LA TRINITA’

Sant’Agostino

 

[Libri XI – XV]

 

LIBRO UNDICESIMO

Vestigio della Trinità nell’uomo esteriore

1. 1. Non c’è dubbio per nessuno che, come l’uomo interiore è dotato di intelligenza, l’uomo esteriore è dotato di sensibilità corporea. Sforziamoci dunque, se è possibile, di indagare anche nell’uomo esteriore qualche vestigio della Trinità. Non che anche questo sia immagine di Dio 1 allo stesso modo che lo è l’uomo interiore, perché lo mostra chiaramente l’affermazione dell’Apostolo, il quale dichiara che l’uomo interiore si rinnova nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine di colui che l’ha creato 2, e in un altro passo dice ancora: Anche se l’uomo esteriore si corrompe, l’uomo interiore tuttavia si rinnova di giorno in giorno 3. In questo uomo che si corrompe cerchiamo dunque, per quanto ci è possibile, una effigie della Trinità, se non più espressiva, almeno forse più facile da riconoscersi. Infatti non invano anche questo è chiamato uomo, perché in esso vi è una qualche rassomiglianza con l’uomo interiore. A motivo della nostra condizione di esseri mortali e carnali noi trattiamo le cose visibili in maniera più facile e, in qualche modo, più familiare che non le realtà intelligibili, sebbene quelle siano esterne, queste interne, quelle sensibili al corpo, queste intelligibili allo spirito, e benché noi stessi non siamo anime sensibili, cioè corporee, ma intelligibili, perché siamo vita; tuttavia, come ho detto, la nostra familiarità con i corpi è divenuta così grande e la nostra attenzione, per uno strano scivolamento verso questi corpi, si proietta talmente all’esterno che, una volta che sia tolta dall’incertezza del mondo corporeo, per fissarsi, con una conoscenza molto più certa e stabile, nello spirito, fugge di nuovo verso i corpi e cerca la sua quiete là donde ha tratto origine la sua debolezza. Occorre adattarsi a questa infermità in modo che, quando ci sforziamo di discernere in modo più accessibile le realtà interiori spirituali e proporle con maggior facilità, prendiamo delle analogie dalle realtà esterne e corporee. Dunque l’uomo esteriore, dotato di sensi corporei, percepisce i corpi con i sensi. Questa sensibilità corporea, come è facile vedere, si suddivide in cinque sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto. Sarebbe troppo lungo, e superfluo d’altra parte, interrogare ciascuno di questi cinque sensi circa l’oggetto della nostra ricerca. Ciò che infatti ci rivela uno di essi, vale anche per gli altri. Pertanto ricorriamo di preferenza alla testimonianza della vista. Questo infatti è il senso corporeo più nobile e il più vicino, sebbene sia di tutt’altro ordine, alla visione dello spirito.

Primo vestigio: trinità della visione

2. 2. Quando dunque vediamo un corpo, dobbiamo considerare e distinguere, cosa del resto assai facile, tre elementi. Anzitutto la cosa stessa che vediamo, sia una pietra, sia una fiamma o qualsiasi altro oggetto che si può vedere con gli occhi, realtà che certamente poteva già esistere anche prima che noi la vedessimo. In secondo luogo la visione, che non esisteva prima che la presenza dell’oggetto provocasse la sensazione. In terzo luogo ciò che tiene lo sguardo centrato sull’oggetto percepito, per il tempo in cui lo percepiamo, cioè l’attenzione dell’anima. Tra questi tre elementi dunque non solo esiste una manifesta distinzione, ma essi sono di natura differente. Il primo, il corpo visibile, è di tutt’altra natura che il senso della vista il cui incontro con l’oggetto produce la visione; e come il senso la stessa visione, la quale che altro è se non il senso in quanto informato dall’oggetto sentito? Sebbene, una volta tolto l’oggetto visibile, la visione non sussista più e una visione sia impossibile, se non c’è un corpo visibile, tuttavia il corpo che informa il senso della vista, quando questo stesso corpo è veduto, e la forma che questo corpo imprime nel senso, forma che è chiamata visione, non appartengono affatto alla stessa sostanza. Il corpo può sussistere indipendente dalla vista, a parte, nella sua propria natura; invece il senso che era già nel vivente, anche prima che esso vedesse ciò che poteva vedere, per il suo incontro con qualche oggetto visibile, o la visione prodotta nel senso per azione del corpo visibile, quando questo è già in contatto con il senso ed è percepito; il senso dunque o la visione, cioè il senso non informato dall’esterno o il senso informato dall’esterno appartiene alla natura dell’essere vivente, che è tutt’altra dal corpo percepito con la vista; perché questo oggetto informa il senso non perché esista come senso, ma perché abbia origine la visione. Infatti, se il senso non esistesse in noi anche prima che gli sia presentato l’oggetto visibile, non differiremmo dai ciechi quando, nell’oscurità o con gli occhi chiusi, non vediamo nulla. Ora noi differiamo da essi in questo che, anche quando non vediamo, abbiamo la facoltà di vedere, facoltà chiamata senso, mentre essi non l’hanno e non per altro sono chiamati ciechi, se non perché ne sono privi. Così pure l’attenzione dell’anima che tiene fisso il senso sull’oggetto che vediamo e che unisce l’uno all’altro, differisce per natura non soltanto dall’oggetto percepito (in quanto questa è anima, quello è corpo), ma anche dallo stesso senso e dalla visione, perché questa attenzione appartiene solo all’anima, mentre il senso della vista non per altro si chiama senso corporeo se non in quanto precisamente gli occhi stessi sono organi del corpo; e benché un corpo senza vita non senta, l’anima tuttavia, unita al corpo, sente per mezzo di uno strumento corporeo chiamato senso. Questo senso, allorché qualcuno diviene cieco, si estingue, per effetto di una sofferenza fisica, ma l’anima rimane la stessa e la sua attenzione, dopo la perdita della vista, non dispone più di un senso corporeo; essa non può più vedere congiungendo il senso all’oggetto esterno, né fissare lo sguardo sull’oggetto veduto. Tuttavia con gli stessi suoi sforzi testimonia che la perdita del senso non ha potuto né distruggerla né diminuirla. Infatti rimane in essa intatto un certo desiderio di vedere, sia che possa farlo, sia che non lo possa. Dunque questi tre elementi: il corpo che è veduto, la visione stessa, l’attenzione che unisce l’uno all’altra, sono manifestamente distinti, non soltanto per le loro proprietà rispettive, ma anche per la differenza di natura.

L’oggetto visibile imprime negli occhi la sua immagine

2. 3. In questo processo, sebbene il senso non provenga dal corpo veduto, ma dal corpo del soggetto dotato di sensazione e di vita - il corpo con il quale l’anima, in una maniera che le è propria, è in una misteriosa consonanza -, tuttavia è il corpo veduto che genera la visione, cioè è esso che informa il senso, cosicché non c’è più soltanto il senso, che anche nell’oscurità può restare intatto, finché gli occhi rimangono incolumi, ma c’è anche il senso informato, che si chiama visione. Dunque la visione è generata dall’oggetto visibile ma non da esso solo: occorre che ci sia anche uno che vede. Perciò la visione è generata dall’oggetto visibile e dal soggetto che vede; al soggetto che vede appartengono il senso della vista e l’attenzione con cui guarda e vede, mentre l’informazione del senso, che è chiamata visione, è impressa soltanto dal corpo veduto, cioè, da un oggetto visibile; se si toglie questa non rimane alcuna forma, che era inerente al senso mentre era presente l’oggetto veduto, ma rimane il senso che esisteva anche prima che percepisse cosa alcuna. Così l’acqua conserva il vestigio di un corpo fintantoché le è presente il corpo che pone in essa la sua impronta, ma se lo si toglie, non vi rimane traccia, sebbene rimanga l’acqua, che esisteva anche prima che ricevesse la forma di quel corpo. Perciò non possiamo dire che l’oggetto visibile generi il senso: genera tuttavia la forma che è come una sua somiglianza e che si produce nel senso quando, con la vista, percepiamo qualcosa. Ma non è lo stesso senso che ci permette di distinguere la forma del corpo che vediamo e la forma da essa prodotta nel senso del soggetto che vede, perché è così intima la loro unione, che non lascia luogo ad alcuna distinzione. È invece attraverso la ragione che possiamo concludere che la sensazione sarebbe del tutto impossibile se non si producesse nel nostro senso una certa similitudine del corpo percepito. Infatti, quando si applica alla cera un sigillo, non si può dire che non vi si produca alcuna immagine, per il motivo che essa non si può discernere, se non dopo la separazione. Ma perché la cera, una volta separata dal sigillo, conserva un’impronta visibile, ci persuadiamo facilmente che esisteva già nella cera l’impronta impressa dal sigillo, anche prima che esso ne fosse separato. Ma se applichiamo un sigillo ad un elemento liquido, una volta che lo si è tolto, non vi resta alcuna immagine; nondimeno la ragione non dovrebbe non comprendere che la forma del sigillo, da esso impressa, esisteva nel liquido, prima che si togliesse l’anello. Questa forma si deve distinguere da quella che è nell’anello; essa ne è il prodotto, essa che non esisterà più una volta tolto l’anello, benché rimanga nell’anello la forma che ha prodotto l’altra. Così del senso della vista non si può dire che non possiede l’immagine del corpo veduto, fintantoché lo percepisce, per il fatto che una volta che si toglie il corpo, l’immagine non resta. Con questo paragone si può, sebbene con molta difficoltà, convincere gli spiriti più tardi che si forma nel nostro senso un’immagine dell’oggetto visibile, quando lo vediamo, e che questa forma è la visione.

Il fatto è spiegato con un esempio

2. 4. Ma coloro che, per caso, hanno fatto l’esperienza che ricorderò, non proveranno tanta fatica in questa ricerca. Molto spesso, quando, per un certo tempo, abbiamo tenuto gli occhi fissi su qualche luce e poi li chiudiamo, crediamo di vedere passare davanti al nostro sguardo dei colori brillanti e vari che si succedono gli uni agli altri e che, sempre meno risplendenti, finiscono con lo scomparire del tutto. Bisogna ben comprendere che essi sono come tenue vestigio di quella forma impressa nel senso, al momento in cui il corpo luminoso si offriva alla vista e che a poco a poco, quasi gradualmente, variando, scompare. Se noi, per caso, contemplavamo le inferriate delle finestre di uno stabile, esse ci sono apparse spesso con determinati colori; è chiaro che questa affezione si era impressa nel nostro senso per opera dell’oggetto che contemplavamo. Essa esisteva dunque anche quando noi contemplavamo l’oggetto ed era pure più chiara e più viva, ma intimamente unita alla forma di quell’oggetto al punto da non poterne essere in alcun modo distinta: e questa era la visione. Anzi, quando la fiamma di una lampada è in qualche modo divenuta doppia, perché si sono fatti disgiungere i raggi visuali, c’è una doppia visione, sebbene sia una sola la cosa vista. Il fatto è che i raggi, emessi da ciascun occhio, sono impressionati separatamente fino a quando non li si lascia convergere insieme e congiuntamente sul corpo da vedere affinché, da due visioni, scaturisca un solo sguardo. Ecco perché, se noi chiudiamo un occhio, non vediamo più due fiamme, ma una sola, com’è in realtà. Perché, chiudendo l’occhio sinistro, cessiamo di vedere l’immagine di destra e, inversamente, perché chiudendo l’occhio destro, vediamo scomparire quella di sinistra? Sarebbe troppo lungo e superfluo per il problema che stiamo trattando cercarne la ragione e discuterne 4. Per il problema in questione ci basti affermare che, se non si producesse nel senso nostro un’immagine del tutto simile alla cosa che vediamo, non si duplicherebbe l’immagine della fiamma secondo il numero degli occhi, quando si adotta un certo modo di guardare, capace di far divergere i raggi che dovrebbero invece convergere. Infatti in qualsiasi modo un occhio sia diretto, impressionato, distorto, se l’altro è chiuso, è del tutto impossibile vedere doppio un oggetto unico.

Ciò che concorre alla visione differisce per natura, ma converge nell’unità

2. 5. Stando così le cose 5, ricordiamo come questi tre elementi, sebbene siano di diversa natura, si compongano in una specie di unità: voglio dire la forma del corpo visto, la sua immagine impressa nel senso, cioè la visione o il senso informato, e la volontà dell’anima che applica il senso all’oggetto sensibile e tiene la visione fissa su di esso. Il primo di questi elementi, cioè l’oggetto visibile, non appartiene alla natura dell’essere animato, eccetto nel caso in cui guardiamo il nostro corpo. L’altro invece gli appartiene, nel senso che l’immagine si produce nel corpo e, per mezzo del corpo, nell’anima; infatti si produce nel senso che, senza il corpo e senza l’anima, non esiste. Il terzo poi appartiene all’anima soltanto, perché è la volontà. Ora, per quanto differenti siano questi tre elementi per la loro sostanza, si fondono tuttavia in un’unità così perfetta che appena l’intervento del giudizio della ragione permette di distinguere i primi due, cioè la forma del corpo veduto e la sua immagine che si produce nel senso, ossia la visione. La volontà poi possiede tanta forza di urtare questi due, che applica il senso alla cosa vista per informarlo e, una volta informato, lo tiene fissato su di essa. E, se tale è, il suo impeto, che possa venir chiamato amore o concupiscenza o passione, giunge persino a turbare in modo veemente tutto il corpo animato e, se non trova la resistenza di una materia troppo inerte e resistente, fa assumere al corpo una forma o un colore simili a quelli dell’oggetto. Si può vedere il corpicciolo di un camaleonte variare, con estrema facilità, secondo i colori che vede. Poiché, presso gli altri animali, la massa corporea non si presta facilmente a questi cambiamenti, sono i piccoli nati che manifestano, nella maggior parte dei casi, i desideri delle loro madri, rivelando ciò che esse hanno contemplato con grande piacere. Infatti quanto più sono teneri e, per così dire, malleabili gli embrioni ai loro inizi, con tanta maggiore efficacia e duttilità si conformano all’intenzione dell’anima della madre, intenzione che in tale anima è diventata immagine ad opera del corpo che essa ha contemplato con cupidigia. Si potrebbero ricordare innumerevoli esempi, ma basta uno, tratto dalle Scritture, degno pienamente di fede: quello di Giacobbe, il quale, per ottenere che le sue pecore e le sue capre generassero dei figli di colori variegati, pose davanti ad esse, negli abbeveratoi, verghe di vari colori, affinché, bevendo, li vedessero nel periodo in cui avevano concepito 6.

Secondo vestigio: trinità del ricordo

3. 6. Ma l’anima razionale non vive secondo la sua natura, quando vive secondo la trinità dell’uomo esteriore, cioè quando si volge verso gli oggetti che informano dall’esterno il senso corporeo, non con la volontà lodevole che li riferisca a qualcosa di utile, ma con la turpe concupiscenza che ve la tiene strettamente attaccata. Perché, anche dopo la scomparsa della forma del corpo che era percepito corporalmente, resta di esso nella memoria una similitudine, verso cui la volontà può di nuovo volgere lo sguardo dell’anima, per informarlo dall’interno, come prima il senso veniva informato dall’esterno dall’oggetto sensibile. E così si produce una trinità, formata dalla memoria, dalla visione interna e dalla volontà che unisce l’una all’altra. Quando questi tre elementi si uniscono (coguntur) in un solo tutto, questa riunione (coactus) fa sì che questo tutto si chiami con il nome di pensiero (cogitatio). Non c’è più ora fra questi tre elementi diversità di sostanza. Non c’è più infatti quel corpo sensibile, del tutto diverso dalla natura dell’essere animato; né vi è il senso corporeo che viene informato affinché si produca la visione, né la volontà stessa si adopera più a mettere il senso in contatto con l’oggetto sensibile per informarlo e a tenervelo fissato una volta che è informato. Ma alla forma del corpo esteriormente percepito con il senso, succede la memoria che conserva quella forma di cui, per mezzo del senso corporeo, l’anima si è impregnata; in luogo della visione che si produceva all’esterno, quando il senso era informato dal corpo sensibile, si ha una visione interiore simile, quando il ricordo conservato nella memoria informa lo sguardo dell’anima e si pensa a dei corpi assenti; quanto alla volontà, allo stesso modo che per informare il senso lo metteva in contatto con l’oggetto corporeo e, una volta informato, ve lo teneva unito, così volge lo sguardo dell’anima, che evoca il ricordo, verso la memoria, affinché l’immagine conservata nella memoria informi questo sguardo e si produca nel pensiero una visione simile. Ma, come la ragione ci permetteva di distinguere la forma visibile che informava il senso corporeo dalla sua similitudine, che si produceva nel senso informato, perché ci fosse la visione (poiché la loro unione era così stretta che, senza la ragione, si sarebbero considerate una sola identica realtà), la stessa cosa vale per la visione immaginativa, quando l’anima pensa alla forma del corpo già veduto, in quanto è costituita dall’immagine del corpo conservata dalla memoria e da quella, originata dalla prima, che viene formata nello sguardo dell’anima che evoca il ricordo; tuttavia sembra che non vi sia che una sola ed identica realtà, al punto che non vi si possono scoprire due elementi se non con il giudizio della ragione, con la quale comprendiamo che una cosa è ciò che rimane nella memoria, anche quando si pensa ad una cosa diversa, altra cosa l’immagine che evoca il ricordo, quando ritorniamo alla nostra memoria e vi troviamo questa forma. Se questa forma non ci fosse più, la dimenticanza sarebbe di tale natura che ogni ricordo sarebbe del tutto impossibile. Se poi lo sguardo di colui che evoca questo ricordo non fosse informato ad opera di questa realtà conservata nella memoria, non si potrebbe realizzare in alcun modo la visione del pensiero. Ma l’unione di queste due realtà, cioè dell’immagine che è conservata dalla memoria e dell’espressione che se ne forma nello sguardo di colui che evoca il ricordo, poiché sono somigliantissime, fa sì che esse appaiano come una sola realtà. Ma quando lo sguardo del pensiero si sia distolto da quella immagine e abbia cessato di guardare l’immagine che vedeva nella memoria, non resterà nulla della forma che si era impressa in esso e sarà informato dal ricordo verso cui si sarà volto perché abbia origine un nuovo pensiero. Tuttavia nella memoria resta il ricordo abbandonato verso cui lo sguardo si possa volgere, quando vogliamo evocarlo, e ad opera del quale sia informato per questo stesso suo volgersi e così si formi una certa unità con il principio informante.

Compito della volontà

4. 7. Ma quella volontà che porta e riporta di qua, di là, per informarlo, lo sguardo e, una volta informato, lo tiene unito al suo oggetto, se si concentra tutta intera sull’immagine interiore e se distoglierà del tutto lo sguardo dell’anima dalla presenza dei corpi che stanno attorno ai nostri sensi e dagli stessi sensi corporei, e lo volgerà pienamente all’immagine che si vede internamente, la somiglianza della forma corporea, espressa dalla memoria, prende un tale rilievo che nemmeno la stessa ragione riesce a distinguere se si tratti di un corpo esterno, realmente percepito, o del pensiero che se ne ha internamente. Infatti talvolta gli uomini, affascinati o atterriti da una rappresentazione troppo viva delle cose visibili, si sono messi a pronunciare improvvisamente delle parole, come se si trovassero realmente nel vivo di quelle azioni o passioni. E ricordo di aver sentito raccontare da un tale che egli era solito farsi una rappresentazione così viva e, per così dire, talmente materiale di un corpo femminile, che la sensazione di essere ad esso unito come in modo carnale, giungeva al punto di provocargli l’emissione di seme. Tanta è la forza che ha l’anima di agire sul suo corpo, e tanto il suo potere di modificare e cambiare 7 il comportamento di questa veste corporale, che essa si può paragonare ad un uomo che, dopo aver indossato un abito, sia inseparabile da questa veste. A questo stesso genere di affezioni appartiene il gioco di immagini che avviene in noi durante il sonno. Ma occorre distinguere bene il caso in cui, essendo i sensi assopiti, come nel sonno, o soffrendo di un turbamento organico, come nella follia, o essendo in qualche modo alienati, come accade agli indovini ed ai profeti, l’attenzione dell’anima si porta necessariamente sulle immagini che le sono presentate o dalla memoria o da qualche altra forza occulta, attraverso una mescolanza di rappresentazioni spirituali ugualmente appartenenti ad una sostanza spirituale, dall’altro caso in cui, come accade talvolta ad uomini sani ed in stato di veglia, la volontà, tutta presa dal pensiero, si distoglie dai sensi, e informa lo sguardo dell’anima di diverse immagini di oggetti sensibili, in modo tale che si abbia l’impressione di percepire gli oggetti sensibili stessi. Queste impressioni immaginative non si producono solo quando la volontà, spinta dal desiderio, fissa la sua attenzione su tali immagini interiori, ma anche quando, volendo evitarle e difendersene, l’anima si vede forzata a contemplare ciò che non vorrebbe vedere. Perciò non solo il desiderio, ma anche il timore, fissa il senso sulle cose sensibili o lo sguardo dell’anima sulle immagini degli oggetti sensibili perché ne sia informato. Ecco perché, quanto più sono violenti il desiderio o il timore, lo sguardo è informato in maniera tanto più nitida, sia che esso senta perché informato ad opera di un corpo situato nello spazio, sia che pensi perché informato ad opera dell’immagine di un corpo presente nella memoria. Dunque ciò che un corpo esteso è in rapporto al senso, l’immagine del corpo presente alla memoria è in rapporto allo sguardo dell’anima e, ciò che è la visione di colui che guarda in rapporto alla forma del corpo ad opera della quale il senso è informato, lo è la visione di colui che pensa in rapporto all’immagine del corpo fissata nella memoria, ad opera della quale è informato lo sguardo dell’anima; infine ciò che è l’attenzione della volontà in rapporto all’unione dell’oggetto percepito e della visione in modo che si formi di tre elementi una specie di unità (benché questi elementi siano di diversa natura) questa stessa attenzione della volontà è in rapporto all’unione dell’immagine del corpo presente alla memoria e della visione del pensiero, cioè della forma che prende lo sguardo dell’anima ripiegandosi sulla memoria, in modo che ci sia anche qui una certa unità di tre elementi, questa volta non più distinti per diversità di natura, ma appartenenti ad una sola ed identica sostanza, perché tutto questo è interiore e tutto è una sola anima.

La trinità dell’uomo esteriore non è immagine di Dio

5. 8. Così come, una volta scomparse la forma e l’apparenza del corpo, la volontà non vi può applicare il senso della vista, allo stesso modo una volta che l’oblio ha distrutto l’immagine presente alla memoria la volontà non ha più dove volgere lo sguardo dell’anima perché ne sia informato ad opera del ricordo. Tuttavia, poiché il potere dell’anima giunge fino a rappresentarsi non solo delle cose dimenticate, ma anche delle cose di cui non ha mai avuto percezione né esperienza, aumentando, diminuendo, cambiando, accostando a suo piacimento i ricordi che non sono scomparsi, essa spesso immagina un oggetto sotto una certa forma mentre sa che esso non l’ha, o ignora se l’ha. In questo caso deve guardarsi dalla menzogna che inganni gli altri, o dalla illusione che inganni essa stessa. Una volta evitati questi due mali, questi fantasmi dell’immaginazione non apportano alcun nocumento all’anima, come non le apportano alcun nocumento le cose sperimentate con i sensi e conservate dalla memoria, se non sono desiderate con cupidigia qualora siano utili, e se non si evitano disonestamente, se sono dannose. Ma quando la volontà, a scapito di beni migliori, si diletta con avidità di queste cose, essa si contamina e così le è funesto il pensarvi quando sono presenti, più funesto ancora quando sono assenti. Si vive dunque male e in maniera non conforme alla propria natura, quando si vive secondo la trinità dell’uomo esteriore. Perché è il desiderio di far uso delle cose sensibili e corporee che genera anche quella stessa trinità che, sebbene se le immagini all’interno, tuttavia si rappresenta delle cose esteriori. Nessuno infatti potrebbe far uso, anche onestamente, di questi beni, se la memoria non conservasse le immagini degli oggetti percepiti; e se la parte più nobile della volontà non abita in una regione più alta e più interiore e, se quella stessa parte della volontà che è in contatto, all’esterno, con i corpi, o all’interno, con le loro immagini, non mette in rapporto tutto ciò che in essi si trova ad una vita migliore e più vera, e non si riposa in quel fine intuendo il quale giudica come vadano compiute queste cose, che altro facciamo noi se non ciò che ci proibisce di fare l’Apostolo, che dice: Non vogliate conformarvi a questo secolo 8? Pertanto non è questa trinità l’immagine di Dio 9, perché si produce nell’anima attraverso il senso del corpo, avendo cioè origine dalla creatura più imperfetta, la creatura corporea, alla quale l’anima è superiore. Ma tuttavia la dissomiglianza non è assoluta: che cosa c’è infatti che, secondo il suo genere e la sua natura, non abbia una rassomiglianza con Dio, se Dio ha fatto ogni cosa molto buona 10, precisamente perché Egli è bontà somma? Dunque, in quanto ogni essere è buono, possiede, sebbene molto imperfetta, una certa rassomiglianza con il sommo Bene; e, se è naturale, essa è retta e ordinata; se invece viziosa, essa è turpe e perversa. Infatti, perfino nei loro peccati, le anime, con una libertà orgogliosa, pervertita e, per così dire, servile, non cercano altro che una certa rassomiglianza con Dio 11. Così nemmeno i nostri primi genitori avrebbero potuto consentire al peccato se non fosse stato loro detto: Sarete come dèi 12. Certamente non tutto ciò che nelle creature è, in qualche modo, simile a Dio, si ha da chiamare anche immagine di Lui; ma quella sola alla quale Egli solo è superiore. Perché l’immagine che è espressione diretta di Lui è quella tra la quale e Lui stesso non si interpone alcuna creatura.

Le relazioni fra i tre elementi della prima trinità

5. 9. Di quella visione dunque - cioè di quella forma che si produce nel senso del soggetto che vede - è, in qualche modo, come genitrice la forma del corpo da cui ha origine. Ma questa non è tuttavia la sua vera genitrice e perciò nemmeno quella è la vera sua prole, infatti non è totalmente generata da essa, perché concorre qualcosa d’altro, oltre all’oggetto, perché la visione si formi da esso, e cioè il senso del soggetto che vede. Ecco perché amare l’oggetto è follia 13. La volontà che unisce l’uno all’altro, come il generante al generato, è dunque più spirituale di ciascuno di essi. Infatti il corpo percepito non è affatto spirituale. La visione invece, prodotta dal senso, possiede in sé un elemento spirituale, perché senza l’anima non potrebbe aver luogo. Ma essa non è totalmente spirituale, perché, ciò che è informato, è il senso corporeo. La volontà che unisce l’uno all’altro è dunque manifestamente, come ho detto, più spirituale, e perciò essa è, in questa trinità, come il primo annuncio della persona dello Spirito. Ma essa è più prossima al senso informato che al corpo che informa. Infatti il senso appartiene all’essere animato (animantis) e la volontà appartiene all’anima (animae), non alle pietre o a qualche altro corpo percepito. Dunque non procede da quello che in qualche modo si può considerare come padre, ma nemmeno da questa, che si può considerare in qualche modo come prole, intendo dalla visione o forma che si trova nel senso. Infatti, prima che la visione si producesse, la volontà esisteva già, essa che applica il senso, perché ne sia informato, al corpo da percepire: ma non c’era ancora la compiacenza. Come avrebbe potuto infatti essere oggetto di compiacenza, ciò che ancora non era stato visto? La compiacenza è la volontà in riposo. Perciò non possiamo affermare né che la volontà è in qualche modo la prole della visione, perché esisteva già prima della visione, né che essa ne è in qualche modo la genitrice, perché la visione non dalla volontà ma dal corpo percepito trae la sua forma ed espressione.

Il fine vero della volontà

6. 10. Forse possiamo dire a ragione che, almeno in questo caso preciso, la visione è il fine e il riposo della volontà. Infatti non perché vede ciò che voleva vedere, ne consegue che non voglia null’altro. Non è dunque nel modo più assoluto la volontà umana, che non ha per fine se non la beatitudine 14, ma, in questo caso preciso, è la volontà divenuta momentaneamente volontà di vedere questa sola cosa, che ha per fine soltanto la visione, la riferisca o no a qualche altra cosa. Se infatti la volontà non riferirà la visione ad altra cosa, ma ha soltanto voluto vedere, non sarà necessario dimostrare come sia la visione il fine della volontà: è una cosa evidente. Se invece la riferirà ad altra cosa, allora vuole certamente un’altra cosa e così non sarà più semplice volontà di vedere o se è volontà di vedere, non è volontà di vedere questa cosa. È ciò che accade quando uno, per esempio, vuole vedere una cicatrice per provare che c’è stata una ferita, o vuol vedere una finestra per guardare, attraverso la finestra, i passanti. Tutti questi atti di volontà ed altri simili hanno i loro propri fini, che sono riferiti al fine di quella volontà in virtù della quale vogliamo vivere beati 15 e giungere a quella vita che non si riferisca ad altra cosa, ma che basti essa stessa di per sé a colui che la ama. La volontà di vedere ha dunque come fine la visione, e la volontà di vedere questa cosa ha come fine la visione di questa cosa. Così la volontà di vedere una cicatrice, tende al suo fine, cioè alla visione della cicatrice, e ciò che è al di fuori non la riguarda, perché la volontà di provare che ci fu una ferita è un’altra volontà che, sebbene vincolata alla prima, ha come fine di provare l’esistenza della ferita. E la volontà di vedere la finestra ha come fine la visione della finestra; perché è un’altra la volontà di osservare i passanti attraverso la finestra, volontà che, legata alla prima, ha come fine la visione dei passanti. Rette sono queste volontà e tutte ben unite tra loro, se è buona la volontà alla quale tutte si riferiscono; se invece questa è cattiva, tutte sono cattive. E perciò la connessione delle volontà rette è una specie di itinerario di ascesa alla beatitudine, itinerario che si compie, per così dire, con passi sicuri. Al contrario, l’intricarsi delle volontà cattive e sviate è un legame che incatena chi fa il male, perché sia gettato nelle tenebre esteriori 16. Beati dunque coloro che con le loro opere e i loro costumi cantano il cantico delle ascensioni 17; e guai a coloro che trascinano i loro peccati come una lunga corda 18. Questo riposo della volontà, che chiamiamo fine, è paragonabile, se viene riferito a sua volta ad altra cosa, al riposo del piede nel camminare, quando lo si posa per permettere all’altro piede di appoggiarsi quando si avanza camminando. Se poi qualcosa piace al punto che la volontà vi si riposi con qualche compiacenza, non è tuttavia il fine al quale si tende, ma è rapportato ad un altro fine; appaia non come la patria per il cittadino, ma come una sosta, o una tappa per il viaggiatore.

