scendeva dal cielo con la chiave dell'abisso e una gran catena in mano. Afferrò - soggiunge - il dragone, il serpente antico, soprannominato il diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni 47, cioè represse e frenò il suo potere di sedurre e dominare coloro che dovevano essere liberati. I mille anni si possono interpretare, per quanto mi risulta, in due sensi. Il primo è che questo evento si verifica negli ultimi mille anni, cioè nel sesto millennio, quale sesto giorno, del quale attualmente scorrono le fasi di successione. Seguirà poi il sabato che non ha sera, cioè il riposo dei santi che non ha fine. In tal senso avrebbe denominato mille anni l'ultima parte della serie di millenni, come giorno che rimaneva fino al termine della serie dei tempi, con quel modo figurato di parlare per cui la parte è significata dal tutto. Ovvero in un altro senso ha usato i mille anni in luogo di tutti gli anni della serie dei tempi, in modo che in un numero perfetto si avvertisse il tutto del tempo. Il numero mille infatti rende cubo il quadrato del numero dieci. Dieci per dieci appunto fanno cento che è già una figura quadrata ma bidimensionale; affinché si levi in altezza e diventi solida di nuovo cento si moltiplica per dieci e si ha mille. Inoltre il numero cento talora si usa per indicare un tutto come quando il Signore ha promesso a chi abbandona tutti i suoi beni e lo segue: Avrà in questo tempo cento volte tanto 48. L'Apostolo, interpretando in un certo senso questo passo, dice: Come se non avessimo nulla e possediamo tutto 49. Già prima era stato detto: Tutto il mondo della ricchezza è dell'uomo di fede 50. A più forte ragione il mille si usa per un tutto poiché è il solido del quadrato di dieci. Si spiega anche più chiaramente il passo di un Salmo: Si ricorda per sempre della sua alleanza, della parola che ha rivolto a mille generazioni 51, cioè a tutte.
Il diavolo incatenato nell'abisso...
7. 3. Continua: E lo gettò nell'abisso, senza dubbio gettò il diavolo nell'abisso, parola con cui è stato indicato il numero incalcolabile degli increduli perché il loro cuore è senza fondo nella malvagità contro la Chiesa di Dio. Certamente il diavolo era già nell'abisso, ma si afferma appunto che vi fu gettato perché, respinto dai credenti, iniziò a dominare più fortemente gli increduli. È più dominato dal diavolo infatti chi non solo è estraniato da Dio, ma anche senza motivo odia coloro che a lui si dedicano. Continua: Ve lo rinchiuse e ne sigillò la porta affinché non inducesse più in errore i popoli fino al compimento di mille anni 52. Ve lo rinchiuse è detto nel senso che gli rese impossibile, cioè, di oltrepassare il termine vietato. Mi pare che con l'aggiunta: E ne sigillò la porta volle che si ignorassero coloro che sono dalla parte del diavolo e coloro che non vi sono. Il fatto in questo mondo è interamente nascosto perché è incerto se chi sembra che stia in piedi non cada e chi sembra che sia a terra non si rialzi 53. Con la catena e la spranga di questo divieto il diavolo è potentemente impedito dall'indurre in errore i popoli, che prima induceva in errore e dominava sebbene appartenessero al Cristo. Dio infatti li ha scelti prima della creazione del mondo per sottrarli dal potere delle tenebre 54 e trasferirli nel Regno del Figlio del suo amore 55, come dice l'Apostolo. Il credente non ignora che anche ora egli induce in errore i popoli e li trascina alla pena eterna, ma se non predestinati alla vita eterna. Non turbi il fatto che spesso il diavolo induca in errore anche coloro che, già rigenerati in Cristo, percorrono le vie di Dio. Il Signore, infatti, conosce i suoi 56, e quegli non induce in errore alcuno di loro verso l'eterna condanna. Il Signore li conosce come Dio, al quale non è nascosto nulla neanche del futuro, non come un uomo che conosce l'uomo al presente, seppure lo conosce, perché non ne conosce il sentimento e non conosce neanche se stesso come sarà nel futuro. Per questo dunque il diavolo è stato incatenato e chiuso nell'abisso affinché non induca più in errore i popoli, da cui è costituita la Chiesa, perché prima che fossero la Chiesa, li traeva in errore. Non è stato detto: Affinché non traesse in errore qualcuno, ma: Affinché non traesse in errore i popoli, nei quali certamente ha voluto indicare la Chiesa. Fino - soggiunge - al compimento di mille anni, cioè, o ciò che rimane del sesto giorno, il quale si compie con mille anni, ovvero tutti gli anni con i quali il tempo deve svolgersi nella successione.
... affinché non tragga in errore i popoli.
7. 4. Affinché non traesse in errore i popoli fino al compimento di mille anni 57 non si deve interpretare nel senso che poi trarrà in errore soltanto i popoli, dai quali è composta la Chiesa della predestinazione, perché egli dalla catena e dalla spranga è stato impedito di trarli in errore. Ma o è un particolare modo d'esprimersi che ricorre talora nella Bibbia, come in un Salmo: Così i nostri occhi al Signore nostro Dio finché abbia pietà di noi 58; infatti non significa che quando avrà avuto pietà, gli occhi dei suoi servi non saranno rivolti al Signore loro Dio. Ovvero è questa la serie delle parole: E lo rinchiuse e ne sigillò la porta fino al compimento di mille anni. La frase interposta: Affinché non traesse più in errore i popoli ha un significato tale che è libera dal contesto e da intendersi separatamente, come se fosse aggiunta alla fine, in modo che l'intera espressione suoni così: E lo rinchiuse e ne sigillò la porta fino al compimento di mille anni affinché non traesse più in errore i popoli, cioè: ve lo chiuse appunto finché si compissero i mille anni, affinché egli non traesse più in errore i popoli.
Il diavolo incatenato e la Chiesa.
8. 1. Continua: Dopo questi avvenimenti dovrà essere sciolto per un po' di tempo 59. Se per il diavolo essere incatenato e rinchiuso significa non trarre in errore la Chiesa, il suo scioglimento significa che lo potrà? No, giammai la Chiesa, predestinata ed eletta prima della creazione del mondo 60, sarà da lui condizionata all'errore poiché di essa è stato detto: Il Signore conosce i suoi 61. E tuttavia essa sarà nel mondo anche in quel tempo in cui il diavolo dovrà essere slegato, come è stata e sarà nel mondo in ogni tempo, da quando è stata istituita, evidentemente nei suoi fedeli che succedono col nascere a quelli che muoiono. Poco dopo infatti soggiunge che il diavolo liberato istigherà alla guerra contro di essa i popoli tratti in errore in tutto il mondo, e il numero dei nemici sarà come la sabbia del mare. Dice: Marciarono su tutta la superficie della terra e cinsero d'assedio l'accampamento dei santi e la città diletta, ma un fuoco scese dal cielo da Dio e li distrusse; e il diavolo, che li aveva indotti in errore, fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta; e saranno tormentati giorno e notte per sempre 62. Questo evento perciò concerne l'ultimo giudizio, ma ho pensato di richiamarlo in questo punto affinché non si pensi che in quel breve tempo, in cui il diavolo sarà slegato, sulla terra non vi sarà più la Chiesa, perché non ve la troverà quando sarà slegato o perché la scompaginerà, perseguitandola con tutti i mezzi. Ciò non significa che il diavolo sarà legato per tutto il tempo, che il libro dell'Apocalisse include, cioè dalla prima venuta del Cristo sino alla fine del tempo, che sarà la sua seconda venuta, in maniera che il suo incatenamento, per lo spazio definito di mille anni, consista nel non indurre in errore la Chiesa, perché anche slegato non potrà certamente indurla in errore. Se infatti per lui l'essere legato significa non avere possibilità o consenso d'indurla in errore, l'essere slegato non significherebbe altro che avere possibilità o consenso per indurla in errore. Non sia mai! L'incatenamento del diavolo significa che non gli è consentito impiegare ogni forma di tentazione che può, con la violenza o con l'inganno, per trarre gli uomini dalla sua parte o costringendoli con la violenza o ingannandoli con la menzogna. Se gli fosse permesso in sì lungo tempo e per la grande debolezza di molti, prostrerebbe, se già credono, e impedirebbe di credere moltissimi che sono tali quali Dio non permette che subiscano questo male. Perché non lo faccia è stato incatenato.
Dio e il diavolo slegato.
8. 2. Sarà slegato quando si avrà un breve periodo di tempo, poiché si legge nella Scrittura che assalirà con le proprie forze e con quelle dei suoi adepti per tre anni e sei mesi 63, e quando saranno tali quelli con cui dovrà combattere che non potranno essere sconfitti dal suo attacco e agguato. Se non fosse mai slegato, si manifesterebbe di meno il suo potere ostile, sarebbe meno sperimentato il fedelissimo coraggio della città santa e poi sarebbe meno evidenziato quanto bene l'Onnipotente si sia valso della grande malizia di lui. Egli non gli ha completamente impedito di tentare i santi, sebbene estromesso dalla loro coscienza, con la quale si crede in Dio, affinché traessero profitto dal suo attacco all'esterno. Dio lo ha poi legato in quelli che sono dalla sua parte affinché non ostacolasse, impiegando la maggiore malizia possibile, le tante persone deboli, da cui si deve accrescere e completare la Chiesa, alcuni vicini a credere, altri già credenti, distogliesse cioè i primi dalla fede religiosa e fiaccasse gli altri. Lo scioglierà alla fine affinché la città di Dio osservi quale forte avversario ha superato a infinita gloria del suo redentore, soccorritore, liberatore. A confronto di quei santi e fedeli che vivranno allora, noi che cosa siamo? Infatti per sottoporli a prova sarà slegato un sì gran nemico col quale noi, sebbene legato, ci battiamo tra tanti pericoli. Però non v'è dubbio che anche in questo intervallo di tempo alcuni soldati di Cristo sono stati e sono prudenti e coraggiosi. Quindi anche se vivessero nella soggezione alla morte in quel tempo, in cui quegli sarà slegato, eviterebbero con grande prudenza i suoi agguati e sosterrebbero con grande coraggio i suoi attacchi.
Il diavolo legato e slegato e i fedeli.
8. 3. L'incatenamento del diavolo non solo fu in atto da quando la Chiesa ha cominciato a diffondersi oltre la Giudea in varie nazioni, ma è in atto e sarà in atto fino al termine del tempo, quando dovrà essere slegato. Anche attualmente infatti gli uomini dalla condizione d'infedeli, nella quale li dominava, si convertono alla fede e si convertiranno senza dubbio fino a quel termine; e certamente per ciascuno questo forte sarà legato quando l'uomo, quasi fosse una sua proprietà, gli sarà sottratto. L'abisso poi, in cui fu chiuso, non fu ripieno, dopo la loro morte, con quelli che vivevano quando vi fu chiuso all'inizio, ma ad essi si sono susseguiti altri venendo al mondo e, finché abbia termine il tempo, si susseguono coloro che odiano i cristiani, ed egli continuamente viene chiuso nei loro cuori ciechi senza fondo come in un abisso. L'ipotesi poi che negli ultimi tre anni e sei mesi, quando, slegato, incrudelirà con tutte le forze, qualcuno verrà alla fede che non aveva, è un interrogativo di rilievo. È stato scritto: Come può uno entrare nella casa di un forte per rapire gli arnesi se prima non lo avrà legato? 64. Questo quesito non avrà senso se, anche slegato, gli sono rapiti. Sembra quindi che un tale pensiero induca a credere che in quello spazio di tempo, quantunque breve, nessuno può aderire al popolo cristiano ma che il diavolo si batterà con quelli che sono riconosciuti cristiani; ed anche se alcuni di loro sconfitti lo seguiranno, non appartengono al numero predestinato dei figli di Dio. Non senza motivo lo stesso apostolo Giovanni, autore della citata Apocalisse, in una sua lettera afferma di alcuni: Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri, perché se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi 65. Ma che avverrà dei bambini? È veramente incredibile che non siano coinvolti figli di cristiani, già nati e non ancora battezzati, perché in quel tempo ancora in età infantile, e che altri non nascano in quei giorni; o se vi saranno, che non siano condotti in qualche modo dai genitori al lavacro di rigenerazione. Se avverrà, in che modo questi suoi arnesi sono rapiti al diavolo già slegato, giacché nessuno entra nella sua casa per rapirgli gli arnesi se prima non lo avrà legato? Al contrario si deve piuttosto credere che in quel tempo non mancheranno quelli che si allontaneranno dalla Chiesa e quelli che vi aderiranno. Certamente i genitori saranno così forti per battezzare i piccoli e forti anche coloro che professeranno la fede per la prima volta affinché sconfiggano quel forte sebbene non incatenato, affinché, cioè, avvistino con la prudenza e respingano con la fortezza lui che insidia con tutte le astuzie e assale con tutte le forze, quali prima non aveva usato, e così si sottraggano a lui sebbene non incatenato. Non per questo è falso questo pensiero del Vangelo: Come può entrare uno nella casa di un forte per rapire i suoi arnesi, se prima non lo avrà legato? Stando al vero significato del suo pensiero la regola è stata rispettata nel senso che è stata ampliata la Chiesa, essendo stato legato il forte e rapiti i suoi arnesi, fra tutti i popoli in ogni direzione da uomini robusti e deboli. Così essa, con la stessa fede incrollabile di eventi preannunziati e realizzati per volere di Dio, può sottrarre gli arnesi al diavolo quantunque slegato. Si deve ammettere però che languisce la carità di molti 66 quando sovrabbonda la malvagità e che molti, poiché non sono scritti nel libro della vita, si arrenderanno alle persecuzioni di inaudita ferocia e alle insidie del diavolo ormai slegato. Così si deve ammettere che quanti sono buoni fedeli e alcuni che sono ancora fuori, con l'aiuto della grazia di Dio e mediante l'attenzione alla sacra Scrittura, in cui sono preannunziati altri eventi e la fine, che avvertono vicina, saranno più costanti nel credere quel che non credevano e più forti nel vincere il diavolo sebbene non legato. Se così avverrà, si deve pensare che il suo incatenamento è avvenuto prima affinché seguisse la sua spoliazione, legato o slegato che fosse, poiché sull'argomento è stato detto: Come può entrare uno nella casa di un forte per rapire i suoi arnesi se prima non l'avrà legato?
Doppio significato del regno dei cieli.
9. 1. Frattanto, mentre il diavolo è incatenato per mille anni, i santi regnano con Cristo anch'essi per mille anni, da intendere senza dubbio identici agli altri e con identico significato, cioè nel tempo della sua prima venuta. Non si tratta infatti di quel regno, del quale alla fine si dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il Regno preparato per voi 67. Se in un determinato altro senso, assai diverso, non regnassero con lui nel tempo i suoi santi, perché dice ad essi: Da questo momento io sono con voi fino alla fine del tempo 68, la Chiesa, sempre nel tempo, non si considererebbe suo regno o regno dei cieli. Certamente, mentre scorre il tempo, viene istruito quello scriba di cui ho parlato poco fa 69, il quale estrae dal suo forziere cose nuove e cose vecchie; e dalla Chiesa i mietitori devono raccogliere le erbacce che egli ha permesso crescessero insieme al grano fino alla mietitura. Esponendo questo concetto ha detto: La mietitura è la fine del tempo, i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccolgono le erbacce e si bruciano col fuoco, così avverrà alla fine del tempo; il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali 70; dunque non dal regno in cui non vi sono scandali. Saranno dunque raccolti dal suo regno che nel tempo è la Chiesa. Allo stesso modo dice: Chi dunque dichiarerà abrogato uno solo di questi precetti, anche i più piccoli, e insegnerà così agli uomini, sarà considerato il più piccolo nel regno dei cieli; chi invece li osserverà e così insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli 71. Afferma che l'uno e l'altro sono nel regno dei cieli, tanto e chi non osserva i precetti che insegna, poiché dichiararli abrogati significa non osservare, non compiere, come e chi li osserva e così insegna, ma quello il più piccolo, costui grande. E subito soggiunge: Vi dico che se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei 72, cioè di coloro che dichiarano abrogato ciò che insegnano. In un altro passo dice infatti dei farisei: Dicono e non osservano 73. Dunque se la vostra giustizia non sorpasserà la loro, cioè che voi non abroghiate ma osserviate quel che insegnate, non entrerete - dice - nel Regno dei cieli 74. In un senso dunque si deve intendere il Regno dei cieli, in cui vi sono tutti e due, chi dichiara abrogato ciò che insegna e chi lo osserva, ma quello il più piccolo, costui grande; e in un altro senso s'intende il regno dei cieli in cui non entra se non chi osserva. Perciò, quando si ha l'una e l'altra specie, si ha la Chiesa qual è nel tempo, quando se ne ha una sola si ha la Chiesa quale sarà allorché non vi sarà più il cattivo. Pertanto anche nel tempo la Chiesa è regno di Cristo e regno dei cieli. Anche nel tempo regnano con lui i suoi santi ma in modo diverso da come regneranno alla fine e con lui non regnano le erbacce, sebbene nella Chiesa crescano assieme al frumento 75. Regnano con lui coloro che eseguono ciò che dice l'Apostolo: Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù non a quelle della terra 76. Di essi dice anche che il loro modo di vivere è nei cieli 77. Infine regnano con lui quelli che vissero in tal modo nel suo regno da essere essi stessi il suo regno. Ma in che modo sono regno di Cristo coloro che, per non dire altro, sebbene sono nella Chiesa, finché si svellano alla fine del tempo dal suo regno tutti gli scandali, tuttavia vi cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo?