Le relazioni fra i tre elementi della seconda trinità

7. 11. La seconda trinità, è vero, è più interiore di quella che risiede nelle cose sensibili e nei sensi, ma tuttavia da qui trae la sua origine. Non è più il corpo esteriore che informa il senso corporeo, ma la memoria che informa lo sguardo dell’anima, una volta che si è fissata in essa l’immagine del corpo percepito esteriormente; questa immagine presente alla memoria noi chiamiamo quasi genitrice di quella che si produce nell’immaginazione del soggetto che pensa. Essa esisteva infatti nella memoria anche prima che fosse pensata da noi, come il corpo esisteva nello spazio anche prima che fosse percepito per produrre la visione. Ma quando si pensa, l’immagine, che la memoria conserva, si riproduce nello sguardo del soggetto pensante e tramite il ricordo si forma quell’immagine che è quasi la prole di quella che la memoria conserva. Ma tuttavia né questa è vera genitrice, né quella è vera prole. Perché lo sguardo dell’anima che è informato ad opera della memoria, quando ricordando pensiamo qualcosa, non procede da quella forma che ricordiamo d’aver vista; senza dubbio sarebbe impossibile ricordarci di quelle cose, se non le avessimo viste, ma lo sguardo dell’anima, che è informato ad opera del ricordo, esisteva anche prima che vedessimo il corpo di cui ci ricordiamo; a maggior ragione esisteva prima che se ne fissasse l’immagine nella memoria. Sebbene dunque la forma che si produce nello sguardo del soggetto che ricorda provenga da quella che è immanente alla memoria, tuttavia lo sguardo non trae da essa la sua origine, ma esisteva prima di ciò. Ne consegue così che, se quella non è vera genitrice, nemmeno questa è prole. Ma quella, che è quasi genitrice, e questa, che è quasi prole, suggeriscono qualcosa a partire da cui si possono vedere in maniera più certa e sicura delle realtà più interiori e più vere.

7. 12. È ora più difficile discernere bene se la volontà che unisce la visione alla memoria non abbia con qualcuna delle due un rapporto di paternità e di filiazione. Ciò che rende difficile questa distinzione è la parità e l’eguaglianza di natura e di sostanza. Infatti qui non accade come nella conoscenza di un oggetto esterno, dove è facile distinguere il senso informato e il corpo sensibile e la volontà dall’uno e dall’altro, a motivo della differenza di natura che oppone tra loro tutti questi tre elementi, come abbiamo sufficientemente spiegato prima. Sebbene la trinità, di cui ora si tratta, sia stata introdotta dall’esterno nell’anima, tuttavia si attua nell’interno e nessuno dei suoi elementi è estraneo alla natura dell’anima stessa. In qual maniera dunque si può dimostrare che la volontà non è quasi genitrice, neppure quasi prole, né dell’immagine corporea contenuta nella memoria, né di quella che quando ricordiamo ne è l’espressione, dato che la volontà nell’atto di pensare unisce l’una all’altra in modo tale che appaia un qualcosa di singolare ed unico, i cui elementi non si possono discernere se non con la ragione? E bisogna rilevare anzitutto che non potrebbe esistere la volontà di ricordare, se non conservassimo nelle profondità più riposte della memoria tutta o in parte la cosa che vogliamo ricordare. Infatti quando ci siamo dimenticati in modo totale ed assoluto di una cosa, non ha origine nemmeno la volontà di ricordarla, perché di qualsiasi cosa che vogliamo ricordare, ci ricordiamo già che essa esiste o esisteva nella nostra memoria. Per esempio, se voglio ricordare che cosa abbia mangiato ieri sera a cena, mi ricordo già che ho cenato, o se questo ricordo mi sfugge ancora, mi ricordo almeno qualche circostanza relativa all’ora di cena; non foss’altro, almeno, mi ricordo il giorno di ieri, la parte del giorno in cui si ha l’abitudine di cenare, e che cosa sia cenare. Perché se non mi ricordassi niente di simile, non potrei voler ricordare che cosa abbia mangiato ieri a cena. Da queste cose si può comprendere che la volontà di ricordare procede dalle immagini contenute nella memoria, alle quali vengono ad aggiungersi quelle che ne sono l’espressione nella visione che produce l’evocazione del ricordo, cioè essa procede dall’unione tra la cosa che ricordiamo e la visione che ne scaturisce nello sguardo del pensiero, quando evochiamo il ricordo. La stessa volontà che unisce questi due elementi ne esige un terzo, che è, in qualche modo, vicino e prossimo a colui che ricorda. Vi sono dunque tante trinità di questo genere, quanti sono gli atti di ricordare, perché è impossibile alcun ricordo se non ci sono questi tre elementi: ciò che è latente nella memoria anche prima che lo si pensi, ciò che si produce nel pensiero quando lo si guarda, e la volontà che unisce l’uno all’altro e che, terzo termine, aggiungentesi agli altri due, fa dell’insieme un tutto compiuto. A meno che non si voglia vedere qui una sola trinità generica, così da chiamare una unità generica tutte le forme corporee latenti nella memoria, e poi un’altra unità la visione generale dell’anima che tali cose ricorda e pensa, all’unione delle quali due unità si aggiunge la volontà unificante, come terzo elemento, in modo che da questi tre termini si formi un tutto unico.

Memoria ed immaginazione

8. Ma poiché l’occhio dell’anima non può abbracciare con un solo sguardo tutto insieme ciò che la memoria ritiene, si alternano di volta in volta, cedendo il posto e succedendosi le trinità degli atti di pensiero, e così ha origine questa trinità innumerevolmente numerosa: non infinita tuttavia, se non si supera il numero delle cose racchiuse nella memoria. Infatti, a partire dal momento in cui ciascuno ha cominciato a sentire i corpi grazie all’uno o all’altro dei sensi corporei, anche se potesse aggiungervi tutto ciò che ha dimenticato, il numero dei ricordi sarebbe fisso e determinato, ancorché innumerevole. Noi infatti chiamiamo innumerevoli non solo le cose infinite, ma anche le quantità finite che superano la nostra capacità di contare.

8. 13. A partire da queste riflessioni si può rilevare in maniera un po’ più chiara che una cosa è ciò che è tenuto occulto nella memoria, altra cosa ciò che se ne esprime nel pensiero dell’uomo che ricorda, sebbene, quando si verifica la loro unione, sembrino costituire una cosa unica ed identica, perché non possiamo ricordarci delle forme corporee, se non in base al numero, all’intensità e al modo delle nostre sensazioni; infatti è a partire dal senso corporeo che l’anima si impregna di queste forme incidendole nella memoria: tuttavia tutte quelle visioni di coloro che pensano hanno certo come punto di partenza queste cose che sono presenti nella memoria, ma si moltiplicano e si diversificano in maniera innumerevole e veramente infinita. Io ricordo un sole solo, perché non ne ho visto che uno, come è in realtà, ma, se lo voglio, ne immagino due, o tre, o quanti ne voglio, ma il mio sguardo che ne pensa molti è informato ad opera della stessa memoria che me ne fa ricordare uno solo. Le dimensioni del sole che ricordo, sono identiche a quelle di quel sole che ho visto. Perché se me lo ricordo maggiore o minore di quello che ho visto, non mi ricordo più ciò che ho visto, e dunque non me ne ricordo. Ma poiché me ne ricordo, lo ricordo con le dimensioni identiche alle dimensioni di quello che ho visto, ma posso a mio piacimento rappresentarmelo sia maggiore che minore. Ed ancora, lo ricordo come l’ho visto, ma me lo rappresento in movimento come mi piace, immobile dove mi piace, veniente dal luogo che voglio, dirigentesi verso il luogo che voglio. Rappresentarmelo anche quadrato è in mio potere, sebbene lo ricordi rotondo e posso rappresentarmelo con qualsiasi colore, benché non abbia mai visto un sole verde, e perciò non me lo possa ricordare così. Ciò che vale per il sole, si può affermare per le altre cose. Ora, poiché queste forme delle cose sono corporee e sensibili, l’anima erra quando ritiene che esse esistano esteriormente nella stessa maniera in cui essa se le rappresenta interiormente, sia quando sono scomparse all’esterno, e sono ancora conservate nella memoria, sia anche quando ce ne formiamo un’immagine diversa da quella che ricordiamo, basandoci non sulla fedeltà del ricordo ma sul gioco della rappresentazione.

8. 14. Si potrebbe obiettare che molto spesso crediamo a coloro che ci narrano delle cose vere, che essi stessi hanno percepito con i loro sensi. Poiché il semplice udire la narrazione di queste cose provoca in noi la rappresentazione, non sembra che lo sguardo dell’anima faccia ritorno sulla memoria per produrre le visioni della rappresentazione. Non è infatti secondo i nostri ricordi che le pensiamo, ma secondo la narrazione di un altro; allora sembra che qui non si realizzi quella trinità di elementi, che esiste quando la forma latente nella memoria e la visione di colui che ricorda sono uniti da un terzo elemento: la volontà. Infatti non ciò che era latente nella mia memoria, ma ciò che odo, penso, quando mi si narra qualcosa. Non parlo qui delle parole che sento pronunciare, perché qualcuno non creda che io sia uscito dal mio argomento per alludere alla trinità che si realizza esteriormente nelle cose sensibili e nei sensi; no, ciò a cui penso sono le immagini corporee che colui che narra suggerisce con le sue parole, con i suoni; immagini che penso, evidentemente, non basandomi sui miei ricordi, ma su ciò che odo raccontare. Tuttavia, nemmeno in questo caso, se si considera la cosa con maggior diligenza, si superano i limiti della memoria. Infatti non potrei nemmeno comprendere colui che narra, se le cose di cui parla, supponendo anche che le udissi per la prima volta unite in una stessa narrazione, non rispondessero tuttavia, prese singolarmente, ad un ricordo generico. Colui che, per esempio, mi parla nella sua narrazione di un monte spoglio di foreste o popolato di ulivi, lo narra a me che ho nella memoria le immagini dei monti, delle foreste e degli ulivi; se me le fossi dimenticate non comprenderei assolutamente che cosa dice e perciò non potrei pensare ciò che dice nella sua narrazione. Così chiunque pensi delle cose corporee, sia che lui stesso si crei l’immagine di qualche oggetto, sia che oda o legga la narrazione di cose passate o l’annuncio di cose future 19, ricorre alla sua memoria per trovarvi la misura e la regola di tutte le forme che il suo pensiero contempla. Infatti nessuno può assolutamente pensare né un colore, né una forma corporea che non ha mai visto, né un suono che mai ha udito, né un sapore che non ha mai gustato, né un odore che non ha mai sentito, né un contatto corporeo che non ha mai provato. Se dunque nessuno può pensare qualcosa di corporeo senza averlo sentito, perché lo stesso ricordo di un oggetto corporeo suppone la percezione sensibile, ne consegue che, come i corpi lo sono della percezione, la memoria è la misura del pensiero. Infatti il corpo riceve la forma dal corpo che sentiamo e dal senso la riceve la memoria; dalla memoria poi lo sguardo di colui che pensa.

Compito della volontà

8. 15. La volontà infine come applica il senso al corpo così applica la memoria al senso e lo sguardo di colui che pensa alla memoria. Ma questa volontà che ravvicina queste cose e le congiunge, è essa stessa che anche le distingue e le separa. Ma è con un movimento del corpo che essa separa i sensi corporei dagli oggetti sensibili per impedire la percezione di qualcosa o per interromperla, come accade quando distogliamo gli occhi da ciò che non vogliamo vedere e li chiudiamo, come le orecchie se si tratta di suoni, le narici se si tratta di odori. Così pure chiudendo la bocca o sputando fuori qualcosa che vi teniamo, ci manteniamo lontani dai sapori. Così anche per quanto concerne il tatto, ci distanziamo dal corpo che non vogliamo toccare; se già lo toccavamo, lo gettiamo lontano e lo respingiamo. È dunque con un movimento del corpo che la volontà impedisce l’unione del senso corporeo con gli oggetti sensibili. Essa lo impedisce nella misura in cui lo può, perché, quando per la nostra condizione inferiore e mortale essa in questa sua azione patisce delle difficoltà, ne consegue una sofferenza corporea, cosicché non le resta che il ricorso alla pazienza. La volontà invece distoglie la memoria dal senso quando, fissando altrove l’attenzione, non le permette di unirsi agli oggetti presenti. È un’esperienza facile a farsi quando, avendo il pensiero intento ad altra cosa, ci pare di non aver udito qualcuno che parla in nostra presenza. Ma non è vero; noi infatti abbiamo udito, ma non ricordiamo, perché le parole non facevano che scivolare attraverso le orecchie, essendo rivolta altrove l’attenzione della volontà, che ordinariamente le incide nella memoria. Sarebbe più giusto dire, quando accade qualcosa di simile: "Non ricordiamo", invece che: "Non abbiamo udito". Infatti lo stesso accade a coloro che leggono; a me stesso accade assai di frequente di terminare la lettura di una pagina o di una lettera senza sapere che cosa abbia letto e di ricominciare da capo. Essendo intenta altrove l’attenzione della volontà, la memoria non si è applicata al senso del corpo, come invece il senso si è applicato alle lettere. Così quelli che camminano, avendo la volontà intenta ad altre cose, non sanno per dove siano passati; tuttavia se non avessero visto non avrebbero camminato, o avrebbero camminato a tastoni con maggiore attenzione, soprattutto se fossero avanzati in luoghi sconosciuti; ma, poiché hanno camminato senza difficoltà, hanno visto di certo. In quanto però, mentre la loro vista era in contatto con i luoghi che attraversavano, la loro memoria non era unita al senso, non hanno potuto assolutamente ricordare ciò che hanno visto, anche soltanto un istante prima. Si vede dunque che voler distogliere lo sguardo dell’anima da ciò che è contenuto nella memoria equivale a non pensarlo.

L’ordine delle quattro forme della conoscenza sensibile

9. 16. Dunque in questa analisi, che a partire dalla forma corporea giunge fino alla forma che si produce nello sguardo del pensiero, abbiamo scoperto quattro forme nate quasi gradualmente l’una dall’altra; la seconda dalla prima, la terza dalla seconda, la quarta dalla terza. Dalla forma del corpo percepito, nasce quella che si produce nel senso di colui che vede; da essa quella che si produce nella memoria; da quest’ultima quella che si produce nello sguardo del pensiero. Perciò la volontà, a tre riprese, unisce dei termini che sono in qualche modo nel rapporto di generante e generato; in un primo momento la forma del corpo con quella che questa genera nel senso corporeo; in un secondo momento questa seconda con quella da essa prodotta nella memoria; in un terzo momento infine questa con quella da questa generata nello sguardo di colui che pensa l’oggetto. Ma l’unione intermedia - la seconda -, sebbene più prossima, non è altrettanto simile alla prima come lo è alla terza. Vi sono infatti due visioni: l’una di chi sente, l’altra di chi pensa. Ora perché possa esistere la visione del pensiero, nasce nella memoria, prodotta dalla visione del senso, una certa similitudine, verso cui si volge, nel pensare, lo sguardo dell’anima, come nel vedere si volge verso il corpo lo sguardo degli occhi. Ecco perché ho voluto menzionare due trinità in questo genere di realtà; una, quando la visione di colui che pensa è informata dal corpo; un’altra, quando la visione di colui che pensa è informata dalla memoria. Non ho voluto menzionare la trinità intermedia, perché ordinariamente non si dice che c’è visione, quando si affida alla memoria la forma che si produce nel senso di colui che vede. In tutti questi momenti tuttavia la volontà non appare che come elemento di unione di due elementi che sono, in qualche modo, in rapporto di generante e generato, e perciò da qualunque fonte proceda non si può chiamare né generante né generata.

L’immaginazione

10. 17. Ma se non ci ricordiamo che di ciò che abbiamo percepito, né pensiamo se non ciò che ricordiamo, perché molto spesso pensiamo cose false, mentre non sono falsi i nostri ricordi di ciò che abbiamo percepito? Il motivo va ricercato nel fatto che la volontà, che ha la funzione di unire e separare le realtà di questo genere, come mi sono sforzato di dimostrare per quanto ho potuto, conduce a suo piacimento lo sguardo di chi pensa, per informarlo attraverso i ricordi latenti della memoria e, al fine di fargli pensare delle cose che non sono nella memoria a partire da quelle che vi si trovano, lo spinge a prendere un elemento di qui, un altro di là. Questi elementi riuniti in una sola visione costituiscono un tutto che si giudica falso, perché o non esiste al di fuori, nella natura delle cose corporee, o non è espressione del ricordo latente nella memoria, dato che non ci ricordiamo di aver percepito qualcosa di simile. Chi infatti ha mai visto un cigno nero? Dunque non c’è nessuno che ricorda un cigno nero, ma chi non può pensarlo? È facile infatti rivestire quella figura, che conosciamo per averla vista, di colore nero, che noi abbiamo ugualmente visto in altri corpi; e, poiché abbiamo visto l’uno e l’altro, dell’uno e dell’altro abbiamo il ricordo. Non ho il ricordo di un uccello quadrupede, perché non l’ho mai visto, ma mi è molto facile farmene una rappresentazione immaginaria, quando alla forma di un volatile, quale l’ho vista, aggiungo altri due piedi, quali ne ho ugualmente visti 20. Perciò, quando pensiamo unite delle caratteristiche che ricordiamo di aver percepito separate, ci sembra di non pensare qualcosa che corrisponda al ricordo della nostra memoria; e tuttavia, facendo questo, agiamo sotto la guida della memoria, dalla quale attingiamo tutti gli elementi che, ad arbitrio, congiungiamo in maniera molteplice e varia. Così non pensiamo nemmeno dei corpi con dimensioni che non abbiamo mai visto, senza l’aiuto della memoria. Infatti quanto grande è lo spazio che può abbracciare lo sguardo, sviluppandosi nella grandezza dell’universo, altrettanto estendiamo le dimensioni dei corpi, quando li pensiamo più grandi possibile. La ragione va oltre, ma l’immaginazione non la segue, come quando la ragione proclama l’infinità del numero che nessuna visione di chi pensa le cose corporee può attingere. La stessa ragione ci insegna che sono divisibili all’infinito anche i corpuscoli più piccoli; tuttavia quando giungiamo a quei corpi così sottili e minuti di cui ci ricordiamo per averli visti, non possiamo immaginare particelle più piccole e più esigue, sebbene la ragione prosegua la sua opera di divisione. Così gli oggetti corporei che pensiamo, non possono essere che quelli di cui ci ricordiamo o quelli formati a partire da questi di cui ci ricordiamo.

Numero, peso e misura

11. 18. Ma poiché possono essere pensati numerose volte dei ricordi che sono impressi una sola volta nella memoria, sembra che la misura appartenga alla memoria, il numero invece alla visione. Perché, sebbene la moltitudine di tali visioni sia innumerevole, ciascuna di esse tuttavia trova nella memoria un limite insuperabile che la misura. La misura appare dunque nella memoria, nelle visioni il numero; così c’è nei corpi visibili una certa misura su cui si regola, un gran numero di volte, il senso di coloro che li vedono, e un solo oggetto informa lo sguardo di molti che lo guardano, cosicché anche un solo uomo, perché ha due occhi, può vedere molto spesso una duplice immagine di uno stesso oggetto, come sopra abbiamo mostrato. In questi oggetti dunque che danno origine alla visione, vi è una specie di misura, invece nelle visioni stesse il numero. A sua volta la volontà che congiunge, ordina questi elementi e li unisce in una certa unità, e che, riposandovisi, non fissa il desiderio di percepire e di pensare se non sugli oggetti da cui prendono forma le visioni, è simile al peso. Perciò anche in tutti gli altri esseri si incontrano questi tre attributi: misura, numero e peso 21. Per il momento ho dimostrato, come ho potuto, e con gli argomenti che ho potuto trovare, che la volontà che unisce l’oggetto visibile e la visione in una specie di rapporto di generante e generato, sia nella sensazione, sia nel pensiero, non si può chiamare né genitrice né prole. È dunque tempo di cercare questa stessa trinità nell’uomo interiore, e a partire da questo uomo animale e carnale che è chiamato esteriore, e del quale ho parlato così a lungo, tendere verso le realtà interiori 22. Dove speriamo di trovare l’immagine di Dio 23 riflesso della sua Trinità, se Dio stesso aiuta i nostri sforzi, Lui che, come le cose stesse mostrano, e la stessa Scrittura santa attesta, ha ordinato ogni cosa con misura, numero e peso 24.

 

LIBRO DODICESIMO

L’uomo esteriore e l’uomo interiore

1. 1. Vediamo ora dove si trovi ciò che è come il confine tra l’uomo esteriore e l’uomo interiore. Perché tutto ciò che nella nostra anima ci è comune con gli animali si dice, e a ragione, che appartiene ancora all’uomo esteriore. Infatti non solo il corpo costituisce l’uomo esteriore, ma va aggiunta questa specie di vita che dà vigore all’organismo corporeo e a tutti i sensi dei quali è dotato per sentire i corpi esterni; le immagini di questi corpi sentiti, fissate nella memoria e rappresentate con il ricordo, appartengono ancora all’uomo esteriore. In tutto questo non ci differenziamo dagli animali se non perché, per la conformazione del nostro corpo, non siamo proni ma eretti 1. Questo privilegio, secondo l’intenzione di Colui che ci ha creato, ci ammonisce di non essere con la nostra parte migliore, cioè con l’anima, simili agli animali, dai quali ci distingue la statura eretta. Non che noi dobbiamo fissare l’anima sui corpi che sono in alto, perché, cercare il riposo della volontà in tali cose, sarebbe ancora trascinare verso il basso l’anima. Ma come il nostro corpo, per natura, è eretto verso quelli che tra i corpi sono i più elevati, cioè verso i corpi celesti, così la nostra anima, che è sostanza spirituale, ha da volgersi verso quelle che sono le più elevate tra le realtà spirituali; non con un’esaltazione orgogliosa, ma con un pio amore della giustizia.

La conoscenza delle verità eterne

2. 2. Anche gli animali possono percepire, per mezzo dei sensi corporei, i corpi esteriori, ricordandosene dopo che si sono fissati nella memoria; desiderare, fra essi, quelli che sono utili, fuggire quelli che sono nocivi. Ma non possono invece fissare su di essi l’attenzione; ritenere, oltre ai ricordi spontaneamente captati dalla memoria, quelli che ad essa si affidano intenzionalmente; imprimerveli di nuovo, quando stanno già per cadere in dimenticanza, ricordandoli e pensandoli in modo che, come il pensiero si forma a partire dal contenuto della memoria, così lo stesso contenuto della memoria sia consolidato dal pensiero; costruire visioni immaginarie raccogliendo e, per così dire, ricucendo questi e quei ricordi presi di qui e di là; vedere come, in questo genere di cose, il verosimile si distingue dal vero, non nell’ordine spirituale, ma perfino nell’ordine materiale; tutti questi fenomeni, ed altri di tal genere, sebbene si svolgano e si trovino nell’ordine sensibile e nell’ordine delle conoscenze che l’anima ha attinto per mezzo dei sensi corporei, tuttavia non sono estranei alla ragione, né sono un qualcosa di comune agli uomini ed agli animali. Ma è compito della ragione superiore il giudicare di queste cose corporee, secondo le leggi incorporee ed eterne. Se queste non fossero al di sopra dello spirito umano, certamente non sarebbero immutabili; ma se esse non avessero alcun legame con quella parte di noi stessi che è loro sottomessa, non potremmo, in base ad esse, giudicare delle realtà corporee 2. Ora noi giudichiamo delle realtà corporee secondo la legge delle dimensioni e delle figure, legge di cui il nostro spirito conosce la persistenza immutabile.

La duplice funzione della ragione in un unico spirito

3. 3. Ma ciò che in noi, pur non essendoci comune con gli animali, presiede alle nostre attività di ordine materiale e temporale, appartiene senza dubbio alla ragione, ma di quella sostanza razionale del nostro spirito, che ci unisce e sottomette alla verità intelligibile e immutabile, è, come una derivazione e una applicazione nel trattamento e nel governo delle cose inferiori. Come infatti in tutto il regno animale non si trovò per l’uomo aiuto simile a lui, ma questo aiuto lo si formò da una parte di lui e gli fu dato in sposa, così per il nostro spirito che attinge la verità trascendente non esiste per regolare l’uso delle cose materiali nei limiti della natura umana un aiuto simile ad esso nelle parti che abbiamo comuni con le bestie. E perciò una parte della nostra ragione riceve un’incombenza speciale, che non ha lo scopo di creare una frattura, ma di fornire un aiuto in un campo subordinato. E come i due corpi dell’uomo e della donna non sono che una sola carne, così pure il nostro intelletto e l’azione, il consiglio e l’esecuzione, la ragione e l’appetito razionale (o se c’è qualche altro modo di dire che designi queste realtà in maniera più espressiva) sono compresi nell’unità della natura dello spirito; cosicché, come di quelli è stato detto: Saranno due in una sola carne 3; così di questi si possa dire: "Sono due in un solo spirito".

La trinità e l’immagine di Dio si trovano in quella parte dello spirito che contempla le verità eterne

4. 4. Quando dunque trattiamo della natura dello spirito umano, parliamo di una sola realtà: il duplice aspetto che ho distinto è solo in relazione alle due funzioni. E così, quando cerchiamo in esso una trinità, la cerchiamo nello spirito tutto intero e non separiamo la sua azione razionale sulle cose temporali dalla contemplazione delle cose eterne per cercare un terzo termine che completi la trinità. No, è nella natura dello spirito tutta intera che bisogna trovare una trinità, in modo che, anche se venga a mancare l’azione sulle cose temporali - opera alla quale è necessario un aiuto, per cui una parte dello spirito viene delegata all’amministrazione di queste cose inferiori -, possiamo trovare una trinità nello spirito uno e indiviso. Una volta distribuite così le funzioni, è nella sola regione dello spirito, che si dedica alla contemplazione delle realtà eterne, che troviamo non solo una trinità, ma anche l’immagine di Dio 4; invece nella regione dello spirito applicata alle nostre attività temporali, sebbene si possa trovare una trinità, tuttavia non si può trovare l’immagine di Dio.

La trinità del padre, della madre e del figlio non sembra essere immagine di Dio

5. 5. Perciò non mi pare abbastanza fondata l’opinione di coloro che ritengono che si possa riscontrare la trinità dell’immagine di Dio in una trinità di persone che riguarda l’ordine della natura umana; immagine che si realizzerebbe nel matrimonio dell’uomo e della donna e nella loro prole; cosicché l’uomo rappresenterebbe la persona del Padre; ciò che da lui procede per generazione, quella del Figlio; la terza persona, corrispondente allo Spirito sarebbe, dicono, la donna che procede dall’uomo senza essere tuttavia né suo figlio né sua figlia, sebbene concepisca e generi la prole 5. Disse infatti il Signore, dello Spirito Santo, che procede dal Padre 6, e tuttavia non è Figlio. In questa opinione erronea, l’unica affermazione ammissibile è che, se si considera l’origine della donna, come lo dimostra a sufficienza la testimonianza della Sacra Scrittura, non si può chiamare figlio ogni essere che trae origine da un’altra persona per essere persona a sua volta; è infatti dalla persona dell’uomo che trae la sua esistenza la persona della donna e tuttavia non si può chiamare sua figlia. Per il resto questa opinione è così assurda, anzi così falsa, che è estremamente facile confutarla. Passo sotto silenzio l’assurdo accostamento che fa dello Spirito Santo la madre del Figlio di Dio e la sposa del Padre; forse mi si potrà contestare che queste cose suscitano disgusto nell’ordine carnale, perché si pensa a concepimenti e a parti corporei. Sebbene anche queste cose i puri, per i quali tutto è puro, pensino con grandissima castità, per gli impuri invece e i non credenti, che hanno sia lo spirito che la coscienza contaminati, niente è puro 7, al punto che alcuni di essi si scandalizzano che Cristo sia nato secondo la carne, sia pure da una vergine. Ma tuttavia, in ciò che vi è di più elevato nell’ordine spirituale, dove non c’è nulla di contaminabile e corruttibile, né nascita nel tempo 8, né passaggio dall’informe al formato, se si parla di misteri ad immagine dei quali, sebbene in maniera assai lontana, sono generate le creature inferiori, essi non debbono turbare la riservatezza ed il ritegno di nessuno, affinché per evitare un vano orrore non si cada in un pernicioso errore. Ci si abitui a trovare nei corpi le vestigia delle realtà spirituali, in modo tale da non trascinare con sé nelle cose più elevate ciò che si disprezza in quelle più basse, quando, sotto la guida della ragione, si comincia quell’ascesa che, a partire dal temporale, ci dirige verso l’alto per farci giungere alla verità immutabile per mezzo della quale queste cose sono state fatte. Il fatto che il nome di sposa evochi al pensiero l’unione corruttibile necessaria alla generazione della prole non ha distolto lo scrittore sacro da scegliersi in sposa la sapienza, né la sapienza stessa è di sesso femminile, per il fatto che tanto in greco quanto in latino la si esprime con un vocabolo di genere femminile.

Confutazione dell’opinione precedente

6. 6. Non respingiamo dunque questa opinione perché temiamo di considerare questa santa, inviolabile ed immutabile carità come la sposa di Dio Padre, dal quale trae origine la sua esistenza, senza tuttavia essere sua prole destinata a generare il Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose 9, ma perché la divina Scrittura ne mostra con evidenza la falsità. Infatti Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza 10. E poco dopo è detto: E Dio fece l’uomo ad immagine di Dio 11. La parola: nostra, essendo un plurale, sarebbe impropria, se l’uomo fosse stato fatto a immagine di una sola persona, sia quella del Padre, del Figlio o dello Spirito Santo. Ma poiché veniva fatto ad immagine della Trinità, per questo si ha l’espressione: ad immagine nostra. Al contrario, per evitare che ritenessimo di dover credere che ci sono tre dèi nella Trinità, dato che questa stessa Trinità è un solo Dio, la Scrittura dice: E Dio fece l’uomo a immagine di Dio; come se dicesse: Ad immagine sua 12.