Ministero sacerdotale per vivi e defunti.
9. 2. Il libro dell'Apocalisse parla dunque di questo regno di servizio in armi, in cui si è ancora in conflitto con il nemico e talora si resiste ai vizi che assalgono, talora si ha il dominio su di essi che si arrendono fino a che si giunga a quel regno di grande pace, in cui si regnerà senza nemico; parla anche della prima risurrezione che avviene nel tempo. Infatti dopo aver detto che il diavolo è incatenato per mille anni e che poi sarà slegato per breve tempo, compendiando quel che nei mille anni compie la Chiesa o si compie in essa, dice: E vidi dei troni e coloro che vi sedevano e fu dato il potere di giudicare 78. Non si deve pensare che la frase si riferisca all'ultimo giudizio, ma in essa si devono intendere i troni dei capi e i capi stessi, ai quali è affidato il governo della Chiesa nel tempo. Ed è evidente che il conferimento del potere di giudicare non è espresso meglio che con quel che è stato detto: Ciò che legherete sulla terra sarà legato anche in cielo e ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo 79. Perciò dice l'Apostolo: Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? 80. Continua l'Apocalisse: E le anime degli uccisi a causa della testimonianza di Gesù e della parola di Dio 81; si sottintende quello che dice di seguito: Regnarono con Cristo mille anni, cioè le anime dei martiri non ancora restituite al proprio corpo. Infatti le anime dei fedeli defunti non sono separate dalla Chiesa che anche nel tempo è il regno di Cristo. Altrimenti anche all'altare di Dio non si farebbe la loro memoria in comunione col corpo di Cristo; e non gioverebbe in pericolo di morte ricevere il battesimo affinché questa vita non termini senza di esso e neanche ottenere la riconciliazione, se per caso si è separati dal corpo di Cristo a causa della penitenza pubblica o della coscienza in peccato. Si compiono questi riti appunto perché i fedeli anche defunti sono sue membra. Dunque sebbene non ancora nel corpo, tuttavia la loro anima già regna con lui, mentre decorrono i mille anni. Nel medesimo libro e in altri si legge: Beati i morti che muoiono nel Signore. D'ora innanzi, dice lo Spirito, affinché riposino dalle loro fatiche perché le loro opere li seguono 82. Dapprima dunque regna nel tempo con Cristo la Chiesa nei vivi e nei morti. Dice l'Apostolo: Per questo è morto Cristo, per essere il Signore dei vivi e dei morti 83. Ma l'Apocalisse ha menzionato soltanto l'anima dei martiri; essi infatti soprattutto regnano da morti perché hanno lottato per la verità fino alla morte. Ma come da una parte il tutto, comprendiamo che anche gli altri morti appartengono alla Chiesa che è il regno di Cristo.
La bestia simbolo del paganesimo.
9. 3. Dobbiamo intendere congiuntamente dei vivi e dei morti la frase che segue: E coloro che non hanno adorato la bestia e la sua statua e non hanno ricevuto il marchio sulla fronte o sulla mano 84. Sebbene sia da indagare più attentamente quale sia questa bestia, tuttavia non contrasta con la retta fede che s'interpreti come la stessa città pagana e il popolo dei pagani contrario al popolo cristiano e alla città di Dio. La sua statua a me sembra la sua finzione in quegli individui che professano la fede e vivono da pagani. Fingono di essere quel che non sono e sono considerati cristiani non in un vero ritratto ma in una rappresentazione ingannevole. Alla medesima bestia appartengono infatti non soltanto quelli che sono apertamente nemici del nome di Cristo e della sua città molto gloriosa, ma anche le erbacce che alla fine del tempo devono essere estirpate dal suo regno che è la Chiesa 85. E coloro che non adorano la bestia e la sua immagine sono certamente coloro che eseguono ciò che dice l'Apostolo: Non siate di coloro che portano il giogo con gli infedeli 86. Non adorano infatti significa: non concordano, non si assoggettano; non ricevono il marchio, cioè il contrassegno della colpa; nella fronte per la dottrina che professano; sulla mano per le opere che compiono. Dunque liberi da simili mali, tanto se vivono ancora nella soggezione alla morte o, se già morti, regnano con Cristo fin d'ora in una forma conveniente a questo tempo per tutto il periodo indicato con i mille anni.
Due vite e due morti.
9. 4. Soggiunge: Gli altri non tornarono in vita 87. Infatti è questo il momento in cui i morti odono la voce del Figlio di Dio e quelli che l'udranno torneranno in vita 88. Gli altri dunque non torneranno in vita. L'aggiunta: Fino al compimento di mille anni si deve interpretare nel senso che non tornarono in vita nel tempo in cui dovevano, passando, cioè, dalla morte alla vita. Perciò quando giungerà il giorno, in cui avviene la risurrezione dei corpi, non passeranno dai sepolcri alla vita, ma al giudizio, cioè alla condanna che è considerata la seconda morte. Chi non sarà tornato in vita fino al compimento dei mille anni, cioè non avrà udito la voce del Figlio di Dio e non sarà passato dalla morte alla vita per tutto il tempo in cui avviene la prima risurrezione, certamente nella seconda risurrezione, che è della carne, passerà alla seconda morte con la carne stessa. Prosegue infatti e dice: Questa è la prima risurrezione: beato e santo chi ha parte in questa prima risurrezione 89, cioè ne sarà partecipe. Ne sarà partecipe non solo se torna in vita dalla morte, che si ha nel peccato, ma persisterà nello stato in cui è tornato in vita. Su di essi - dice - non ha potere la seconda morte 90. Lo ha quindi sugli altri, dei quali precedentemente ha detto: Gli altri non tornarono in vita fino al compimento di mille anni 91. Difatti in tutto questo periodo di tempo, che considera di mille anni, chiunque, per quanto a lungo sia vissuto nel corpo, non è tornato in vita dalla morte, in cui lo tratteneva la mancanza di fede, affinché, tornando in vita in questo senso, divenisse partecipe della prima risurrezione e in lui non avesse potere la seconda morte.
Anche le anime risorgono.
10. Alcuni pensano che soltanto ai corpi è possibile applicare il concetto di risurrezione e perciò sostengono che anche la prima sarà di essi. A chi spetta il cadere, dicono, spetta anche il rialzarsi. Ora i corpi cadono con la morte e dal loro cadere si denominano cadaveri. Quindi, soggiungono, la risurrezione non può essere delle anime ma dei corpi. Ma costoro che cosa ribattono contro l'Apostolo 92 che la chiama risurrezione? Erano risorti nell'uomo interiore e non in quello esteriore coloro ai quali dice: Se siete risorti con Cristo, gustate le cose di lassù 93. Ha espresso il medesimo significato in un altro passo con parole diverse quando dice: Affinché, come Cristo è risorto dai morti nella gloria del Padre, così anche noi ci poniamo in cammino in una nuova vita 94. Ne consegue anche questo pensiero: Svegliati tu che dormi e rialzati dalla morte e Cristo ti illuminerà 95. E riguardo alla loro teoria, che possono rialzarsi soltanto quelli che cadono e perciò la risurrezione spetta ai corpi e non alle anime, perché il cadere è proprio dei corpi, ascoltino: Non allontanatevi da lui per non cadere 96; e: Sta in piedi o cade per il suo Signore 97; e: Chi pensa di stare in piedi eviti di cadere 98. Penso che una simile caduta si debba evitare nell'anima e non nel corpo. Se dunque la risurrezione è di coloro che cadono, ed anche le anime cadono, si deve ammettere che anche le anime si rialzano. Il brano dell'Apocalisse: In essi la seconda morte non ha potere; e la frase che segue: Ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui mille anni 99, non riguardano soltanto i vescovi e i preti, sebbene ormai nella Chiesa in senso proprio essi sono considerati sacerdoti. Come però a causa dell'unzione sacramentale consideriamo tutti i fedeli unti del Signore, consideriamo sacerdoti tutti i fedeli perché sono membra dell'unico Sacerdote. Di essi dice l'apostolo Pietro: Stirpe santa, sacerdozio regale 100. Con criterio, sebbene in breve e di passaggio, l'Apocalisse propone che il Cristo è Dio con le parole: Sacerdoti di Dio e del Cristo, cioè del Padre e del Figlio. Tuttavia nella condizione di servo 101, in quanto Figlio dell'uomo, Cristo è divenuto anche sacerdote per sempre secondo l'ordine di Melchisedec 102. Dell'argomento ho trattato più volte in quest'opera 103.
Gog e Magog e l'ultima persecuzione.
11. L'Apocalisse continua: E quando i mille anni saranno compiuti Satana sarà liberato dal suo carcere e uscirà per trarre in errore i popoli che sono ai quattro punti cardinali della terra, Gog e Magog, e li condurrà in guerra; il loro numero è come l'arena del mare 104. Dunque alla fine li trarrà in errore allo scopo di condurli alla guerra. Anche prima traeva in errore, nei modi in cui poteva, attraverso numerosi e svariati atti di malvagità. Uscirà significa che balzerà dai nascondigli dell'odio in aperta persecuzione. Sarà, nell'imminenza dell'ultimo giudizio, l'ultima persecuzione che in tutto il mondo subirà la Chiesa, cioè tutta la città di Cristo da tutta la città del diavolo, qualunque sia l'estensione dell'una e dell'altra sulla terra. Questi popoli, che denomina Gog e Magog, non si devono intendere come popoli non civili, stanziati in una parte della terra, ovvero i Geti e Massageti, come alcuni suppongono, a causa della lettera iniziale del loro nome, ovvero altri stranieri non associati al diritto romano. Con la frase: Popoli esistenti ai quattro punti cardinali della terra è stato indicato che essi sono in tutto il mondo ed ha soggiunto che essi sono Gog e Magog. Apprendiamo che come significato dei nomi Gog corrisponde a "tetto", e Magog "dal tetto", cioè come casa e chi esce di casa. Dunque sono i popoli nei quali precedentemente abbiamo inteso che era rinchiuso il diavolo come in un abisso ed è lui che in certo senso da essi si svincola ed esce, in modo che essi sono il tetto ed egli dal tetto. Se poi applichiamo l'uno e l'altro ai popoli, non uno a loro e l'altro al diavolo, essi sono il tetto perché nel tempo egli è rinchiuso in essi e in certo senso vi è occultato il nemico antico; ed essi saranno dal tetto, allorché dal coperto balzeranno fuori in un odio aperto. Con la frase: E marciarono su tutta la superficie della terra e assediarono l'accampamento dei santi e la città diletta 105, non si afferma che sono venuti o verranno a un solo luogo, come se in un solo determinato luogo vi siano l'accampamento dei santi e la città diletta. Questa infatti non è altro che la Chiesa di Cristo diffusa in tutto il mondo. Perciò dovunque essa sarà alla fine, poiché sarà estesa a tutti i popoli, concetto che è stato indicato con il termine "superficie della terra", ivi sarà l'accampamento dei santi, ivi sarà la diletta città di Dio, ivi con la mostruosità di quella persecuzione sarà assediata da tutti i suoi nemici poiché anche essi saranno con lei fra tutti quei popoli. Sarà cioè avvinghiata, stretta, compressa nell'angustia della sofferenza e non abbandonerà la sua difesa armata che è stata espressa con il concetto di accampamento.
Il fuoco dal cielo e la fermezza dei santi.
12. Non si deve pensare che nella frase: E discese un fuoco dal cielo e li divorò 106 sia indicato il definitivo tormento che si avrà quando si dirà: Via da me, maledetti, nel fuoco eterno! 107. Allora essi saranno immersi nel fuoco e non verrà su di essi un fuoco dal cielo. Nel passo s'interpreta bene il fuoco dal cielo con la fermezza dei santi, per cui non si piegheranno ai persecutori per eseguire la loro volontà. Cielo è infatti il firmamento e a causa della sua fermezza i nemici saranno tormentati da uno zelo bruciante poiché non potranno attirare i santi di Cristo alla parte dell'Anticristo. Sarà questo il fuoco che li divorerà, ed esso è da Dio, poiché per dono di Dio i santi diventano invincibili e i nemici ne sono tormentati. Come infatti lo zelo è proposto nel bene: Lo zelo della tua casa mi ha divorato 108, così al contrario: Lo zelo ha invaso il popolo rozzo ed ora un fuoco divorerà gli avversari 109. Ed ora appunto, escluso cioè il fuoco dell'ultimo giudizio. Oppure supponiamo che abbia considerato come fuoco che viene dal cielo e li divorerà quel tormento da cui saranno colpiti i persecutori della Chiesa che, alla venuta di Cristo, egli troverà ancora in vita sulla terra, quando ucciderà l'Anticristo con un soffio della sua bocca 110. Anche in tale ipotesi questo non sarà l'ultimo tormento dei reprobi, ma quello che soffriranno, avvenuta la risurrezione dei corpi.
Computo dei mille anni e dei tre e mezzo.
13. Quest'ultima persecuzione, che sarà attuata dall'Anticristo, come è stato già detto 111, perché se ne è parlato precedentemente anche nel libro dell'Apocalisse 112, e nel profeta Daniele 113, durerà tre anni e sei mesi. Giustamente si controverte se questo periodo, quantunque breve, appartenga ai mille anni, durante i quali, come dice l'Apocalisse, il diavolo è incatenato e i santi regnano con Cristo, o se questo breve tempo si aggiunga a quegli anni e sia uno di più. Infatti se affermeremo che appartengono agli stessi anni, si riscontrerà che il regno dei santi con Cristo non dura il medesimo tempo ma si amplia in un periodo più lungo di quello in cui il diavolo è incatenato. Ovviamente i santi regneranno con il loro Re soprattutto durante la stessa persecuzione per vincere i numerosi atti di malvagità, quando il diavolo non sarà più incatenato sicché potrà perseguitarli con tutte le sue forze. In che senso dunque questo brano della Bibbia assegna ai mille anni l'uno e l'altro evento, cioè l'incatenamento del diavolo e il regno dei santi dal momento che, nello spazio di tre anni e sei mesi, cessa prima l'incatenamento del diavolo che il regno dei santi con Cristo durante questi mille anni?. Supponiamo che il breve periodo di questa persecuzione non sia computato con i mille anni, ma sia da aggiungere al loro compimento in modo che s'intenda in senso proprio la premessa: I sacerdoti di Dio e del Cristo regneranno con lui mille anni, e l'aggiunta: E quando i mille anni saranno compiuti, Satana sarà liberato dal suo carcere 114. Con questa lettura il brano esprime che il regno dei santi e la catena del diavolo cesseranno insieme, sicché in seguito il periodo della persecuzione non riguarderà né il regno dei santi né la prigionia di Satana, l'uno e l'altro di mille anni, ma è stato aggiunto ed è fuori computo. Con questa ipotesi saremo costretti ad ammettere che in quella persecuzione i santi non regneranno con Cristo. Ma non si può ammettere che in quel tempo le sue membra non regneranno con lui poiché in maggior numero e con maggiore fortezza saranno uniti a lui in un periodo in cui, quanto è più furioso l'attacco del conflitto, tanto maggiore sarà la gloria di non cedere e tanto più folta la corona del martirio. Ovvero, se a causa dei patimenti che soffriranno non si deve pensare che regneranno, ne conseguirà pure il non dovere intendere che quei santi, i quali erano perseguitati, regnassero con Cristo nel periodo della loro afflizione anche negli spazi di tempo anteriori durante i mille anni. Perciò anche coloro, la cui anima l'autore dell'Apocalisse scrive di aver visto, perché uccisi a causa della testimonianza a Gesù e della parola di Dio, non avrebbero regnato con Cristo, quando soffrivano la persecuzione e anch'essi non sarebbero regno di Cristo, sebbene egli li avesse in retaggio in forma eminente. È un pensiero veramente assurdo e da respingersi incondizionatamente. Certamente le anime vincitrici dei gloriosi martiri, superati e terminati tutti i dolori e sofferenze, dopo aver deposto il corpo soggetto a morire, hanno regnato e regnano con Cristo fino al compimento dei mille anni, affinché in seguito regnino con la riassunzione del corpo non più soggetto a morire. Quindi in questi tre anni e mezzo le anime degli uccisi per la testimonianza a Gesù, tanto quelle che erano già uscite dal corpo come quelle che usciranno a causa dell'ultima persecuzione, regneranno con lui fino a che termini il tempo che causa la morte e si passi in quel regno in cui morte non v'è. Dunque saranno di più gli anni dei santi che regnano con Cristo che quelli della prigionia per incatenamento del diavolo, perché essi regneranno con il proprio re, Figlio di Dio, anche per quei tre anni e mezzo, sebbene il diavolo non sia ancora legato. Quando dunque udiamo: I sacerdoti di Dio e di Cristo regneranno con lui mille anni e quando i mille anni saranno compiuti, Satana sarà liberato dal suo carcere, rimane un dilemma. O intendiamo che non sono i mille anni di questo regno dei santi ad avere termine, ma dell'incatenamento del diavolo nel carcere in modo che ogni parte abbia da portare a termine i mille anni, cioè tutti gli anni che le spettano, con diverse e particolari dimensioni, più lunga per il regno dei santi, più breve per la prigionia del diavolo. Ovvero, poiché il periodo di tre anni e sei mesi è molto breve, si ammetta che non si è voluto calcolarlo, tanto quello che sembra includere la più breve prigionia di Satana, come quello che sembra includere il più lungo regno dei santi. In questi termini sui quattrocento anni mi sono espresso nel sedicesimo libro di quest'opera 115, poiché erano un po' di più e tuttavia sono stati considerati quattrocento. Se si è attenti, spesso nella Bibbia si rinvengono simili espressioni.
Nel giudizio la coscienza e il libro della vita.
14. Dopo questa rievocazione dell'ultima persecuzione il testo riepiloga brevemente tutto ciò che con l'ultimo giudizio soffriranno il diavolo e la città nemica con il suo principe. Dice: E il diavolo, che li traeva in errore, fu gettato nello stagno di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e lo pseudoprofeta e vi saranno tormentati giorno e notte per sempre 116. Ho indicato precedentemente che per bestia s'intende la stessa società pagana. Il suo pseudoprofeta è o l'Anticristo o quell'immagine o figura ingannevole, di cui ho parlato in quel passo 117. Di seguito, presentando in compendio lo stesso ultimo giudizio, che avverrà nella seconda risurrezione dei morti, cioè dei corpi, nel narrare come gli fu rivelato, dice: Vidi poi un grande trono bianco e colui che sedeva su di esso, dal cui cospetto erano scomparsi il cielo e la terra e non vi fu più lo spazio per essi 118. Non dice: Ho visto un gran trono bianco e colui che sedeva su di esso e dal suo cospetto erano scomparsi il cielo e la terra, perché il fatto non avvenne allora, cioè prima che fosse dato il giudizio sui vivi e sui morti, ma ha detto di aver visto che sedeva sul trono colui dal cui cospetto erano scomparsi il cielo e la terra, ma in seguito. Condotto a termine il giudizio, cesseranno questo cielo e questa terra, poiché avranno inizio un cielo nuovo e una terra nuova 119. Infatti questo mondo cesserà con una metamorfosi, non con una totale distruzione. Per questo l'Apostolo dice: Passa la conformazione di questo mondo, vorrei che voi foste senza preoccupazione 120. Passa dunque la conformazione, non l'essenza. Giovanni, dopo aver detto che aveva visto colui che sedeva sul trono, dal cui aspetto erano scomparsi il cielo e la terra, evento che avverrà in seguito, soggiunge: E vidi i morti grandi e piccoli e furono aperti i libri; fu aperto anche un altro libro, che è proprio dell'esistenza di ciascuno, e i morti furono giudicati in base a ciò che era scritto nei libri, ciascuno secondo le proprie azioni 121. Ha detto che furono aperti i libri e il libro, ma non ha taciuto quale fosse il libro, cioè quello che è proprio dell'esistenza di ciascuno. Si deve comprendere quindi che i libri indicati precedentemente sono i libri santi, dell'Antico e del Nuovo Testamento, affinché con essi si mostrasse quali precetti Dio ha comandato che fossero osservati; invece con quello, che è proprio dell'esistenza di ogni uomo, quale dei precetti ciascuno avesse o non avesse osservato. Se questo libro si giudicasse con criteri umani, chi sarebbe in grado di valutarne l'importanza e il volume? O quanto tempo si richiederebbe per poter leggere un libro in cui è scritta tutta la vita di tutti gli uomini? O vi sarà un numero di angeli, pari a quello degli uomini, e ciascuno udrà che la propria vita è esposta dall'angelo a lui assegnato? Dunque non vi sarà un unico libro di tutti ma uno di ognuno. Quando questo passo indica che s'intenda un libro solo, afferma: E un altro libro fu aperto. Si deve quindi tener presente un potere divino, per cui avviene che a ciascuno siano richiamate alla memoria tutte le proprie opere, buone e cattive, e che siano esaminate con mirabile prontezza da un immediato atto della mente in modo che la consapevolezza accusi o scusi la coscienza e in tal modo simultaneamente tutti e ciascuno siano giudicati. Questo divino potere ha certamente avuto il nome di "libro" perché in esso in certo qual senso si legge ogni particolare che mediante tale potere viene rievocato. Per indicare quali morti, piccoli e grandi, devono essere giudicati, dice per riepilogare, quasi tornando all'argomento che aveva omesso o piuttosto differito: E il mare restituì morti ch'erano in esso, la morte e l'aldilà resero i morti che detenevano 122. Senza dubbio il fatto avvenne prima che i morti fossero giudicati e tuttavia il giudizio è stato indicato prima. È appunto quanto ho detto, che egli, cioè, riepilogando è tornato all'argomento che aveva tralasciato. Ora invece ha seguito l'ordine dovuto e per chiarirlo più convenientemente ha di nuovo trattato, nel punto giusto, del giudizio dei morti di cui aveva già parlato. Aveva detto infatti: E il mare restituì morti che erano in esso, la morte e l'aldilà resero i morti che detenevano, e subito ha aggiunto: E ciascuno fu giudicato secondo le proprie azioni 123. E quel che aveva detto precedentemente: E i morti furono giudicati secondo le proprie azioni.
Significato di mare e aldilà nel giudizio finale.
15. Ma quali sono i morti che erano nel mare e che esso ha restituito? Non si può pensare infatti che quelli i quali muoiono nel mare non siano nell'aldilà, o che soltanto i loro corpi sono conservati nel mare ovvero, ed è più assurdo, che il mare conteneva i buoni e l'aldilà i cattivi. Chi lo penserebbe? Ma ragionevolmente alcuni ritengono che in questo passo il mare sta a significare il tempo presente. Per indicare quindi che coloro i quali Cristo troverà ancora in vita devono essere giudicati assieme a quelli che risorgeranno, ha considerato morti anch'essi; alcuni buoni, perché di essi si dice: Siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio 124, alcuni cattivi perché di essi si dice: Lascia che i morti seppelliscano i propri morti 125. Possono essere considerati morti anche perché hanno un corpo soggetto alla morte, e per questo dice l'Apostolo: Il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma il vostro spirito è vivo a causa della giustificazione 126. Indica così che nell'uomo il quale vive, unito ancora al corpo, si ha l'uno e l'altro, tanto il corpo morto, come lo spirito che è vita. Non ha detto corpo soggetto alla morte, ma morto, sebbene poco dopo li definisce anche, come più ordinariamente si designano, corpi soggetti a morire 127. Il mare dunque restituì questi morti che erano in esso, cioè il tempo presente restituì tutti gli uomini che erano in esso perché non erano ancora morti. La morte e l'aldilà - soggiunge - resero i morti che detenevano 128. Il mare li restituì perché si presentarono nella condizione in cui si trovavano; invece la morte e l'aldilà li resero perché li richiamarono alla vita, da cui erano già separati. E non senza ragione non gli bastò dire: la morte o l'aldilà, ma sono stati indicati l'una e l'altro: la morte per i buoni che poterono subire soltanto la morte e non l'aldilà dei reprobi, ed esso per i cattivi perché negli inferi scontano anche la pena. Forse non è assurdo ritenere che i santi antichi, i quali professarono la fede del Cristo venturo furono negli inferi, ma in condizioni assai diverse dalle pene dei reprobi finché il sangue di Cristo e la sua discesa in quei luoghi li trassero fuori. Successivamente senza dubbio i buoni fedeli, riscattati da quel prezzo versato, non conoscono affatto gli inferi fino a quando, riassunto anche il corpo, riscuotano i beni che meritano. Dopo aver detto: Furono giudicati ciascuno secondo le proprie azioni, soggiunge in succinto come furono giudicati con le parole: La morte e l'inferno furono gettati nello stagno di fuoco 129. Con questi termini ha indicato il diavolo, perché è autore delle pene infernali, e insieme tutta la congrega dei demoni. E lo stesso concetto che anticipando aveva espresso precedentemente in forma più evidente: Il diavolo, che li traeva in errore, fu gettato nello stagno di fuoco e di zolfo 130. E il concetto che in quel passo in forma più oscura aveva aggiunto: Dove sono anche la bestia e lo pseudoprofeta 131, si ha qui in forma più esplicita con le parole: Coloro, che non furono scritti nel libro della vita, furono gettati nello stagno di fuoco 132. Questo passo non assegna a Dio la memoria, affinché non sia tratto in errore dall'oblio, ma indica la predestinazione di coloro, ai quali sarà data la vita eterna. Dio non li ignora e in questo passo si legge che li conosce, o meglio la sua stessa prescienza su di loro, che non può errare, è il libro della vita, in cui sono scritti, sono cioè oggetto di prescienza.
Cielo e terra nuovi.
16. Finito il giudizio, con cui l'Apocalisse ha premesso che devono essere giudicati i cattivi, rimane che parli anche dei buoni. Infatti, dopo aver sviluppato quel che dal Signore è stato espresso in breve: Così andranno questi alla pena eterna, continua a sviluppare quel che nel Vangelo vi è connesso: E i giusti alla vita eterna 133. Dice appunto: Vidi un nuovo cielo e una nuova terra. Infatti il cielo e la terra di prima erano svaniti e non v'è più il mare 134. Si avrà con tale sequenza l'avvenimento che precedentemente anticipando ha esposto, che, cioè, ha visto colui il quale sedeva sul trono, dal cui aspetto scomparvero cielo e terra 135. Dunque prima saranno giudicati coloro che non sono scritti nel libro della vita e gettati nel fuoco eterno. Penso che nessun uomo sappia, se non colui al quale lo Spirito di Dio lo rivela 136, che razza di fuoco sia questo e in quale parte del mondo o della realtà brucerà. Allora la conformazione di questo mondo cesserà col divampare simultaneo dei fuochi del mondo, come avvenne il diluvio con l'inondazione delle acque del mondo. Con quel divampare simultaneo del mondo, come ho detto, le proprietà degli elementi posti nel divenire, le quali convenivano ai nostri corpi posti nel divenire, cesseranno del tutto nel fuoco. Lo stesso essere sussistente avrà quelle proprietà che convengano, attraverso una meravigliosa trasformazione, a corpi non posti nel divenire, in modo che il mondo, trasformato in meglio, si adegui ad uomini trasformati in meglio anche nel loro essere fisico. Riguardo alla frase: Non v'è più il mare, non saprei dire se si prosciugherà con quello straordinario calore o se anch'esso si trasformerà in meglio. Abbiamo letto che vi saranno un cielo nuovo e una terra nuova, ma non ricordo di aver letto alcunché da qualche parte sul mare nuovo, salvo la frase che si ha in questo stesso libro: Come un mare di vetro simile al cristallo 137. Ma in quel passo non parlava della fine dei tempi e non sembra che abbia usato "mare" con significato proprio, ma come mare. Tuttavia anche in questo passo, siccome il linguaggio profetico ama mescolare il parlare figurato con il proprio e così in un certo senso velare quel che si dice, ha potuto dire di quel mare: E non v'è più il mare, come prima aveva detto: Il mare restituì i morti che in esso erano 138. Allora infatti non vi sarà più questo tempo, agitato e turbolento con la vita degli esseri posti nel divenire, che ha espresso figuratamente con la parola "mare".
Nella Gerusalemme dell'alto non vi saranno pianto e dolore.
17. Continua: Vidi anche la città nuova grande Gerusalemme scendere dal cielo da Dio, pronta come una sposa ornata per il suo sposo. Udii allora una potente voce che usciva dal trono e diceva: Ecco la dimora di Dio con gli uomini. Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il "Dio con loro". E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, non vi sarà più la morte, né pianto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate. E colui che sedeva sul trono disse: Ecco, io faccio nuove tutte le cose 139. Si dice che questa città discende dal cielo perché è dal cielo la grazia con cui Dio le ha dato vita. Per questo le si dice anche per mezzo di Isaia: Io sono il Signore che ti dà vita 140. E dal cielo fin dalla sua origine discende, da quando continuamente i suoi cittadini aumentano nella successione del tempo, con la grazia di Dio che viene dall'alto mediante il lavacro di rigenerazione nello Spirito Santo mandato dal cielo. Ma col giudizio di Dio, che sarà l'ultimo, mediante il suo Figlio Gesù Cristo si manifesterà il suo splendore così grande e così nuovo in modo che non rimarranno tracce della tarda età, giacché i corpi della soggezione al divenire e alla morte di una volta passeranno alla immunità dal divenire e dalla morte. Mi sembra quindi proprio di eccessiva mancanza di riguardo attribuire questo evento al tempo presente, in cui la città regna col suo re per mille anni. Dice infatti molto apertamente: E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi non vi sarà più la morte, né pianto né lamento né affanno. Chi dunque è così idiota e insensato in una ostinatissima diatriba da affermare che negli affanni di questa soggezione alla morte, non dico il popolo santo, ma ciascuno dei santi trascorra, trascorrerà o abbia trascorso la vita senza lacrime e sofferenze? Piuttosto quanto uno è più santo e pieno di un santo desiderio, tanto più è abbondante il suo pianto nel pregare. È la voce di un cittadino della Gerusalemme di lassù che dice: Le mie lacrime sono divenute il mio pane giorno e notte 141; e: Ogni notte laverò nel pianto il mio letto, inonderò di lacrime il mio giaciglio 142; e: Il mio gemito non ti è nascosto 143; e: Il mio dolore si è esasperato 144. E sono certamente suoi figli coloro che gemono come sotto un peso, da cui non vogliono essere spogliati, ma rivestiti dall'alto, affinché ciò che è soggetto al morire sia assorbito dalla vita 145. E sono quelli stessi che, avendo le primizie dello Spirito, gemono interiormente perché attendono l'adozione a figli, la redenzione del proprio corpo 146. E lo stesso Paolo era certamente cittadino della Gerusalemme dell'alto e lo era ancor di più quando per gli Israeliti, suoi fratelli secondo la stirpe, aveva in sé una grande tristezza e nel suo cuore una continua sofferenza 147. La morte non sarà più in questa città soltanto quando si dirà: Dov'è, o morte, il tuo ardire? Dov'è, o morte, il tuo pungolo? Il pungolo della morte è il peccato 148. Certamente non vi sarà quando si dirà: Dov'è? Ora invece non un qualunque debole cittadino di quella città ma lo stesso Giovanni grida nella sua lettera: Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi 149. Anche in questo libro, intitolato l'Apocalisse, vi sono molti concetti oscuri per spronare il pensiero del lettore e ve ne sono pochi, dalla cui chiarezza si possano investigare gli altri con impegno, soprattutto perché ripete le medesime espressioni in molte forme da sembrare che enunci concetti diversi, sebbene si riscontri che enuncia i medesimi in forma diversa. Si eccettuano però le frasi: Asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, non vi sarà più la morte, né pianto né lamento né affanno. Infatti con tanta chiarezza sono stati espressi questi concetti sulle condizioni fuori del tempo e sull'immortalità ed eternità dei santi, poiché soltanto in quel tempo e spazio non vi saranno tali sofferenze, che non dobbiamo cercare o leggere nella sacra Scrittura pensieri più evidenti se ritenessimo questi oscuri.