6. 7. Le Scritture spesso usano espressioni tali, alle quali alcuni, sebbene affermino la loro fede cattolica, non fanno sufficientemente attenzione, cosicché intendono queste parole: Dio fece (l’uomo) ad immagine di Dio, come se fosse detto: "Il Padre fece (l’uomo) ad immagine del Figlio", volendo provare così che nelle sante Scritture anche il Figlio è chiamato Dio, come se mancassero altri testi probanti, assai sicuri ed assai chiari, in cui il Figlio è detto non solo Dio, ma vero Dio 13. Infatti, a proposito di questa testimonianza, mentre vogliono risolvere altre difficoltà, cadono in un tale groviglio dal quale non si possono districare. Perché se il Padre creò l’uomo a immagine del Figlio, cosicché l’uomo non sia immagine del Padre, ma del Figlio, il Figlio non è simile al Padre. Però se una pia fede ci insegna, come difatti ci insegna, che la somiglianza del Figlio al Padre giunge fino all’uguaglianza dell’essenza, ciò che è stato creato a somiglianza del Figlio è stato creato anche a somiglianza del Padre. Inoltre, se il Padre ha creato l’uomo, non a sua immagine, ma a immagine del Figlio, perché non disse: "Facciamo l’uomo ad immagine e somiglianza tua", ma invece: a immagine e somiglianza nostra 14, se non perché l’immagine della Trinità veniva prodotta nell’uomo in modo che così l’uomo fosse l’immagine del solo Dio 15, perché la Trinità stessa è un solo vero Dio? Simili espressioni sono innumerevoli nelle Scritture, ma basterà addurre le seguenti. Si legge nei Salmi: Dal Signore viene la salvezza e sul tuo popolo è la tua benedizione 16, come si parlasse ad un altro, non più a colui cui si diceva: Dal Signore viene la salvezza. E in un altro Salmo: Tu mi salverai dalla tentazione e nel mio Dio salterò il muro 17, come se le parole: tu mi salverai dalla tentazione fossero indirizzate ad un altro. Si legge ancora: I popoli cadranno ai tuoi piedi, nel cuore dei nemici del re 18, come se dicesse: "Nel cuore dei tuoi nemici". È proprio al re, cioè al Signore nostro Gesù Cristo, che il Salmista diceva: I popoli cadranno ai tuoi piedi, ed è a questo stesso re che volle alludere quando aggiunse: nel cuore dei nemici del re. Tali espressioni si trovano più raramente nel Nuovo Testamento. Tuttavia l’Apostolo scrive nella Lettera ai Romani: Del Figlio suo, nato dalla discendenza di David secondo la carne, che fu predestinato Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santificazione, per mezzo della risurrezione dai morti di Gesù Cristo nostro Signore 19, come se all’inizio del passo avesse parlato di un altro. Chi è infatti il Figlio di Dio predestinato per la risurrezione dai morti di Gesù Cristo, se non lo stesso Gesù Cristo, che è stato predestinato ad essere il Figlio di Dio? Dunque quando leggiamo: Figlio di Dio nella potenza di Gesù Cristo, o Figlio di Dio secondo lo Spirito di santificazione di Gesù Cristo, o Figlio di Dio per la risurrezione dai morti di Gesù Cristo, mentre si sarebbe potuto dire, secondo il linguaggio corrente, "nella sua potenza" o "secondo lo Spirito della sua santificazione", "o Figlio di Dio per la sua risurrezione dai morti" o "dei suoi morti", niente ci obbliga a ritenere che si tratti di un’altra persona, ma si tratta invece di una sola e medesima Persona, cioè di quella del Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo. Così quando leggiamo: Dio fece l’uomo ad immagine di Dio 20, sebbene si fosse potuto dire secondo il modo più corrente di esprimersi: a sua immagine 21, non siamo affatto obbligati a pensare che si tratti di un’altra persona distinta nella Trinità, ma si tratta della sola e medesima Trinità che è un solo Dio ad immagine della quale l’uomo è stato fatto 22.

6. 8. Stando così le cose 23, se noi troviamo questa stessa immagine della Trinità non in un solo uomo, ma in tre - nel padre, nella madre e nel figlio - allora l’uomo non era stato fatto ad immagine di Dio 24 prima che gli fosse stata data una donna e che avessero tutti e due procreato un figlio, perché non c’era ancora trinità. Qualcuno dirà forse: "C’era già trinità, perché, sebbene non possedesse ancora la sua forma propria, anche la donna era già presente, secondo la natura che ne sarebbe stata l’origine, nel costato dell’uomo ed il figlio nei lombi del padre"? Ma allora perché, dopo aver detto: Dio fece l’uomo ad immagine di Dio 25, la Scrittura aggiunge nel contesto immediato: Dio lo fece maschio e femmina; li fece e li benedisse 26? Bisogna forse dividere così le parti della frase: Dio fece l’uomo, continuare poi: lo fece ad immagine di Dio, e aggiungere infine: lo fece maschio e femmina? Alcuni hanno timore di dire: lo fece maschio e femmina, perché non si intendesse un essere mostruoso, simile a quelli che si chiamano ermafroditi 27, mentre si può, senza forzare il senso, vedere in questo singolare un’allusione all’uomo e alla donna, in quanto è detto: Due in una sola carne 28. Perché dunque, per riprendere il mio ragionamento, nella natura umana fatta ad immagine di Dio, la Scrittura non menziona che l’uomo e la donna? Perché l’immagine della Trinità fosse completa, avrebbe dovuto aggiungere anche il figlio, sebbene fosse ancora racchiuso nei lombi del padre, come la donna lo era nel suo costato 29. O si deve intendere che la donna era già stata creata e che la Scrittura, in un’espressione concisa, ora menziona soltanto ciò che si riserva di spiegare poi più dettagliatamente come sia stato creato e non poté menzionare il figlio, perché non era ancora nato? Come se lo Spirito Santo non avesse potuto designare con la stessa concisione il figlio, riservandosi di raccontarne la nascita al momento voluto, allo stesso modo che racconta poi, al momento voluto, come la donna è stata tratta dal costato dell’uomo senza omettere tuttavia di nominarla in questo passo.

Perché anche la donna non è immagine di Dio?

7. 9. Dunque non dobbiamo intendere che l’uomo è stato creato ad immagine della Trinità suprema, cioè ad immagine di Dio 30, nel senso che questa immagine si riscontri in una trinità di persone umane: tanto più che l’Apostolo dice che l’uomo (vir) è immagine di Dio e per questo gli proibisce di velarsi il capo, mentre ordina alla donna di farlo. Dice infatti: L’uomo non deve velarsi il capo, perché è l’immagine e la gloria di Dio. La donna invece è la gloria dell’uomo 31. Che dire di questo? Se la donna da parte sua contribuisce a completare l’immagine della Trinità perché, una volta che essa è stata tolta dal costato dell’uomo (vir), questi è ancora detto immagine 32? E se in questa trinità di persone umane, una di esse, considerata a parte, può essere detta immagine di Dio, allo stesso modo che nella suprema Trinità ciascuna Persona è Dio, perché anche la donna non è immagine di Dio? Ora sembra che essa non lo è, perché le si prescrive di velarsi il capo, cosa proibita all’uomo, perché egli è immagine di Dio.

Interpretazione figurata e mistica del detto dell’Apostolo: l’uomo è immagine di Dio, la donna gloria dell’uomo

7. 10. Ma vediamo bene come l’affermazione dell’Apostolo secondo cui non la donna, ma l’uomo è immagine di Dio, non sia contraria a ciò che è detto nel Genesi: Dio fece l’uomo, lo ha fatto ad immagine di Dio; lo ha fatto maschio e femmina e li ha benedetti 33. Secondo il Genesi è la natura umana in quanto tale che è stata fatta ad immagine di Dio, natura che si compone dei due sessi e quindi non esclude la donna, quando si tratta di intendere l’immagine di Dio. Infatti, dopo aver detto che Dio ha fatto l’uomo ad immagine di Dio, aggiunge: Lo fece maschio e femmina, o distinguendo diversamente: li fece maschio e femmina. Come può dunque l’Apostolo dire che l’uomo (vir) è immagine di Dio e per questo non deve velarsi il capo, ma che la donna non lo è per cui deve velarsi il capo 34? Il motivo è, ritengo, quello che ho già indicato, quando ho trattato della natura dello spirito umano: la donna è con suo marito immagine di Dio 35, cosicché l’unità di quella sostanza umana forma una sola immagine; ma quando è considerata come aiuto, proprietà che è esclusivamente sua, non è immagine di Dio; al contrario l’uomo, in ciò che non appartiene che a lui, è immagine di Dio 36, immagine così piena ed intera, come quando la donna gli è congiunta a formare una sola cosa con lui. È ciò che abbiamo detto della natura dello spirito umano: quando si dedica tutto alla contemplazione della verità è immagine di Dio, ma quando qualcosa di esso si distacca e una parte dell’attenzione si applica all’azione delle cose temporali, nondimeno lo spirito, nella parte di esso che vede e consulta la verità, resta immagine di Dio, ma nella parte invece che si applica all’azione sulle realtà inferiori, non è immagine di Dio. E, poiché esso quanto più si estende verso ciò che è eterno, tanto più ne è "formato" 37 ad immagine di Dio, e perciò non si deve in questo costringerlo a moderarsi e a contenersi; per tal motivo l’uomo non deve velarsi il capo 38. Ma poiché per l’azione razionale sulle cose temporali c’è il rischio di lasciarsi trascinare eccessivamente verso le realtà inferiori, per questo essa deve avere un potere sopra il suo capo, indicato dal velo, che significa che dev’essere contenuta 39. È un simbolo, questo, mistico e pio, gradito agli Angeli santi. Dio da parte sua non vede nel tempo e nessun elemento nuovo viene a modificare la sua visione e la sua scienza, quando avviene qualche avvenimento temporale e transitorio, come ne sono affetti i sensi carnali degli animali e degli uomini, o anche quelli spirituali degli Angeli.

7. 11. Che con questa chiara distinzione del sesso maschile e femminile l’Apostolo abbia simboleggiato un più profondo mistero, si può anche comprendere da questo fatto che, dicendo egli in un altro passo che la vedova vera è desolata senza figli e senza nipoti e tuttavia deve sperare nel Signore e perseverare nella preghiera notte e giorno 40, in questa stessa Epistola egli dice che la donna sedotta, caduta nella prevaricazione, si salva mediante la generazione dei figli, e aggiunge: se essi persevereranno nella fede, nella carità e nella santità con modestia 41. Come se potesse nuocere alla buona vedova il non aver dei figli o, avendone, il fatto che questi si rifiutino di perseverare nei buoni costumi. Ma, poiché quelle che sono chiamate le buone opere sono come i figli della nostra vita, in riferimento alla quale si domanda quale vita conduca ciascuno, cioè come compia queste azioni temporali - vita che i greci chiamano non , ma , e queste buone azioni si praticano ordinariamente nelle opere di misericordia, ma le opere di misericordia non sono di alcuna utilità ai Pagani né ai Giudei che non credono a Cristo, né agli eretici e scismatici di qualsiasi specie, che non hanno né fede né amore, né santità accompagnata alla temperanza 42 - risulta chiaro il pensiero dell’Apostolo. Egli parla in un senso figurato e mistico dell’obbligo che ha la donna di velare il capo 43; se queste parole non si riferissero a qualche mistero nascosto, sarebbero prive di senso.

7. 12. Come ce lo mostra non solo la retta ragione, ma anche l’autorità dello stesso Apostolo, l’uomo fu creato ad immagine di Dio 44, non secondo la forma del corpo, ma secondo la sua anima razionale 45. È una opinione grossolana e vana quella secondo cui si ritiene che Dio è circoscritto e limitato da una configurazione di membra corporee. Per di più il beato Apostolo non dice: Rinnovatevi nella vostra anima spirituale e rivestitevi dell’uomo nuovo, quello che è stato creato a immagine di Dio 46, e altrove, ancor più chiaramente non dice: Spogliatevi dell’uomo vecchio e delle sue azioni, rivestitevi dell’uomo nuovo che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che lo ha creato 47? Se dunque ci rinnoviamo nella nostra anima spirituale e l’uomo nuovo è colui che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che l’ha creato, non c’è alcun dubbio che non è secondo il corpo, né secondo una qualsiasi parte dell’anima, ma secondo l’anima razionale la quale può conoscere Dio, che l’uomo è stato fatto ad immagine di Colui che l’ha creato. Inoltre per questo rinnovamento noi diventiamo altresì figli di Dio, con il battesimo di Cristo e rivestendoci dell’uomo nuovo, ci rivestiamo di Cristo per mezzo della fede 48. Chi dunque potrebbe pretendere di escludere le donne da questa partecipazione, dato che esse sono nostre coeredi della grazia e visto che l’Apostolo dice in un altro passo: Voi siete infatti tutti figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né Giudeo, né Greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché siete tutti uno solo in Gesù Cristo 49? Si dovrà dunque pensare che le donne che credono hanno perduto il loro sesso? No, ma poiché si rinnovano ad immagine di Dio 50, là dove non entra il sesso, perciò, ivi stesso ove il sesso non entra, l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio 51, cioè nella sua anima spirituale 52. Perché allora l’uomo non deve velare il suo capo perché è immagine e gloria di Dio, mentre la donna deve velarlo, perché è gloria dell’uomo 53, come se la donna non si rinnovasse nella sua anima spirituale, che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che l’ha creata 54? Perché, essendo la donna differente dall’uomo per il suo sesso, poté giustamente raffigurarsi nel velo del suo capo quella parte della ragione che si abbassa a dirigere le attività temporali. L’immagine di Dio non risiede se non nella parte dello spirito dell’uomo che si unisce alle ragioni eterne, per contemplarle ed ispirarsene, parte che, come è manifesto, possiedono non solo gli uomini, ma anche le donne 55.

L’oscuramento dell’immagine di Dio

8. 13. Dunque nei loro spiriti si riconosce una natura comune, nei loro corpi è invece raffigurata una diversità di funzioni di questo solo e medesimo spirito. Salendo perciò interiormente alcuni gradini attraverso le varie parti dell’anima con la riflessione, dove cominciamo a trovare in essa qualcosa che non ci è comune con gli animali, lì incomincia la ragione, in cui si può già riconoscere l’uomo interiore. Anche questi, se sotto l’influsso di quella ragione che è stata delegata all’amministrazione delle cose temporali scivola eccessivamente, con rapido cammino, verso le cose esteriori, con il consenso del suo "capo", cioè senza che lo trattenga e lo raffreni quella parte della ragione che comanda nella specola del consiglio e compie in qualche modo la funzione dell’uomo, invecchia in mezzo ai suoi nemici 56, i demoni invidiosi della sua virtù, con il loro principe, il diavolo, e la visione delle cose eterne è sottratta allo stesso "capo", che con la sua sposa mangia il frutto proibito, cosicché la luce dei suoi occhi non è più con lui 57. Così, spogliati ambedue di quella illuminazione della verità, ed essendo aperti gli occhi della loro coscienza per vedere quanto siano rimasti disonesti e laidi, uniscono insieme delle belle parole senza il frutto delle buone opere, cosicché, pur vivendo male, nascondono la loro turpitudine sotto l’apparenza di buone parole, come unendo insieme delle foglie che annunciano dolci frutti, ma senza questi stessi frutti 58.

9. 14. Innamorata del suo potere l’anima scivola dall’universale, che è comune a tutti, al particolare, che le è proprio per quella superbia che è forza di separazione, chiamata inizio del peccato 59, mentre, se avesse seguito Dio come guida nell’universalità della creazione, avrebbe potuto essere governata in maniera perfetta dalla legge divina. Desiderando invece qualcosa di più dell’universo, e avendo preteso di governarlo con la propria legge, precipita nella cura del particolare, perché non c’è nulla al di là dell’universo e così, desiderando qualcosa di più, diminuisce ; per questo l’avarizia è chiamata radice di tutti i mali 60; e questo tutto in cui essa si sforza di agire in maniera sua propria contro le leggi dalle quali è governato l’universale, lo regge con il suo corpo, che può avere solo un possesso parziale; e così affascinata dalle forme e dai movimenti corporei, dato che non li possiede nella sua interiorità, si involge nelle loro immagini, che ha fissato nella memoria, e si inquina vergognosamente per la fornicazione dell’immaginazione, riferendo tutte le sue attività a quei fini per cui cerca con inquietudine le cose corporee e temporali per mezzo dei sensi corporei, o, con fasto orgoglioso, affetta di essere superiore alle altre anime dedite ai sensi corporei o si immerge nel gorgo fangoso della voluttà carnale.

Le tappe della caduta

10. 15. Quando dunque l’anima con retta intenzione cerca, sia per sé, sia per gli altri, di attingere i beni interiori e superiori che sono posseduti con casto amplesso, non come un qualcosa di privato, ma come un qualcosa di comune, senza esclusione od invidia, da tutti coloro che li amano, anche se essa sbaglia in qualche punto per ignoranza delle cose temporali, dato che compie questo nel tempo, e non agisce come si deve, si tratta di una tentazione umana 61. Ed è gran cosa passare questa vita, che è come una via che prendiamo per ritornare, senza lasciarci sorprendere da nessuna tentazione, se non umana. Questo peccato infatti è esteriore al corpo 62; non è considerato come fornicazione e per questo ottiene molto facilmente perdono. Quando invece compie qualcosa per conseguire quegli oggetti che sono percepiti per mezzo del corpo, per desiderio di farne esperienza, di eccellervi, di entrare con essi in contatto, in vista di riporre in essi il fine del suo bene, qualunque cosa faccia, agisce in maniera turpe e fornica, peccando contro il proprio corpo 63, e trasportando all’interno di sé le immagini menzognere delle cose corporee e combinandole in vane fantasticherie, così da giungere al punto che niente le apparisca divino se non quello che è sensibile, egoisticamente avara, si riempie di errori e, egoisticamente prodiga, si svuota di forze 64. Né si precipita sin dall’inizio tutto d’un colpo in una fornicazione così turpe e miserevole, ma come è scritto: Colui che disprezza le piccole cose, a poco a poco cadrà 65.

Quando l’uomo pretende di essere come Dio cade in ciò che vi è di più basso, in ciò che fa la gioia delle bestie

11. 16. Allo stesso modo infatti che il serpente non avanza a passi franchi, ma striscia con l’invisibile movimento delle sue squame, così il movimento scivoloso della caduta trascina a poco a poco quelli che si abbandonano e, cominciando dal desiderio perverso di rassomigliare a Dio, giunge fino a far rassomigliare agli animali 66. Ecco perché, spogliati della stola prima, i progenitori hanno meritato 67, divenuti mortali, di rivestire tuniche di pelle 68. Infatti il vero onore dell’uomo consiste nell’essere l’immagine e la somiglianza di Dio 69, immagine che non si conserva se non andando verso Colui dal quale è impressa. Ne consegue che tanto più ci si unisce a Dio, quanto meno si ama ciò che si possiede in proprio. Ma il desiderio di fare esperienza del proprio potere fa ricadere, per un suo capriccio, l’uomo su se stesso come su un grado intermedio. Così quando pretende di essere come Dio, a nessuno sottoposto, per punizione viene precipitato, lontano persino da quel grado intermedio che è lui stesso, in ciò che vi è di più basso, cioè in ciò che fa la felicità degli animali. E così, consistendo il suo onore nell’essere l’immagine di Dio, il suo disonore nell’essere immagine della bestia: L’uomo posto in dignità, non lo comprese; si è assimilato agli animali senza ragione ed è divenuto simile a loro 70. Per dove compirebbe dunque un così lungo tragitto che porta dalle vette più alte alle cose più basse, se non passando per quel grado intermedio che è lui stesso? Infatti quando, trascurando l’amore della sapienza, che rimane sempre immutabile, si desidera la scienza che viene dall’esperienza delle cose mutevoli e temporali, scienza che gonfia, non edifica 71, l’anima, per questo, soccombendo come al suo peso, e cacciata dalla beatitudine e facendo esperienza di quel grado intermedio che è essa stessa, apprende, per il suo castigo, quale differenza separa il bene che ha abbandonato dal male che ha commesso e per l’effusione e la perdita delle sue forze non è capace di ritornare indietro, se non per la grazia del suo Creatore che la chiama alla penitenza e le rimette i peccati. Chi libererà infatti l’anima infelice da questo corpo di morte, se non la grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore 72? Di questa grazia parleremo a suo luogo, quando egli ce lo concederà.

Interpretazione allegorica del primo peccato: matrimonio misterioso nell’uomo interiore

12. 17. Completiamo ora, con l’aiuto del Signore, lo studio intrapreso circa quella parte della ragione alla quale appartiene la scienza, cioè la conoscenza delle cose temporali e mutevoli, necessaria per esplicare le attività di questa vita. Come nella storia da tutti conosciuta della prima coppia umana, il serpente non mangiò del frutto proibito, ma soltanto persuase a mangiarne, e la donna non fu la sola a mangiarne, ma ne diede a suo marito, e ne mangiarono insieme, sebbene abbia parlato da sola con il serpente e sia stata la sola ad essere sedotta da esso 73, così anche in quest’altro matrimonio misterioso e segreto, che si attua e si riconosce pure in ogni uomo considerato individualmente, il movimento carnale o, per dir così, il movimento sensuale dell’anima, che pone tutta la sua attenzione ai sensi del corpo e ci è comune con gli animali, è estraneo alla ragione che si applica alla sapienza. Il senso corporeo infatti percepisce le cose corporee, la ragione che si applica alla sapienza ha l’intelligenza delle cose immutabili e spirituali. Ora l’appetito è vicino alla ragione che si applica alla scienza, in quanto la scienza, detta dell’azione, ragiona sulle stesse cose corporee percepite dai sensi del corpo; ma se il suo ragionamento è buono lo fa per riferire quella conoscenza al fine del Bene sommo, se è invece cattivo lo fa per fruire di quelle cose come di beni tali in cui si possa riposare in una beatitudine menzognera. Quando dunque questa attenzione dello spirito, che esercita la sua funzione attiva sulle cose temporali e corporee con la vivacità propria al ragionamento, si lascia attirare dal senso carnale od animale a fruire di sé, cioè a fruire di un bene egoistico e particolare, non del bene generale e comune, qual è il bene immutabile, allora è come se il serpente parlasse alla donna. Consentire a questa attrattiva è mangiare del frutto proibito. Però se questo consenso si limita ad una semplice compiacenza del pensiero, ma l’autorità di una decisione superiore trattiene le membra dall’abbandonarsi al peccato come strumenti d’iniquità 74, allora, mi sembra, è come se la donna sola mangiasse del frutto proibito. Se, al contrario, consentendo al cattivo uso delle cose percepite per mezzo dei sensi del corpo si risolve di commettere qualunque peccato, anche col corpo, se ne ha il potere, bisogna allora intendere che quella donna ha dato al marito da mangiare, insieme a lei, del cibo proibito. Infatti non si può decidere con lo spirito non solamente di compiacersi nel peccato di pensiero, ma anche di commetterlo con un atto, se l’attenzione dello spirito, che ha il potere assoluto di far agire le membra o di impedire che agiscano, non ceda e si abbandoni alla cattiva azione.

12. 18. Certamente non si può negare che ci sia peccato, quando lo spirito si compiace solamente con il pensiero di cose proibite, deciso, è vero, a non commetterle, ma compiacendosi a trattenere e a ripensare delle immagini che avrebbe dovuto cacciare al primo loro apparire; ma questo peccato è molto minore che se si decidesse di doverlo anche mettere in atto. Perciò si deve domandare perdono anche di tali pensieri, percuotersi il petto e dire: Rimetti a noi i nostri debiti, fare ciò che segue e aggiungere nella preghiera: come noi li rimettiamo ai nostri debitori 75. Non è infatti come nel caso dei primi due uomini, quando ciascuna persona era responsabile per sé, e perciò se solo la donna avesse mangiato del frutto proibito, essa sola sarebbe stata condannata alla pena di morte. Quando si tratta di un uomo solo, il caso è diverso. Se il solo pensiero, compiacendosene, si pasce dei piaceri proibiti, da cui avrebbe dovuto distogliersi immediatamente, né si decide a compiere queste azioni cattive, ma si limita a ritenerne ed assaporarne le immagini, questo caso non si può paragonare a quello della donna che può essere punita senza l’uomo; guardiamoci bene dal crederlo. Qui c’è una sola persona, un solo uomo, e sarà condannato tutto intero, a meno che questi che sono ritenuti peccati del solo pensiero, perché commessi senza il proposito di scendere all’azione, ma tuttavia con il proposito di trovarne diletto interiormente, non siano rimessi per mezzo della grazia del Mediatore.

12. 19. In tutta questa discussione in cui abbiamo cercato di mostrare che esiste, nello spirito di ciascun uomo, una specie di matrimonio tra la ragione contemplativa e la ragione attiva, con l’attribuzione a ciascuna di funzioni diverse, ma senza compromettere l’unità dello spirito - e questo senza recar pregiudizio alla verità della narrazione della divina Scrittura che ci racconta dei due primi uomini, marito e moglie, origine del genere umano -, non avevamo altro fine che far intendere che l’Apostolo, dicendo che l’uomo solo, non la donna, è immagine di Dio, ha voluto, sebbene sotto l’immagine della distinzione di sesso tra due esseri umani, significare qualcosa che si deve cercare in ogni essere umano, considerato individualmente 76.

Altra interpretazione simbolica: l’opinione che l’uomo significhi lo spirito, la donna i sensi

13. 20. Non ignoro che, prima di noi, illustri difensori della fede cattolica 77 e commentatori delle divine Scritture, cercando questi due principi nell’uomo individuale, la cui anima, buona nel suo insieme, considerarono come una specie di paradiso, affermarono che l’uomo rappresenta lo spirito, la donna il senso del corpo. E se si accetta poi questa distinzione che vede nell’uomo l’immagine dello spirito, nella donna quella del senso del corpo, tutto sembra accordarsi in maniera perfetta qualora si considerino attentamente le cose, ma con questa riserva però: che è scritto che fra tutte le bestie e tutti gli uccelli non è stato trovato per l’uomo un aiuto simile a lui 78, ed allora fu creata la donna traendola dal suo costato 79. Per questo non ho creduto di dover considerare la donna come simbolo del senso corporeo che, come sappiamo, ci è comune con le bestie, ma ho voluto vedere in lei il simbolo di qualcosa che le bestie non avessero; così ho pensato che si dovesse invece vedere nel serpente il simbolo del senso corporeo; il serpente che è, secondo la Scrittura, il più astuto degli animali della terra 80. Fra quei beni naturali, che vediamo esserci comuni con gli animali, eccelle per la sua vivacità il senso, non quel senso di cui parla l’Epistola agli Ebrei, quando dice: Il nutrimento solido è per gli uomini perfetti, i cui sensi sono esercitati dall’abitudine a discernere il bene dal male 81, perché questi sono sensi della natura razionale ed appartengono all’intelligenza; quello invece è un senso corporeo che si divide in cinque sensi e mediante il quale non solo noi, ma anche le bestie, percepiscono le forme e i movimenti corporei.

13. 21. Ma sia che si debba intendere in questo o in quel modo, o in un altro ancora, ciò che l’Apostolo dice quando afferma che l’uomo è immagine e gloria di Dio, la donna invece gloria dell’uomo 82, in ogni caso appare chiaro che, quando viviamo secondo Dio, il nostro spirito, teso verso le perfezioni invisibili di Dio, deve progressivamente ricevere la sua forma modellandosi sulla sua eternità, sulla sua verità, sulla sua carità, ma che una parte della nostra attenzione razionale, cioè dello stesso spirito, deve essere diretta verso l’uso delle cose mutevoli e corporee, senza di che non si può vivere questa vita; ma non per conformarci a questo mondo 83, ponendo il nostro fine in questi beni e deviando su di essi il nostro appetito di felicità, ma perché, quanto facciamo razionalmente nell’uso dei beni temporali, lo facciamo senza cessare di contemplare i beni eterni da conseguire, passando attraverso quelli, unendoci a questi.

Sapienza e scienza

14. Perché anche la scienza è benefica alla sua maniera, se ciò che in essa gonfia o suole gonfiare è dominato dall’amore delle cose eterne, che non gonfia, ma che, come sappiamo, edifica 84. Senza la scienza infatti non possono esistere nemmeno le virtù con le quali si possa dirigere questa misera vita in modo da raggiungere quella eterna, che è veramente beata.

Differenza tra la sapienza e la scienza

14. 22. C’è tuttavia una differenza tra la contemplazione delle cose eterne e l’azione con la quale facciamo buon uso delle cose temporali: quella si attribuisce alla sapienza, questa alla scienza. Sebbene infatti anche la sapienza possa venir chiamata scienza, come lo mostra l’affermazione dell’Apostolo, che dice: Ora conosco parzialmente, allora conoscerò come sono conosciuto 85, per questa scienza egli intende certamente la contemplazione di Dio, che sarà il premio supremo dei santi; tuttavia dove l’Apostolo dice: Ad uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza secondo lo stesso Spirito 86, distingue, senza dubbio, l’una dall’altra, benché non spieghi la natura della loro differenza, e i caratteri che permettano di distinguerle. Ma dopo aver scrutato le molteplici ricchezze delle sante Scritture, trovo scritta nel libro di Giobbe questa sentenza del santo uomo: Ecco, la pietà è la sapienza, la fuga dal male è la scienza 87. Questa distinzione ci fa comprendere che la sapienza riguarda la contemplazione, la scienza l’azione. In questo passo Giobbe identifica la pietà con il culto di Dio, che in greco si dice . È questa la parola che si trova presso i codici greci in questo passo. E fra le cose eterne che vi è di più eccellente di Dio, che solo possiede una natura immutabile? E che è il culto di Dio, se non l’amore di lui, amore che ci fa desiderare di vederlo, che ci fa credere e sperare che lo vedremo, perché nella misura in cui progrediamo lo vediamo ora per mezzo di uno specchio, in enigma, ma un giorno lo vedremo nella sua piena manifestazione? È ciò che dice l’apostolo Paolo quando parla della "visione" faccia a faccia 88; è anche quello che dice l’apostolo Giovanni: Carissimi, ora siamo figli di Dio, e ciò che saremo un giorno non è stato ancora manifestato; ma sappiamo che al momento di questa manifestazione saremo simili a lui, perché lo vedremo come è 89. In questi passi e in passi simili si tratta proprio, mi pare, della sapienza 90. Astenersi invece dal male 91, ciò che Giobbe chiama scienza, appartiene certamente all’ordine delle cose temporali. Perché è in quanto siamo nel tempo che siamo soggetti al male, che dobbiamo evitare, per giungere ai beni eterni. Perciò tutto quanto compiamo con prudenza, forza, temperanza e giustizia, appartiene a quella scienza o regola di condotta, che guida la nostra azione nell’evitare il male e nel desiderare il bene; e le appartiene pure tutto ciò che, come esempio da evitare o da imitare e come conoscenza necessaria tratta da avvenimenti adatti ad illuminare la nostra vita, raccogliamo attraverso la conoscenza della storia.