In Pietro cielo e terra nel cataclisma finale.
18. Ora vediamo che cosa ha scritto l'apostolo Pietro sul giudizio. Dice: Verranno negli ultimi giorni uomini che scherniranno con ironia, si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: Dov'è la promessa della sua venuta? Infatti da quando i nostri padri sono morti tutto procede come al principio della creazione. Ma costoro ignorano, perché lo vogliono, che i cieli esistevano da lungo tempo e la terra dall'acqua e ordinata mediante l'acqua dalla parola di Dio, e che per queste cause il mondo di allora scomparve sommerso dall'acqua. Ora i cieli e la terra attuali sono stati reintegrati dalla medesima parola e riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione dei reprobi. Ma voi non dovete perdere di vista, carissimi, che un solo giorno davanti a Dio è come mille anni, e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda la promessa nel modo con cui alcuni concepiscono il ritardo, ma attende con pazienza per voi perché non vuole che alcuno perisca ma che tutti si riconcilino con la penitenza. Verrà il giorno del Signore come un ladro e in esso i cieli con grande fragore passeranno, gli elementi si dissolveranno con un incendio, la terra e le creature, che in essa sono, saranno distrutte dal fuoco. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi nella santità della condotta perché aspettate e vi disponete alla venuta del Signore, mediante la quale i cieli si dissolveranno e gli elementi bruciati saranno ridotti al nulla? Noi aspettiamo dunque secondo le sue promesse nuovi cieli e nuova terra, nei quali dimora la giustizia 150. Nel passo Pietro non dice nulla della risurrezione dei morti, ma abbastanza della fine del mondo. Ricordando poi l'avvenuto diluvio sembra che abbia voluto in certo senso avvertirci sul nostro modo di credere in quali proporzioni alla fine dei tempi questo mondo scomparirà. Dice appunto che al tempo del diluvio fu distrutto il mondo che allora esisteva, e non soltanto la terra ma anche i cieli, sebbene in essi riscontriamo lo spazio atmosferico, il cui volume l'acqua, crescendo, aveva superato. Dunque tutta o quasi tutta l'atmosfera, che denomina il cielo o meglio i cieli, ma questi in basso non quelli in alto, dove sono disposti il sole, la luna e le stelle, era ridotta a una massa liquida. Così era scomparsa assieme alla terra, il cui primo aspetto era stato distrutto dal diluvio. Ora - dice - i cieli e la terra attuali sono stati reintegrati dalla medesima parola e riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione dei reprobi 151. Quindi quei cieli e quella terra, cioè quel mondo, che scomparve col diluvio e fu reintegrato con la medesima acqua, è destinato all'ultimo fuoco per il giorno del giudizio e della perdizione dei reprobi. Non dubita infatti di parlare, a causa di una radicale trasformazione, della futura perdizione anche degli uomini, pur conservandosi il loro essere, sebbene negli eterni tormenti. Qualcuno può chiedere, se dopo l'avvenuto giudizio questo mondo brucerà prima che siano reintegrati il nuovo cielo e la nuova terra, dove saranno i santi nel momento della conflagrazione, perché è indispensabile che essi, avendo un corpo, siano in un determinato spazio. Posso rispondere che saranno nelle parti più alte, dove non salirà la fiamma di quell'incendio come neanche l'acqua del diluvio. Avranno infatti un corpo tale da stabilirsi dove vorranno. Ma non temeranno neanche il fuoco di quel divampare fulmineo, perché sono resi immuni dalla morte e dal divenire, se il corpo, ancora soggetto a morte e corruzione, dei tre individui poté rimanere illeso nella fornace ardente 152.
L'Anticristo in Paolo ai Tessalonicesi...
19. 1. Noto che si devono tralasciare molti brani del Vangelo e degli Apostoli sull'ultimo giudizio di Dio, affinché questo libro non si estenda in un'eccessiva lunghezza, ma non si deve tralasciare affatto l'apostolo Paolo. Egli, scrivendo ai fedeli di Tessalonica, dice: Vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e della nostra comunione con lui di non lasciarvi così facilmente confondere nel pensiero e turbare né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente, affinché nessuno v'inganni in qualche modo. Prima infatti dovrà venire l'apostata e dovrà essere rivelato l'uomo iniquo, il figlio della rovina, colui che si contrappone e s'innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto fino a sedere nel tempio di Dio, ostentandosi come Dio. Non ricordate che, mentre ero ancora tra voi, venivano dette queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione affinché avvenga a suo tempo. Il mistero dell'iniquità è già in atto. Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga, finché esca di mezzo e allora sarà rivelato l'empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà con la luce della sua venuta, perché la presenza dell'empio avverrà nella potenza di Satana con ogni specie di portenti, di segni e prodigi di menzogna e con ogni sorta d'empio inganno per quelli che si perdono, perché non hanno accolto l'amore della verità per essere salvi. Perciò Dio invierà loro una giustificazione dell'errore affinché credano alla menzogna e così siano giudicati tutti coloro che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all'iniquità 153.
... con qualche difficoltà d'interpretazione...
19. 2. Non v'è dubbio che ha espresso questi concetti sull'Anticristo e che non si avrà il giorno del giudizio 154, considerato come giorno del Signore, se prima non verrà colui che egli chiama apostata fuggitivo, evidentemente, da Dio Signore. Se questo epiteto si può applicare rettamente a tutti gli empi, molto di più a lui. Però è incerto in quale tempio sederà, se sulla rovina del tempio costruito dal re Salomone ovvero nella Chiesa. L'Apostolo non considererebbe tempio di Dio il tempio di un dio o di un demone. Perciò alcuni sostengono che nel passo per Anticristo non s'intende il capo stesso, ma in senso figurato tutto il suo corpo, cioè la moltitudine di uomini che a lui appartiene come capo. Pensano inoltre che anche in latino più correttamente si dice, come in greco, non nel tempio di Dio, ma: segga in qualità di tempio di Dio, come se egli sia il tempio di Dio che è la Chiesa. Diciamo, ad esempio: Siede in qualità di amico, cioè come amico, o altri casi in cui si è soliti esprimersi con questo tipo di linguaggio. Una riflessione sulla frase: E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione; sapete, cioè, che cosa è in ritardo e qual è la causa della dilazione affinché avvenga a suo tempo. Poiché ha detto che lo sapevano, non ha inteso dirlo apertamente. Perciò noi, che non sappiamo quel che essi sapevano, desideriamo ma non siamo in grado di giungere, sia pure con insistenza, a ciò che pensava l'Apostolo, soprattutto perché i concetti, che ha aggiunto, rendono più astruso il significato. Infatti che significa: Già il mistero dell'iniquità è in atto. Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga, finché sia tolto di mezzo, e allora sarà rivelato l'empio 155? Io confesso che proprio non capisco quel che ha detto. Tuttavia non passerò sotto silenzio le ipotesi di uomini che ho avuto possibilità di ascoltare o leggere.
... in riferimento a Roma e ai falsi Cristiani...
19. 3. Alcuni pensano che si è parlato dell'impero romano e che perciò l'apostolo Paolo non lo ha voluto esprimere apertamente per non incorrere nell'ingiusta accusa che auspicasse a danno dell'Impero di Roma, mentre ci si riprometteva che fosse perenne. Poteva sembrare che nella frase: Il mistero dell'iniquità è già in atto 156 avesse voluto che vi si ravvisasse Nerone, le cui azioni apparivano come quelle dell'Anticristo 157. Perciò alcuni ipotizzano che risorgerà e diverrà l'Anticristo. Altri invece pensano che non sia stato ucciso ma allontanato segretamente affinché fosse ritenuto ucciso e rimanesse nascosto vivo, nel vigore dell'età in cui era quando fu creduto morto finché al momento opportuno riappaia e sia restituito al regno 158. Ma a me sembra molto assurda l'incomparabile ubbìa dei sostenitori di tale ipotesi. Tuttavia non assurdamente si ritiene che il pensiero, espresso dall'Apostolo con le parole: Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga finché esca di mezzo 159, si riferisca all'Impero di Roma, come se fosse detto: Frattanto chi ora comanda comandi finché esca di mezzo, cioè sia tolto di mezzo. Non v'è dubbio che in: E allora sarà rivelato l'empio, è indicato l'Anticristo. Alcuni invece pensano che le frasi: Sapete che cosa impedisce la sua manifestazione, e: Il mistero dell'iniquità è già in atto 160, siano dette soltanto dei malvagi e dei falsi cristiani, che appartengono alla Chiesa, finché giungano a un numero tale da costituire un numeroso popolo per l'Anticristo e che questo è il mistero dell'iniquità perché sembra occulto. Pensano che per questo l'Apostolo esorta i fedeli a perseverare con fermezza nella fede che professano, dicendo: Frattanto chi ora lo trattiene lo trattenga finché sia tolto di mezzo, cioè finché esca di mezzo alla Chiesa il mistero dell'iniquità che ora è occulto. Pensano che al medesimo mistero si riferisca quel che nella sua lettera dice Giovanni evangelista: Ragazzi, questa è l'ultima ora e come avete udito che l'Anticristo dovrà venire, di fatto ora molti sono divenuti anticristi; da questo conosciamo che è l'ultima ora. Sono usciti da noi, ma non erano dei nostri. Che se fossero dei nostri, certamente sarebbero rimasti con noi 161. Come dunque, affermano questi testi, prima della fine, in quest'ora che Giovanni considera l'ultima, sono usciti dalla Chiesa molti eretici, che egli reputa come molti anticristi, così alla fine usciranno da essa tutti coloro che non apparterranno a Cristo, ma all'Anticristo, e allora si manifesterà.
... ma tutto rientra nel giusto giudizio di Dio.
19. 4. Dunque gli esegeti, chi in un senso chi in un altro, interpretano le astruse espressioni dell'Apostolo. Tuttavia non v'è dubbio sul suo pensiero, che cioè Cristo non verrà a giudicare i vivi e i morti 162, se prima non verrà il suo avversario, l'Anticristo, a trarre in errore i morti nell'anima, sebbene attiene a un giusto giudizio di Dio che da lui siano tratti in errore. Infatti: La sua presenza - come ha scritto - avverrà nella potenza di Satana con ogni specie di portenti di segni e prodigi di menzogna e con ogni sorta di empio inganno per quelli che si perdono 163. Allora sarà slegato Satana e agirà mediante l'Anticristo con ogni sorta di prodigi in forma sorprendente ma menzognera. Di solito si controverte se questi fatti sono stati considerati segni e prodigi di menzogna, perché l'Anticristo ingannerà i sensi umani attraverso immagini illusorie, in modo che sembra eseguire quel che non esegue; ovvero se, quantunque quei fatti saranno veri prodigi, trascineranno all'inganno coloro i quali crederanno che possano verificarsi soltanto per volere di Dio, perché ignorano l'ardimento del diavolo, soprattutto quando riceverà un potere che non ha mai avuto. Quando infatti cadde il fuoco dal cielo e con una sola vampata distrusse la numerosa servitù assieme ai numerosi armenti di bestiame del santo Giobbe e un turbine di venti investendo e abbattendo la casa uccise i suoi figli, non si trattò d'immagini illusorie, tuttavia furono opere di Satana, al quale Dio aveva concesso il potere 164. Quindi soltanto alla fine apparirà per quale loro aspetto quei fatti sono stati considerati prodigi e segni di menzogna. Ma per qualunque di essi sia stato enunziato quel concetto, saranno tratti in errore con quei segni e prodigi coloro che lo meriteranno, perché - dice l'Apostolo - non hanno accolto l'amore della verità per essere salvi. E non ha dubitato di aggiungere queste parole: Perciò Dio invierà loro una giustificazione dell'errore affinché credano alla menzogna. Quindi Dio manderà il diavolo a compiere questi fatti, egli con un giusto giudizio, sebbene l'altro li compia con una ingiusta e malvagia deliberazione. Affinché - soggiunge - siano giudicati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all'iniquità 165. Quindi i giudicati saranno tratti in errore e i tratti in errore saranno giudicati. Ma coloro che sono giudicati saranno tratti in errore con quel giudizio di Dio arcanamente giusto e giustamente arcano, con il quale non ha mai cessato di giudicare fin dall'inizio del peccato della creatura ragionevole. Invece coloro che sono tratti in errore saranno giudicati con l'ultimo palese giudizio da Cristo Gesù che giudicherà molto giustamente, perché fu giudicato molto ingiustamente.
Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi sulla risurrezione.
20. 1. Ma nel passo citato l'Apostolo tace sulla risurrezione dei morti; invece scrivendo ai medesimi Tessalonicesi, nella prima lettera dice: Non vogliamo lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti affinché non siate nell'afflizione come gli altri che non hanno speranza. Poiché se noi crediamo che Gesù è morto e risuscitato, così Dio radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui anche quelli che sono morti. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: Noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non precederemo quelli che sono morti prima, perché il Signore stesso, a un ordine e alla voce dell'Arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo e i morti in Cristo risorgeranno prima, poi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nubi incontro a Cristo nell'aria e così saremo sempre col Signore 166. Queste parole dell'Apostolo mostrano con molta chiarezza che si avrà la risurrezione dei morti, quando Cristo verrà precisamente per giudicare i vivi e i morti.
Il problema dei superstiti...
20. 2. Ma abitualmente si pone il problema: se coloro che Cristo troverà in vita sulla terra, la cui esistenza l'Apostolo trasferiva in sé e in coloro che vivevano al suo tempo, non moriranno affatto, oppure nel medesimo attimo di tempo in cui, assieme a coloro che risorgeranno, rapiti nelle nubi incontro a Cristo nell'aria, passeranno con mirabile prontezza all'immortalità attraverso la morte. Non si deve infatti affermare l'impossibilità che, mentre sono portati per l'aria verso l'alto, in quell'attimo di tempo muoiano e risorgano. L'inciso: E in tal modo saremo sempre col Signore 167 non si deve interpretare come se avesse affermato che vivi rimarranno sempre nell'aria; infatti anche egli non rimarrà sempre lì perché per venire l'attraverserà. A lui che viene e non che rimane si andrà incontro, ma in tal modo saremo col Signore, cioè vi saremo con corpi dotati d'eternità dovunque saremo con lui. Sembra che l'Apostolo stesso ci sproni a questa interpretazione in modo da intendere che anche quelli, che il Signore troverà in vita nel mondo, in un breve intervallo di tempo subiranno la morte e riceveranno l'immortalità, nel passo in cui dice: In Cristo tutti avranno la vita 168. In un altro passo, parlando della risurrezione dei corpi, dice: Ciò che tu semini non ha vita, se non muore 169. Non ha senso infatti che coloro, i quali Cristo troverà in vita nel mondo, avranno la vita in lui mediante l'immortalità, anche se non muoiono, quando riflettiamo che appunto per questo è stato detto: Ciò che tu semini non ha vita, se non muore. Facciamo l'ipotesi di considerare seminati soltanto i corpi umani, che con la morte in qualche modo ritornano alla terra, come si esprime la condanna pronunziata da Dio contro il trasgressore padre dell'uman genere: Sei terra e in terra tornerai 170. Si dovrebbe allora ammettere che coloro, i quali Cristo, quando verrà, troverà non ancora separati dal corpo, non sono compresi in queste parole, né in quelle dell'Apostolo né in quelle della Genesi perché, rapiti in alto sulle nubi, non sono certamente seminati perché non vanno e non ritornano alla terra, sia che non esperimentino affatto la morte, sia che muoiano per un attimo nell'aria.
... anche nella prima lettera ai Corinzi.
20. 3. Ma si presenta un altro problema sul pensiero che ha espresso l'Apostolo parlando della risurrezione dei corpi ai fedeli di Corinto: Tutti risorgeremo, o come riportano altri codici : Tutti dormiremo 171. Poiché dunque non può avvenire la risurrezione se non precede la morte e nel passo citato per atto del dormire non possiamo intendere altro che la morte, in qual senso tutti dormiranno o risorgeranno se molti, che Cristo troverà ancora in vita, non dormiranno e non risorgeranno? Se dunque ammetteremo che i santi, i quali saranno ancora in vita alla venuta di Cristo e saranno rapiti incontro a lui, usciranno dal corpo soggetto a morire, nell'atto stesso del rapire, e torneranno al corpo, reso immediatamente immortale, non troveremo difficoltà nelle parole dell'Apostolo, tanto quando dice: Ciò che tu semini non ha vita, se non muore, come quando dice: Tutti risorgeremo, o: Tutti dormiremo. Infatti essi saranno resi alla vita, mediante l'immortalità, soltanto se prima, quantunque per un attimo, muoiano e perciò non saranno privi della risurrezione perché la precedono col dormire, sebbene brevissimo, tuttavia reale. Poi non ci deve sembrare incredibile che i corpi in un grande numero siano, per così dire, seminati nell'aria e che tornino immediatamente in vita in condizioni di non soggezione alla morte e al divenire. Crediamo infatti a quel che il medesimo Apostolo dice con molta chiarezza, cioè che la risurrezione avverrà in un batter d'occhio 172, e che la polvere dei più antichi cadaveri si trasformerà con grande facilità e con impareggiabile prontezza nelle parti del corpo che vivrà senza fine. E non dobbiamo supporre che i santi saranno immuni da quella condanna: Sei terra e in terra ritornerai 173, se il loro corpo, mentre muoiono, non andrà a finire in terra, ma nella condizione in cui morrà nell'atto stesso del rapire, nella medesima risorgerà, mentre è trasferito nell'aria. In terra tornerai significa: perduta la vita, tornerai ad essere ciò che eri prima di averla, cioè privo dell'anima sarai ciò che eri prima di essere vivificato dall'anima. Dio infatti alitò su di un volto di terra il soffio della vita, quando l'uomo divenne anima che vive. La frase verrebbe a significare: Sei terra animata e non lo eri, sarai terra esanime come eri, come è, anche prima che si putrefaccia, il corpo dei morti, come sarà anche quello dei santi, se morrà, dovunque morrà, quando è privo della vita che dovrà immediatamente riavere. Dunque torneranno in terra perché da uomini vivi saranno terra, allo stesso modo che va in cenere ciò che diventa cenere, va alla vecchiaia ciò che diventa vecchio, va in anfora ciò che dall'argilla diventa anfora, e ci esprimiamo in questi termini in altri seicento esempi. Come avverrà ciò che ora secondo le forze della nostra debole ragione in qualche modo congetturiamo, allora si verificherà in modo che possiamo averne conoscenza. È indispensabile, se vogliamo essere cristiani, credere che la risurrezione dei morti avverrà anche nell'essere fisico, quando Cristo verrà a giudicare i vivi e i morti, ma non per questo la nostra fede è priva di contenuto su questo evento, se ancora non siamo in grado di capire come avverrà. Ma ormai, come abbiamo promesso precedentemente 174, dobbiamo esporre, nei limiti in cui sembrerà sufficiente, che cosa hanno preannunziato i libri profetici dell'Antico Testamento, sull'ultimo giudizio di Dio. Come penso, non sarà necessario che gli argomenti siano trattati ed esposti con un discorso diffuso, se il lettore si sarà dato da fare per essere spronato da quelli che abbiamo premesso.
Il giudizio finale nell'Antico Testamento (21-30)
La felicità nella risurrezione secondo Isaia...
21. 1. Dice il profeta Isaia: Risorgeranno i morti, risorgeranno anche coloro che erano nei sepolcri e si allieteranno tutti coloro che sono sulla terra; infatti la rugiada, che da te proviene, per loro sarà salute; invece la terra degli empi andrà in rovina 175. Tutta la prima parte del passo riguarda la risurrezione dei beati. Invece l'inciso: E la terra degli empi andrà in rovina s'interpreta correttamente nel senso che la rovina della dannazione ghermirà il corpo dei reprobi. Se poi vogliamo considerare con maggiore attenzione e precisione il brano citato, alla prima risurrezione si deve riferire la frase: Risorgeranno i morti, alla seconda quella che segue: Risorgeranno anche quelli che erano nei sepolcri. E se ci poniamo il problema di quei santi, che il Signore troverà vivi in terra, a loro convenientemente si aggiudica quel che ha aggiunto: E si allieteranno tutti coloro che sono sulla terra; infatti la rugiada, che da te proviene, per loro sarà salute. In questo punto con molta esattezza interpretiamo la salute come immortalità, perché completa salute è quella che non si ristabilisce con i cibi, quali medicine di ogni giorno. Il medesimo profeta, per stimolare prima la speranza dei buoni e poi per spaventare i cattivi, anche del giorno del giudizio parla in questi termini: Così dice il Signore: Ormai io, come un fiume di pace e un torrente in piena, devio verso di loro la gloria dei popoli. I loro figli saranno portati sulle spalle e posti sulle ginocchia saranno consolati. Come una madre può consolare un figlio, così io vi consolerò e in Gerusalemme sarete consolati. Lo vedrete e gioirà il vostro cuore e le vostre ossa germoglieranno come erba. La mano del Signore si manifesterà a coloro che l'adorano e minaccerà i ribelli. Ecco infatti che il Signore verrà come un fuoco e i suoi carri come un turbine per distribuire nello sdegno la vendetta e in una fiamma di fuoco la distruzione. Nel fuoco del Signore infatti sarà giudicata la terra e con la sua spada ogni uomo; molti saranno i colpiti dal Signore 176. Nella promessa dei beni, per fiume di pace dobbiamo certamente intendere l'abbondanza di quella pace, di cui non ve ne può essere una più grande. Da essa saremo irrorati alla fine; ne ho parlato a lungo nel libro precedente. Il profeta dice che il Signore devierà questo fiume di pace verso coloro ai quali promette tanta felicità per farci intendere che in quel luogo di tranquillità, che è nei cieli, tutte le cose sono nella quiete mediante quel fiume. Però giacché la pace della non soggezione al divenire e alla morte da quel luogo affluirà anche ai corpi di terra, ha detto che devierà questo fiume affinché dall'alto si riversi al basso e renda gli uomini eguali agli angeli. Nella Gerusalemme non dobbiamo scorgere quella che è schiava con i propri figli ma, stando all'Apostolo, la libera nostra madre che è libera nei cieli 177. Lì, dopo gli stenti delle tribolazioni e preoccupazioni della soggezione alla morte, saremo consolati come suoi bambini sorretti sulle spalle e ginocchi. Infatti, poiché ignari e novellini, quella felicità, per noi insolita, ci accoglierà con attenzioni molto carezzevoli. Lì vedremo e gioirà il nostro cuore. Non ha indicato che cosa vedremo, ma Dio certamente, affinché si adempia in noi la promessa del Vangelo: Beati i puri di cuore perché vedranno Dio 178. Vedranno anche tutto quel mondo che noi nel tempo non vediamo ma che, credendo in grado molto inferiore a quel che è e in termini incomparabili, facciamo oggetto di pensiero nei limiti dell'intelligenza umana. Vedrete - dice - e gioirà il vostro cuore. Qui credete, lì vedrete.
... e la pena per i dannati.
21. 2. Ha detto: Gioirà il vostro cuore, ma affinché non pensassimo che i beni di Gerusalemme spettino soltanto al nostro spirito, ha aggiunto: Le vostre ossa germoglieranno come erba. Con la frase ha espresso per sineddoche la risurrezione dei corpi, quasi ad esprimere un pensiero di cui non aveva parlato. Essa infatti non avverrà quando la vedremo, ma la vedremo quando sarà avvenuta. Anche precedentemente aveva parlato di un cielo nuovo e di una terra nuova e, nel contempo, spesso e con varie espressioni parlava dei beni che sono promessi ai santi nella fine. Vi saranno - dice - un cielo nuovo e una terra nuova, gli uomini non ricorderanno i precedenti e il ricordo non tornerà nel loro cuore, ma troveranno in Gerusalemme gioia e giubilo. Ormai renderò un giubilo Gerusalemme e una gioia il mio popolo e proverò giubilo in Gerusalemme e gioia nel mio popolo e non si udrà più in essa voce di pianto 179, e altri concetti che alcuni tentano di riferire ai mille anni, intesi in senso letterale. Nel metodo dei Profeti infatti il linguaggio figurato s'intreccia con quello proprio, affinché un'applicazione assennata giunga con utile e giovevole impegno al significato spirituale. Invece l'infingardaggine fisica o l'ottusità dell'intelligenza priva di cultura ed esercizio, appagata dall'aspetto letterario, non riflette che l'indagine deve essere condotta sul significato. È sufficiente quel che ho detto sulle parole del profeta che nel testo vengono prima del brano in esame. In questo brano, dal quale ho deviato ad esse, dopo aver detto: Le vostre ossa germoglieranno come erba, per indicare che con queste parole si riferiva alla risurrezione della carne, ma soltanto dei buoni, ha aggiunto: La mano del Signore si manifesterà a coloro che l'adorano. È senz'altro la mano di chi separerà i propri adoratori da coloro che lo insultano. E connettendo su di essi di seguito i concetti afferma: E minaccerà i ribelli o, come legge un altro traduttore: gli increduli 180. Però alla fine non minaccerà, ma le parole, che ora si dicono con minaccia, allora si adempiranno nell'effettività. Ecco infatti - soggiunge - che il Signore verrà come un fuoco e i suoi carri come un turbine per distribuire nello sdegno la vendetta e in una fiamma di fuoco la distruzione. Nel fuoco del Signore infatti sarà giudicata tutta la terra e con la sua spada ogni carne; molti saranno i feriti dal Signore 181. Tanto col fuoco come con il turbine e la spada indica la condanna del giudizio appunto perché afferma che il Signore stesso verrà come un fuoco, certamente per coloro ai quali la sua venuta sarà di condanna. Per i suoi carri poi, espressi al plurale, intendiamo non incongruamente il ministerio degli angeli. Nel concetto che tutta la terra e ogni carne è giudicata col suo fuoco e con la sua spada non dobbiamo includere gli spirituali e i santi, ma i terreni e i carnali, sulla cui qualità è stato detto: Coloro che hanno prudenza per le cose della terra 182, e: Avere la prudenza conforme alla carne è la morte 183. Questi tali dal Signore sono considerati interamente carne, quando dice: Il mio spirito non rimarrà in uomini di tal fatta perché sono carne 184. Per quanto riguarda la frase: Molti saranno i feriti dal Signore, si commenta che mediante queste ferite avverrà la seconda morte. È possibile certamente che fuoco, spada e ferita siano interpretati in bene. Infatti il Signore ha detto che vuole mandare il fuoco sulla terra 185; agli apostoli sono apparse lingue di fuoco che si dividevano quando venne lo Spirito Santo 186; il Signore stesso dice: Non sono venuto a portare la pace sulla terra ma la spada 187; la Scrittura definisce la parola di Dio come una spada a doppio taglio a causa della duplice lama dei due Testamenti 188; nel Cantico dei cantici 189 la santa Chiesa si considera ferita dalla carità perché colpita da frecce nello slancio d'amore. Ma poiché nel brano leggiamo e ascoltiamo che il Signore verrà come vendicatore, è evidente il senso con cui si devono interpretare queste parole.
Il Signore e la grazia nel Nuovo Testamento.
21. 3. Poi passati brevemente in rassegna quelli che mediante il giudizio subiranno la perdizione, per indicare i peccatori e gli empi, sotto la metafora dei cibi proibiti dall'antica Legge poiché non se ne privarono, Isaia espone in compendio dall'inizio la grazia del Nuovo Testamento, svolgendo e terminando il discorso dalla prima venuta del Salvatore all'ultimo giudizio, di cui stiamo trattando. Narra infatti che il Signore dichiara la sua venuta per riunire tutti i popoli ed essi sarebbero arrivati e avrebbero visto la sua gloria 190. Dice in merito l'Apostolo: Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio 191. Il Signore dice anche che compirà per loro dei prodigi affinché attoniti credano in lui; che invierà i convertiti fra di essi ai vari popoli e alle isole lontane, le quali non hanno mai udito il suo nome e non hanno visto la sua gloria. Predice che essi annunzieranno la sua gloria fra i popoli e aduneranno i fratelli di coloro ai quali parlava, cioè nella fede sotto Dio Padre i fratelli degli Israeliti credenti; condurranno anche da tutti i popoli nella santa città di Gerusalemme, che ora mediante i santi fedeli è diffusa nei vari paesi, un'offerta al Signore in bestie da soma e mezzi di trasporto 192. Si comprende facilmente che queste bestie e questi mezzi sono aiuti divini per qualsiasi genere di ministeri di Dio, sia angelici che umani. Gli uomini infatti credono dove sono aiutati da Dio e, dove credono, ivi convengono. Il Signore li ha paragonati, quasi per analogia, ai figli d'Israele che nella sua casa offrono a lui le proprie vittime con salmi ed è un rito che in ogni parte la Chiesa già compie. Ha promesso inoltre che avrebbe scelto da essi per sé sacerdoti e leviti e osserviamo egualmente che ora ciò si avvera. Infatti il sacerdozio non è secondo la discendenza della carne e del sangue, quale era il primo secondo l'ordine di Aronne, ma come era conveniente nel Nuovo Testamento, in cui sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec 193 è Cristo; ora notiamo che sacerdoti e leviti sono eletti secondo il merito che in ognuno apporterà la grazia divina. Ed essi devono essere stimati non in base a questo titolo che spesso ottengono, sebbene indegni, ma in base a quella santità che non è comune ai buoni e ai cattivi.
Distinzione di buoni e cattivi.
21. 4. Dopo aver parlato dell'evidente e a noi assai nota bontà di Dio, che ora viene offerta alla Chiesa, ha promesso anche il fine, al quale si giungerà quando mediante l'ultimo giudizio avverrà la separazione di buoni e cattivi. Dice infatti mediante il profeta o da parte del Signore dice il profeta: Come il nuovo cielo e la nuova terra rimarranno per sempre davanti a me, oracolo del Signore, così dureranno la vostra progenie e il vostro nome e si avrà mese da mese, sabato da sabato. Verrà ogni uomo alla mia presenza ad adorare in Gerusalemme, ha detto il Signore. Uscendo vedranno le membra degli uomini che si sono ribellati contro di me. Il loro verme non morirà e il loro fuoco non si spegnerà e saranno in vista ad ogni uomo 194. Il profeta ha posto fine al libro con l'evento con cui avrà fine il tempo. Alcuni non hanno tradotto: membra degli uomini, ma: cadaveri degli uomini maschi, indicando con cadaveri l'evidente pena dei corpi. Sebbene ordinariamente "cadavere" sia definita soltanto la carne esanime, quelli invece saranno corpi animati, altrimenti non potranno subire tormenti, a meno che, siccome saranno corpi di morti, cioè di quelli che cadranno alla seconda morte, non assurdamente si possono considerare anche cadaveri. Ne consegue il pensiero che del medesimo profeta ho riportato in precedenza: Senza dubbio la terra degli empi cadrà 195. È evidente che l'etimologia di cadavere è da cadere. È evidente anche il motivo per cui quei traduttori hanno usato il termine di uomini maschi, invece di quello di uomini in generale. Non si penserà che in quel tormento non vi saranno le donne cattive perché l'uno e l'altro sesso è rappresentato dal più forte, soprattutto perché da esso la donna è stata tratta 196. Ma per quanto attiene particolarmente all'argomento, anche per i buoni si dice: Verrà ogni carne, poiché il popolo eletto sarà riunito da ogni stirpe umana, sebbene non tutti gli uomini saranno presenti, perché molti saranno nei tormenti. Ma, come avevo cominciato a dire, siccome per i buoni è designata la carne e per i malvagi le membra o cadaveri, è indicato chiaramente che dopo la risurrezione della carne, e la fede in essa è confermata da questa terminologia, l'evento, per cui i buoni e i cattivi saranno distribuiti ai rispettivi fini, è il giudizio futuro.