La sapienza è conoscenza delle cose eterne

14. 23. Quando si parla di queste cose mi pare che il discorso riguardi la scienza e vada distinto da quello che concerne la sapienza 92 alla quale non appartengono né le cose passate né le future, ma quelle che sono presenti, e a causa di quella eternità in cui esistono, si chiamano passate, presenti e future senza alcuna mutazione di tempo. Infatti non sono passate in modo che abbiano cessato di esistere, o future come se non esistessero ancora, ma esse hanno avuto sempre lo stesso essere e sempre l’avranno. Permangono infatti, non però fisse in un’estensione spaziale come i corpi; ma nella loro natura incorporea le realtà intelligibili sono presenti allo sguardo dello spirito, come i corpi sono visibili e tangibili ai sensi corporei. Ma non soltanto le ragioni intelligibili e incorporee delle cose sensibili, situate nello spazio, sussistono indipendentemente da ogni estensione, bensì anche quelle dei movimenti che passano nel tempo permangono indipendenti da ogni divenire temporale, essendo intelligibili, non sensibili. Giungere ad attingerle con lo sguardo dello spirito è privilegio di pochi e quando vi si giunge, nei limiti del possibile, non vi permane colui stesso che vi è giunto, ma ne è come respinto dallo stesso offuscamento dello sguardo, e si ha così un pensiero passeggero di una cosa che non passa. Tuttavia questo pensiero, avanzando attraverso quelle discipline che istruiscono l’anima, è affidato alla memoria, cosicché abbia dove ritornare, esso che è costretto ad allontanarsi. Tuttavia se il pensiero non ritornasse alla memoria e se non vi ritrovasse ciò che le aveva affidato, come un ignorante sarebbe ricondotto a questo, come vi era stato condotto prima, e lo troverebbe dove l’aveva trovato prima, cioè in quella verità incorporea, da cui trarrebbe di nuovo una specie di copia che fisserebbe nella memoria. Infatti non allo stesso modo, per esempio, che permane la ragione incorporea ed immutabile di un corpo quadrato, può permanere ad essa unito il pensiero dell’uomo, supponendo tuttavia che vi sia potuto giungere senza rappresentazione spaziale. O ancora, se si coglie il ritmo di un’armonia melodiosa che scorre nel tempo, come immobile al di fuori del tempo in una specie di segreto e di profondo silenzio 93, vi si può pensare almeno per il periodo di tempo in cui si può udire quel canto; tuttavia quanto di ciò ha trattenuto lo sguardo, sebbene fugace, dello spirito ed ha depositato nella memoria, come inghiottendolo nello stomaco, esso potrà con il ricordo in qualche modo ruminarlo e far diventare conoscenza metodica ciò che abbia in tal modo appreso. Se la dimenticanza ha tutto cancellato, sotto la guida dell’insegnamento si può di nuovo giungere a ciò che era interamente scomparso e così lo si ritroverà com’era.

Confutazione della reminiscenza sostenuta da Platone e da Pitagora

15. 24. Per questo Platone, quel celebre filosofo, si sforzò di persuaderci che le anime hanno vissuto quaggiù anche prima di unirsi a questi corpi e perciò si spiega che ciò che si apprende è reminiscenza di ciò che già si conosceva, più che conoscenza di qualcosa di nuovo 94. Infatti racconta che, un fanciullo, interrogato su argomenti di geometria, rispose come un maestro assai versato in quella disciplina. Interrogato per gradi e ad arte vedeva ciò che doveva vedere e diceva ciò che aveva visto 95. Ma se si trattasse qui di un ricordo di cose anteriormente conosciute, non sarebbe possibile a tutti o a quasi tutti rispondere a domande di tal genere. Infatti non tutti furono geometri nella loro vita anteriore, essendo i geometri così rari tra gli uomini che a mala pena se ne può trovare qualcuno. Bisogna piuttosto ritenere che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che, unita, secondo l’ordine naturale disposto dal Creatore, alle cose intellegibili, le percepisce in una luce incorporea speciale, allo stesso modo che l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda, nella luce corporea, essendo stato creato capace di questa luce ed ad essa ordinato. Infatti non è a dire che egli distingua, anche senza l’aiuto di un maestro, il bianco dal nero per il motivo che conosceva già queste cose prima di esistere in questo corpo. Infine perché soltanto a riguardo delle cose intelligibili può accadere che qualcuno risponda, se lo si interroga ad arte, su ciò che appartiene a qualsiasi disciplina, sebbene la ignori del tutto? Perché nessuno può far questo, riguardo alle cose sensibili, se non per quelle che ha visto una volta unito al suo corpo o per quelle cui ha creduto sulla testimonianza di coloro che le sapevano e le hanno comunicate per iscritto o con le loro parole? Non si ha da credere infatti a coloro che raccontano che Pitagora di Samo si sarebbe ricordato di certe cose di cui aveva fatto esperienza quando viveva quaggiù in un altro corpo 96; altri narrano che alcuni altri avrebbero sperimentato nei loro spiriti qualcosa di simile. Si tratta di false reminiscenze simili a quelle che proviamo per lo più nel sonno, quando ci sembra di ricordare, come se lo avessimo fatto o visto, ciò che non abbiamo né fatto né visto, e accade che simili affezioni si producano anche nell’anima di persone sveglie, per influsso degli spiriti maligni e ingannatori che si preoccupano di confermare e far nascere delle false opinioni sulla migrazione delle anime per ingannare gli uomini; lo si può provare a partire dal fatto che, se si ricordassero veramente le cose viste quaggiù prima, quando si viveva uniti ad altri corpi, si tratterebbe di un’esperienza comune a molti o a quasi tutti, perché, secondo tale opinione, si suppone un passaggio incessante dalla vita alla morte e dalla morte alla vita, come dalla veglia al sonno e dal sonno alla veglia.

La giusta distinzione tra sapienza e scienza; anche nella scienza si trova una trinità

15. 25. Se dunque la vera differenza tra la sapienza e la scienza consiste in questo: che alla sapienza appartiene la conoscenza intellettiva delle cose eterne, alla scienza invece la conoscenza razionale delle cose temporali, non è difficile giudicare a quale si debba dare la precedenza, a quale l’ultimo posto. Supponendo che si debba usare un altro criterio per distinguere queste due cose, che l’Apostolo senza alcun dubbio distingue, quando afferma: Ad uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza secondo lo stesso Spirito 97, tuttavia anche in tal caso rimane assai chiara la distinzione che abbiamo fatto tra le due, per cui una cosa è la conoscenza intellettiva delle cose eterne, altra cosa la conoscenza razionale delle cose temporali; e nessuno dubita che bisogna preferire la prima alla seconda.

Lasciando dunque da parte ciò che appartiene all’uomo esteriore e desiderando elevarci interiormente al di sopra di ciò che abbiamo in comune con gli animali, prima di giungere alla conoscenza delle realtà intelligibili e supreme, che sono eterne, incontriamo la conoscenza razionale delle cose temporali. Anche in essa sforziamoci dunque di vedere, se ci è possibile, una trinità, come ne abbiamo trovata una nei sensi corporei e un’altra nelle cose che per mezzo di essi sono entrate nell’anima e nel nostro spirito sotto forma di immagini; in luogo delle cose corporee che attingiamo dal di fuori, con i sensi corporei, avevamo in questo secondo caso le similitudini dei corpi impresse nella memoria, immagini che informavano il pensiero, intervenendo la volontà come terzo elemento che univa questo a quelle, a somiglianza di come era informato al di fuori lo sguardo degli occhi, che la volontà dirigeva verso la cosa visibile per produrre la visione, unendo l’uno all’altra, aggiungendosi, essa stessa, anche in questo caso, come terzo elemento. Ma non facciamo entrare forzatamente tale argomento in questo libro, affinché, nel seguente, se Dio ci aiuterà, lo si possa indagare con pieno agio e si possa esporre ciò che avremo trovato.

 

LIBRO TREDICESIMO

Scopo del presente libro

1. 1. Nel libro precedente di quest’opera, il dodicesimo, ci siamo sufficientemente impegnati a distinguere la funzione dell’anima razionale che si occupa delle cose temporali, campo in cui si esercita non solo la nostra conoscenza, ma anche la nostra azione, da quella più nobile della nostra anima, che si dedica alla contemplazione delle cose eterne e si esaurisce nella sola conoscenza. Ma tuttavia ritengo cosa più profittevole inserire un testo della Sacra Scrittura da cui si possa comprendere con più facilità la distinzione dell’una dall’altra.

Nel prologo del Vangelo di Giovanni alcune affermazioni riguardano la scienza, altre la sapienza

1. 2. Giovanni evangelista ha iniziato il suo Vangelo con queste parole: In principio il Verbo era, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio: egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto. Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini e la luce risplende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compresa. Ci fu un uomo mandato da Dio il cui nome era Giovanni. Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce. Esisteva la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Egli era nel mondo e il mondo fu fatto per mezzo di lui ma il mondo non lo conobbe. Venne in casa propria e i suoi non lo ricevettero. Ma a quanti lo accolsero dette il potere di divenire figli di Dio, ai credenti nel suo nome, i quali non dal sangue, né dalla volontà della carne, ma da Dio sono nati. E il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi. E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità 1. In questo passo del Vangelo, che ho citato per intero, le prime righe si riferiscono all’immutabile ed all’eterno, la cui contemplazione ci rende beati; le righe seguenti invece mescolano, nel loro insegnamento, l’eterno con il temporale. Perciò qui alcune cose riguardano la scienza, altre la sapienza, secondo la distinzione che noi abbiamo fatto precedentemente nel libro dodicesimo. Infatti queste espressioni: In principio il Verbo era, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio; egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto. Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli uomini e la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa 2, si richiamano alla vita contemplativa e sono accessibili solo all’intelligenza spirituale. Quanto più uno progredirà in questo campo, tanto più diverrà, senza alcun dubbio, sapiente. Ma queste parole: La luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa, mostrano che era necessaria la fede per credere ciò che non si vedeva 3. Perché, con la parola "tenebre", volle significare i cuori dei mortali che si erano distolti da questa luce ed erano incapaci di vederla. Per questo continua ed afferma: Vi fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui 4. Questo è accaduto nel tempo ed appartiene alla scienza, oggetto di conoscenza storica. Ma noi ci rappresentiamo con l’immaginazione l’uomo Giovanni grazie a quella conoscenza della natura umana che è compresa nella nostra memoria. E questa rappresentazione è identica per tutti, sia che credano, sia che non credano a tutto ciò che il testo afferma. Infatti sia agli uni che agli altri è noto che cosa sia l’uomo; la parte esteriore dell’uomo, cioè il corpo, l’hanno vista per mezzo degli occhi del corpo; la parte interiore invece, cioè l’anima, la conoscono in se stessi, perché anch’essi sono uomini, e per mezzo delle relazioni che intrattengono con gli altri uomini. Dunque possono rappresentarsi ciò che significano queste parole: Vi fu un uomo il cui nome era Giovanni, perché sanno anche che cosa sono i nomi a forza di pronunciarli o udirli pronunciare. Ma ciò che è aggiunto: mandato da Dio, è una affermazione che accolgono quelli soltanto che l’accolgono con la fede, e quelli che non l’accolgono con la fede, o il loro dubbio li impedisce di pronunciarsi, o se ne burlano con la loro incredulità. Sia gli uni che gli altri, tuttavia, a meno che non appartengano al numero di coloro che troppo insensati dicono nel loro cuore: Non c’è Dio 5, udendo queste parole, pensano a ciò che è Dio, e ciò che è venire inviato da Dio; e se non pensano queste cose come sono in realtà, le pensano di certo come possono.

Come vediamo la fede che esiste in noi

1. 3. Ma conosciamo in un altro modo la fede che ciascuno vede nel suo cuore, se crede, o non vede, se non crede. Non la conosciamo come conosciamo i corpi che vediamo con gli occhi del corpo ed ai quali pensiamo, anche quando non sono presenti, grazie alle loro immagini impresse nella memoria, né come conosciamo quelle cose che non abbiamo visto e delle quali, a partire dalle cose viste, ci formiamo un’idea approssimativa, che affidiamo alla memoria al fine di ricorrere ad essa quando vogliamo, per contemplare, ricordandocene, con maggiore o minore esattezza queste cose o, meglio, le loro immagini più o meno fedeli; non la conosciamo nemmeno come conosciamo un uomo vivente, perché, sebbene non abbiamo visto la sua anima, ce ne facciamo un’idea a partire dalla nostra e, interpretando i movimenti del corpo di questo uomo, come abbiamo appreso per mezzo degli occhi che è un uomo vivente, lo intuiamo anche con il pensiero. Non così è vista la fede nel cuore, in cui è, da colui al quale appartiene, ma la vede con una scienza indubitabile e la coscienza proclama la sua esistenza. Sebbene dunque ci sia comandato di credere, perché non possiamo vedere ciò che ci è comandato di credere, tuttavia la fede stessa, quando è in noi, la vediamo in noi, perché la fede è presente, anche quando concerne cose assenti; è interiore, anche quando concerne cose esteriori; si vede, anche quando concerne cose che non si vedono. E tuttavia la fede incomincia ad esistere nel cuore degli uomini 6 ad un certo momento del tempo; e se da credenti diventano increduli, essa scompare e li abbandona. A volte poi la fede si applica anche a cose false; ci accade di dire infatti: "Ha creduto questo, ma la sua fede lo ha ingannato". Una tale fede, ammesso che questa si debba chiamar fede, scompare dai cuori senza che vi sia colpa, quando la scaccia la scoperta della verità. Invece è cosa desiderabile che la fede prestata alle cose vere passi alla realtà di queste cose, perché non si deve dire che la fede perisce quando si vedono le cose che si credevano. Ma forse che bisogna chiamarla ancora fede, se nell’Epistola agli Ebrei la fede è stata definita ed è detto che essa è la certezza delle cose che non si vedono 7?

Nella narrazione di Giovanni vi sono cose che si conoscono coi sensi, altre con la ragione

1. 4. Ecco ora il seguito del testo: Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui 8, riguarda, come abbiamo detto, un’azione temporale. Infatti è nel tempo che si rende testimonianza sia pure di una realtà eterna, come è la luce intelligibile. È per rendere testimonianza a questa luce che venne Giovanni, il quale non era la luce, ma venne per rendere testimonianza alla luce 9. Infatti l’Evangelista prosegue: Esisteva la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Egli era nel mondo ed il mondo è stato fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne in casa propria e i suoi non lo ricevettero 10. Tutti coloro che sanno la lingua latina comprendono il senso di queste parole a partire dalle cose che sanno. Alcune di queste cose abbiamo conosciuto per mezzo dei sensi che appartengono al corpo, per esempio l’uomo, il mondo, la cui immensità vediamo con tanta evidenza, e ancora i suoni di queste parole, perché anche l’udito è un senso del corpo. Altre fra queste cose conosciamo per mezzo della ragione che appartiene all’anima, come l’espressione: i suoi non lo ricevettero; infatti si capisce che significa: "non credettero in lui", e ciò che questa espressione vuol dire non lo conosciamo per mezzo di alcun senso che appartiene al corpo, ma per mezzo della ragione che appartiene all’anima. Anche per quanto riguarda le parole, non i loro suoni, ma il loro significato, lo abbiamo appreso in parte per mezzo dei sensi del corpo, in parte per mezzo della ragione che appartiene all’anima. Né abbiamo udito queste parole ora per la prima volta, ma le avevamo già udite, e non solo di esse, ma anche del loro significato, conservavamo la conoscenza nella memoria, ed è là che li abbiamo riconosciuti. Pronuncio, per esempio, mondo, questa parola di due sillabe: poiché è un suono, è una realtà materiale che è conosciuta per mezzo del corpo; in questo caso per mezzo dell’orecchio, ma anche il suo significato è conosciuto per mezzo del corpo, in questo caso per mezzo degli occhi della carne. Perché il mondo, nella misura in cui è conosciuto, è conosciuto da coloro che lo vedono. Per quanto riguarda la parola di quattro sillabe: "credettero", il suo suono, poiché è materiale, penetra attraverso il nostro orecchio di carne, ma il suo significato non è conosciuto da alcun senso che appartiene al corpo, ma dalla ragione che appartiene all’anima. Se infatti non conoscessimo per mezzo dell’anima che cosa significhi "credettero", non comprenderemmo che cosa si siano rifiutati di fare coloro dei quali è detto: E i suoi non lo ricevettero 11. Dunque il suono della parola risuona dal di fuori agli orecchi del corpo, e attinge il senso che si chiama udito. Anche la forma dell’uomo è, da una parte, conosciuta da noi in noi stessi; dall’altra, nella persona degli altri, si presenta dall’esterno ai sensi corporei: agli occhi, quando si vede, agli orecchi quando si sente, al tatto quando si tiene o si tocca; essa ha anche la sua immagine nella nostra memoria, immagine immateriale di certo, ma simile al corpo. Infine la bellezza mirabile del mondo stesso si presenta a noi dal di fuori sia ai nostri sguardi che a quel senso che chiamiamo tatto, quando tocchiamo un oggetto di questo mondo. Esiste, all’interno, nella nostra memoria, anche una immagine di esso, alla quale ricorriamo, quando lo pensiamo, circondati da mura o nelle tenebre. Ma di queste immagini delle cose corporee, immagini immateriali certo, ma che hanno somiglianza con i corpi, ed appartengono alla vita dell’uomo esteriore, abbiamo parlato già a sufficienza nel libro undicesimo. Ora trattiamo dell’uomo interiore e della sua scienza che concerne le cose temporali e mutevoli. Quando l’uomo interiore porta la sua attenzione su qualcosa, sia pure una cosa tra quelle che appartengono all’uomo esteriore, deve farlo per trarne qualche insegnamento che possa arricchire la conoscenza razionale: e per questo l’uso razionale delle cose, cose che abbiamo in comune con gli animali privi di ragione, appartiene all’uomo interiore e si ha torto a dire che esso ci è comune con gli animali privi di ragione.

La fede appartiene all’uomo interiore; in che senso c’è una sola fede in tutti i credenti

2. 5. La fede poi, della quale siamo costretti a trattare assai lungamente in questo libro, per l’ordine logico del nostro ragionamento, la fede che fa credenti quelli che la possiedono, infedeli quelli che non la possiedono - come questi che non ricevettero il Figlio di Dio che veniva in casa propria 12 -, benché si produca in noi per mezzo dell’udito, tuttavia non appartiene a quel senso del corpo che si chiama udito, perché non è un suono; né agli occhi di questa carne, perché non è né un colore, né una forma corporea; né al senso che si chiama tatto, perché è priva di corpulenza; né appartiene assolutamente ad alcun senso corporeo, perché è una cosa del cuore, non del corpo; essa non è al di fuori di noi, ma nell’intimo di noi stessi; nessun uomo la vede in un altro, ma ciascuno in se stesso. Infine si può sia fingere di averla, sia pensare che esista in chi non l’ha. Pertanto ciascuno vede la propria fede in se stesso, negli altri crede che esista, ma non la vede, e lo crede tanto più fermamente quanto meglio ne conosce i frutti, che la fede di solito produce per mezzo della carità 13. Ecco perché la fede è comune a tutti coloro di cui l’Evangelista dice dopo, continuando: ma a quanti lo accolsero, dette il potere di diventare figli di Dio, ai credenti nel suo nome i quali non dal sangue, non dalla volontà della carne, ma da Dio sono nati 14. È comune, non come una forma corporea è comune allo sguardo di tutti coloro ai quali è presente, perché in questo caso si tratta di un solo oggetto che, in qualche modo, informa lo sguardo di tutti coloro che lo vedono, ma nel senso in cui si può dire che il viso umano è comune a tutti gli uomini; infatti questa affermazione si intende nel senso che ogni uomo ha il suo proprio viso. Certamente affermiamo con piena verità che la fede impressa nel cuore di ciascuno di coloro che credono - di coloro che credono questa identica cosa - proceda da un’unica dottrina, ma una cosa è ciò che si crede, altra cosa la fede con cui si crede. Ciò che essi credono si trova nelle realtà presenti, passate o future, la fede invece è nel cuore di chi crede e non è visibile che a colui che crede; sebbene si trovi anche negli altri, essa non è la stessa fede, ma una fede simile. Infatti non è una nel numero, ma nel genere; tuttavia, in ragione della somiglianza e dell’assenza totale di diversità, preferiamo dire che c’è una sola fede piuttosto che molte. Infatti, quando vediamo due uomini estremamente somiglianti, noi diciamo: "hanno un solo viso", e ce ne meravigliamo. Ecco perché è facile dire che erano numerose le anime - ciascuna propria ad ogni individuo - riguardo a coloro di cui leggiamo negli Atti degli Apostoli che avevano una sola anima, ma quando l’Apostolo parla di una sola fede 15 è più difficile ed è cosa più audace dire che c’erano tante fedi quanti i credenti. Ma quando Cristo dice: O donna, grande è la tua fede 16, ed ad un altro: Uomo di poca fede, perché hai dubitato? 17, esprime con questo che ciascuno ha una fede che gli è propria 18. Ma si dice che coloro che credono le stesse cose hanno una sola fede, allo stesso modo che coloro che vogliono le stesse cose hanno una sola volontà, benché ciascuno di coloro che vogliono una stessa cosa, veda la sua propria volontà, ma non veda quella dell’altro, sebbene voglia la stessa cosa 19; e, se la volontà di quest’ultimo si riveli per mezzo di certi segni, la si crede, ma non la si vede 20. Invece ciascuno, con la conoscenza che ha di se stesso, non crede affatto che questa è la sua volontà, ma la vede con piena chiarezza.

Alcune volontà comuni a tutti

3. 6. Fra i viventi dotati di ragione è tale l’armonia della identica natura che, sebbene uno ignori quello che un altro vuole, vi sono tuttavia alcune volontà comuni a tutti che sono conosciute da ciascuno anche considerato individualmente. E, benché ciascun uomo ignori ciò che voglia un altro determinato uomo, può sapere, in certe cose, che cosa vogliano tutti. Di qui quella burla graziosa che si attribuisce ad un certo mimo; egli aveva promesso che nelle rappresentazioni successive avrebbe detto nel teatro ciò che tutti pensavano e volevano. Nel giorno fissato la folla affluì nel teatro, più numerosa che mai, spinta da una grande curiosità, e si narra che nella silenziosa aspettativa generale il mimo abbia detto:

Volete comprare a basso prezzo, vendere a caro prezzo 21.

In questa espressione di un buffone, tutti gli spettatori riconobbero tuttavia ciò che stava al fondo del loro pensiero: aveva loro rivelato una verità evidente agli occhi di tutti, e tuttavia inattesa, e perciò lo applaudirono con grandissimo entusiasmo. Ma perché una così grande attesa all’annuncio che egli avrebbe detto quale era la volontà di tutti, se non perché le volontà degli altri uomini sfuggono a ciascuno di noi? Ma quella volontà era forse sconosciuta al mimo? È essa forse sconosciuta a qualsiasi uomo? E quale ne è il motivo, se non che vi sono delle cose che ciascuno, senza rischio, può congetturare negli altri in base alla propria esperienza, in virtù di una comunanza di sentimenti e di aspirazioni dovuti ai vizi e alla natura? Ma una cosa è vedere la propria volontà, altra congetturare quella di un altro, benché con una congettura ben fondata. Così nelle cose umane sono tanto certo della fondazione di Roma come di quella di Costantinopoli, e tuttavia ho visto Roma con i miei occhi, mentre non so nulla di Costantinopoli, se non perché presto fede alla testimonianza di altri. Quanto al mimo è la coscienza che aveva di sé o anche l’esperienza che aveva degli altri, che gli fece credere che acquistare a buon prezzo e vendere a caro prezzo era una volontà comune a tutti. Ma, poiché di fatto è una inclinazione viziosa, ciascuno può, o acquistando su questo punto il senso della giustizia, o subendo il contagio di qualche vizio contrario a quello, resistere a questa inclinazione e vincerla. Io stesso conosco un uomo che, essendogli stato offerto un libro in vendita, vedendo che il venditore ne ignorava il prezzo, e perciò gli chiedeva un prezzo irrisorio, gli dette il giusto prezzo, che era molto maggiore, senza che questi se l’aspettasse. E che dire se c’è un uomo talmente pervertito da vendere a basso prezzo ciò che gli hanno lasciato i genitori per comprare a caro prezzo ciò di cui nutrire le sue passioni? A mio avviso questo eccesso non ha nulla di incredibile; se si cercano, si trovano e forse si incontreranno anche senza cercarli, degli uomini che, per una nequizia ancora maggiore di quella di cui parlava il mimo, smentiscano persino in modo insolente la promessa e la dichiarazione da lui fatta in teatro, comprando a caro prezzo i loro stupri, vendendo a basso prezzo i loro poderi. Conosciamo anche uomini che, per generosità, comprarono il grano a prezzo più alto per venderlo a prezzo più basso ai loro concittadini. Lo stesso quando l’antico poeta Ennio dice:

Tutti i mortali desiderano essere lodati 22;

non c’è dubbio che ha supposto negli altri l’esistenza di un sentimento che aveva sperimentato in se stesso e in quelli che aveva conosciuto e così sembra aver espresso una volontà comune a tutti gli uomini. Se anche il mimo avesse detto: "Tutti volete essere lodati, nessuno di voi vuole essere biasimato" 23 sembra ugualmente che avrebbe espresso quella che è la volontà di tutti. Ci sono tuttavia degli uomini che odiano i loro vizi, e per essi dispiacciono a se stessi, né vogliono essere lodati dagli altri e sono grati alla benevolenza di coloro che li criticano, perché il biasimo li spinge a correggersi. Ma se il mimo avesse detto: "Tutti volete essere beati, non volete essere infelici" 24, avrebbe affermato un qualcosa che nessuno non può non scoprire nel fondo della sua volontà. Qualsiasi altra cosa voglia nel segreto del suo cuore, nessuno può esimersi da questa volontà sufficientemente conosciuta da tutti e presente in tutti gli uomini.

Tutti aspirano alla beatitudine, ma la concepiscono in maniera differente

4. 7. È strano però che, essendo presente in tutti gli uomini questa identica volontà di attingere e possedere la beatitudine, ci sia al contrario tanta varietà e diversità di voleri nei riguardi della stessa beatitudine 25, non perché ci sia qualcuno che non la vuole, ma perché non tutti la conoscono. Se infatti tutti la conoscessero, gli uni non la riporrebbero nella virtù dell’anima, gli altri nel piacere del corpo, altri nell’una e nell’altro; altri in questo, altri in quello 26. Infatti ciascuno ha fatto consistere la vita beata in quella cosa che gli procurava maggior diletto. Come dunque tutti amano in modo così fervente ciò che non tutti conoscono? Chi può amare ciò che ignora? Abbiamo già discusso su tale argomento nei libri precedenti. Perché dunque tutti amano la beatitudine, ma non tutti la conoscono? Sarà forse che tutti sanno che cosa essa sia, ma non sanno dove si trovi, e da qui scaturirebbe la diversità di opinioni? È come se si trattasse di un luogo di questo mondo, in cui dovrebbe voler vivere ognuno che voglia essere beato e non si cercasse dove sia la beatitudine, come si cerca che cosa essa sia. Perché, certamente, se la beatitudine consiste nel piacere del corpo, è beato colui che fruisce del piacere del corpo, se consiste nella virtù dell’anima, è beato colui che fruisce di questa; se nell’uno e nell’altra, lo è chi fruisce dell’uno e dell’altra. Dunque quando uno dice: "Vivere beatamente è fruire del piacere del corpo"; un altro invece: "Vivere beatamente è fruire della virtù dell’anima"; non bisogna concludere che tutti e due ignorano, o non sanno tutti e due che cosa sia la vita beata? Ma allora come possono ambedue amarla, se nessuno può amare ciò che ignora? O è forse falso ciò che abbiamo affermato come verità assoluta ed inconcussa, cioè che tutti gli uomini vogliono vivere felici 27? Se infatti vivere felici è, per esempio, vivere in conformità alla virtù dell’anima, come può voler vivere felice colui che non vuole vivere in conformità alla virtù? Non sarebbe più giusto dire: "Quest’uomo non vuol vivere felice, perché non vuol vivere in conformità alla virtù, che è la sola maniera di vivere felici?". Dunque non tutti vogliono vivere felici, anzi pochi lo vogliono, se vivere felici consiste unicamente nel vivere in conformità alla virtù dell’anima, cosa che molti non vogliono 28. Sarebbe dunque falsa l’affermazione di cui lo stesso famoso accademico Cicerone non dubitò (mentre gli Accademici dubitano di tutto), quando, volendo porre come punto di partenza della discussione, nel suo dialogo intitolato: "Ortensio", una certezza che nessuno potesse contestare, scrisse: È certo che tutti vogliamo essere beati 29? Lungi da noi il dire che questo è falso. Che dobbiamo allora pensare? Bisognerà dire che vivere felici non è altro che vivere in conformità alla virtù dell’anima e che, tuttavia, anche colui che non vuole vivere virtuosamente, vuole vivere felice? Questa sembra una affermazione troppo assurda. È infatti come se dicessimo: "Anche colui che non vuol vivere felice, vuol vivere felice". Chi potrebbe accettare, tollerare questa contraddizione? E tuttavia si è ad essa costretti per forza di cose, se da una parte è vero che tutti vogliono vivere felici, e d’altra parte non tutti vogliono vivere nel modo che solo permette di vivere felici.

È beato solo colui che ha ciò che vuole e non vuole nulla di male

5. 8. Ma forse un rilievo ci farà uscire da questo vicolo cieco: poiché, come abbiamo detto, ciascuno ha riposto la vita beata in ciò che gli ha procurato il più grande diletto, come Epicuro nel piacere, Zenone nella virtù, altri in molte altre cose 30, non potremmo dire che vivere felici non è altra cosa che vivere secondo ciò che ci procura il più grande diletto e di conseguenza non è falso che tutti vogliono vivere felici 31, perché tutti vogliono vivere secondo ciò che loro procura diletto? Infatti anche in questo, se fosse stato proclamato davanti alla folla in teatro, tutti riconoscerebbero una loro aspirazione. Ma anche Cicerone si è posto questa difficoltà e la confuta in modo da far arrossire quelli che pensano in tal modo. Dice infatti: Ecco, non certo i filosofi, ma le persone inclini a discutere, dicono che sono beati tutti coloro che vivono come vogliono 32, che è la stessa cosa che noi dicevamo: "secondo ciò che loro procura diletto". Ma egli aggiunge: Questo è certamente un errore. Non c’è nulla di più misero che volere ciò che non conviene e non è cosa tanto miserevole il non conseguire ciò che si vuole, quanto il voler conseguire ciò che non bisognerebbe volere 33. Affermazione stupenda e perfettamente vera. Chi infatti sarebbe così cieco spiritualmente, così estraneo alla luce del bene, così avviluppato nelle tenebre del male da chiamare felice, perché vive come vuole, colui che vive nella nequizia e nella vergogna e che, senza che alcuno né lo impedisca, né lo punisca, senza che ci sia nessuno che almeno osi riprenderlo, anzi per di più lodato dai più (perché, secondo l’affermazione della divina Scrittura: Si glorifica il peccatore per i desideri della sua anima e colui che compie il male è applaudito) 34, compie le sue più criminali e più infami volontà, quando la sua miseria, pur rimanendo egli misero, sarebbe minore, se non avesse potuto conseguire ciò cui aspira la sua volontà perversa? Infatti anche la volontà cattiva, da sola, rende misero l’uomo, ma il potere di compiere il desiderio di una volontà cattiva lo rende ancora più misero. Perciò, poiché è vero che tutti gli uomini vogliono essere beati, che questo è il solo fine cui aspirano con un amore ardentissimo, e in vista di questo desiderano anche tutte le cose, e, d’altra parte, nessuno può amare ciò di cui ignora del tutto la natura e la qualità e nessuno può ignorare la natura di ciò che sa di volere, ne consegue che tutti sanno che cos’è la vita beata. Ora tutti coloro che sono felici hanno ciò che vogliono, sebbene non tutti coloro che hanno ciò che vogliono siano necessariamente felici; ma sono necessariamente infelici coloro che o non hanno ciò che vogliono, o hanno ciò che non desiderano rettamente. Non è dunque beato se non colui che nello stesso tempo ha tutto ciò che vuole e non vuole nulla di male.