Gli eletti e le pene dei dannati.
22. Ma come usciranno i buoni per vedere le pene dei malvagi? Lasceranno forse con uno spostamento del corpo quella patria di felicità e si recheranno nei luoghi di pena per osservare di fisica presenza i tormenti dei malvagi? No certamente, ma andranno fuori mediante un atto del pensiero. Col termine di "esser fuori" infatti è stato espresso il concetto che saranno fuori coloro i quali saranno tormentati. Perciò anche il Signore definisce quei luoghi "le tenebre di fuori" 197, alle quali si oppone quell'entrata, su cui si dice al servo buono: Entra nella gioia del tuo padrone 198. E non si pensi che i cattivi, per essere oggetto di pensiero, entreranno nella gioia ma, per così dire, uscirà verso di loro il pensiero, con cui i buoni li conosceranno, perché conosceranno ciò che è fuori. Coloro che saranno nei tormenti ignoreranno ciò che avviene dentro, nella gioia del Signore; invece coloro, che saranno in quella gioia, sapranno quel che avviene di fuori, nelle tenebre di fuori. E perciò è stato detto: Andranno fuori 199, perché non saranno loro nascosti quei fatti che avverranno fuori di loro. Se infatti i Profeti hanno potuto conoscere tali fatti, sebbene ancora non avvenuti, perché nella loro intelligenza di esseri soggetti alla morte vi era Dio, nei limiti in cui vi era, certamente i santi non soggetti alla morte non ignoreranno fatti già avvenuti, dal momento che Dio sarà tutto in tutti 200. Saranno stabili dunque nella felicità dei santi la progenie e il nome; la progenie, di cui Giovanni dice: La progenie del Signore dimora in lui 201; il nome perché di esso, mediante Isaia, è stato detto: Darò loro un nome eterno 202. Si avrà per loro mese da mese e sabato da sabato 203, come a dire luna da luna e riposo da riposo. Gli eletti infatti saranno l'uno e l'altro, quando da queste ombre vecchie e divenienti passeranno alle luci nuove e perenni. È stato variamente interpretato dai vari esegeti il fuoco che non si spegne e il verme che non muore nelle pene dei malvagi 204. Alcuni hanno riferito l'uno e l'altro al corpo, altri l'uno e l'altro alla coscienza, altri il fuoco in senso proprio al corpo e il verme per metafora alla coscienza, il che è più attendibile. Ma ora non è il momento di discutere su questa differenza. Ho intrapreso infatti a completare questo libro sull'ultimo giudizio con cui avviene la distinzione di buoni e cattivi; dei premi e castighi si deve trattare più diligentemente in altra parte.
In Daniele le quattro bestie e i dieci re.
23. 1. Daniele svolge la profezia sull'ultimo giudizio in modo da preannunziare che anche l'Anticristo verrà prima e da sviluppare l'esposizione dei fatti fino al regno eterno dei beati. Dopo aver visto in visione profetica quattro bestie, che simboleggiano quattro regni, e il quarto sconfitto da un re, in cui si ravvisa l'Anticristo, e dopo questi fatti il regno eterno del Figlio dell'uomo che evidentemente è il Cristo, dice: Cadde nell'angoscia la mia coscienza, io Daniele, per il mio stato interiore, e le visioni della mia mente mi turbavano. Mi accostai - soggiunge - a uno di coloro che stavano in piedi e chiedevo a lui il vero significato di tutti quei fatti ed egli me ne diede la spiegazione 205. Poi espone ciò che ha udito da colui, al quale aveva chiesto su tutti quei fatti e come se gliene desse la spiegazione, così continua: Le quattro grandi bestie rappresentano quattro grandi regni che sorgeranno dalla terra e saranno sterminati; i santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno nel tempo e fino al tempo dei tempi. E chiedevo - aggiunge - con insistenza sulla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto terribile perché aveva denti di ferro e artigli di bronzo, che mangiava e stritolava e il resto se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava. Chiedevo anche delle dieci corna che aveva sulla testa e sull'ultimo corno, che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre delle prime corna e sul motivo per cui quel corno aveva occhi e una bocca, che parlava di grandi imprese, e perché appariva più grande delle altre corna. Io guardavo e quel corno faceva guerra ai santi e li vinceva, finché venne il Vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell'Altissimo e giunse il tempo in cui i santi possedettero il regno 206. Daniele dice di avergli chiesto queste spiegazioni. Poi, soggiungendo di seguito quel che aveva udito, dice: E disse (cioè quel tale, al quale aveva chiesto, rispose e disse): La quarta bestia sarà un quarto regno sulla terra che prevarrà su tutti i regni, divorerà la terra, la stritolerà e la calpesterà. Le dieci corna significano che sorgeranno dieci re da quel regno e dopo di loro ne sorgerà uno, che supererà nel male i precedenti, abbatterà tre re e proferirà insulti contro l'Altissimo e distruggerà i santi dell'Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge e gli sarà concesso per un tempo, più tempi e la metà di un tempo. Si terrà poi il giudizio e gli toglieranno il potere per sterminarlo e distruggerlo del tutto. Allora il regno, il potere e la grandezza dei re, che sono sotto il cielo, saranno dati ai santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e obbediranno. Qui ha fine il discorso. Io, Daniele. Molti pensieri mi turbavano, il colore del mio volto si cambiò e ho conservato nel mio cuore queste parole 207. Alcuni hanno spiegato che i quattro regni sono quelli degli Assiri, Persiani, Macedoni e Romani. Coloro che desiderano sapere con quale criterio abbiano dato tale spiegazione leggano il libro del prete Girolamo su Daniele, compilato con competenza e metodo 208. Comunque anche chi legge sonnecchiando non può dubitare che si deve sopportare, sia pure per breve tempo, lo spietato regno dell'Anticristo contro la Chiesa, fino a che, con l'ultimo giudizio di Dio, i beati posseggano il regno perenne. Anche dal numero dei giorni, che sarà indicato in seguito, appare chiaro, e talora nella Scrittura è indicato col numero dei mesi, che un tempo, i tempi e una metà di tempo sono un anno, due anni e una metà, e perciò tre anni e mezzo 209. Può sembrare che nel passo in latino questi tempi siano indicati in forma indeterminata, ma sono stati indicati al duale che il latino non ha. Come il greco, così si dice che lo abbia l'ebraico. Sono stati quindi definiti "tempi", ma come se fossero due tempi. Confesso di essere preoccupato che ci inganniamo sui dieci re, che l'Anticristo incontrerebbe nelle persone dei dieci individui e così egli arriverebbe impreveduto, giacché non esistono tanti re nel mondo romano. Perciò col dieci può essere simboleggiato l'insieme dei re, dopo i quali egli verrà. Così con mille, cento e sette è simboleggiato il più delle volte un tutto e con molti altri numeri che al momento non occorre ricordare.
Convergenza di Daniele e Matteo.
23. 2. In un altro passo il medesimo Daniele scrive: Vi sarà un tempo di angoscia, come non c'era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo. E in quel tempo sarà salvato tutto il tuo popolo che si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono sotto un mucchio di terra si sveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e i giusti come le stelle per sempre 210. Questo brano è molto simile al pensiero del Vangelo soltanto sulla risurrezione dei corpi morti. Difatti nel Vangelo si dice che i morti sono nei sepolcri 211, e qui che dormono sotto un mucchio di terra o, come altri hanno tradotto: nella polvere della terra ; nel Vangelo si dice: avanzeranno, qui: si leveranno in piedi; lì: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna 212; in questo passo: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e all'infamia eterna. Non si ritenga divergente il pensiero perché nel Vangelo è detto: Tutti coloro che sono nei sepolcri, invece nel brano il profeta non ha detto che tutti, ma: molti di quelli che dormono sotto un mucchio di terra. Talora la Scrittura usa molti per tutti. Anche ad Abramo fu detto: Ti ho reso padre di molti popoli 213, e in un altro passo il Signore dice: Nella tua discendenza saranno benedetti tutti i popoli 214. Sulla risurrezione anche allo stesso profeta Daniele si annunzia poco dopo: Anche tu va' a riposarti; vi sono ancora dei giorni per il compimento di tutto; riposerai e ti rialzerai per la tua sorte alla fine dei giorni 215.
La fine del mondo nel Salmo 101.
24. 1. Molti pensieri si hanno sull'ultimo giudizio nei Salmi, ma la maggior parte di passaggio e stringatamente. Ma non passerò sotto silenzio quel che si dice molto chiaramente sulla fine del mondo: In principio tu hai creato la terra, o Signore, e opera delle tue mani sono i cieli. Essi avranno fine, ma tu rimani, tutti si logoreranno come una veste, come una coperta tu li muterai e saranno mutati, ma tu resti lo stesso e i tuoi anni non avranno fine 216. Ma perché Porfirio, sebbene lodi la religiosità degli ebrei, mediante la quale da loro è adorato un Dio grande, vero e adorabile dalle stesse divinità, e poi, anche attraverso i responsi dei propri dèi, incolpa di massima stoltezza i cristiani perché pensano che questo mondo avrà fine?. Eppure nei libri sacri degli ebrei si dice a Dio che, per consenso di un sì grande filosofo, anche le stesse divinità onorano tremando: I cieli sono opera delle tue mani, essi avranno fine. Forse che quando i cieli avranno fine, il mondo, di cui i cieli sono la parte più alta e sicura, non avrà fine? Se questo modo di pensare dispiace a Giove, dal cui responso più autorevole, come scrive questo filosofo, è stata biasimata come falsa la fede dei cristiani, perché non biasima come stoltezza anche la sapienza degli ebrei, dal momento che si trova nei loro libri veramente religiosi? Se in quella sapienza, che a Porfirio piace al punto da difenderla anche con i responsi dei propri dèi, si legge che i cieli avranno fine, perché tale ipocrisia è così insignificante che nella fede dei cristiani condannino, fra gli altri o più degli altri l'assunto, per cui si crede che il mondo avrà fine sebbene, se esso non avrà fine, neanche i cieli la possono avere? Nelle sacre Scritture, che sono soltanto nostre e non comuni a noi e agli ebrei, cioè nel Vangelo e negli scritti degli Apostoli si legge: Trascorre l'aspetto di questo mondo 217; si legge: il mondo passa 218; si legge: il cielo e la terra passeranno 219. Credo che: Trascorre, Passa, Passeranno sono espressioni più moderate di: Avranno fine. Anche in una lettera dell'apostolo Pietro, in cui si afferma che il mondo di allora ebbe fine perché sommerso dall'acqua 220, è abbastanza chiaro quale parte dell'insieme del mondo è stata indicata e in quali proporzioni si dice che ebbe fine e quali sono i cieli destinati ad essere consegnati al fuoco nel giorno del giudizio e della perdizione dei reprobi. Poco appresso dice ancora: Il giorno del Signore verrà come un ladro e allora i cieli passeranno come in un uragano, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno, la terra e tutti gli oggetti che vi sono saranno distrutti dal fuoco; e soggiunge: Poiché tutte queste cose avranno fine, quali dovrete essere voi? 221. Si può intendere che avranno fine quei cieli che ha detto destinati ad essere consegnati al fuoco e che gli elementi, i quali saranno consumati dal calore, siano quelli che sono posti in questa più bassa parte del mondo, funestata da inondazioni e uragani, nella quale ha detto che i cieli sono come innestati, esclusi quindi quelli in alto che rimangono nella propria interezza e nella cui consistenza sono inserite le stelle. Infatti anche il passo, in cui si dice che le stelle cadranno dal cielo, a parte che con molto maggiore attendibilità si può interpretare diversamente, lascia intendere piuttosto che quei cieli rimarranno, seppure da essi le stelle cadranno 222. Potrebbe essere un linguaggio figurato, ed è più attendibile; oppure è un fenomeno che avverrà in questo cielo più basso, certamente in forma più singolare di quel che ora avviene. Per questo anche la celebre stella di Virgilio: Portando una fiaccola corse con molta luce 223, e si nascose nella foresta di Ida. Non sembra che il brano, che ho riportato dal Salmo, faccia eccezione per un cielo di cui non si possa dire che avrà fine. Nell'inciso: I cieli sono opera delle tue mani, essi periranno 224, come nessuno di essi viene eccettuato dall'opera di Dio, così nessuno dalla propria fine. Non si degneranno infatti, mediante il pensiero dell'apostolo Pietro che odiano violentemente, di difendere la religiosità degli ebrei approvata dai responsi dei propri dèi. Almeno, per non ritenere che tutto il mondo avrà fine, si separi una parte dal tutto nella frase: Essi avranno fine, nel senso che soltanto i cieli in basso avranno fine. In questo senso anche in quella lettera dell'apostolo Pietro una parte si separa dal tutto perché vi si afferma che il mondo ha avuto fine, sebbene abbia avuto fine la parte in basso con i suoi cieli. Ma coloro, i quali sostengono che non può aver fine tutto l'uman genere né con le acque né con le fiamme, non si degneranno, come ho detto, né di accettare il pensiero dell'apostolo Pietro, né di accordare al cataclisma finale quanto sappiamo che ha effettuato il diluvio. Resta quindi loro di dire che i propri dèi hanno lodato la sapienza degli ebrei perché non avevano letto questo Salmo.
Il giudizio nel Salmo 49.
24. 2. Anche nel Salmo 49 è relativo al giudizio di Dio il brano: Dio verrà visibilmente, il nostro Dio, e non rimarrà in silenzio. Davanti a lui arderà un fuoco e attorno a lui si avrà una tempesta violenta. Convocherà il cielo nell'alto e la terra a contraddistinguere il suo popolo. Riunite a lui i suoi giusti che stabiliscono la sua alleanza sopra i sacrifici 225. Noi interpretiamo il brano in relazione al Signore Gesù Cristo, perché speriamo che verrà dal cielo a giudicare i vivi e i morti. Verrà visibilmente fra giusti e ingiusti per giudicare con giustizia egli che prima è venuto nel segreto per essere giudicato dagli ingiusti con ingiustizia. Egli, ripeto, verrà visibilmente e non rimarrà in silenzio; si manifesterà palesemente nella voce del giudice egli che, essendo venuto nel segreto, tacque davanti al giudice quando fu condotto per essere immolato come una pecora e fu senza voce come un agnello alla presenza di chi lo tosa. È un fatto che su di lui leggiamo profeticamente preannunziato da Isaia 226 e che notiamo adempiuto nel Vangelo 227. Ho già parlato del fuoco e della tempesta in che senso si devono interpretare, quando trattai un simile argomento nella profezia di Isaia 228. Il concetto espresso con le parole: Convocherà il cielo nell'alto, poiché i beati e i giusti giustamente sono considerati il cielo, corrisponde senz'altro a ciò che dice l'Apostolo: Saremo rapiti assieme a loro nelle nubi incontro a Cristo nell'aria 229. Infatti stando all'espressione letterale non si capirebbe perché è convocato il cielo nell'alto come se fosse possibile che non sia in alto. Supponiamo che nella frase seguente: E la terra a contraddistinguere il suo popolo, sia sottinteso: convocherà, cioè che convocherà anche la terra e non sia sottinteso nell'alto. Allora secondo la retta fede l'espressione ha questo significato: che come cielo sono designati quelli che giudicheranno con lui e come terra quelli che dovranno essere giudicati, sicché nell'inciso: Convocherà il cielo nell'alto non intendiamo che li rapirà nell'aria, ma che li farà sedere sugli scranni da giudice. La frase: Convocherà il cielo nell'alto si può anche interpretare nel senso che convocherà gli angeli nei sublimi luoghi dell'alto e con essi scenderà per compiere il giudizio e convocherà anche la terra, cioè gli uomini, certamente per essere giudicati nella terra. Se poi sia da sottintendere l'uno e l'altro termine nell'inciso: e la terra, cioè tanto convocherà, come in alto, in modo che questo ne sia il senso: Convocherà il cielo in alto e anche la terra convocherà in alto, ritengo che la migliore interpretazione sia che tutti saranno rapiti incontro a Cristo nell'aria, ma il cielo è indicato a causa delle anime e la terra a causa dei corpi. Inoltre: Contraddistinguere il suo popolo significa senz'altro separare i buoni dai cattivi, come le pecore dai capri. Poi il discorso è rivolto agli angeli con le parole: Riunite a lui i suoi giusti, poiché mediante il ministero degli angeli si compie una così grande operazione. Se poi ci chiediamo quali giusti riuniranno a lui gli angeli, dice: Coloro che stabiliscono la sua alleanza sopra i sacrifici. È proprio questa tutta la vita dei giusti: stabilire l'alleanza di Dio sopra i sacrifici. Infatti o le opere di beneficenza sono sopra i sacrifici, cioè da preporre ai sacrifici secondo la parola di Dio che dice: Preferisco la beneficenza al sacrificio 230, oppure se sopra i sacrifici si traduce "nei sacrifici", come si dice che avviene "sulla" terra ciò che avviene "nella" terra, certamente le opere di beneficenza sono i sacrifici con cui si è graditi a Dio. Ricordo di averne parlato nel libro decimo di questa opera 231. Nelle opere di beneficenza i giusti stabiliscono l'alleanza di Dio perché le compiono sulla base delle promesse che sono contenute nella nuova alleanza. Quindi Cristo, ovviamente nell'ultimo giudizio, dirà ai suoi giusti riuniti a sé e stabiliti alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Infatti ho avuto fame e mi avete dato da mangiare 232, e gli altri pensieri che nel testo si esprimono sulle buone opere dei giusti e sul loro premio eterno mediante la sentenza di chi giudica.