La prima condizione della beatitudine: vivere in conformità al bene

6. 9. Se dunque la vita beata consta di questi due elementi, è da tutti conosciuta, da tutti amata, come si spiega che, quando non possono possedere queste due cose insieme, gli uomini preferiscono possedere tutto ciò che vogliono piuttosto di volere tutto con una volontà buona, anche se dovessero non possederlo? O è così grande la depravazione del genere umano che, sebbene sappiano gli uomini che non è beato colui che non possiede ciò che vuole, né colui che possiede ciò che vuole in maniera colpevole, ma solo colui che nello stesso tempo ha tutti i beni che vuole e non vuole nulla in maniera colpevole, quando manchi uno dei due fattori che sono essenziali alla vita beata, si scelga di preferenza ciò che ci allontana di più dalla vita beata (perché è più lontano dalla vita beata chiunque consegua ciò che desidera in maniera colpevole, di colui che non consegua ciò che desidera), quando si sarebbe dovuto piuttosto scegliere ed anteporre a tutto la volontà buona, anche se non consegue ciò che desidera? È prossimo alla beatitudine infatti colui che vuole con volontà buona tutto ciò che vuole e che, una volta che l’avrà conseguito, sarà beato. È evidente che non è il male, ma il bene che causa la felicità dell’uomo felice, nel momento in cui la causa. Possiede qualcosa di questo bene, qualcosa che non è di poco valore, cioè la stessa buona volontà, colui che desidera trovare la sua gioia nelle cose buone di cui è capace l’umana natura e non nel compiere e possedere qualcosa di male e quei beni, beni quali possano già esistere in questa misera vita, li persegue con prudenza, temperanza, forza e giustizia interiore e li attinge, nella misura che gli è concessa, in modo da essere buono anche in mezzo ai mali e da essere beato una volta che saranno cessati tutti i mali e tutti i beni avranno raggiunto la loro pienezza.

La seconda condizione: avere ciò che si vuole

7. 10. Ecco perché in questa vita mortale, così piena di errori e di miserie, è supremamente necessaria la fede con cui si crede in Dio. Infatti per tutti i beni, di qualsiasi genere, in particolar modo per quelli che rendono l’uomo buono e per quelli che lo renderanno beato non si può trovare altro fonte, eccetto Dio, dal quale vengano nell’uomo e siano messi alla sua portata. Ma quando colui che rimase giusto e buono fra queste miserie sarà giunto da questa vita alla vita beata, allora si realizzerà ciò che adesso è del tutto impossibile: l’uomo vivrà come vuole. Perché non desidererà vivere male in quella felicità, non vorrà nulla che gli manchi, né gli mancherà nulla di ciò che vuole. Tutto ciò che si amerà, ci sarà, né si desidererà ciò che non ci sarà. Tutto ciò che ci sarà, sarà bene, e il Dio supremo sarà il Bene supremo 35, e sarà alla portata di tutti coloro che lo amano perché ne fruiscano e, cosa che riempie di beatitudine, si avrà la certezza che sarà sempre così. Ma di fatto i filosofi, ciascuno a suo modo, si costruirono la loro propria vita beata, come se potessero, con la loro virtù personale, vivere come volevano 36, cosa impossibile nella comune condizione di mortali. Sapevano infatti che nessuno può essere beato se non avendo ciò che vuole e se non soffre nulla di ciò che non vuole. Ma quale uomo non si augurerebbe che fosse in suo potere di conservare eternamente quella vita, qualunque essa sia, in cui trova la sua gioia, e che per questo motivo chiama beata? Ma chi ha questo potere? Chi vuole essere in preda alle difficoltà per sopportarle con coraggio, ancorché le voglia e le possa tollerare, nel caso che le patisca? Chi vorrebbe vivere nei tormenti, sebbene sia uno che può, conservandosi in mezzo ad essi giusto tramite la pazienza, condurre una vita degna di lode? Coloro che hanno sopportato questi mali li hanno considerati come passeggeri, o desiderando di avere o temendo di perdere ciò che amavano, sia che l’abbiano fatto con amore colpevole o con amore degno di lode. Perché molti, attraverso i mali passeggeri, hanno mirato, con animo coraggioso, ai beni permanenti. Costoro sono beati in speranza, anche quando sono in mezzo ai mali passeggeri, attraverso i quali giungono ai beni che non passano. Ma chi è beato in speranza non è ancora beato: aspetta infatti con pazienza la beatitudine che ancora non possiede. Colui invece che senza questa speranza, senza aver in vista una tale ricompensa, è in preda ai tormenti, qualunque sia la sua forza di sopportazione, non è beato in verità, ma infelice con coraggio. Né si può dire che non è infelice, perché sarebbe più infelice se, oltre tutto, sopportasse la sua infelicità senza alcuna pazienza. Si deve anzi aggiungere che, pur supponendo che non soffra quei mali che non vorrebbe soffrire nel suo corpo, nemmeno in tal caso si ha da ritenere felice, perché non vive come vuole. Infatti, senza parlare di un’infinità di altri mali, che colpiscono l’anima, pur non toccando il corpo, e dai quali vorremmo vivere immuni, in ogni caso questi vorrebbe, se potesse, che il conservare sano ed integro il suo corpo, il non soffrire a causa di esso molestia alcuna, dipendessero dalla sua volontà o gli fossero garantiti dall’incolumità del suo corpo stesso; poiché non ha questo privilegio e resta nell’incertezza, senza dubbio non vive come vuole. Sebbene per il suo coraggio sia pronto ad affrontare e sopportare serenamente ogni avversità che gli possa accadere, preferisce non soffrirla e, se può, la evita. È pronto all’una e all’altra eventualità nel senso che, per quanto dipende da lui, desidera questo, evita quello, ma se gli accade ciò che evita, lo sopporta di buon grado, perché il suo desiderio non ha potuto realizzarsi 37. Perciò sopporta per non lasciarsi opprimere, ma non vorrebbe essere pressato da tali avversità. In quale senso vive egli dunque come vuole? Forse perché vuole essere forte nel sopportare ciò che non voleva che gli accadesse? Ma allora vuole ciò che può, perché non può ciò che vuole. Questa è tutta la beatitudine - non si sa se ridicola, o piuttosto degna di compassione - dei mortali orgogliosi, che si gloriano di vivere come vogliono, perché volontariamente sopportano con pazienza i mali che non vogliono che loro accadano. È questo, si dice, il saggio consiglio di Terenzio:

Poiché non può realizzarsi ciò che vuoi,

desidera ciò che puoi 38.

Espressione bella, chi lo nega? Ma è un consiglio dato ad un infelice, perché non fosse maggiormente infelice. Però, a chi è beato, come tutti vogliono essere, non è né giusto, né vero dire: Non può realizzarsi ciò che tu vuoi. Se infatti è felice, tutto ciò che vuole può realizzarsi, perché non vuole ciò che non può realizzarsi. Ma questa condizione non è propria di questa vita mortale, essa si realizzerà solo quando si accederà alla vita caratterizzata dall’immortalità. Se questa fosse del tutto inaccessibile all’uomo, vana sarebbe pure la ricerca della beatitudine, perché senza immortalità non vi può essere beatitudine.

Non c’è beatitudine senza immortalità

8. 11. Poiché dunque tutti gli uomini vogliono essere beati 39, se lo vogliono veramente, vogliono di certo essere anche immortali; diversamente infatti non possono essere beati. Finalmente se li si interroga anche circa l’immortalità, come circa la beatitudine, rispondono tutti che la vogliono. Ma si cerca, anzi ci si foggia, in questa vita una parvenza di beatitudine, beatitudine più di nome che di fatto, mentre si dispera dell’immortalità, senza la quale non può esistere vera beatitudine. Vive felice, come abbiamo detto e fermamente stabilito nelle pagine precedenti, colui che vive bene e non vuole nulla di male. Ma non è cosa colpevole per nessuno volere l’immortalità, se la natura umana è capace di riceverla come un dono di Dio; se non ne è capace, non è nemmeno capace di beatitudine. Infatti, perché l’uomo viva felice, occorre che viva. Consideriamo un morente: perde la vita, come potrebbe conservare la vita beata? Quando perde la vita, senza dubbio ciò accade contro il suo volere, o con il suo consenso o lasciandolo indifferente. Se accade contro il suo volere, come può essere felice questa vita che egli vuole, ma che non può conservare? Se nessuno è beato quando non ha ciò che vuole, quanto meno sarà beato colui che si vede privato contro la sua volontà, non degli onori, non dei beni, non di qualsiasi altra cosa, ma della stessa vita beata, perché non c’è più vita per lui? Per questo, sebbene non gli resti più alcuna coscienza che lo renda infelice (la vita beata non scompare se non perché tutta la vita scompare), tuttavia questo uomo è infelice, fino a quando ha coscienza, perché vede finire, contro la sua volontà, ciò per cui ama le altre cose e ciò che ama più delle altre cose. Non è dunque compatibile che la vita sia insieme beata e che la si perda contro la propria volontà, perché nessuno è felice quando gli accade qualcosa contro la sua volontà; dunque quanto è più infelice perdendo la vita contro la sua volontà di quello che non sarebbe sopportando la vita presente contro la sua volontà? Se invece la perde di buon grado, anche in questo caso come poteva essere felice quella vita di cui, chi la possedeva, ha voluto l’annientamento? Resta la terza ipotesi: l’uomo sarebbe felice nell’indifferenza, cioè perderebbe la vita beata quando, per la morte, perdesse totalmente la vita, senza ripugnarvi e senza desiderarlo, con il cuore preparato ed indifferente a vivere come a morire. Ma non è nemmeno beata quella vita che non è degna dell’amore di colui che rende beato. Come è beata la vita che colui che è beato non ama? O come si ama ciò di cui si accetta con indifferenza il rigoglio o l’annientamento? A meno che, forse, le virtù, che noi amiamo soltanto in vista della beatitudine, non osino persuaderci di non amare la beatitudine stessa. Ma se fanno questo, non v’è dubbio che cessiamo di amare anch’esse, se non amiamo più la beatitudine che sola ce le ha fatte amare. Inoltre, come sarà vera quell’affermazione così attentamente esaminata, così indagata, così chiarificata, così certa, che tutti gli uomini vogliono essere felici 40, se quelli stessi che sono felici non lo vogliono, né vogliono esserlo? O se vogliono, come la verità lo proclama e lo esige la natura in cui il Creatore supremamente buono ed immutabilmente beato ha posto questo desiderio; se, dico, vogliono essere beati coloro che sono beati, dunque non vogliono non essere beati. Se poi non vogliono non essere beati, non v’è dubbio che non vogliono che svanisca e perisca la loro beatitudine. Ma solo vivendo possono essere beati: dunque non vogliono che perisca la loro vita. Dunque vogliono essere immortali tutti coloro che sono o vogliono essere veramente beati. Ma non vive beatamente colui che non ha ciò che vuole; non vi sarà dunque in nessun modo vita veramente beata che non sia eterna.

Solo la fede permette l’immortalità dell’uomo nella sua interezza

9. 12. Non è problema di poco conto chiarire se la natura umana sia capace di ricevere questa eterna felicità che tuttavia riconosce come desiderabile. Ma se esiste la fede, che è presente a coloro ai quali Gesù ha dato il potere di diventare figli di Dio 41, non c’è alcun problema. Ma tra coloro che si sono sforzati di trovare una soluzione con l’aiuto di argomentazioni umane, solo assai pochi, dotati di potente ingegno, in possesso di molto tempo da dedicare alle cose dello spirito, scaltriti nei ragionamenti più sottili, poterono giungere a scoprire l’immortalità dell’anima soltanto 42. Tuttavia non hanno pensato che ci fosse per l’anima una vita beata durevole, cioè vera. Affermarono infatti che, anche dopo aver goduto della beatitudine, l’anima tornava alle miserie di questa vita. E coloro che tra essi arrossirono di questa opinione e hanno pensato che l’anima, una volta purificata e separata dal corpo, doveva essere posta nella beatitudine eterna, contraddittoriamente hanno sostenuto tali teorie circa l’eternità del mondo, che essi stessi confutano questa loro opinione circa l’anima 43. Sarebbe troppo lungo dimostrarlo qui, ma è stato da noi sufficientemente dimostrato, credo, nel libro XII de La città di Dio 44. Ma la fede, appoggiandosi non su argomenti umani, ma sull’autorità divina, promette che l’uomo tutto intero, l’uomo composto di anima e di corpo 45, sarà immortale e dunque veramente beato. Ecco perché, dopo aver detto nel Vangelo che Gesù ha dato il potere di divenire figli di Dio a coloro che l’hanno ricevuto 46, dopo aver esposto brevemente cosa significhi averlo ricevuto, con le parole: ai credenti nel suo nome, ed aver aggiunto in quale maniera divenissero figli di Dio: perché non sono nati dal sangue, né dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio 47, perché la debolezza umana, che vediamo e portiamo in noi, non ci facesse disperare di una condizione così elevata, l’Evangelista aggiunge subito: E il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi 48, per persuaderci, presentandoci il movimento contrario, di una cosa che ci sembrava incredibile. Se, infatti, colui che per natura è Figlio di Dio, si è fatto figlio dell’uomo per compassione verso i figli degli uomini (è ciò che significa l’affermazione: Il Verbo si è fatto carne ed abitò fra gli uomini), quanto è più credibile che coloro che per natura sono figli dell’uomo divengano per grazia figli di Dio, ed abitino in Dio, nel quale e per il quale solo possono essere beati, fatti partecipi della sua immortalità? È per persuaderci di questo che il Figlio di Dio si è fatto partecipe della nostra mortalità 49.

L’Incarnazione del Verbo impedisce agli spiriti degli uomini di disperare della beatitudine

10. 13. Vi sono di quelli che dicono: "Dio non aveva un altro modo di liberare gli uomini dalla miseria di questa condizione mortale? Era necessario che egli volesse che il suo Figlio unigenito, Dio eterno come lui, si facesse uomo, rivestendo un’anima ed una carne umana, ed una volta divenuto mortale, soffrisse la morte?". Per confutare questa obiezione è insufficiente affermare che è buono e conforme alla dignità divina questo modo con il quale Dio si è degnato di liberarci per mezzo del Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo 50; è pure insufficiente rispondere mostrando che Dio, alla cui potenza tutto è ugualmente sottomesso, aveva la possibilità di fare uso di un altro modo; ma bisogna mostrare che non c’era né vi sarebbe potuto essere un altro modo più conveniente per risanare la nostra miseria. Infatti, per risollevare la nostra speranza, per impedire agli spiriti dei mortali, abbattuti per la condizione della loro mortalità, di disperare nell’immortalità, che c’era di più necessario che mostrarci quanto Dio ci apprezzi e quanto ci ami? Esisteva di ciò una prova più luminosa e convincente di questa: che il Figlio di Dio, immutabilmente buono, restando in se stesso ciò che egli era, e ricevendo da noi, per noi, ciò che non era, degnatosi, senza nulla perdere della sua natura, di divenire partecipe della nostra, abbia prima portato su di sé i nostri mali senza aver mai demeritato, commettendo qualcosa di male, e così, credendo noi ormai quanto Dio ci ami e sperando ormai ciò di cui disperavamo, abbia sparso su di noi, con una larghezza totalmente gratuita, i suoi doni, senza che nulla meritassimo per aver fatto qualcosa di buono, anzi avendo demeritato per quanto abbiamo fatto di male?

I nostri meriti sono doni di Dio

10. 14. Perché anche quelli che sono chiamati meriti nostri, sono suoi doni. Infatti affinché: La fede operi per mezzo dell’amore 51, la carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato 52. Ora ci è stato dato quando Gesù è stato glorificato con la risurrezione. È allora infatti che egli ha promesso di mandare lo Spirito e l’ha mandato 53, perché allora, come è stato scritto e predetto di lui: Ascendendo in alto, ha resa schiava la schiavitù, dette doni agli uomini 54. Questi doni sono i nostri meriti, mediante i quali giungiamo al Bene supremo della beatitudine eterna 55. Dio, dice l’Apostolo, mostra la sua carità verso di noi, in questo, che, quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, che siamo giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dalla sua ira 56. Egli aggiunge ancora: Se infatti, essendo nemici, siamo stati riconciliati con Dio, per mezzo della morte del Figlio suo, a maggior ragione, una volta riconciliati, saremo salvi nella sua vita 57. Coloro che prima ha chiamato peccatori, li chiama poi nemici di Dio, e coloro che prima ha chiamato giustificati per mezzo del sangue di Gesù Cristo, li chiama poi riconciliati per mezzo della morte del Figlio di Dio, e coloro che prima ha chiamato salvi dall’ira per mezzo di lui, li chiama poi salvi nella vita di lui. Dunque, prima di questa grazia non eravamo dei peccatori qualsiasi, ma eravamo immersi in tali peccati da essere nemici di Dio. Prima lo stesso Apostolo ci aveva chiamati peccatori e nemici di Dio, con due nomi nello stesso tempo, uno in qualche modo indulgente, l’altro senz’altro molto severo, affermando: Se dunque Cristo, quando noi ancora eravamo deboli, nel tempo stabilito, è morto per gli empi 58. Coloro che chiama deboli, li chiama anche empi. La debolezza sembra un male leggero, ma essa giunge talvolta al punto di meritare il nome di empietà. Tuttavia, se non fosse debolezza, non avrebbe necessità del medico; che è ciò che significa Gesù in ebraico, in greco, Salvatore nella nostra lingua. Prima la lingua latina non possedeva questa parola, ma poteva possederla, come poté possederla quando lo volle. Ora questa frase dell’Apostolo che ho appena citato: Quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito è morto per gli empi, è in armonia con le due seguenti in cui, nell’una ci chiama peccatori, nell’altra nemici di Dio, come se volesse stabilire una corrispondenza, parola per parola, tra i peccatori e i deboli, i nemici di Dio e gli empi.

Difficoltà circa la redenzione

11. 15. Ma che significano le parole: Giustificati nel suo sangue 59? Qual è, chiedo, la forza di questo sangue, capace di giustificare i credenti? E che significano queste parole: Riconciliati per mezzo della morte del Figlio suo 60? Bisognerà forse pensare che, essendo Dio Padre adirato contro di noi, vide morire il Figlio suo per noi e placò la sua ira contro di noi? Suo Figlio si era dunque riconciliato con noi fino al punto di degnarsi di morire per noi, mentre il Padre restava ancora adirato contro di noi fino al punto di non riconciliarsi con noi, se non nel caso che il Figlio suo morisse per noi? Ma allora che significa ciò che dice in un altro passo lo stesso Dottore dei Gentili: Che diremo allora a riguardo di tutto questo? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma che l’ha consegnato per tutti noi, come non sarà disposto a darci ogni altra cosa insieme a lui 61? Se non fosse già stato placato, il Padre, non risparmiando il suo proprio Figlio, l’avrebbe forse consegnato per noi? Questa affermazione non sembra contraddire la precedente? Secondo la prima, il Figlio muore per noi e il Padre è riconciliato con noi per mezzo della sua morte 62; nella seconda è il Padre che, come se ci avesse amato per primo, lui stesso non risparmia il Figlio a causa di noi, lui stesso per noi lo consegna alla morte 63. Ma vedo che il Padre ci ha amato anche prima, non solo prima che il Figlio morisse per noi, ma prima che creasse il mondo 64, secondo la testimonianza dello stesso Apostolo che dice: Come in lui ci ha eletti, prima ancora della fondazione del mondo 65. E il Figlio, che il Padre non ha risparmiato, non è stato consegnato per noi, come se ciò fosse contrario al suo volere, perché anche di lui l’Apostolo dice: Lui che mi ha amato e si è consegnato per me 66. Dunque tutto ciò che fanno il Padre, il Figlio e lo Spirito di ambedue, lo fanno insieme, tutti ugualmente ed in perfetto accordo; tuttavia siamo stati giustificati nel sangue di Cristo, e siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo 67. In che modo questo è accaduto lo spiegherò ora, come lo potrò e quanto mi sembrerà sufficiente.

A causa del peccato di Adamo per giusto giudizio di Dio il genere umano è stato dato in potere del diavolo

12. 16. Per un effetto della giustizia divina il genere umano è stato consegnato in potere del diavolo, poiché il peccato del primo uomo si trasmette per via d’origine a tutti coloro che nascono dall’unione dei due sessi, e il debito dei nostri primi genitori grava su tutti i loro discendenti. Questa sottomissione al diavolo si trova già espressa nel Genesi, dove, dopo aver detto al serpente: Mangerai terra 68, Dio dice all’uomo: Tu sei terra e ritornerai alla terra 69. Le parole: Tu ritornerai alla terra preannunciano la morte del corpo, morte che, anch’essa, sarebbe stata risparmiata all’uomo se fosse rimasto nella giustizia nella quale è stato creato. Ma le parole: Tu sei terra, dette all’uomo ancora vivente, mostrano che tutto l’uomo si è cambiato in peggio. Le parole: Tu sei terra, hanno infatti lo stesso senso di quelle: Il mio Spirito non rimarrà in questi uomini, perché sono carne 70. Così dunque Dio dimostrò che aveva consegnato l’uomo a colui al quale aveva detto: Mangerai terra 71. L’Apostolo dichiara questa stessa cosa più apertamente, quando scrive: E voi, essendo morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali in un certo tempo camminaste, secondo lo spirito di questo mondo, secondo lo spirito del principe della potenza dell’aria, lo spirito che agisce ora nei figli della disobbedienza, con i quali anche noi tutti abbiamo vissuto un tempo secondo i desideri della carne, compiendo le volontà delle nostre concupiscenze carnali; ed eravamo per natura figli dell’ira, come gli altri 72. I figli della disobbedienza sono gli infedeli, ma chi non lo è, prima di divenire fedele? Perciò tutti gli uomini sono dall’origine sottomessi al principe della potenza dell’aria che opera nei figli della disobbedienza. L’espressione "dall’origine" equivale a quella dell’Apostolo: per natura, quando egli anche confessa di essere stato come gli altri; si tratta della natura come è stata degradata dal peccato, non come è stata creata giusta al principio. Quanto al modo in cui l’uomo è stato consegnato al potere del diavolo non bisogna intendere che Dio abbia comandato o fatto che accadesse questo, ma lo ha soltanto permesso, giustamente tuttavia. Infatti al momento in cui Dio ha abbandonato il peccatore, subito l’autore del peccato se ne è impossessato. Benché veramente Dio non abbia abbandonato la sua creatura fino al punto di non farle sentire la sua azione creatrice e vivificatrice e di non darle, mescolati ai mali che sono la pena del peccato, molti beni. Perché nella sua ira non ritirò la sua misericordia 73; né ha sottratto l’uomo alla legge della sua potenza, quando ha permesso che fosse sotto il potere del diavolo, perché nemmeno il diavolo stesso sfugge alla potenza dell’Onnipotente, come neppure alla sua bontà. Infatti, come potrebbero sussistere anche gli angeli cattivi, qualunque sia la loro vita, se non per virtù di Colui che tutto vivifica 74? Se dunque l’uomo, commettendo il peccato, per una giusta ira di Dio è stato sottomesso al diavolo, Dio, rimettendo il peccato, per una benevola riconciliazione ha strappato l’uomo al diavolo.

Ma Dio per superare il diavolo non scelse la via della potenza, bensì quella della giustizia

13. 17. Il diavolo non doveva essere superato dalla potenza, ma dalla giustizia di Dio. Infatti che c’è di più potente dell’Onnipotente? O quale creatura ha una potenza comparabile a quella del Creatore? Ma il diavolo, per il vizio della sua perversità, si è innamorato della potenza, ha abbandonato e combattuto la giustizia; gli uomini a loro volta imitano tanto più il diavolo quanto più trascurano e perfino aborriscono la giustizia per aspirare alla potenza e godono del possesso o bruciano dal desiderio di essa; e così piacque a Dio, per sottrarre l’uomo al potere del diavolo, di vincere il diavolo non con la potenza ma con la giustizia, affinché anche gli uomini, ad imitazione di Cristo, cercassero di vincere il diavolo con la giustizia, non con la potenza. Non che la potenza sia da fuggire come qualcosa di male, ma bisogna rispettare l’ordine secondo il quale la giustizia è al primo posto. Quanto grande può essere infatti la potenza dei mortali? Conservino dunque la giustizia fin che sono mortali, la potenza sarà loro data quando saranno immortali. In confronto a questa, la potenza di quegli uomini che sono chiamati potenti sulla terra - per quanto grande essa sia - non è che una debolezza ridicola, e là dove sembra che i cattivi manifestino finalmente la loro potenza si scava la fossa per il peccatore 75. Il giusto invece canta e dice: Beato l’uomo che tu istruisci, o Signore, e al quale dai l’insegnamento della tua legge perché sia tranquillo nei giorni dell’afflizione, fino a quando si scavi una fossa per il peccatore. Perché il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità; fino a quando la giustizia si muti in giudizio; e tutti coloro che la possiedono hanno il cuore retto 76. Dunque, durante il tempo in cui non si manifesta ancora la potenza del popolo di Dio il Signore non respingerà il suo popolo e non abbandonerà la sua eredità, per quanto grandi siano le amarezze e le umiliazioni che essa debba subire nella sua umiltà e debolezza, fino a quando la giustizia che posseggono, malgrado la loro debolezza, gli uomini pii, si muti in giudizio, cioè fino a quando la giustizia non riceva il potere di giudicare. Tale privilegio è riservato ai giusti per la fine dei tempi, allorquando la potenza, seguendo il suo ordine, farà seguito alla giustizia che l’ha preceduta. Infatti è la potenza appoggiata sulla giustizia, o la giustizia unita con la potenza, che costituisce il potere di giudicare. Ora la giustizia appartiene alla volontà buona: per questo gli Angeli, alla nascita di Cristo, hanno detto: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà 77. La potenza deve seguire la giustizia, non precederla, perciò trova il suo posto nelle res secundae, cioè nella prosperità. Ora la parola secundae (prospere), deriva dal verbo sequi (seguire). Infatti, poiché come abbiamo detto prima sono necessarie due cose per rendere l’uomo beato: volere il bene e potere ciò che si vuole, bisogna, come abbiamo notato nella medesima discussione, che sia assente quel disordine perverso che fa sì che l’uomo, fra queste due condizioni della felicità, scelga di potere ciò che vuole e trascuri di volere ciò che conviene, dato che deve prima avere una volontà buona e, soltanto dopo, una grande potenza. Ora la volontà per essere buona deve essere purgata dai vizi; se l’uomo è vinto da essi, la sconfitta lo trascina a volere il male; come allora la sua volontà sarà buona? Perciò bisogna augurarsi che la potenza sia data fin d’ora, però contro i vizi, ma gli uomini non vogliono essere potenti per vincere i vizi, bensì per vincere gli uomini. A che cosa li porta questo se non ad essere effettivamente vinti riportando una vittoria ingannevole, essendo vincitori apparentemente, non realmente? L’uomo voglia essere prudente, forte, temperante, giusto e, per poter esserlo veramente, ambisca in realtà la potenza e desideri di essere potente su se stesso e paradossalmente potente contro se stesso in favore di se stesso. Quanto agli altri beni che vuole con una volontà buona, ma che esulano dal suo potere, come l’immortalità, la vera e perfetta felicità, non cessi di desiderarli e li aspetti con pazienza.

Gratuità della morte di Cristo

14. 18. Qual è dunque questa giustizia che ha vinto il diavolo? Quale, se non quella di Gesù Cristo? E come fu vinto il demonio? Perché ha ucciso Cristo, benché non trovasse in lui nulla che meritasse la morte. Allora è giusto che siano messi in libertà i debitori che teneva sotto di sé, quando credono in Colui che senza alcun debito è stato ucciso da lui. Questo significa l’affermazione che noi siamo giustificati nel sangue di Cristo 78, perché è così che quel sangue innocente è stato sparso per la remissione dei nostri peccati 79. Ecco perché nei Salmi Cristo si dice libero tra i morti 80, perché è il solo ad essere morto senza dover pagare il debito della morte. Per questo in un altro Salmo dice: Ho pagato ciò che non avevo rubato 81, volendo far comprendere che il peccato è una rapina, perché è arrogarsi un diritto che non si ha. Così Cristo dice nel Vangelo, e questa volta con le sue proprie labbra: Ecco che viene il principe di questo mondo e non trova nulla in me 82, cioè nessun peccato; ma affinché tutti sappiano che faccio la volontà del Padre mio, alzatevi ed usciamo di qui 83. E va verso la sua passione al fine di pagare, egli che non doveva nulla, per i nostri debiti. Il diavolo sarebbe stato vinto con questa rigorosa equità, se Cristo avesse voluto trattare con lui sul piano della potenza e non su quello della giustizia? Ma rimandò ad un secondo tempo ciò che poteva, per fare prima ciò che conveniva. È per questo che bisognava che egli fosse insieme uomo e Dio. Se non fosse stato uomo, non avrebbe potuto essere ucciso; se non fosse stato anche Dio, non si sarebbe creduto che non voleva ciò che poteva, ma invece che non poteva ciò che voleva, e non penseremmo che abbia preferito la giustizia alla potenza, ma che la potenza gli mancò. In realtà ha patito per noi sofferenze umane, perché era uomo, ma se non lo avesse voluto, avrebbe anche potuto non patirle, perché era anche Dio. Perciò la giustizia ci è divenuta più gradita in queste umiliazioni, perché egli avrebbe potuto, se lo avesse voluto, non soffrire queste umiliazioni, tanto è grande la potenza nella divinità e così, morendo, lui che è tanto potente, ha insegnato a noi mortali impotenti la giustizia e promesso la potenza; di queste due cose una fece morendo, l’altra risorgendo. Che c’è infatti di più giusto che giungere fino a morire in croce 84 per la giustizia? E che c’è di più potente che risorgere dai morti e salire al cielo con la stessa carne nella quale è stato ucciso? Egli ha dunque vinto il diavolo prima con la giustizia, poi con la potenza; con la giustizia, perché fu senza peccato 85, e fu da lui ucciso in modo supremamente ingiusto; con la potenza, perché, morto, è ritornato alla vita per non più morire 86. Ma avrebbe vinto il diavolo con la potenza, anche se questi non avesse potuto ucciderlo, sebbene sia frutto di maggior potenza vincere anche la stessa morte risorgendo, che evitarla vivendo. Ma è la giustizia che ci giustifica nel sangue di Cristo 87, quando siamo strappati per mezzo della remissione dei peccati al potere del diavolo. Ciò è dovuto al fatto che il diavolo viene vinto da Cristo con la giustizia, non con la potenza. Cristo infatti fu crocifisso per la debolezza che assunse nella carne mortale 88, non per la sua immortale potenza; sebbene della sua debolezza l’Apostolo dica: La debolezza di Dio è più forte degli uomini 89.