Malachia e le pene di purificazione.
25. C'è poi il profeta Malachiele o Malachia, ritenuto anche un angelo o anche il sacerdote Esdra, di cui altri libri della Scrittura sono inseriti nel canone. Girolamo afferma che questa è l'opinione degli Ebrei su di lui 233. Egli annunzia profeticamente l'ultimo giudizio con le parole: Ecco viene, dice il Signore onnipotente, e chi sopporterà il giorno della sua venuta o potrà resistere nel guardarlo? Perché egli verrà come il fuoco di una fornace e come la liscivia dei lavandai; sederà per struggere e raffinare come argento e come oro; purificherà i figli di Levi e li metterà in fusione come oro e argento; offriranno al Signore oblazioni nella giustizia e sarà gradito al Signore il sacrificio di Giuda e Gerusalemme come nei giorni antichi e come negli anni lontani. Mi accosterò a voi nel giudizio e sarò un testimone pronto contro gli incantatori, contro gli adùlteri e contro coloro che giurano il falso nel mio nome, contro coloro che frodano il salario degli operai, che opprimono con la forza le vedove, che picchiano gli orfani e fanno torto nel giudizio al forestiero e non mi temono, dice il Signore onnipotente, perché io sono il Signore Dio vostro e non cambio 234. Da queste parole sembra risultare assai chiaramente che in quel giudizio per alcuni vi saranno pene di purificazione. Non si possono interpretare diversamente le parole: Chi sopporterà il giorno della sua venuta o potrà resistere a guardarlo? Perché egli verrà come il fuoco di una fornace e come la liscivia dei lavandai; sederà per struggere e purificare come argento e come oro; purificherà i figli di Levi e li metterà in fusione come oro e argento. Anche Isaia dice qualcosa di simile: Il Signore laverà le macchie dei figli e delle figlie di Sion e detergerà il sangue di mezzo a loro con lo spirito di giustizia e con lo spirito di purificazione 235. Ma forse si deve intendere che saranno resi mondi dalle macchie e in certo senso depurati, quando i cattivi verranno separati da loro attraverso il giudizio di pena, sicché il loro allontanamento alla condanna sarà una purificazione per i buoni, poiché per il resto vivranno senza essere frammischiati con gli altri. Ma quando Malachia dice: Purificherà i figli di Levi e li metterà in fusione come oro e argento; offriranno al Signore oblazioni nella giustizia e sarà gradito al Signore il sacrificio di Giuda e Gerusalemme, fa capire che quegli stessi, che saranno purificati, saranno graditi al Signore in seguito con sacrifici di giustizia e perciò essi stessi saranno resi mondi dalla propria ingiustizia, per cui non erano graditi al Signore. Inoltre, quando saranno stati purificati, essi stessi saranno oblazioni nella totale e definitiva giustizia. In tale condizione non offrono a Dio nulla di più gradito che se stessi. Però il trattare più attentamente il problema delle pene di purificazione, si deve differire per un po'. Di seguito nei figli di Levi, in Giuda e Gerusalemme dobbiamo scorgere la Chiesa di Dio costituita, non soltanto dagli Ebrei, ma anche dagli altri popoli. E non sarà come è nel tempo in cui, se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e in noi non è la verità 236, ma come sarà alla fine, purificata attraverso l'ultimo giudizio, come l'aia con la vagliatura 237, perché saranno resi puri dal fuoco anche quelli per i quali tale depurazione era indispensabile, in modo che non vi sia alcuno che offra il sacrificio per i propri peccati. Infatti tutti coloro, che offrono con questo intento, sono certamente nei peccati e offrono per averne il perdono in modo che, dopo aver offerto un sacrificio che sia a Dio gradito, siano perdonati.
Il sacrificio di giustizia nel giudizio...
26. 1. Volendo Dio dimostrare che alla fine la sua città non rimarrà in tale condizione di vita, ha detto che i figli di Levi offriranno oblazioni nella giustizia, e quindi non nel peccato e conseguentemente non per il peccato. Da ciò si possono comprendere le parole che Malachia ha detto di seguito: Sarà gradito al Signore il sacrificio di Giuda e Gerusalemme come nei giorni antichi e come negli anni lontani 238, cioè che i Giudei si ripromettono inutilmente, secondo la Legge dell'Antico Testamento, i tempi passati dei propri sacrifici. Infatti allora non offrivano oblazioni nella giustizia ma nei peccati, poiché principalmente e primieramente le offrivano per i peccati al punto che il sacerdote stesso, che certamente dobbiamo ritenere più giusto degli altri, per comando di Dio era solito offrire prima per i propri peccati, poi per quelli del popolo 239. Perciò è opportuno spiegare come si deve interpretare la frase: Come nei giorni antichi e come negli anni lontani. Forse richiama quel tempo in cui i progenitori furono nel paradiso. Allora, puri e incontaminati da ogni colpa e macchia di peccato, offrivano se stessi a Dio come oblazioni purissime. Però dopo che ne furono cacciati per la trasgressione commessa e che in essi fu condannata la natura umana, ad eccezione del solo Mediatore e di qualunque bambino dopo il lavacro di rigenerazione, nessuno è immune dalla colpa, come si ha nella Scrittura, neanche il bimbo, la cui vita sulla terra è di un solo giorno 240. Si potrebbe rispondere che giustamente si può dire che offrano oblazioni nella giustizia anche coloro i quali le offrono nella fede. Infatti il giusto vive di fede 241, quantunque inganni se stesso se pensasse di essere senza peccato 242, e perciò non lo pensi perché vive di fede. Ma chi potrà affermare che questo tempo di fede si può adeguare a quel fine, poiché coloro che offrirebbero oblazioni nella giustizia saranno purificati col fuoco dell'ultimo giudizio? Perciò, poiché si deve credere che dopo tale purificazione i giusti saranno senza alcun peccato, certamente quel tempo, per quanto attiene ad essere senza peccato, non si può paragonare ad alcun tempo. Si esclude quello in cui i progenitori, prima della trasgressione, vissero in una intemerata felicità. Giustamente quindi s'intende che il concetto suddetto è stato espresso con le parole: Come nei giorni antichi e come negli anni lontani. Anche dopo che per mezzo d'Isaia sono stati promessi un cielo nuovo e una terra nuova, fra gli altri concetti che, mediante allegorie e simboli, egli espone, e la preoccupazione di evitare lungaggini mi ha impedito di darne una conveniente spiegazione, dice: Secondo i giorni dell'albero della vita saranno i giorni del mio popolo 243. Chi ha avuto in mano la sacra Scrittura non ignora dove Dio ha piantato l'albero della vita e che, essendo stato ordinato ai progenitori di non mangiarne, quando la loro trasgressione li cacciò dal paradiso, a quell'albero fu posta una terribile difesa di fuoco 244.
... sarà veramente senza macchia.
26. 2. Qualcuno può affermare che i giorni dell'albero della vita, di cui ha parlato il profeta Isaia, sono i giorni in atto della Chiesa di Cristo, i quali si trascorrono nel tempo, e che Cristo stesso profeticamente è denominato "albero della vita" perché è la Sapienza di Dio, della quale Salomone dice: È un albero di vita per tutti coloro che la prescelgono 245. Può dire anche che i progenitori non hanno trascorso alcuni anni nel paradiso perché ne furono cacciati molto presto, sicché in quel luogo non ebbero alcun figlio e che quindi non è possibile intravedere quel periodo in quell'espressione: Come nei giorni antichi e come negli anni lontani. Tralascio la discussione per non essere costretto, giacché andrebbe per le lunghe, a esaminare tutti gli assunti, affinché la verità accertata renda evidente qualcuno di essi. Noto però un altro significato per non farci ritenere che i giorni antichi e gli anni lontani dei sacrifici carnali ci siano stati promessi mediante il profeta come un grande dono. Era prescritto infatti che le oblazioni della vecchia Legge fossero offerte con animali di qualsiasi specie senza macchia e senza alcun difetto 246, e simboleggiavano gli uomini santi, come è stato soltanto il Cristo, assolutamente senza peccato. Infatti, dopo il giudizio, quando saranno purificati anche col fuoco coloro che sono meritevoli di tale purificazione, in tutti i beati non si troverà affatto alcun peccato e in tale stato offriranno se stessi nella giustizia, sicché tali oblazioni saranno assolutamente senza macchia e senza alcun difetto. Saranno allora certamente come nei giorni antichi e come negli anni lontani, quando come simbolo di questo evento futuro si offrivano oblazioni veramente pure. Dunque nella carne immortale e nella intelligenza dei beati vi sarà la purezza che era rappresentata per allegoria nel corpo di quegli animali.
Il giudizio e la coscienza dei reprobi in Malachia.
26. 3. Poi, per quelli che non sono meritevoli di purificazione ma di condanna, Malachia dice: Mi avvicinerò a voi e sarò un testimone pronto contro gli incantatori, contro gli adùlteri 247, e il resto. Elencati i delitti degni di condanna, aggiunge: Poiché io sono il Signore Dio vostro e non cambio 248, come a dire: Sebbene la vostra colpa vi abbia cambiato in peggio e la mia grazia in meglio, io non cambio. Afferma altresì che sarà testimone, perché al proprio tribunale non ha bisogno di testimoni, e che sarà pronto, sia perché verrà all'improvviso e il suo giudizio, a causa della venuta inattesa, sarà molto rapido, anche se sembrava in ritardo, sia perché dimostrerà colpevoli le coscienze senza un lungo discorso. Si ha nella Scrittura: L'interrogatorio dell'empio infatti sarà nei suoi pensieri 249; e dice l'Apostolo: Con i pensieri che accusano o anche difendono nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini mediante Gesù Cristo, secondo il mio Vangelo 250. Anche in questo senso dunque si deve intendere che il Signore sarà un testimone pronto, perché senza indugio richiamerà alla memoria per dimostrare colpevole e punire la coscienza.
Separazione dei buoni e dei cattivi.
27. Anche il brano che, nel libro diciottesimo 251, trattando un altro argomento, ho desunto da questo profeta, riguarda il giudizio finale. In esso dice: Essi diverranno, dice il Signore onnipotente, mia proprietà nel giorno che io preparo e li prediligerò come un padre predilige il figlio che gli è sottomesso; io cambierò e voi noterete la differenza fra l'uomo giusto e l'ingiusto, fra colui che serve Dio e colui che non lo serve. Perché ecco viene il giorno ardente come il forno e li brucerà; e tutti gli stranieri e tutti gli operatori d'iniquità saranno come paglia e quel giorno venendo li incendierà, dice il Signore onnipotente, e non rimarrà di loro né radice né tralcio. E sorgerà per voi, che temete il mio nome, il sole di giustizia e la salvezza nelle sue ali e voi uscirete e saltellerete come vitelli liberati dal giogo; calpesterete gli empi e saranno cenere sotto i vostri piedi, dice il Signore onnipotente 252. Quando la differenza di premi e pene, che distingue i beati dai reprobi e sotto questo sole nella utopia della vita presente non si scorge 253, si manifesterà chiaramente sotto quel sole di giustizia nello svelarsi di quella vita, allora si avrà un giudizio quale mai si ebbe.
La vera felicità è solo dei giusti.
28. Poi il medesimo profeta, con la frase: Ricordatevi della Legge di Mosè, mio servo; a lui l'ho affidata sull'Oreb per tutto Israele 254, opportunamente fa appello a ordinamenti e decisioni, dopo aver indicato la grande distinzione che avverrà fra coloro che osservano e coloro che trasgrediscono la Legge. Questo affinché imparino contemporaneamente a intendere la Legge nello spirito e scorgano in essa il Cristo, perché da lui, come giudice, si deve operare la distinzione fra buoni e cattivi. Non senza ragione egli, il Signore, ha detto ai Giudei: Se credeste a Mosè, credereste anche a me perché di me egli ha scritto 255. Infatti, interpretando secondo la carne la Legge e ignorando che le sue promesse relative alla terra sono allegorie dei valori del cielo, giunsero a tali lamentele che osarono dire: È sciocco chi serve Dio; che vantaggio abbiamo ricevuto dall'avere custodito i suoi comandamenti e dall'avere camminato in preghiera davanti al Signore onnipotente? Dobbiamo invece proclamare beati gli stranieri e sono favoriti tutti quelli che compiono ingiustizia 256. Il profeta, da queste loro parole, è stato spinto, per così dire, a preannunziare un giudizio tale, in cui i malvagi neanche all'apparenza siano felici, ma appaia con grande chiarezza che sono assai infelici e i buoni non siano afflitti da alcuna sofferenza, sia pure momentanea, ma godano di un'evidente, perenne felicità. Anche poco prima Malachia aveva riferito alcune parole di costoro i quali affermano: Chiunque fa il male è come se fosse buono agli occhi del Signore e proprio questi gli sono graditi 257. Sono giunti, ripeto, a queste lamentele contro Dio, interpretando secondo la carne la Legge di Mosè. Perciò anche nel Salmo 72 dice il Salmista che i suoi piedi inciampavano e i suoi passi vacillavano 258, evidentemente nella caduta, perché ha invidiato i peccatori vedendo la loro tranquillità; arriva al punto di dire fra l'altro: Come l'ha saputo Dio, c'è forse conoscenza nell'Altissimo? 259 e di dire anche: Forseché invano ho conservato puro il mio cuore e ho lavato fra gli innocenti le mie mani? 260. Per risolvere questo difficilissimo problema, che si propone quando sembra che i buoni siano infelici e i malvagi felici, aggiunge: Questa angoscia è in me finché non entro nel santuario di Dio e non penso all'ultimo fine 261. Infatti con l'ultimo giudizio non sarà più così, ma si manifesterà una realtà diversa nella palese infelicità dei reprobi e nell'evidente felicità dei beati.
Il ritorno di Elia in Malachia.