15. 19. Non è dunque difficile vedere che il diavolo è vinto, una volta risuscitato Colui che egli ha ucciso. È una cosa più grande, un mistero più profondo per la nostra intelligenza, vedere che il diavolo è stato vinto, quando gli sembrava di aver vinto, cioè quando Cristo fu ucciso. Allora infatti quel sangue, perché era il sangue di Colui che non aveva assolutamente alcun peccato 90, fu sparso in remissione dei nostri peccati 91; così coloro che il diavolo con piena giustizia teneva incatenati in una condizione di morte, perché colpevoli di peccato, doveva lasciarli liberi con piena giustizia per merito di Colui al quale, benché innocente da ogni peccato, ha fatto subire ingiustamente la pena della morte. È con questa giustizia che il forte è stato vinto, e con questo legame è stato incatenato, affinché gli fossero rapiti i suoi vasi, quelli che presso di lui, con lui e con i suoi angeli erano stati vasi di ira e furono mutati in vasi di misericordia 92. Sono queste le parole che l’apostolo Paolo 93 narra gli siano state indirizzate dal cielo dallo stesso Signore Gesù Cristo nel primo momento della sua vocazione. Infatti, fra le altre parole che egli udì, egli dice che gli furono indirizzate anche queste: Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che ti mostro e di quelle per le quali ancora ti apparirò, liberandoti dal popolo e dai Gentili ai quali ti mando per aprire gli occhi ai ciechi, affinché passino dalle tenebre e dalla potestà di Satana a Dio, affinché ricevano la remissione dei peccati, la eredità dei santi e la fede in me 94. Per questo lo stesso Apostolo, esortando i credenti a rendere grazie a Dio Padre, dice: Lui che ci ha strappato al potere delle tenebre e ci ha fatto passare nel regno del Figlio del suo amore, nel quale siamo redenti per la remissione dei peccati 95. In questa redenzione, come prezzo per noi, è stato dato il sangue di Cristo; ricevutolo, il diavolo non è stato arricchito, ma incatenato, cosicché noi fossimo liberati dalle sue catene ed egli non trascinasse con sé nella rovina della morte seconda ed eterna 96, avviluppato nelle reti del peccato, nessuno di coloro che Cristo, esente da ogni debito, ha redento con il suo sangue versato gratuitamente, ma a condizione che morissero nella grazia di Cristo, preconosciuti 97, predestinati 98 ed eletti prima della fondazione del mondo 99, come Cristo è morto per essi, con una morte della carne soltanto, non dello spirito 100.

I mali di questo mondo sono utili agli eletti

16. 20. Infatti, benché anche la stessa morte della carne tragga la sua origine dal peccato del primo uomo 101, tuttavia il buon uso di essa fece dei martiri assai gloriosi. Perciò sono dovuti sussistere, anche dopo la remissione dei peccati, non solo la stessa morte, ma tutti i mali di questo mondo, tutti i dolori e le pene degli uomini, benché effetto dei peccati e soprattutto del peccato originale - a causa del quale la vita stessa è stata incatenata nei legami della morte -, per offrire all’uomo, in mezzo a queste prove, l’opportunità di lottare per la verità ed esercitare la virtù dei credenti, affinché l’uomo nuovo per mezzo di un testamento nuovo, tra i mali di questo mondo, si preparasse ad un nuovo mondo, sopportando saggiamente la miseria che ha meritato questa vita di condanna, godendo prudentemente del fatto che essa finirà; aspettando fiduciosamente e pazientemente la beatitudine che sarà possesso, senza fine, della futura vita di liberazione. Infatti il diavolo, cacciato via dal suo dominio e dal cuore dei fedeli, sui quali regnava, quando erano nello stesso stato di dannazione e d’infedeltà, sebbene dannato anche lui, ha il permesso di combatterli durante questa vita mortale, solo nella misura in cui sa che è loro utile Colui di cui le Sacre Scritture per bocca dell’Apostolo dicono: Dio è fedele, lui che non permette che voi siate tentati al di là delle vostre forze; ma con la tentazione preparerà un felice esito, dandovi il potere di sopportarla 102. Questi mali, piamente sopportati, servono ai fedeli per correggersi dei loro peccati, o a esercitare e mettere alla prova la loro giustizia, a mostrare loro la miseria di questa vita, affinché desiderino più ardentemente e cerchino più insistentemente quella vita dove ci sarà la beatitudine vera ed eterna. Ma questo si verifica in coloro di cui l’Apostolo dice: Sappiamo che Dio fa sì che tutte le cose cooperino al bene di coloro che lo amano, di quelli che secondo il suo disegno sono chiamati ad essere santi. Perché quelli che ha preconosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito di un gran numero di fratelli. E quelli che ha predestinati li ha anche giustificati; coloro che ha giustificati li ha anche glorificati 103. Di questi predestinati nessuno perisce con il diavolo, nessuno resterà fino alla morte sotto il potere del diavolo. Viene poi il passo che ho già citato sopra: Che rispondere a ciò? Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi? Lui che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha consegnato per noi tutti; come non ci avrà dato con lui tutto? 104.

La morte di Cristo fu scelta convenientemente perché fossimo giustificati nel suo sangue

16. 21. Perché dunque la morte di Cristo non avrebbe dovuto aver luogo? Anzi, perché, lasciando da parte gli altri innumerevoli mezzi dei quali avrebbe potuto far uso l’Onnipotente per liberarci, non avrebbe dovuto scegliere di preferenza questa morte di Cristo, morte nella quale la sua divinità non ha subito né danno né mutamento 105, e l’umanità che ha assunto, ha portato agli uomini un così gran beneficio, perché così il Figlio eterno di Dio, che era insieme figlio dell’uomo, ha sofferto una morte temporale, che non meritava, per liberare gli uomini da una morte eterna che meritavano? Il diavolo teneva nelle sue mani i nostri peccati e, per mezzo di essi, ci teneva, con pieno diritto, inchiodati nella morte. Li ha rimessi Colui che non ne aveva di propri e che è stato dal demonio condotto ingiustamente alla morte. Tanto valse quel sangue, che nessuno rivestito di Cristo dovette trattenere nella meritata morte eterna colui che uccise Cristo con una morte immeritata, per quanto temporanea. Dio manifesta dunque verso di noi il suo amore in questo, che, quando eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A più forte ragione, ora che siamo giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui 106. Giustificati, dice, nel suo sangue. Siamo pienamente giustificati per il fatto che siamo liberati da tutti i peccati, e siamo stati liberati da tutti i peccati perché il Figlio di Dio, che era senza peccato 107, è stato ucciso per noi. Saremo, dunque, salvi dall’ira per mezzo di lui 108; sì, salvi dall’ira di Dio che non è altro che una giusta vendetta 109. Perché l’ira di Dio non è, come quella dell’uomo, un perturbamento dell’anima, ma è l’ira di Colui al quale la Sacra Scrittura dice in un altro passo: Tu che sei il Signore della virtù, giudichi con tranquillità 110. Se dunque la giusta vendetta di Dio ha ricevuto tale nome, la riconciliazione di Dio, se la si intende bene, che altro è se non la fine di tale ira 111? Noi non eravamo nemici di Dio che nella misura in cui i peccati sono nemici della giustizia. Una volta rimessi i peccati, tali inimicizie cessano, e quelli che il Giusto stesso giustifica vengono riconciliati con lui 112. Tuttavia li ha amati anche quando erano suoi nemici, poiché non risparmiò il proprio Figlio, ma per noi tutti, quando ancora eravamo nemici, lo ha consegnato 113. A ragione dunque l’Apostolo continua ed aggiunge: Se dunque, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, morte per la quale ci sono stati rimessi i peccati, a maggior ragione, una volta riconciliati, saremo salvi nella sua vita 114. Salvi nella vita, coloro che sono stati riconciliati per mezzo della morte. Chi potrebbe infatti dubitare che egli non darà la sua vita a quegli amici per i quali, quand’erano nemici, ha dato la sua morte? Non solo, aggiunge l’Apostolo, ma ci gloriamo anche in Dio, per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, per merito del quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione 115. Non solo, egli dice, saremo salvi, ma ci gloriamo anche, però non in noi, bensì in Dio, né per mezzo di noi, ma per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, per merito del quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione, nel senso che abbiamo spiegato prima. L’Apostolo prosegue: Per questo, così come per mezzo di un solo uomo entrò in questo mondo il peccato, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata in tutti gli uomini, nel quale tutti hanno peccato 116, e poi vengono altri passi in cui tratta lungamente dei due uomini: l’uno, il primo Adamo, per il peccato e la morte del quale noi, suoi posteri, siamo incatenati come a mali ereditari; l’altro, il secondo Adamo che non è soltanto uomo, ma anche Dio e che, pagando per noi un debito che non doveva pagare, ci ha liberato dai debiti paterni e personali 117. Poiché dunque per causa di quel solo primo uomo, coloro che venivano generati dalla sua viziosa concupiscenza carnale tutti li teneva schiavi il diavolo, è giusto che per il Cristo solo lasci in libertà tutti coloro che vengono rigenerati per mezzo della sua immacolata grazia spirituale.

Altri benefici dell’Incarnazione

17. 22. Vi sono anche molte altre cose nell’Incarnazione di Cristo - la quale dispiace ai superbi - che è salutare comprendere e meditare. Una di queste è l’aver mostrato all’uomo il posto che occupa tra gli esseri creati da Dio: in quanto la natura umana ha potuto unirsi a Dio così intimamente da fare di due sostanze una sola persona, e per questo anzi di tre: Dio, l’anima e il corpo, cosicché quegli spiriti maligni e superbi, che sotto l’apparenza di aiutare l’uomo, s’interpongono come mediatori per ingannarlo, non osino più anteporsi all’uomo, con il pretesto che sono esenti dalla carne; perché, soprattutto, il Figlio di Dio ha spinto la sua condiscendenza fino al punto di morire in questa stessa carne, non possono più farsi onorare come dèi per la ragione che si mostrano immortali. Un secondo insegnamento consiste nel fatto che nell’umanità di Cristo ci è stata manifestata la grazia di Dio non preceduta da alcun merito 118, perché neppure Cristo ottenne in virtù di meriti precedenti di unirsi con il vero Dio tanto intimamente da fare con lui una persona in qualità di Figlio di Dio. Ma nello stesso istante in cui cominciò ad essere uomo, è anche Dio; per questo è detto: E il Verbo si è fatto carne 119. Vi è anche un terzo insegnamento: un così grande abbassamento da parte di Dio era proprio adatto a confondere e guarire la superbia dell’uomo, che è il più grande ostacolo alla sua unione con Dio 120. L’uomo impara anche quanto si sia allontanato da Dio; ciò gli dia forza a sopportare le sofferenze salutari nel ritornare, per mezzo di tale Mediatore, che come Dio soccorre gli uomini con la sua divinità, e come uomo è simile a loro nella debolezza 121. E qual maggiore esempio di obbedienza per noi, che eravamo periti per disobbedienza, di quello di Dio Figlio obbediente a Dio Padre fino alla morte in croce 122. Dove poteva apparire in maniera più splendida il premio dell’obbedienza, se non nella carne di un così grande Mediatore che è risuscitato per la vita eterna? Conveniva infine alla giustizia e alla bontà del Creatore che il diavolo fosse vinto per mezzo di quella stessa creatura ragionevole, che egli si compiaceva di aver vinto, e per mezzo di una creatura discendente da quella stessa stirpe che, viziata all’origine, era nella sua totalità, per la colpa di uno solo, sotto il potere del diavolo.

Perché il Figlio di Dio assunse la natura umana dalla stirpe di Adamo e nacque da una vergine

18. 23. Dio certo avrebbe potuto prendere altrove l’umanità in cui doveva essere Mediatore tra Dio e gli uomini 123, non dalla stirpe di Adamo che con il suo peccato incatenò il genere umano 124, come fece per Adamo che creò per primo, senza ascendenza. Avrebbe dunque potuto, così, o in altro modo che gli fosse piaciuto, creare un altro uomo unico in cui vincere il vincitore del primo; ma Dio giudicò più conveniente, e assumere dalla stessa stirpe, che era stata vinta, la natura umana, con la quale vincere il nemico della stirpe umana; e tuttavia da una vergine la cui concezione fu opera dello Spirito, non della carne: della fede, non della libidine 125; né vi intervenne la concupiscenza carnale, che fornisce il seme e la concezione a tutti gli altri, eredi del peccato originale; ma con l’esenzione assoluta di essa la santa verginità fu resa feconda dalla fede, non dall’unione; per conseguenza Colui che nasceva dalla stirpe del primo uomo, da lui derivò solo la specie umana, non anche la colpa. Nasceva infatti non come un individuo macchiato dal contagio della trasgressione, ma come l’unica medicina di tutti i contagiati. Nasceva, dirò, l’uomo che non aveva alcun peccato, l’uomo che non l’avrebbe mai avuto, l’uomo per cui sarebbero rinati coloro che dovevano essere liberati dal peccato che al loro nascere necessariamente li colpiva. Infatti, benché la castità coniugale faccia buon uso della concupiscenza carnale, che ha sede negli organi genitali, tuttavia questa concupiscenza ha dei moti involontari che ci mostrano che non ha potuto esistere nel paradiso prima del peccato, e che, se esisteva, non era di tale natura da resistere talvolta alla volontà. Ora invece la sua natura è tale - lo sappiamo per esperienza - che, rivoltandosi contro la legge dello spirito, incita all’unione carnale, anche indipendentemente da ogni fine di procreare; se le si cede, si sazia peccando, se non le si cede, non si lascia dominare che facendo resistenza. Chi può dubitare che questi due inconvenienti fossero assenti in paradiso, prima del peccato? Infatti l’onestà di allora non commetteva nulla di vergognoso, e la felicità di allora non era compatibile con qualcosa che non fosse tranquillo. Occorreva dunque che questa concupiscenza carnale fosse del tutto assente nella concezione verginale, da cui nacque Colui nel quale non doveva trovare nulla che meritasse la morte l’autore della morte, che tuttavia lo avrebbe ucciso, per essere vinto con la morte dell’autore della vita. Vincitore del primo Adamo, tiranno del genere umano, vinto dal secondo Adamo e privato del genere cristiano che, in mezzo al genere umano è stato liberato dal crimine umano, per opera di Colui che non aveva il crimine, sebbene appartenesse a quel genere, affinché l’ingannatore fosse vinto da quel medesimo genere che aveva sconfitto con il peccato. E tutto questo accadde perché l’uomo non se ne inorgoglisca, ma colui che si gloria, si glori nel Signore 126. Colui che fu vinto, infatti, era solo uomo, e fu vinto perché orgogliosamente desiderava essere Dio. Invece Colui che vinse era insieme uomo e Dio, e, nascendo da una vergine, in tanto vinse in quanto umilmente Dio non dirigeva quell’uomo alla maniera degli altri santi, ma lo faceva sussistere in lui stesso. Questi doni così grandi di Dio ed altri ancora, se ve ne sono, circa i quali sarebbe troppo lungo per noi, a proposito del nostro argomento, indagare e discutere ora, non esisterebbero, se il Verbo non si fosse fatto carne 127.

La nostra scienza è Cristo, la nostra sapienza è ancora Cristo

19. 24. Tutto ciò che il Verbo fatto carne 128 ha fatto e sofferto per noi nel tempo e nello spazio appartiene, secondo la distinzione che abbiamo cominciato a chiarire, alla scienza, non alla sapienza 129. Invece ciò che il Verbo è al di fuori del tempo e dello spazio, è coeterno al Padre e tutto intero in ogni luogo 130; di questo, se qualcuno può, per quanto gli è possibile, parlare secondo verità, ciò che dirà apparterrà alla sapienza 131; per questo motivo il Verbo fatto carne, Cristo Gesù, possiede i tesori della sapienza e della scienza 132. Ecco perché l’Apostolo scrive ai Colossesi: Voglio infatti che voi sappiate quanto grande sia la lotta che io sostengo per voi e per questi che sono a Laodicea e per tutti coloro che non mi hanno mai veduto di persona, affinché siano consolati i loro cuori e, intimamente uniti in carità, possano essere del tutto arricchiti d’una pienezza d’intelligenza, per conoscere il mistero di Dio, che è Cristo, in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza 133. Chi può sapere in quale misura l’Apostolo conosceva questi tesori, quanto era penetrato in essi, quali misteri aveva scoperto? Da parte mia tuttavia, secondo ciò che sta scritto: La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno di noi per utilità: infatti ad uno è dato dallo Spirito il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza, secondo lo stesso Spirito 134, se la differenza tra la sapienza e la scienza risiede in questo: che la sapienza si riferisce alle cose divine, la scienza a quelle umane, riconosco l’una e l’altra in Cristo e con me la riconosce ogni fedele di Cristo. E quando leggo: Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi 135, nel Verbo vedo con l’intelligenza il vero Figlio di Dio 136, nella carne riconosco il vero figlio dell’uomo 137, l’uno e l’altro uniti nella sola persona del Dio-uomo, per un dono ineffabile della grazia. Per questo l’Evangelista aggiunge: E abbiamo contemplato la sua gloria, gloria uguale a quella dell’Unigenito del Padre pieno di grazia e di verità 138. Se riferiamo la grazia alla scienza, la verità alla sapienza 139, penso che non andiamo contro la distinzione tra scienza e sapienza, che abbiamo proposto. Infatti, nell’ordine delle cose che traggono la loro origine nel tempo, la grazia più alta è l’unione dell’uomo con Dio nell’unità della persona; nell’ordine delle cose eterne, la più alta verità 140 è, a ragione, attribuita al Verbo di Dio. Ora, quello stesso che è l’Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità 141, l’incarnazione fa sì che egli sia pure quello stesso il quale agisce per noi nel tempo affinché, purificati per mezzo della fede in lui, lo contempliamo per sempre nell’eternità. I più grandi filosofi pagani poterono, per mezzo della creazione, contemplare con l’intelligenza le perfezioni invisibili di Dio 142; tuttavia, poiché filosofarono senza il Mediatore, cioè senza il Cristo uomo, e non hanno creduto ai Profeti che vaticinarono la sua venuta, né agli Apostoli che proclamarono tale venuta, hanno tenuto imprigionata la verità, come sta scritto di loro, nell’ingiustizia 143. Posti in quest’ultimo grado della creazione, non poterono infatti che cercare dei mezzi per giungere a quelle realtà di cui avevano compreso la grandezza; così facendo sono caduti negli inganni dei demoni, che hanno fatto loro scambiare la gloria di Dio incorruttibile con delle immagini rappresentanti l’uomo corruttibile, uccelli, quadrupedi e rettili 144. Infatti sotto tali forme hanno costruito degli idoli e hanno reso loro culto 145. Dunque la nostra scienza è Cristo 146; la nostra sapienza è ancora lo stesso Cristo. È lui che introduce in noi la fede che concerne le cose temporali, lui che ci rivela la verità concernente le cose eterne. Per mezzo di lui andiamo a lui, per mezzo della scienza tendiamo alla sapienza; senza tuttavia allontanarci dal solo e medesimo Cristo in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza 147. Ma ora parliamo della scienza, riservandoci di parlare in seguito della sapienza, per quanto egli ci donerà di farlo. Tuttavia guardiamoci dal prendere queste parole in un’accezione così precisa che ci impedisca di parlare di sapienza a riguardo delle cose umane, e di scienza a riguardo delle cose divine. In senso lato si può parlare di sapienza in ambedue i casi ed in ambo i casi si può parlare di scienza. Tuttavia l’Apostolo non avrebbe scritto mai: ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza 148, se ciascuna di queste parole non avesse un’accezione propria, accezione di cui trattiamo ora.

Riassunto di questo libro

20. 25. Vediamo ormai quale sia il risultato di questo lungo discorso, ciò che vi abbiamo raccolto, il termine cui è pervenuto. Voler essere beati 149 è un’aspirazione di tutti gli uomini; ma non tutti hanno la fede che, purificando il cuore, conduce alla felicità. Così accade che è per mezzo della fede, che non tutti vogliono, che bisogna tendere alla beatitudine che nessuno può non volere. Che vogliano essere beati 150, tutti lo vedono nel loro cuore, e su questo punto l’aspirazione della natura umana è così unanime, che un uomo, constatando tale aspirazione nella sua anima, può infallibilmente presumere che esista nell’anima degli altri; in breve, sappiamo che tutti vogliono questo. Ma molti disperano di poter essere immortali, benché nessuno possa essere ciò che tutti vogliono, cioè beato, senza l’immortalità; tuttavia vogliono essere anche immortali, se lo possono; ma, non credendo di poterlo essere, non vivono in modo da poterlo essere. Perciò ci è necessaria la fede per conseguire la beatitudine nella pienezza dei beni della natura umana, cioè sia nell’anima sia nel corpo. Questa fede si riassume in Cristo, il quale è risuscitato nella sua carne dai morti per non più morire 151; poiché nessuno, se non per opera di lui, può essere liberato dal potere del diavolo per mezzo della remissione dei peccati; perché nel regno del diavolo la vita è necessariamente in eterno infelice, vita che si deve chiamare meglio morte che vita. Ecco ciò che ci insegna la stessa fede. Di tale fede ho trattato in questo libro, come ho potuto, secondo il tempo che avevo a disposizione, benché ne avessi parlato a lungo nel libro IV di questa opera 152, ma allora da un punto di vista differente da quello presentato in questo libro: nel libro quarto per mostrare perché e come Cristo è stato mandato dal Padre nella pienezza del tempo 153, per rispondere a coloro che affermano che Colui che manda e che Colui che è mandato non possono essere uguali per natura; in questo invece per distinguere la scienza, che appartiene all’ordine dell’azione, dalla sapienza, che appartiene all’ordine della contemplazione 154.

La trinità della virtù della fede

20. 26. Elevandoci come di grado in grado ho voluto cercare nella scienza e nella sapienza, presso l’uomo interiore, una specie di trinità nel loro genere, come l’ho cercata presso l’uomo esteriore; e questo per giungere, dopo aver esercitato il nostro spirito nelle cose inferiori, nella misura delle nostre forze e se questo ci è possibile, a vedere almeno in enigma e per mezzo di uno specchio 155 quella Trinità che è Dio. Colui che ha affidato alla sua memoria le parole in cui si esprime la fede ritenendo solo i nomi senza comprenderne il senso (come sogliono ritenere a memoria le parole greche coloro che ignorano il greco, e lo stesso si dica del latino e di qualsiasi altra lingua che si ignora) non possiede nella sua anima una certa trinità, perché ha nella sua memoria i suoni delle parole, anche quando non vi pensa, perché da essi è informato lo sguardo del ricordo, quando egli vi pensa, e perché la volontà di colui che ricorda e pensa unisce questi due termini? Tuttavia non diremmo certamente che, facendo questo, tale uomo agisce secondo la trinità dell’uomo interiore, ma piuttosto secondo quella dell’uomo esteriore; perché ricorda soltanto e vede, quando vuole e quanto vuole, soltanto ciò che appartiene al senso corporeo, chiamato udito, e quando vi pensa, non si occupa che di immagini di oggetti materiali, cioè dei suoni. Ma, se ritiene e ricorda ciò che quelle parole significano, compie già un qualcosa che appartiene all’uomo interiore, ma non bisogna ancora dire né giudicare che viva secondo la trinità dell’uomo interiore, se non ama gli insegnamenti, i precetti, le promesse che queste parole contengono. Infatti può anche ritenere questo e pensarci per sforzarsi, ritenendolo falso, di confutarlo. Perciò la volontà che unisce le conoscenze ritenute dalla memoria a quelle che a partire da essa sono impresse nello sguardo del pensiero, completa senza dubbio una specie di trinità, essendo in essa come il terzo termine, ma non si vive secondo questa trinità, quando si respingono come false le cose che si pensano. Quando invece si crede che questi insegnamenti sono veri e si ama ciò che vi si deve amare, allora si vive già secondo la trinità dell’uomo interiore, perché ciascuno vive secondo ciò che ama. Ma come si possono amare le cose che non si conoscono, ma che si credono soltanto? Questa questione è già stata trattata nei libri precedenti 156 e si è trovato che nessuno ama ciò che ignora totalmente; e quando si dice che si amano cose sconosciute, le si ama a partire da quelle conosciute. Ed ora chiudiamo questo libro ricordando che il giusto vive di fede 157, questa fede opera per mezzo dell’amore 158, cosicché le virtù stesse con le quali si vive con prudenza, forza, temperanza e giustizia, si rapportano tutte alla fede; altrimenti non potranno essere vere virtù. Tuttavia, in questa vita, non sono talmente perfette da non rendere talvolta necessaria la remissione dei peccati, di qualunque specie essi siano; questa non si ottiene che per mezzo di Colui che con il suo sangue ha vinto il principe del peccato. Tutte le conoscenze che esistono nell’anima dell’uomo credente, promanando da questa fede e da una vita conforme alla fede, quando sono conservate nella memoria sono contemplate nel ricordo, piacciono alla volontà, formano una specie di trinità. Ma l’immagine di Dio, di cui parleremo in seguito, con l’aiuto di lui, non si trova ancora in essa. Ciò si vedrà meglio quando avremo mostrato dove essa si trovi: per trovarla, il lettore attenda al libro seguente.

 

LIBRO QUATTORDICESIMO

La sapienza è il culto di Dio

1. 1. Ora dobbiamo trattare della sapienza, non di quella di Dio che senza alcun dubbio è Dio, perché sapienza di Dio è chiamato il suo Figlio unigenito 1, ma parleremo della sapienza dell’uomo, però della vera, che è secondo Dio, e che è il vero e principale culto reso a lui, che i Greci chiamano con una sola parola . Questo termine i Latini, come ho ricordato, volendo tradurlo anch’essi con una sola parola, l’hanno tradotto con pietas, benché la pietas sia chiamata più ordinariamente dai Greci , ma , poiché non si può rendere nel suo pieno significato con una sola parola, è meglio tradurla con due parole e dire di preferenza "culto di Dio". Che questa sia la sapienza dell’uomo, come ho stabilito già nel libro XII di quest’opera 2, ce lo dimostra l’autorità della Sacra Scrittura, nel libro del servo di Dio Giobbe, dove si legge che la sapienza di Dio ha detto all’uomo: Ecco: la pietà è sapienza; astenersi invece dal male è scienza 3; o ancora, secondo la traduzione che alcuni fanno del greco , è disciplina, termine che deriva certamente da discere (imparare), e per questo si può anche chiamare "scienza", perché qualsiasi cosa si apprenda, lo si fa per saperla 4. Tuttavia il termine disciplina è usato di solito in un’altra accezione: designa i mali che ciascuno, a motivo dei suoi peccati, sopporta per emendarsi. Per questo si legge nell’Epistola agli Ebrei: Qual è il figlio al quale il padre non applichi la disciplina? E più chiaramente nella stessa Epistola: Ma ogni disciplina sembra dapprima causa di dolore e non di gioia; tuttavia in seguito produrrà, in coloro che per mezzo di essa hanno combattuto, frutti di pace e di giustizia 5. È dunque Dio stesso la sapienza suprema, invece il culto di Dio è la sapienza dell’uomo, sapienza di cui ora parliamo. Infatti: La sapienza di questo mondo è stoltezza presso Dio 6. Di questa sapienza, che è culto di Dio 7, parla la Scrittura quando dice: La moltitudine dei sapienti è la salvezza del mondo 8.

Il filosofo amico della sapienza

1. 2. Ma se è privilegio dei sapienti discutere della sapienza 9, che faremo noi? Oseremo far professione di sapienza per non arrossire nel discutere su di essa? Non saremo trattenuti dall’esempio di Pitagora? Questi, non avendo osato dirsi saggio, preferì dirsi filosofo, cioè amico della sapienza; la parola "filosofo", che trae origine da lui, ebbe in seguito presso coloro che vennero dopo di lui tanto successo, che nessuno, per quanto eminente apparisse ai suoi occhi o agli occhi degli altri per l’ampiezza delle sue conoscenze riguardanti la sapienza, non ricevette altro nome che quello di filosofo 10. Se dunque nessuno di questi uomini osava dirsi sapiente, è perché forse pensavano che il sapiente è senza peccato? Ma non dicono questo le nostre Scritture, che affermano: Riprendi il sapiente e ti amerà 11. Certamente giudicano peccatore colui che ritengono che si debba riprendere. Tuttavia nemmeno in questo senso io oso dichiararmi sapiente; mi basta sapere - e questo nemmeno gli antichi lo possono contestare - che è compito anche del filosofo, cioè di colui che ama la sapienza, discutere circa la sapienza. Non hanno fatto a meno di far questo essi, che si sono proclamati amici della sapienza, piuttosto che sapienti.