29. Poi, dopo aver ammonito i Giudei di tenere a mente la Legge di Mosè, poiché prevedeva che essi per molto tempo non l'avrebbero interpretata secondo lo spirito, come conveniva, ma secondo la carne, Malachia soggiunge: Ormai, prima che giunga il giorno grande e luminoso del Signore, io invierò a voi Elia di Tesbe che volgerà il cuore del padre al figlio e il cuore dell'uomo al suo prossimo, affinché io venendo non colpisca la terra con lo sterminio 262. È assai ricorrente nelle parole e nei sentimenti dei fedeli che i Giudei, nell'ultimo tempo prima del giudizio, crederanno nel Cristo vero, cioè nel nostro Cristo attraverso l'esposizione della Legge per mezzo del grande e meraviglioso profeta Elia. Si spera appunto, e non a torto, che egli verrà prima della venuta del giudice Salvatore, perché non a torto si crede che egli è tuttora in vita. Fu rapito infatti con un carro di fuoco fuori dell'esperienza umana ed è un fatto che la Scrittura attesta con grande chiarezza 263. Quando verrà, spiegando secondo lo spirito la Legge che attualmente i Giudei interpretano secondo la carne, volgerà il cuore del padre al figlio, cioè il cuore dei padri ai figli, poiché i Settanta hanno usato il singolare per il plurale. Questo è il significato: che anche i figli, cioè i Giudei, comprendano la Legge come l'hanno compresa i loro padri, cioè i Profeti, tra i quali v'era anche Mosè. Così infatti il cuore dei padri si volgerà ai figli quando la capacità di pensare dei padri s'incontrerà con quella dei figli; e il cuore dei figli ai loro padri, quando i figli pensano in conformità a ciò che hanno pensato i loro padri, sebbene i Settanta abbiano letto: E il cuore dell'uomo si volgerà al suo prossimo. Sono infatti molto vicini nel rapporto padri e figli. Nella versione dei Settanta, che hanno tradotto con ispirazione profetica, si può riscontrare un altro significato, e anche più scelto, se s'intende che Elia volgerà il cuore di Dio Padre al Figlio, certamente non per ottenere che il Padre ami il Figlio, ma per insegnare che il Padre ama il Figlio in modo che anche i Giudei amino il medesimo Cristo, che è il nostro, mentre prima lo odiavano. Per i Giudei infatti ora il Padre ha il cuore contrario al nostro Cristo, questo essi pensano. Per essi quindi il cuore di lui si volgerà al Figlio, quando essi, volgendo il proprio cuore, apprenderanno l'amore del Padre per il Figlio. L'inciso che segue: E il cuore dell'uomo al suo prossimo, cioè che Elia volgerà il cuore dell'uomo al suo prossimo, s'interpreta molto bene se s'intende che è il cuore dell'uomo per Cristo uomo. Infatti, sebbene sia nell'essenza divina il nostro Dio, ricevendo l'essenza di schiavo 264 si è degnato di essere anche nostro prossimo. Questo dunque farà Elia. Affinché io non venga - soggiunge - e colpisca la terra con lo sterminio. Sono terra coloro che s'intendono delle cose della terra, come fino ad oggi sono i Giudei carnali. Da questo pervertimento sono derivate quelle lamentele contro Dio: Gli sono graditi i cattivi 265, e: È sciocco chi si sottomette a Dio 266.
Anche nei Profeti il Dio che verrà è Cristo.
30. 1. Molti sono i testi della sacra Scrittura sull'ultimo giudizio di Dio e andrei per le lunghe se li raccogliessi tutti. Sia sufficiente quel che abbiamo esaminato come predetto profeticamente dai libri sacri del Nuovo e Antico Testamento. Ma nell'Antico, a differenza del Nuovo, non è stato indicato con evidenza che il giudizio avverrà per mezzo di Cristo, cioè che Cristo verrà come giudice dal cielo, perché quando nell'Antico Testamento il Signore Dio dice che verrà o si dice che il Signore Dio verrà, non ne consegue che sia il Cristo. Il Signore Dio è il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo; però non conviene che noi lasciamo questo punto senza chiarirlo. Anzitutto dunque si deve far notare in quali termini Gesù Cristo parla come il Signore Dio nei libri profetici e tuttavia è d'immediata evidenza che è Gesù Cristo, sicché quando non è così evidente e si dice tuttavia che il Signore Dio verrà per l'ultimo giudizio, si possa intendere che è Gesù Cristo. V'è un passo del profeta Isaia che mostra chiaramente quel che sto dicendo. Dio infatti per mezzo del profeta dice: Ascoltami, Giacobbe e Israele, con cui sto parlando. Io sono il primo e sarò per sempre; la mia mano ha posto le fondamenta della terra e la mia destra ha reso stabile il cielo. Li chiamerò, verranno insieme, si raduneranno tutti e udranno. Chi lo ha avvertito su questo? Perché ti amavo ho soddisfatto il tuo desiderio su Babilonia per sgombrare la razza dei Caldei. Io ho parlato e ho chiamato, l'ho accompagnato e ho reso felice il suo cammino. Avvicinatevi a me e ascoltate questi fatti. Fin dal principio non ho parlato in segreto, quando avvenivano ero presente. E ora il Signore Dio e il suo Spirito mi hanno inviato 267. In realtà è lo stesso che parlava come il Signore Dio e tuttavia non vi si ravvisava Gesù Cristo se non avesse aggiunto: E ora il Signore Dio e il suo Spirito mi hanno inviato. Lo ha detto nella forma di schiavo usando per un evento futuro il verbo al passato come in un altro passo del medesimo profeta: È stato condotto per essere immolato come una pecora 268. Non ha detto: Sarà condotto, ma ha usato il verbo al passato per un fatto che doveva avvenire. E ripetutamente il linguaggio profetico si esprime così.
E' considerato onnipotente...
30. 2. In Zaccaria v'è un passo, il quale mostra con chiarezza questo pensiero, cioè che l'Onnipotente ha inviato l'Onnipotente, evidentemente Dio Padre Dio Figlio. Questo è il passo: Così dice il Signore onnipotente: Dopo l'impresa gloriosa mi ha inviato ai popoli che vi hanno depredato, perché chi tocca voi è come se toccasse la pupilla del suo occhio. Ecco, io alzerò la mano contro di loro e diverranno bottino di coloro che furono loro schiavi e saprete che il Signore onnipotente mi ha inviato 269. Il Signore onnipotente dice di essere inviato dal Signore onnipotente. Chi oserà dire che nel passo non si tratta di Cristo che parla alle pecore perdute della casa d'Israele? Dice nel Vangelo: Non sono stato inviato se non alle pecore perdute della casa d'Israele 270. Nel testo citato le ha paragonate alla pupilla dell'occhio di Dio a causa dell'eminente sentimento di amore. Anche gli Apostoli appartengono a questo tipo di pecore. Ma si ha qualcosa dopo la gloria della risurrezione, evidentemente la sua, poiché prima che avvenisse l'Evangelista dice: Gesù non era stato ancora glorificato 271. Dopo di essa infatti fu inviato ai popoli nei suoi Apostoli e così si è avverato quel che si legge in un Salmo: Mi libererai dai contrasti del popolo, mi porrai a capo delle nazioni 272. Questo affinché coloro che avevano depredato gli Israeliti e dei quali gli Israeliti erano stati schiavi, mentre erano assoggettati alle nazioni, non fossero a loro volta depredati col medesimo risultato, ma essi divenissero bottino degli Israeliti. Gesù l'aveva promesso agli Apostoli dicendo: Vi renderò pescatori di uomini 273, e a uno di loro: D'ora in poi sarai pescatore di uomini 274. Diverrebbero bottino dunque, ma in bene, come i vasi rapiti a quel forte, ma legato da uno più forte 275.
... sebbene sia annunziato nella sua passione.
30. 3. Egualmente per mezzo del medesimo profeta il Signore dice: In quel giorno farò in modo di allontanare tutti i popoli che vengono contro Gerusalemme e riverserò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo spirito di grazia e di perdono; volgeranno lo sguardo a me per il fatto che mi hanno insultato e verseranno per questo un pianto come per una persona molto cara e proveranno dolore come per un unigenito 276. Forseché soltanto Dio può allontanare tutti i popoli nemici dalla santa città di Gerusalemme, i quali vengono contro di essa, cioè sono suoi avversari, oppure, come altri hanno tradotto, vengono per essa, cioè per sottometterla; o potrà versare sulla casa di Davide e sugli abitanti della medesima città lo spirito di grazia e di perdono? Certamente è un'attribuzione di Dio e dalla prospettiva di Dio sono dette quelle parole per mezzo del profeta. Eppure Cristo mostra di essere egli stesso quel Dio che opera cose così grandi e così divine, aggiungendo le parole: Volgeranno lo sguardo a me per il fatto che mi hanno insultato e verseranno per questo un pianto come per una persona molto cara (o amata) e proveranno dolore come per un unigenito. Certamente in quel giorno si pentiranno i Giudei, anche quelli che riceveranno lo spirito di grazia e di perdono perché hanno insultato il Cristo nella sua passione, quando lo vedranno venire nella sua grandezza e riconosceranno che egli è colui che prima nei propri antenati hanno deriso nella sua umiltà. Ed anche i loro antenati, autori di sì grande scelleratezza, nel risorgere, lo vedranno, ma per essere puniti, non riscattati. Non si devono quindi ravvisare loro nelle parole: Riverserò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo spirito di grazia e di perdono; volgeranno lo sguardo a me per il fatto che mi hanno insultato. Vi si devono ravvisare i provenienti dalla loro stirpe che in quel tempo, Elia mediante, crederanno. Ma come noi diciamo ai Giudei: Avete ucciso il Cristo, sebbene siano stati i loro antenati a compiere il delitto, così i discendenti si affliggeranno di aver compiuto in un certo senso quel che hanno compiuto gli altri, perché discendono dalla loro stirpe. Sebbene dunque, ormai eletti per aver ricevuto lo spirito di grazia e di perdono, non saranno condannati con i loro antenati delinquenti, si affliggeranno tuttavia, come se essi abbiano compiuto quel che è stato compiuto dagli altri. Non si affliggeranno quindi per l'accusa di un delitto, ma per un sentimento di bontà. Con avvedutezza l'inciso, che nei Settanta suona così: Volgeranno lo sguardo a me per il fatto che mi hanno insultato, è stato tradotto dal testo ebraico che ha: Volgeranno lo sguardo a me che hanno trafitto. Da queste parole si rileva con maggior evidenza che Cristo è stato crocefisso. Ma l'insulto, che i Settanta hanno preferito rilevare, non è mancato in tutta la sua passione. Difatti lo hanno insultato mentre era arrestato, legato, giudicato, coperto con il vituperio di una veste di derisione, coronato di spine, battuto con una canna sulla testa, adorato a ginocchi piegati per scherno, mentre portava la sua croce ed era appeso. Quindi non seguendo una sola traduzione ma unendo l'una e l'altra, quando leggiamo tanto hanno insultato, come hanno trafitto, riconosciamo più ampiamente la genuina vicenda della passione del Signore.
Cristo sarà giudice perché fu giudicato.
30. 4. Poiché dunque nei libri dei Profeti si legge che Dio verrà per eseguire il giudizio, sebbene non sia indicata alcuna distinzione, unicamente sulla base del giudizio si deve rilevare il Cristo poiché, anche se il Padre giudicherà, giudicherà con la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti il Padre non giudicherà alcuno con la manifestazione della sua presenza, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio 277, poiché questi, il quale si manifesterà come uomo per giudicare, come uomo è stato giudicato. E non è un altro uomo quello di cui, in Isaia, Dio allo stesso modo parla con l'appellativo di Giacobbe e Israele, nella cui stirpe ebbe l'esistenza. Ecco il testo: Giacobbe, mio servo, io lo sosterrò; Israele, mio eletto, la mia anima lo ha accolto. Ho infuso il mio Spirito in lui, enuncerà il giudizio ai popoli. Non griderà e non tacerà e non si udrà la sua voce al di fuori. Non spezzerà la canna incrinata e non spegnerà il lucignolo fumigante, ma enuncerà il giudizio con verità. Risplenderà e non si abbatterà finché non stabilisce il giudizio sulla terra e nel suo nome spereranno i popoli 278. Nel testo ebraico non si ha Giacobbe e Israele, ma i Settanta, evidentemente, con l'intento di avvertire che l'inciso mio servo, si deve interpretare in relazione alla forma di servo, in cui l'Altissimo si è manifestato nella più grande umiltà, hanno aggiunto il nome per segnalare colui dalla cui stirpe è stata assunta la forma di servo. È stato infuso lo Spirito su di lui perché nella testimonianza del Vangelo si è mostrato in forma di colomba 279; ha enunciato il giudizio ai popoli perché ha predetto che sarebbe avvenuto ciò che ai popoli era nascosto; per benignità non ha gridato, ma non ha cessato dall'esaltare la verità; ma non si è udita e non si ode la sua voce al di fuori perché non si obbedisce a lui da coloro che sono tagliati fuori dal suo corpo; non ha spezzato e non ha spento perfino i Giudei, suoi persecutori, i quali per la perdita della compattezza sono stati paragonati a una canna incrinata e per la mancanza di luce a un lucignolo fumigante, poiché ha loro perdonato, dato che non era ancora venuto a giudicarli ma ad essere giudicato da loro. Ha senz'altro enunciato il giudizio nella verità perché ha predetto loro quando dovrebbero essere puniti se persistessero nella malvagità. Risplendette sul monte il suo viso 280, nel mondo la sua fama; non è stato abbattuto o calpestato perché non si è arreso ai suoi persecutori, per cessare d'esistere, né in sé né nella sua Chiesa; quindi non è avvenuto e non avverrà quel che i suoi nemici hanno detto o dicono: Quando morirà e perirà il suo nome? 281. Finché non stabilisce il giudizio sulta terra. È stato reso manifesto quel che cercavamo perché nascosto: è il giudizio finale che stabilirà in terra quando egli stesso verrà dal cielo. Riguardo al giudizio vediamo già adempiuto quel che è espresso nell'ultimo inciso: Nel suo nome spereranno i popoli. Sulla base di questo fatto, che non è possibile negare, si creda anche quel che si nega senza criterio. Chi avrebbe sperato che anche coloro, i quali ancora non vogliono credere in Cristo, sono spettatori assieme a noi e poiché non possono negare, digrignano e sbavano con i denti 282? Chi, dico ancora, avrebbe sperato che i popoli avessero sperato nel nome di Cristo, quando veniva arrestato, legato, percosso, deriso, crocefisso, dal momento che perfino i discepoli avevano perduto la speranza che avevano cominciato ad avere in lui? Quel che ha allora sperato soltanto il ladrone sulla croce, ora lo sperano i popoli, sparsi in ogni parte 283, e a fin di non morire per l'eternità, si segnano con la croce in cui Cristo è morto.
Gli eventi del giudizio finale.
30. 5. Dunque nega o dubita che l'ultimo giudizio avverrà come è preannunziato nei citati libri della Bibbia se non colui che, per non saprei quale incredibile malanimo o ignoranza, non crede in essi, sebbene abbiano già segnalato la propria veridicità al mondo intero. Abbiamo appreso che in quel giudizio o attorno a quel giudizio si verificheranno questi avvenimenti: la venuta di Elia di Tesbe, la fede dei Giudei, la persecuzione dell'Anticristo, il giudizio di Cristo, la risurrezione dei morti, la discriminazione di buoni e cattivi, il cataclisma del mondo e la sua rinascita. Si deve credere che si avranno tutti questi avvenimenti, ma in quali misure e con quale successione si verifichino lo insegnerà più la realtà dei fatti di quanto attualmente riesce a raggiungere alla perfezione il pensiero umano. Ritengo però che si avvereranno nella successione da me indicata.
Quel che rimane da dire negli altri due libri.
30. 6. Per mantenere con l'aiuto di Dio gli impegni presi ci rimangono due libri, attinenti a quest'opera, uno sulla pena dei malvagi, l'altro sulla felicità dei giusti. In essi, come Dio lo concederà, si confuteranno soprattutto i ragionamenti umani che contro le predizioni e promesse divine certi sventurati sembrano saggiamente rosicchiare per sé e disprezzano come falsi e ridicoli gli alimenti della fede che dà salute. Coloro invece che sono saggi secondo Dio, ritengono la veritiera onnipotenza di Dio come il più valido argomento di tutti i capi di dottrina che sembrano incredibili agli uomini e tuttavia sono contenuti nella sacra Scrittura, la cui veridicità è stata già in molti modi confermata. Ritengono infatti come certo che in nessun modo Dio ha potuto mentire e che può compiere ciò che al non credente è impossibile.