Scienza e sapienza

1. 3. Discutendo intorno alla sapienza, la definirono così: La sapienza è la scienza delle cose umane e divine 12. Per questo anch’io, nel libro precedente, non ho mancato di dire che si poteva chiamare sapienza e scienza la conoscenza delle une e delle altre cose, cioè delle cose divine ed umane 13. Ma la distinzione che fa l’Apostolo, quando dice: Ad uno è dato il linguaggio della sapienza, ad un altro il linguaggio della scienza 14, ci invita a dividere questa definizione, così da chiamare propriamente sapienza la scienza delle cose divine e riservare propriamente il nome di scienza alla conoscenza delle cose umane. Di questa ho trattato nel libro XIII, non attribuendo certamente alla scienza tutto ciò che l’uomo può sapere circa le cose umane, in cui si trova tanta vanità superflua e pericolosa curiosità, ma solo la conoscenza che genera, nutre, difende e fortifica la fede supremamente salutare, che conduce l’uomo alla vera beatitudine, scienza che non possiedono in modo vigoroso molti fedeli, sebbene sia assai vigorosa la loro fede. Infatti altro è sapere appena quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, la quale non può essere se non eterna, altro è saperlo in tal modo da metterlo a profitto dei buoni e da difenderlo contro i cattivi 15; questa sembra che sia in senso proprio la scienza di cui parla l’Apostolo 16. Pertanto, prima di essa, mi sono preoccupato di raccomandare particolarmente la fede, distinguendo anzitutto in poche parole le cose temporali dalle eterne, e ho trattato allora delle cose temporali, riservandomi di parlare delle eterne in questo libro 17. Ho mostrato che la fede concernente le stesse cose eterne appartiene al tempo ed abita temporalmente nei cuori dei credenti, ma che è necessaria tuttavia, per attingere le cose eterne stesse 18. Ma ho spiegato anche l’utilità, per il conseguimento delle cose eterne, della fede circa le cose temporali che per noi ha compiuto l’Eterno ed ha patito nella sua umanità, umanità che ha creato nel tempo e che ha promosso all’eternità; ed ho spiegato che le virtù stesse che ci fanno vivere con prudenza, fortezza, temperanza e giustizia, durante questa vita temporale e mortale, non sono vere virtù se non sono rapportate a questa medesima fede, che, sebbene temporale, conduce alle cose eterne.

La trinità della fede non è immagine di Dio

2. 4. Perciò, poiché è scritto: Mentre siamo nel corpo peregriniamo lontani dal Signore, perché camminiamo per fede, non per visione 19, fino a quando il giusto vive di fede 20, sebbene viva secondo l’uomo interiore 21 e per mezzo di questa medesima fede temporale si sforzi di attingere alla verità e tendere alla Verità eterna, tuttavia nel possesso, nella contemplazione, nell’amore di questa stessa fede temporale non si trova ancora una trinità che si debba chiamare immagine di Dio; non bisogna ritenere che sia posta nelle cose temporali un’immagine che deve essere posta nelle cose eterne. Infatti lo spirito umano, quando vede la sua fede, con la quale crede ciò che non vede, non vede qualcosa di eterno. Non è infatti eterno ciò che cesserà di esistere quando, al termine di questa peregrinazione in cui viaggiamo lontani dal Signore - per cui è necessario che camminiamo nella fede -, succederà la visione, con cui contempleremo a faccia a faccia 22; ed è così che, sebbene ora non vediamo, tuttavia, poiché crediamo, meriteremo di vedere e godremo di essere stati condotti per mezzo della fede alla visione 23. Infatti non ci sarà più allora la fede con la quale crediamo ciò che non vediamo, ma la visione con cui si vede ciò che si credeva. Allora dunque, anche se ci ricorderemo di questa vita mortale che sarà passata e ci ricorderemo di un tempo in cui credevamo ciò che non vedevamo, tuttavia questa fede sarà annoverata tra le cose passate e finite, non tra le cose presenti e che restano sempre. Per questo anche questa trinità che ora consiste nella memoria, nella visione e nell’amore della fede, che è presente e perdura, ci accorgeremo allora che è finita e passata, che non dura sempre. Se dunque questa trinità è già immagine di Dio, si deve concludere che anche questa immagine si trova non nelle cose eterne, ma nelle cose che passano.

Soluzione di una difficoltà

3. Ma si tratta di un’ipotesi inammissibile, perché se l’anima, per natura, è immortale né cessa di esistere dal momento in cui è stata creata, è impossibile che ciò che vi è di migliore in essa non duri quanto essa, che è immortale. Ora che c’è di migliore in essa del fatto di essere stata creata ad immagine del suo Creatore 24? Non è dunque nel possesso, nella contemplazione, nell’amore della fede, che non esisterà sempre, ma in ciò che esisterà sempre che dobbiamo trovare ciò che si deve chiamare immagine di Dio.

3. 5. Dobbiamo scrutare ancora più diligentemente e profondamente se in realtà è così? Si può infatti obiettare che non perisce questa trinità, anche quando la fede sarà scomparsa, perché, come ora la conserviamo nella memoria, la vediamo con il pensiero, l’amiamo con la volontà, così anche allora, quando la conserveremo nella memoria come una cosa passata, e ce ne ricorderemo e uniremo queste due operazioni con quel terzo termine che è la volontà, rimarrà questa stessa trinità. Perché se il suo passaggio non ha lasciato in noi nulla che ne sia come un vestigio, è certo che nella nostra memoria non resterà nulla cui ricorrere, quando vorremo ricordare questa fede passata e unire con l’attenzione, che costituisce il terzo, questi due termini, ossia ciò che esisteva nella memoria, quando noi non vi pensavamo, e la rappresentazione che se ne forma il pensiero. Ma chi afferma questo non distingue la trinità che esiste ora, quando possediamo, vediamo, amiamo la fede presente in noi, da quella che esisterà allorquando non ci sarà più la fede, ma come il suo vestigio, esistente sotto forma di immagine nel segreto della memoria, che contempleremo con l’atto del ricordo e uniremo con la volontà, che costituisce il terzo, questi due termini, cioè quanto esisteva nella memoria di colui che conserva tale vestigio e ciò che si imprime nello sguardo di colui che ricorda tale realtà. Per comprendere ciò prendiamo un esempio dalle realtà corporee, delle quali abbiamo sufficientemente trattato nel libro XI 25. Ascendendo dalle cose inferiori alle superiori, o entrando dalle cose esteriori a quelle interiori, abbiamo trovato una prima trinità formata dal corpo percepito, dallo sguardo del soggetto, che quando percepisce è informato dal corpo, dall’attenzione della volontà che unisce l’uno all’altro. Costituiamo una trinità simile a questa, a partire dalla fede presente attualmente in noi; come il corpo è situato in un luogo determinato, così la fede è nella nostra memoria; essa informa il pensiero di colui che se ne ricorda, come il corpo informa lo sguardo di colui che vede; a questi due elementi, affinché si completi la trinità, se ne aggiunge un terzo, la volontà, che connette e congiunge la fede presente nella memoria e una sua immagine impressa nello sguardo del ricordo, allo stesso modo che, nella trinità della visione corporea, l’attenzione della volontà unisce la forma del corpo veduto e l’immagine che se ne produce nello sguardo di chi guarda. Supponiamo dunque che il corpo che si vedeva sia scomparso, sia svanito, che non ne resti in nessuna parte alcuna traccia a cui possa ricorrere la vista per vederlo: forse perché permane nella memoria l’immagine dell’oggetto scomparso e passato dalla quale è informato lo sguardo di chi pensa, e la volontà, come terzo termine, congiunge l’uno all’altra, si deve dire che questa trinità è la stessa che c’era quando si contemplava la configurazione del corpo posto in un luogo determinato? Certamente no, è una trinità totalmente diversa, perché, a parte il fatto che la prima era esteriore e la seconda interiore, la prima aveva certamente come punto di partenza la configurazione del corpo presente, questa l’immagine del corpo scomparso. Così pure nel caso di cui ora ci occupiamo e per il quale abbiamo ritenuto utile ricorrere a quell’esempio: la fede attualmente presente nella nostra anima, come l’oggetto in un luogo, fintantoché è conservata, veduta, amata, costituisce una certa trinità; ma tale trinità cesserà quando questa fede non sarà più nell’anima, come cessa quando l’oggetto non è più nel luogo in cui si trovava. La trinità che si avrà, quando ci ricorderemo che la fede fu in noi ma non c’è più, sarà certamente diversa. Quella che esiste ora infatti procede da una realtà presente e fissata nell’anima del credente; quella che esisterà allora, procederà dall’immagine di una realtà passata, lasciata nella memoria di colui che ne evoca il ricordo.

L’immagine di Dio va trovata nell’anima immortale dell’uomo, in cui è immortalmente impressa

4. 6. Non dunque quella trinità, che ora non esiste, sarà immagine di Dio; nemmeno questa, che un giorno non esisterà più, ma è nell’anima umana, razionale ed intelligente, che bisogna trovare l’immagine del Creatore, immortalmente incisa nella sua immortalità. Infatti, come è in un certo senso che si parla di immortalità dell’anima, perché anche l’anima può morire, quando è priva della vita beata, che si deve chiamare veramente vita dell’anima, ma si dice immortale perché, qualunque sia la sua vita, fosse pure la più miserabile, non cessa mai di vivere, così benché la ragione o l’intelligenza sia talvolta in essa assopita, talvolta appaia grande, talvolta piccola, tuttavia giammai l’anima umana cessa di essere razionale e intelligente. Perciò se essa è stata fatta ad immagine di Dio 26, nel senso che può far uso della ragione e dell’intelligenza per comprendere e vedere Dio, è evidente che, dal momento in cui ha incominciato ad esistere una così grande e meravigliosa natura, sia che questa immagine sia talmente logorata da non esistere quasi più, sia che sia ottenebrata e sfigurata, sia che sia chiara e bella, non cessa di essere. Finalmente è compassionando la deformazione della sua dignità che la Scrittura dice: Benché l’uomo cammini nell’immagine, tuttavia si agita invano; egli accumula senza sapere per chi raccoglie 27. La Scrittura non attribuirebbe così la vanità all’immagine di Dio, se non vedesse che ha perduto la sua forma. Questa deformazione tuttavia non giunge al punto da far scomparire l’immagine, come lo mostra sufficientemente la Scrittura dicendo: Benché l’uomo cammini nell’immagine 28. Per questo si può, senza falsarne il senso, enunciare questa frase invertendo le proposizioni; invece di dire: Sebbene l’uomo cammini nell’immagine, tuttavia si agita invano, si può dire: "Benché l’uomo si inquieti invano, tuttavia cammina nell’immagine". Infatti, sebbene la sua natura sia grande, tuttavia ha potuto essere viziata, perché non è la natura suprema e, benché abbia potuto essere viziata, in quanto non è la natura suprema, tuttavia in quanto è capace e può essere partecipe della natura suprema, è una natura grande. Cerchiamo dunque in questa immagine di Dio una specie di trinità nel suo genere con l’aiuto di Colui che ci ha fatti a sua immagine 29. Perché non possiamo in un modo diverso proseguire questa ricerca in maniera salutare, né scoprire qualche verità in conformità alla sapienza che deriva da lui. Ma se il lettore conserva nella sua memoria e ricorda ciò che abbiamo detto dell’anima umana e dello spirito nei libri precedenti, soprattutto nel libro X, o se rileggerà con diligenza i passi in cui queste riflessioni sono state espresse, non desidererà qui un discorso troppo prolisso su un argomento tanto importante.

4. 7. Abbiamo dunque detto, tra le altre cose, nel libro X, che lo spirito dell’uomo conosce se stesso 30. Infatti non c’è nulla che lo spirito conosca altrettanto bene come ciò che gli è presente e nulla è più presente allo spirito che lo spirito a se stesso. Abbiamo portato altri argomenti, per quanto ci sembrava necessario, per stabilire questa verità con la più grande certezza.

Lo spirito del fanciullo ha coscienza di sé?

5. Che si deve dunque dire dello spirito del bambino, ancora così piccolo e ancora immerso in una così grande ignoranza delle cose, che lo spirito dell’uomo, che possiede qualche conoscenza, freme di fronte alle tenebre di questo spirito? Bisogna credere che anch’esso conosce se stesso ma che, troppo attento agli oggetti delle sensazioni corporee che incomincia a sentire con un piacere tanto più grande, quanto è più nuovo, se non può ignorare se stesso, non può tuttavia pensare se stesso? Con quanta avidità esso si porti verso gli oggetti sensibili che sono all’esterno, si può congetturare anche da questo solo fatto: esso desidera così vivamente di captare la luce che, se qualcuno per poca cautela, o ignorando ciò che a causa di questo possa accadere, ponga di notte una luce sulla culla ove giace un bambino, in un posto verso cui il bambino, dalla sua culla, possa volgere gli occhi senza poter piegare il collo, il bambino non ne staccherà lo sguardo, e ne abbiamo conosciuti alcuni che in questo modo sono diventati strabici, conservando i loro occhi quella conformazione che l’abitudine ha in qualche modo fissato in essi, quand’erano teneri e delicati. La stessa cosa vale per gli altri sensi corporei; le anime dei piccoli, per quanto lo permette quell’età, concentrano per così dire la loro attenzione sui sensi in tal maniera che solo ciò che li incomoda o diletta nella loro carne provoca una violenta repulsione e un violento desiderio; ma non pensano alle realtà interiori che sono in essi e non si può consigliarli che lo facciano, perché non conoscono ancora i segni di chi li consiglia, fra i quali le parole occupano il primo posto; ma i piccoli le ignorano totalmente come tutti gli altri segni. Ora che sia una cosa non conoscersi e un’altra non pensarsi, l’abbiamo mostrato nello stesso libro 31.

5. 8. Ma lasciamo da parte questa età che non si può interrogare su ciò che in essa accade e che noi stessi abbiamo totalmente dimenticato. Ci basterà sapere con certezza che, quando l’uomo potrà riflettere sulla natura della sua anima e trovare la verità, non la troverà altrove, ma in se stesso. Ora troverà non ciò che ignorava, ma ciò a cui non pensava. Che sappiamo infatti se non sappiamo ciò che è nel nostro spirito, dato che, tutto ciò che sappiamo, non lo possiamo sapere che con lo spirito?

La trinità della coscienza di sé

6. Tuttavia così grande è la forza del pensiero, che lo spirito stesso, in qualche modo, non si pone sotto il proprio sguardo che quando pensa se stesso. Così, dunque, nulla cade sotto lo sguardo dello spirito se non ciò a cui esso pensa, cosicché lo spirito stesso, con cui si pensa tutto ciò che è pensato, non può cadere sotto il suo sguardo se non pensando se stesso. Come possa accadere che, quando non pensa se stesso, lo spirito non cada sotto il suo sguardo - dato che non può mai essere separato da se stesso, come se esso e lo sguardo che ha di sé fossero cose differenti - è cosa che non posso comprendere. Si può affermare questo, senza cadere nell’assurdo, dell’occhio del corpo, perché l’occhio occupa un posto fisso nel corpo, ma il suo sguardo tende verso le cose che sono al di fuori e si estende fino agli astri. Ma l’occhio non cade sotto il suo sguardo, perché non vede se stesso, se non in uno specchio, come ho già detto 32. Ma non è affatto il caso dello spirito, quando si pone sotto il suo sguardo con il pensiero. Dunque vede esso una parte di sé con un’altra parte di sé, quando si vede pensandosi, allo stesso modo che con quegli organi corporei che sono i nostri occhi guardiamo altre nostre membra, che possono cadere sotto il nostro sguardo? Che si può pensare od affermare di più assurdo? Da che cosa si ritrae lo spirito, se non da se stesso? Dove è posto sotto il suo sguardo, se non di fronte a sé? Esso non sarà più dunque dove era, quando non stava in presenza di se stesso, perché, se è stato posto qui, è stato tolto di là. Ma se per essere visto si è spostato, dove resterà per vedersi? O può forse godere di una bilocazione così da essere qui e là; qui per vedere, là per essere visto; in sé, soggetto contemplante, davanti a sé, oggetto contemplato? La verità, se la si interroga, non ci risponde nulla di simile, perché quando pensiamo in questo modo, pensiamo soltanto false immagini materiali, e che lo spirito non è nulla di questo è cosa assolutamente certa per pochi spiriti, presso i quali si può cercare la verità su questo argomento. Perciò non resta che affermare che è un qualcosa che appartiene alla natura dello spirito il vedere se stesso e, quando pensa se stesso, il ritornare su di sé, non mediante un movimento spaziale, ma con una conversione immateriale 33. Ma quando non pensa se stesso, certamente non vede se stesso e non informa di sé il suo sguardo, ma ciononostante si conosce come se fosse a se stesso la memoria di sé. È come ciò che accade ad un uomo che possiede molte conoscenze: le cose che conosce le ha nella sua memoria, ma soltanto quelle che sono oggetto del suo pensiero attuale sono sotto lo sguardo dello spirito, le altre sono nascoste in una specie di sapere misterioso, che si chiama memoria. Di qui la trinità che presentavamo nel modo seguente: ciò che, presente nella memoria, informa lo sguardo di chi pensa; la forma che lo riproduce, come l’immagine impressa a partire dalla memoria; ciò che unisce invece l’uno all’altra: l’amore o la volontà. Quando perciò lo spirito si vede con il pensiero, si comprende e si riconosce; esso genera dunque questa intelligenza e questa conoscenza di sé. Una realtà immateriale infatti è vista se è compresa, e viene conosciuta comprendendola. Ma lo spirito, quando, pensandosi, si vede per mezzo dell’intelligenza, non genera certo in tal modo la conoscenza implicita di sé, come se prima fosse sconosciuto a se stesso; mentre era noto a se stesso, alla stessa maniera che sono note le cose che sono contenute nella memoria, sebbene non siano pensate; diciamo infatti che un uomo conosce le lettere anche quando non pensa alle lettere, ma ad altre cose. Queste due conoscenze, quella che genera e quella che è generata, sono unite da un terzo termine, la dilezione, che non è altro che la volontà la quale appetisce e possiede qualcosa per fruirne. È dunque ancora per mezzo di queste tre parole, riteniamo, che si deve dare un’idea della trinità dello spirito: memoria, intelligenza, volontà 34.

Diversità tra il conoscersi ed il pensare sé: lo spirito si ricorda sempre di sé, sempre si conosce e si ama

6. 9. Ma poiché abbiamo detto verso la fine del libro X che lo spirito si ricorda sempre di sé, che esso sempre si comprende e si ama, sebbene non si pensi sempre come distinto dalle cose che non sono ciò che esso è 35, bisogna indagare in che senso l’intelligenza appartenga al pensiero e d’altra parte in che senso si dica che la conoscenza (notitia) di tutto ciò che è nello spirito, anche quando esso non vi pensa, appartenga alla memoria. Se infatti è così, lo spirito non possedeva queste tre cose: la memoria, l’intelligenza, e l’amore di sé; aveva soltanto la memoria di sé, ed è in un secondo momento, quando incomincia a pensarsi, che ha intelligenza e amore di sé.

7. Consideriamo dunque con maggiore attenzione l’esempio addotto, con l’aiuto del quale abbiamo mostrato che una cosa è il non conoscere una realtà, altra cosa il non pensarla; e che può accadere che un uomo conosca qualcosa a cui non pensa, quando il suo pensiero è fisso su un altro argomento, non su quello. Perciò un uomo, versato in due o più scienze, quando pensa ad una, conosce tuttavia l’altra, o le altre, anche se non vi pensa. Ma possiamo forse essere nel giusto, se affermiamo: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la comprende, perché non pensa ad essa; comprende invece ora la geometria, perché vi pensa"? Questa frase è assurda, per quel che mi pare. Che dire ora di questa frase: "Questo musicista conosce certamente la musica, ma ora non la ama, fin quando non vi pensa; ama ora invece la geometria, perché pensa ad essa"? Tale frase non è forse ugualmente assurda? Invece è perfettamente giusto affermare: "Quest’uomo che vedi discutere di geometria, è anche un perfetto musicista; infatti, e ricorda quella scienza e la comprende e l’ama; ma, sebbene la conosca e l’ami, ora non vi pensa, perché pensa alla geometria della quale discute". Questo esempio ci rivela che abbiamo, nel segreto dello spirito, delle conoscenze di alcune cose, che in qualche modo vengono in piena luce e si situano con maggior chiarezza sotto lo sguardo dello spirito, quando vi pensiamo; è allora infatti che lo spirito si accorge che ricordava, comprendeva e amava anche ciò cui non pensava, quando pensava ad altro. Ma quanto alle cose a cui non abbiamo pensato per lungo tempo e alle quali non siamo capaci di pensare senza esservi incitati, non so per qual mistero dello stesso genere accade che, se posso dirlo, non sappiamo che le sappiamo. Finalmente quando un uomo invita un altro a ricordarsi di qualche cosa ha ragione di dirgli: "Tu sai questo, ma non sai di saperlo; te lo ricorderò e scoprirai che sapevi ciò che credevi di non sapere" 36. La stessa funzione la possono svolgere i libri, quando trattano di cose di cui il lettore, sotto la guida della ragione, scopre la verità; non quelle che egli ritiene vere basandosi sulla testimonianza dello scrittore, come accade per la storia, ma quelle che scopre vere lui stesso, sia guardando in se stesso, sia guardando in quella verità che è la guida dello spirito. Colui che, anche quando si attira su di esse la sua attenzione, è incapace di comprendere queste cose, per un grande accecamento del cuore è immerso più profondamente nelle tenebre dell’ignoranza ed ha bisogno di un aiuto divino più straordinario per giungere alla vera sapienza.

7. 10. Ecco perché ho voluto dare alcuni esempi circa il pensiero, al fine di poter mostrare come il contenuto della memoria informi lo sguardo di chi ricorda, e come si generi, quando l’uomo pensa, un qualcosa del tutto simile a ciò che si trovava, prima che pensasse, nella sua memoria; perché è più facile distinguere i due momenti, quando la conoscenza si produce nel tempo, e quando ciò che genera precede di un certo periodo di tempo ciò che è generato. Se infatti ci riferiamo alla memoria interiore con cui lo spirito si ricorda di sé, all’intelligenza interiore con cui comprende se stesso, alla volontà interiore con cui ama se stesso, in questo centro in cui queste tre sono sempre insieme, sono sempre state insieme dal momento in cui hanno incominciato ad esistere, sia che fossero pensate, sia che non lo fossero, apparirà senza dubbio che l’immagine della trinità appartiene pure alla sola memoria; ma, poiché nello spirito non vi può essere verbo senza pensiero (perché tutto ciò che diciamo, sia pure con quel verbo interiore che non appartiene ad alcuna lingua, è frutto del pensiero), riconosciamo che questa immagine si trova piuttosto in quelle tre facoltà: la memoria, l’intelligenza, la volontà. Quella che ora chiamo intelligenza, è quella con cui comprendiamo quando pensiamo, cioè quando il nostro pensiero è informato da ciò che scopriamo presente nella memoria, ma non era pensato; e quella che chiamo volontà, amore o dilezione, è il principio che unisce il termine generato a quello che genera, ed è in qualche modo comune all’uno e all’altro. Così ho potuto, ricorrendo pure agli oggetti esteriori e sensibili che i nostri occhi di carne percepiscono, servire da guida ai lettori di rude ingegno, nel libro XI 37; e poi ho potuto addentrarmi con essi in quella potenza dell’uomo interiore con la quale si ragiona circa le cose temporali, rimandando a più tardi lo studio di quella potenza che ha il dominio supremo e contempla le cose eterne; ho consacrato a questo argomento due libri: il dodicesimo, in cui ho distinto queste due potenze, di cui l’una è superiore, l’altra è inferiore e deve essere sottomessa alla prima; il tredicesimo, in cui ho trattato della funzione di questa potenza inferiore, che comprende la scienza salutare delle cose umane, per consentirci, in questa vita temporale, di compiere ciò che ci conduce a quella eterna; l’ho fatto con la maggiore verità e concisione possibili, perché ho concentrato negli stretti limiti di un solo libro una materia così complessa ed abbondante, molte volte trattata in discussioni numerose e celebri da uomini non meno numerosi e celebri, mostrando anche in questa potenza inferiore l’esistenza di una trinità, ma che non è ancora quella che bisogna chiamare immagine di Dio.

L’immagine di Dio si deve cercare nella parte superiore dello spirito umano

8. 11. Eccoci giunti ora nella nostra ricerca alla fase in cui abbiamo intrapreso a considerare, per scoprirvi l’immagine di Dio 38, la parte più nobile dello spirito umano, parte con la quale esso conosce o può conoscere Dio. Sebbene infatti lo spirito umano non sia della stessa natura di Dio, tuttavia l’immagine di quella natura che è superiore ad ogni altra deve essere cercata e trovata presso di noi, in ciò che la nostra natura ha di migliore. Ma si deve considerare lo spirito in sé, prima che esso sia partecipe di Dio, e scoprirvi l’immagine di lui. Anche quando lo spirito, abbiamo detto 39, è degradato e deforme per la perdita della partecipazione a Dio, resta tuttavia immagine di Dio; perché esso è immagine di Dio in quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui. Un bene così grande non è possibile se non in quanto lo spirito è immagine di Dio. Ecco dunque che lo spirito si ricorda di sé, si comprende, si ama: se contempliamo ciò, vediamo una trinità, che non è certo ancora Dio, ma già è immagine di Dio. Non è dal di fuori che la memoria ha ricevuto ciò che deve conservare, né è dal di fuori che l’intelletto ha trovato ciò che deve contemplare, come fa l’occhio del corpo; né questi due elementi la volontà li ha uniti all’esterno, come unisce la forma del corpo alla forma che la riproduce nello sguardo di chi vede, né, quando il pensiero si è volto verso la memoria, vi ha trovato l’immagine di una cosa vista al di fuori, trasportata in qualche modo nel segreto della memoria per informare lo sguardo di colui che ricorda, mentre la volontà, come terzo elemento, unisce l’uno all’altro. Ciò accade, come abbiamo mostrato, nelle trinità che scoprivamo nelle realtà corporee, o che dai corpi si introducono in qualche modo all’interno per mezzo dei sensi corporei. Di tutto ciò abbiamo trattato nel libro XI 40. Qui non accade nemmeno ciò che accadeva o ci appariva quando trattavamo della scienza, che già è situata tra le potenze dell’uomo interiore e che abbiamo dovuto distinguere dalla sapienza. Ciò che si apprende con la scienza è nell’anima come un qualcosa di avventizio: sia che si tratti dell’apporto delle conoscenze storiche, come i fatti e i detti che accadono nel tempo e passano o rimangono con una certa consistenza nella natura, nei loro luoghi o regioni, sia che si tratti dell’origine nell’uomo stesso di qualcosa che non esisteva, origine dovuta all’insegnamento altrui o alla riflessione personale, come la fede, che abbiamo raccomandato con tanta insistenza nel libro XIII 41, come le virtù, che, se sono autentiche, ci permettono di vivere bene in questa vita mortale per vivere felici nella vita immortale che ci è promessa da Dio. Queste realtà, ed altre simili, si ordinano nel tempo, ed era per noi più facile discernervi la trinità della memoria, della visione e dell’amore. Infatti alcune di esse precedono la conoscenza che se ne acquisisce. Sono infatti conoscibili anche prima che vengano conosciute e generino in coloro che le apprendono la conoscenza che essi acquisiscono. Sono cose che s’incontrano in luoghi determinati o che sono passate nel tempo, sebbene in quest’ultimo caso non si tratti delle cose stesse, ma dei loro segni che, visti ed ascoltati, fanno conoscere che queste cose esistettero e sono passate. Questi segni si trovano in luoghi determinati, come le tombe ed altri monumenti simili, o negli scritti degni di fede, come ogni storia composta da autori seri e autorevoli, o nelle anime di coloro che li conoscono già; conosciuti da questi, sono per il fatto stesso conoscibili da altri, al sapere dei quali questi segni preesistono e possono venire da essi conosciuti per l’insegnamento di coloro ai quali sono noti. Tutte queste cose, quando si apprendono, costituiscono una specie di trinità, formata dalla loro configurazione esteriore conoscibile prima di venir conosciuta, a cui viene ad aggiungersi la conoscenza di colui che le apprende (conoscenza che comincia ad esistere nel momento in cui le si apprende) e, come terzo elemento, la volontà che unisce quei primi due. Una volta che questi oggetti sono stati conosciuti, si produce nell’anima stessa, quando se ne evoca il ricordo, una seconda trinità, già più interiore: trinità formata dalle immagini impresse nella memoria, al momento in cui furono appresi, dall’informazione del pensiero quando ad essi si volge lo sguardo di chi ricorda, e dalla volontà, che, terzo elemento, unisce quei due. Quanto alle conoscenze che hanno origine nell’anima in cui non esistevano, come la fede o altre realtà simili, sebbene sembrino avventizie, perché vengono introdotte nell’anima con l’insegnamento, non sono tuttavia realtà situate al di fuori o che si svolgono all’esterno, come le cose che sono oggetto di fede; ma iniziano ad esistere esclusivamente all’interno dell’anima. La fede infatti non è ciò che è creduto, ma ciò con cui si crede: l’oggetto della fede è creduto, la fede è vista. Tuttavia, in quanto incomincia ad esistere nell’anima, che era già un’anima prima che la fede incominciasse ad esistere in essa, sembra un qualcosa di avventizio e sarà annoverata tra le cose del passato, quando, sostituendosi ad essa la visione, cesserà di esistere. Ma ora la sua presenza nell’anima forma una trinità, perché è conservata, contemplata, amata; allora per mezzo del vestigio che lascerà di sé nella memoria scomparendo, formerà un’altra trinità, come è già stato detto prima 42.

Scompariranno le virtù nella vita futura?

9. 12. Poiché le virtù che in questa vita mortale ci permettono di vivere bene hanno incominciato ad esistere nell’anima, che, pur essendo prima priva di esse, era tuttavia un’anima, ci si può chiedere se cesseranno di esistere una volta che ci avranno condotto alla vita eterna. Certuni hanno pensato che cesseranno di esistere e, almeno per tre di esse: la prudenza, la fortezza e la temperanza, la loro opinione non è senza fondamento. Ma la giustizia è immortale e, invece di scomparire, sarà allora che raggiungerà in noi la sua perfezione 43. Il grande maestro dell’eloquenza, Tullio 44, le considera tuttavia tutte e quattro, quando ne discute nel suo dialogo "Ortensio": Se, egli dice, quando avremo emigrato da questa vita, ci fosse concesso di condurre una vita immortale nelle isole dei beati, come raccontano le favole, a che ci servirebbe l’eloquenza, dato che non ci sarebbero dei giudizi, o le stesse virtù? Non avremmo bisogno della fortezza perché non ci sarebbero più difficoltà e rischi; né della giustizia, perché non ci sarebbe più alcun bene altrui che susciti la nostra cupidigia; né della temperanza, per dominare le passioni inesistenti; non avremmo nemmeno bisogno della prudenza, perché non avremmo da compiere nessuna scelta tra il bene ed il male. La sola conoscenza della natura e la scienza ci renderebbero beati, esse che costituiscono l’unico bene della vita stessa degli dèi. Da ciò si può comprendere che il resto appartiene alla necessità, questo solo alla volontà 45. Così quel grande oratore, celebrando i meriti della filosofia, raccogliendo gli insegnamenti della tradizione filosofica, che espone con stile delizioso e sublime, ha affermato che tutte queste quattro virtù ci sono necessarie solo in questa vita, che vediamo piena di pene e di errori; nessuna di esse lo sarà più quando lasceremo questa vita, se ci è concesso di vivere là dove si vive felici; per essere beate basteranno alle anime buone la conoscenza e la scienza, cioè la contemplazione della natura in cui nulla vi è di più eccellente e di più degno di essere amato di quella natura che ha creato ed ordinato tutte le altre nature. Ora, se è proprio della giustizia sottomettersi al governo di questa natura, la giustizia è certamente immortale, né cesserà di esistere in quella beatitudine, ma raggiungerà tale perfezione e grandezza da non poter essere più perfetta e più grande. Forse anche altre tre virtù sussisteranno in quella vita beata, la prudenza senza più alcun rischio di errore, la fortezza senza la prova di mali da sopportare, la temperanza senza resistenza proveniente dalle passioni. Così la prudenza consisterà nel non preferire né uguagliare alcun bene a Dio, la fortezza nel restargli assai fermamente uniti, la temperanza nel non abbandonarsi ad alcun compiacimento colpevole. Ma il compito che svolge ora la giustizia nel venire in soccorso agli infelici, la prudenza nel guardarsi dalle insidie, la fortezza nel sopportare le difficoltà, la temperanza nel frenare i compiacimenti illeciti, non esisterà più là dove non ci sarà più assolutamente alcun male. Per questo gli atti di queste virtù che sono necessari alla vita presente, come la fede alla quale vanno riferiti, saranno annoverati tra le cose passate. Ora formano una trinità, quando li teniamo presenti nella memoria, li contempliamo e li amiamo; essi ne formeranno un’altra quando i vestigi che lasceranno, passando, nella memoria, ci ricorderanno che essi non esistono, ma sono esistiti; perché ci sarà ancora una trinità, quando quel vestigio, per quanto tenue, sarà ritenuto allo stato di ricordo, riconosciuto come vero, e la volontà, come terzo elemento, unirà questi altri due.

La trinità dello spirito non gli è avventizia

10. 13. Nella scienza di tutte queste cose temporali, di cui abbiamo parlato, alcune cose conoscibili precedono la conoscenza di un certo periodo di tempo, come quelle cose sensibili che esistevano già nella realtà, prima che fossero conosciute, così pure tutto ciò che la storia ci fa conoscere. Alcune cose invece incominciano ad esistere nel momento in cui sono conosciute: così se un oggetto visibile, che non esisteva assolutamente, sorge sotto i nostri occhi, è chiaro che non precede la nostra conoscenza; o se un suono si fa sentire, là dove si trova qualcuno che lo ode, certamente è insieme, che incominciano, insieme che cessano il suono e l’audizione. Tuttavia sia che la precedano nel tempo, sia che incomincino ad esistere con essa, sono le cose conoscibili che generano la conoscenza, e non sono generate da essa. Ma una volta acquisita la conoscenza, quando le cose che abbiamo conosciuto, essendo depositate nella memoria, sono riconsiderate con il ricordo, chi non vede che l’immagine conservata nella memoria è anteriore nel tempo alla visione che risulta dal ricordo ed all’unione dell’una e dell’altra operate dalla volontà, come terzo elemento? Ma nello spirito non è così; infatti lo spirito non è per se stesso un qualcosa di avventizio, come se allo spirito che esisteva già si presentasse, venendo dal di fuori, questo stesso spirito che non esisteva ancora, o come se non venisse dal di fuori, ma nello stesso spirito che già esisteva, nascesse lo stesso spirito che non esisteva ancora, allo stesso modo che nello spirito, che già esisteva, nasce la fede che non esisteva ancora; né, dopo essersi conosciuto, ricordandosi, si vede in qualche modo situato nella sua memoria, come se non vi fosse stato prima di conoscersi; non è così, poiché non c’è dubbio che dall’inizio della sua esistenza non ha mai cessato di ricordarsi, di comprendersi, di amarsi, come abbiamo già mostrato. Per questo quando lo spirito con il pensiero si ripiega su di sé, si produce una trinità, in cui si può già comprendere che cos’è il verbo; esso riceve la sua forma dall’atto stesso del pensiero, mentre la volontà congiunge l’uno all’altro. È là, dunque, che dobbiamo riconoscere di preferenza l’immagine che cerchiamo.

C’è una memoria delle cose presenti?

11. 14. Ma qualcuno dirà: "Non esiste questa memoria che permetta allo spirito di ricordarsi di sé, esso che è sempre presente a se stesso. Infatti la memoria ha come oggetto le cose passate, non quelle presenti". Alcuni infatti, tra cui anche Tullio 46, trattando della virtù, hanno distinto nella prudenza questi tre aspetti: la memoria, l’intelligenza, la preveggenza; hanno attribuito la memoria al passato, l’intelligenza al presente, la preveggenza al futuro. Quest’ultima è infallibile solo in coloro che hanno in anticipo la conoscenza del futuro, cosa che non è privilegio degli uomini, a meno che non la ricevano dall’alto, come i Profeti. Per questo il libro della Sapienza, trattando degli uomini, dice: Timidi sono i pensieri dei mortali, ed incerte le nostre previsioni 47. Ma la memoria è certa delle cose passate e l’intelligenza delle cose presenti, ma, si intenda bene, delle realtà spirituali presenti, perché i corpi materiali sono presenti agli occhi corporei che li vedono. Ma chi afferma che non c’è memoria delle cose presenti, ascolti ciò che si dice nella stessa letteratura profana più attenta alla precisione dei termini, che alla verità delle cose:

Ché l’empio delitto Ulisse non tollerò,
né di se stesso fu immemore l’Itaco in quel rischio sì grande
48.

Quando Virgilio dice che Ulisse non si dimenticò di sé, che altro volle far intendere, se non che egli si ricordò di sé? Dunque, poiché egli era presente a sé, non si sarebbe in alcun modo ricordato di sé, se la memoria non avesse come oggetto le cose presenti. Pertanto, come a proposito degli avvenimenti passati, si chiama memoria la facoltà con cui si ritengono e si ricordano, così a proposito della realtà presente, quale è lo spirito a sé, si deve, senza cadere nell’assurdo, chiamare memoria la facoltà che permette allo spirito di essere presente a sé al punto da poter comprendersi con il suo pensiero e unire con l’amore, che porta a se stesso, la memoria all’intelligenza.

La trinità dello spirito è immagine di Dio quando lo ricorda, comprende ed ama; sapienza ed immagine

12. 15. Dunque questa trinità dello spirito non è immagine di Dio, perché lo spirito ricorda se stesso, si comprende e si ama, ma perché può anche ricordare, comprendere ed amare Colui dal quale è stato creato. Quando fa questo, diviene sapiente. Se non lo fa, anche quando si ricorda di sé, si comprende e si ama, è insensato. Si ricordi dunque del suo Dio, ad immagine del quale è stato creato 49, lo comprenda e lo ami. Per dirlo in breve, esso onori il Dio increato che l’ha creato capace di lui e di cui può essere partecipe; per questo è scritto: Ecco: il culto di Dio, questa è sapienza 50. E non per la sua luce, ma per la partecipazione a quella luce suprema sarà sempre sapiente e regnerà beato là dove sarà eterno. In questo senso la sapienza dell’uomo è anche sapienza di Dio. Allora infatti è vera sapienza; perché se è umana, è vana. Ma non si tratta della sapienza di Dio, per cui Dio è sapiente. Infatti Dio non è sapiente perché partecipe a sé, come lo spirito lo è per la partecipazione a Dio. Ma come si parla anche di giustizia di Dio, non solo per designare la giustizia per la quale Dio è giusto, ma per designare quella che egli dà all’uomo quando giustifica il peccatore 51, e che ci raccomanda l’Apostolo quando dice di alcuni uomini: Ignorando la giustizia di Dio e volendo stabilire la loro propria giustizia, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio 52; così infatti si può dire pure di alcuni: "Ignorando la sapienza di Dio e volendo costituire la loro sapienza, non si sono sottomessi alla sapienza di Dio".

12. 16. Dunque la natura increata, che ha creato tutte le altre nature, grandi e piccole, è senza dubbio più eccelsa di quelle che ha creato, e di conseguenza anche di questa, di cui parliamo, quella natura razionale e intelligente, che è lo spirito umano, creato ad immagine del suo Creatore. Quella natura superiore a tutte le altre è Dio. E certamente non è lontano da ciascuno di noi 53, come dice l’Apostolo, che aggiunge: In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo 54. Se dicesse queste parole riguardo al corpo, si potrebbero pure intendere di questo mondo corporeo, perché anche in esso, in quanto corpi, viviamo e ci muoviamo e siamo. Dunque bisogna applicare queste parole allo spirito, che è stato creato ad immagine di Dio, in un senso ben superiore, non più sensibile, ma spirituale. Che c’è infatti, che non sia in Colui di cui il testo ispirato dice: Poiché da lui e per mezzo di lui e in lui sono tutte le cose 55? Perciò, se in lui sono tutte le cose, in chi possono vivere gli esseri che vivono, e muoversi gli esseri che si muovono, se non in Colui in cui sono 56? Non tutti però sono con lui al modo di Colui al quale è stato detto: Io sono sempre con te 57. E lui stesso non è con tutti nella maniera in cui diciamo: "il Signore sia con voi" 58. Pertanto è gran miseria per l’uomo non essere con Colui, nel quale è, e tuttavia, se non si ricorda di lui e non lo comprende, né lo ama, non è con lui. Ora ciò che qualcuno ha completamente dimenticato non si può certamente farglielo ricordare.

Dimenticanza e ricordo di Dio

13. 17. Per la nostra dimostrazione prendiamo un esempio dalle cose visibili. Qualcuno che tu non riconosci ti dice: "Tu mi conosci", e perché te ne risovvenga ti dice dove, quando, come tu lo hai conosciuto. Se tuttavia, quando egli ha fatto uso di tutti i segni capaci di farti rievocare il ricordo di sé, non lo riconosci, la dimenticanza è tale, ormai, che ogni conoscenza di lui si è cancellata dalla tua anima e non ti resta altro che, o prestar fede a colui che ti dice che una volta lo conoscevi, o non ti resta nemmeno questo, se colui che ti parla non ti sembra degno di fede. Ma se tu lo ricordi, certamente ricerchi nella tua memoria e in essa trovi ciò che non era stato totalmente cancellato a causa della dimenticanza. Ritorniamo all’argomento a motivo del quale abbiamo fatto ricorso a questo esempio tolto dai rapporti umani. Il Salmo 9 dice tra le altre cose: Si volgano i peccatori verso l’inferno, tutte le genti che si scordano di Dio 59. È scritto ancora nel Salmo 21: Se ne ricorderanno e si convertiranno al Signore tutti i confini della terra 60. Queste nazioni non avevano dunque dimenticato il Signore al punto di non ricordarsi di lui, almeno se lo si ricorda loro. Dimenticandosi di Dio, come se si fossero dimenticate della loro vita, si erano volte verso la morte, cioè verso l’inferno. Ma quando lo si fa loro ricordare, si convertono al Signore, come rivivificate ricordando la loro vita, di cui erano cadute in dimenticanza. Si legge ancora nel Salmo 93: Comprendete ora, voi che siete stupidi fra il popolo; voi insensati, rinsavite. Colui che ha piantato l’orecchio non udrà? 61. Queste parole sono rivolte a coloro che, non comprendendo Dio, hanno avuto su di lui opinioni menzognere.

Lo spirito non può amare rettamente se stesso, non amando Dio

14. 18. Circa la dilezione di Dio, si trovano nelle divine Scritture molte testimonianze. In queste testimonianze sono di conseguenza comprese anche le altre due facoltà, perché nessuno ama ciò che non ricorda e ciò che ignora totalmente. Ecco perché il più conosciuto e il più importante dei Comandamenti è questo: Amerai il Signore Dio tuo 62. Lo spirito umano è così costituito che mai cessa di ricordarsi di sé, mai di comprendersi, mai di amarsi. Ma, poiché colui che odia qualcuno si dà da fare per nuocergli, si ha ragione di dire che anche lo spirito umano, quando nuoce a se stesso, si odia. Esso non ha coscienza di volere il suo male, quando non ritiene che ciò che vuole gli nuoce; ma tuttavia esso vuole il suo male, quando vuole ciò che gli nuoce. Perciò è scritto: Colui che ama l’iniquità, odia la sua anima 63. Perciò colui che sa amarsi 64, ama Dio; invece colui che non ama Dio, anche se ama se stesso, cosa che gli è connaturale, si può dire a ragione che si odia, perché fa ciò che gli è contrario e persegue se stesso come suo nemico. Errore certamente mostruoso: mentre tutti vogliono il loro bene, molti non fanno che ciò che è loro dannoso in grado supremo. Il poeta descrive un male simile negli animali privi di parola:

Gli dèi diano una migliore sorte a quelli che li onorano,
e questo errore ai loro nemici!
Essi sbranavano a denti nudi le membra disfatte
65.

Dato che si trattava di un male fisico, perché lo chiama errore, se non in quanto quel male consisteva nel fatto che gli animali sbranavano ciò che aspiravano a salvare, le loro membra, mentre ogni animale tende, in conformità alla sua natura, a conservarsi come meglio può 66? Ma quando lo spirito ama Dio, e di conseguenza, come ho detto, si ricorda di lui e lo comprende, è giusto che gli si comandi di amare il suo prossimo come ama se stesso. Infatti esso non si ama più con amore colpevole, ma con rettitudine, quando ama Dio, per partecipazione del quale non solo esso è immagine, ma anche sorge rinnovato dalla vecchiaia, bello dalla sua deformità, beato dall’infelicità. Sebbene infatti si ami a tal punto da preferire, nell’alternativa, di perdere tutti i beni che, inferiori ad esso, suscitano il suo amore, piuttosto che perire, tuttavia abbandonando Colui che gli è superiore, e verso il quale solo deve volgersi per conservare la sua fortezza e godere di lui come della sua luce - Colui a cui si indirizza il canto di questo Salmo: Volgendomi verso di te conserverò la mia forza 67; e quello di quest’altro: Avvicinatevi a lui e sarete illuminati 68 -, esso è divenuto così debole e tenebroso che, allontanandosi anche da sé è trascinato miseramente verso le realtà, che non sono ciò che esso è ed alle quali esso è superiore, da amori che esso non ha la forza di vincere, da sviamenti da cui non sa come risalire. Perciò già pentendosi, per la misericordia di Dio, esso grida nei Salmi: La mia forza mi ha abbandonato, e la luce dei miei occhi non è più con me 69.

Sebbene deformata l’immagine sussiste

14. 19. Tuttavia, nonostante questi così grandi mali dovuti alla sua debolezza ed ai suoi sviamenti, lo spirito non ha potuto perdere la memoria, l’intelligenza e l’amore di sé, che gli sono connaturali. Per questo, come sopra ho ricordato 70, il Salmista ha potuto dire: Benché l’uomo cammini nell’immagine, si agita invano. Ammassa e non sa per chi raccolga 71. Perché infatti ammassa, se non in quanto la sua forza lo ha abbandonato 72, quella forza grazie alla quale, possedendo Dio, non mancava di nulla? E perché ignora per chi raccolga, se non perché non è più con lui la luce dei suoi occhi? E perciò non vede ciò che la verità dice: Insensato! Questa notte stessa ti verrà richiesta la vita; e quello che hai preparato per chi sarà? 73. Tuttavia, poiché anche tale uomo cammina nell’immagine e il suo spirito possiede la memoria, l’intelligenza e l’amore di sé, se gli si mostrasse che non può possedere tutti e due i beni e gli si concedesse di sceglierne uno, perdendo come contropartita l’altro - o la ricchezza che ha ammassato, o lo spirito -, chi sarebbe così pazzo da preferire di conservare le ricchezze, invece dello spirito? Infatti le ricchezze possono, molto spesso, rovinare lo spirito; e lo spirito non pervertito dalle ricchezze può vivere, senza ricchezze, con più felicità e libertà. Chi d’altra parte potrà possedere delle ricchezze, se non per mezzo dello spirito? Se infatti un fanciullo appena nato, sebbene molto ricco per nascita, essendo padrone di tutto ciò che gli appartiene di diritto, non possiede nulla fino a quando il suo spirito non si sveglia, come può qualcuno, che non possiede più lo spirito, possedere ancora qualcosa? Ma perché parlare dei tesori e dire che qualsiasi uomo, se gli si concede la scelta, preferisce esserne privato piuttosto che essere privato dello spirito, dato che nessuno li antepone, nessuno neppure li equipara agli occhi del corpo, che danno non ad alcuni uomini privilegiati il possesso dell’oro, ma a tutti gli uomini il possesso del cielo? Con gli occhi del corpo infatti ciascuno possiede ciò che contempla con piacere. Chi dunque, se non può conservare l’uno e l’altro bene insieme, e sia costretto a perderne uno, non preferirà gli occhi alle ricchezze? E tuttavia se, con una nuova alternativa, gli si domanda se preferisca perdere gli occhi piuttosto che lo spirito, qual è l’uomo che non veda con il suo spirito che egli preferisce perdere gli occhi piuttosto che lo spirito? Infatti lo spirito senza gli occhi di carne è uno spirito umano, ma gli occhi di carne senza lo spirito sono occhi di bestia. Ora chi non preferirebbe essere uomo, anche se cieco nella carne, piuttosto che una bestia dotata di vista?

14. 20. Questi ragionamenti malgrado la loro brevità mirano a mostrare anche a quelli di ingegno più tardo, sotto gli occhi e alle orecchie dei quali questi scritti giungeranno, quanto lo spirito ami se stesso perfino nella sua debolezza e nel suo errore, quando ama colpevolmente e cerca i beni che gli sono inferiori. Ora esso non potrebbe amare se stesso, se si ignorasse totalmente; cioè, se non si ricordasse di sé, né si comprendesse. Ché questa immagine di Dio presente in esso ha un così gran potere che è capace di unirsi a Colui di cui è immagine. Il suo posto nella gerarchia delle nature, non in quella dei luoghi, è tale che al di sopra di esso non c’è che Dio. Finalmente, quando sarà perfettamente unito a lui, esso non sarà che un solo spirito con lui; lo attesta l’Apostolo dicendo: Colui che si unisce al Signore è un solo spirito con lui 74; lo spirito si eleva fino alla partecipazione della natura, della verità, della beatitudine di Dio, senza che tuttavia Dio si accresca nella sua natura, verità e beatitudine. In quella divina natura, quando le sarà unito per la sua beatitudine, lo spirito vivrà come qualcosa d’immutabile, e tutto ciò che vedrà, lo vedrà stabilito nell’immutabilità. Allora, come gli promette la divina Scrittura, il suo desiderio sarà ricolmo di beni 75, di beni immutabili, la Trinità stessa, il suo Dio di cui esso è l’immagine. E perché questa immagine non possa giammai essere contaminata, essa sarà nel segreto del volto di Dio 76, ricolmata da lui di tanta abbondanza, che il peccato non avrà per essa più alcun fascino. Ma in questa vita, quando lo spirito vede se stesso, non vede qualcosa di immutabile.

Anche il peccatore è illuminato dalla luce della giustizia

15. 21. Cosa che esso non pone certamente in dubbio, perché è miserabile e desidera essere beato; e non ha speranza di poterlo divenire, se non perché è mutevole. Se esso non fosse mutevole infatti, come, beato, non potrebbe diventare misero, così, misero, non potrebbe diventare beato. E che cosa, sotto un Signore onnipotente e buono, avrebbe potuto renderlo misero, se non il suo peccato e la giustizia del suo Signore? E che cosa lo renderà beato, se non il suo merito ed il premio del suo Signore? Ma anche il suo merito è una grazia di Colui il cui premio costituisce la sua beatitudine 77. Perché esso non può darsi la giustizia, che non ha perché l’ha perduta. Questa giustizia l’uomo l’ha ricevuta, all’atto della creazione, ma per il peccato l’ha perduta totalmente. Riceve dunque la giustizia, grazie alla quale poter meritare di ricevere la beatitudine. Per questo si sente rivolgere, con piena ragione, dall’Apostolo, queste parole, quando incomincia ad inorgoglirsi di questo bene come se gli fosse proprio: Che hai tu infatti che non abbia ricevuto, che te ne glorii come se non l’avessi ricevuto? 78. Quando conserva vivo il ricordo del suo Signore, dopo aver ricevuto lo spirito di lui, si rende perfettamente conto, perché ne è istruito interiormente, che non si può risollevare se non per un’azione gratuita di Dio, che non è potuto cadere se non per un proprio difetto volontario. Non si ricorda assolutamente più della sua beatitudine: essa esisteva e non esiste più, e lo spirito se ne è totalmente dimenticato, perciò non si può più fargliela ricordare. Ma esso crede in essa, perché le Scritture del suo Dio, degne di fede e scritte dai suoi Profeti, gli narrano della felicità del Paradiso e gli espongono, secondo la tradizione storica, e il primo bene dell’uomo e il suo primo peccato. Ma si ricorda del Signore Dio suo 79. Egli esiste sempre: non esistette una volta ed ora non esiste, né ora esiste, ma prima non esistette; ma, come mai cesserà di esistere, così non ci fu momento in cui non esisteva. Ed è dovunque tutto intero 80. È per questo che in lui lo spirito vive, si muove ed esiste 81, e perciò si può ricordare di lui. Non che se ne ricordi, perché lo avrebbe conosciuto in Adamo, o in un luogo qualunque, prima della vita in questo corpo, o quando fu creato per essere unito a questo corpo; esso non ricorda nulla di questo, tutto ciò è stato cancellato dalla dimenticanza. Ma si può far ricordare allo spirito il Signore, perché si volga a lui 82, come verso quella luce che lo toccava in qualche modo, anche quando si allontanava da lui. Da questo deriva infatti che perfino gli iniqui pensano all’eternità e riprendono giustamente, lodano giustamente molte cose, nella condotta degli uomini 83. A quali regole si riferiscono essi per pronunciare questi giudizi, se non a quelle in cui vedono come ognuno debba vivere, sebbene essi non vivano così? Dove le vedono? Non nella loro natura, perché certamente è con lo spirito che si vedono queste cose e perché è evidente che i loro spiriti sono mutevoli, mentre queste regole appaiono immutabili a chiunque abbia potuto vedere in esse una norma di vita; nemmeno in un modo di essere del loro spirito, perché queste sono regole di giustizia, mentre è evidente che i loro spiriti non sono giusti. Dove sono dunque iscritte queste regole, in cui riconosce ciò che è giusto anche lo spirito che non è giusto, in cui vede che bisogna avere ciò che esso non ha? Dove sono dunque iscritte, se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui dunque è dettata ogni legge giusta e si trasferisce nel cuore dell’uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l’immagine passa dall’anello nella cera, ma senza abbandonare l’anello 84. Invece quello che non opera, e che tuttavia vede che cosa si debba operare, è lui che si allontana da quella luce, ma tuttavia ne è toccato. Quanto a colui che non vede nemmeno come si debba vivere, è più scusabile nel suo peccato, perché non trasgredisce una legge sconosciuta; ma il fulgore della verità ovunque presente tocca talvolta anche lui, quando, avvertito di essa, confessa il suo peccato 85.

Il rinnovamento dell’immagine nell’uomo

16. 22. Coloro che, invitati a ricordarsene, si convertono al Signore, sono da lui riformati da quella difformità per cui le passioni mondane li conformavano a questo mondo, udendo la parola dell’Apostolo che dice: Non conformatevi a questo mondo, ma riformatevi rinnovando il vostro spirito 86, cosicché quella immagine incomincia ad essere riformata da Colui che l’ha formata. Infatti non può riformarsi essa stessa, come ha potuto deformarsi: dice infatti l’Apostolo in un altro passo: Rinnovatevi nello spirito della vostra anima e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è stato creato ad immagine di Dio, nella vera giustizia e santità 87. Ciò che qui dice creato secondo Dio, è ciò che un altro passo delle Scritture dice creato ad immagine di Dio 88. Ma peccando ha perso la vera giustizia e santità; perciò questa immagine è divenuta deforme e sbiadita; la recupera (nella sua integrità) quando è rinnovato e riformato. Quanto all’espressione: Lo spirito della vostra anima intellettiva 89, l’Apostolo non ha voluto con essa significare due realtà differenti, come se l’anima intellettiva sia una cosa, e lo spirito dell’anima intellettiva un’altra, ma egli parla così perché ogni anima intellettiva (mens) è spirito (spiritus), ma ogni spirito non è anima intellettiva 90. Anche Dio è spirito 91 (spiritus) che non può rinnovarsi perché non può nemmeno invecchiare. Si parla anche di spirito (spiritus) nell’uomo per designare non più l’anima intellettiva (mens), ma quella parte dell’anima a cui appartengono le immagini dei corpi. È di questo spirito che si tratta, quando l’Apostolo dice nella Lettera ai Corinti: Se infatti io prego con la lingua, il mio spirito prega, ma la mia anima intellettiva non ne ricava alcun frutto 92. Egli allude al caso in cui non si comprende ciò che si dice, perché non si può nemmeno dir nulla, se l’immagine delle parole materiali, nella rappresentazione dello spirito (spiritus), non precedesse il suono della voce. Si chiama spirito (spiritus) anche il principio vitale (anima) dell’uomo; per questo si legge nel Vangelo: E chinato il capo, rese lo spirito 93. In questo passo si allude alla morte del corpo, quando la vita (anima) lascia il corpo. Si parla anche di spirito (spiritus) delle bestie come lo mostra assai chiaramente l’Ecclesiaste di Salomone, dove è scritto: Chi sa se lo spirito degli uomini sale in alto e quello delle bestie scende sotto terra? 94. Anche il Genesi ne parla, quando dice che il diluvio fece perire ogni carne che aveva in sé lo spirito della vita 95. Infine si chiama spirito (spiritus) anche il vento, cosa evidentemente corporea; per questo si legge nei Salmi: Fuoco, grandine, neve, ghiaccio, spirito delle tempeste 96. Dunque, poiché la parola spiritus è usata in tanti sensi, l’Apostolo ha voluto chiamare spirito dell’anima intellettiva (mens) quello spirito che è anima intellettiva (mens). Lo stesso Apostolo dice alla medesima maniera: Con la spogliazione del corpo di carne 97. Ma non vuole certamente designare due realtà, come se una cosa fosse la carne, altra cosa il corpo di carne, ma poiché la parola "corpo" si applica a molte cose, nessuna delle quali è carne (molti sono infatti i corpi celesti e terrestri che non sono carne), l’Apostolo chiama corpo di carne il corpo che è carne. Allo stesso modo chiama spirito dell’anima intellettiva lo spirito che è anima intellettiva. In un altro passo, più esplicitamente ancora, parla dell’immagine, facendo la stessa raccomandazione con altre parole: Spogliandovi dell’uomo vecchio e delle sue azioni, rivestitevi dell’uomo nuovo che si rinnova nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine di Colui che l’ha creato 98. Nel testo precedente si legge: Rivestitevi dell’uomo nuovo che fu creato secondo Dio 99, ed in questo: Rivestitevi dell’uomo nuovo che si rinnova secondo l’immagine di Colui che l’ha creato 100. Là è detto: Secondo Dio, qui: secondo l’immagine di Colui che l’ha creato. E mentre prima scriveva: nella vera giustizia e santità, ora scrive: nella conoscenza di Dio. Dunque questo rinnovamento e questa riformazione dello spirito si verificano secondo Dio, o secondo l’immagine di Dio. Ma è detto: secondo Dio perché non si ritenga che si verifichi secondo un’altra creatura, ed è detto: secondo l’immagine di Dio per far comprendere che questo rinnovamento si attua là dove si trova l’immagine di Dio, cioè nello spirito. Allo stesso modo che diciamo morto secondo il corpo, non secondo lo spirito (spiritus), l’uomo che è fedele e giusto quando abbandona il corpo. Che vogliamo significare infatti quando diciamo che è morto secondo il corpo, se non che è morto con il corpo o nel corpo, non con l’anima o nell’anima? O ancora diciamo: "È bello secondo il corpo", o: "È forte secondo il corpo e non secondo l’anima (anima)"; queste espressioni hanno altro senso che questo: "È bello e forte nel corpo, non nell’anima"? Innumerevoli sono le espressioni di questo genere. Non intendiamo dunque l’espressione: secondo l’immagine di Colui che l’ha creato 101 come se l’immagine secondo la quale si attua questo rinnovamento fosse diversa da quella con la quale si rinnova.

L’immagine si rinnova avvicinandosi progressivamente a Dio

17. 23. Certo, il rinnovamento di cui ora si parla, non si compie istantaneamente con la conversione stessa, come il rinnovamento del Battesimo si compie istantaneamente con la remissione di tutti i peccati 102, senza che rimanga da rimettere la più piccola colpa. Ma come una cosa è non avere più la febbre, altra cosa ristabilirsi dalla debolezza causata dalla febbre; ancora, come una cosa è estrarre il dardo conficcato nel corpo, altra cosa poi guarire con un’altra cura la ferita procurata dal dardo; così la prima cura consiste nel rimuovere la causa della malattia, ciò che avviene con il perdono di tutti i peccati, la seconda nel curare la malattia stessa, ciò che avviene a poco a poco progredendo nel rinnovamento di questa immagine. Questi due momenti sono indicati nel Salmo in cui si legge: Egli perdona tutte le tue iniquità, ciò che si attua nel Battesimo; poi il Salmo continua: Egli guarisce tutte le tue malattie 103, ciò che si attua con i progressi quotidiani, quando si rinnova questa immagine. Di questo rinnovamento parla assai chiaramente l’Apostolo quando dice: Quantunque il nostro uomo esteriore vada deperendo, quello interiore però si rinnova di giorno in giorno 104. Ora si rinnova nella conoscenza di Dio 105, cioè nella vera giustizia e santità 106, secondo i termini usati dall’Apostolo nelle testimonianze che ho riportato un po’ più sopra. Dunque colui che di giorno in giorno si rinnova progredendo nella conoscenza di Dio e nella vera giustizia e santità trasporta il suo amore dalle cose temporali alle cose eterne, dalle cose sensibili alle intelligibili, dalle carnali alle spirituali; e si dedica con cura a separarsi dalle cose temporali, frenando ed indebolendo la passione, e ad unirsi con la carità a quelle eterne. Non gli è possibile però questo che nella misura in cui riceve l’aiuto di Dio. È Dio che l’ha detto: Senza di me non potete far nulla 107. Chiunque l’ultimo giorno di questa vita sorprenda in tale progresso e accrescimento, e nella fede nel Mediatore, questi sarà accolto dai santi Angeli per essere condotto a Dio che ha onorato e per ricevere da lui la sua perfezione; alla fine dei tempi gli sarà dato un corpo incorruttibile per non essere destinato alla sofferenza, ma alla gloria. In questa immagine sarà perfetta la somiglianza di Dio 108, quando sarà perfetta la visione di Dio. Di questa visione l’apostolo Paolo dice: Ora vediamo per mezzo di uno specchio in enigma, ma allora a faccia a faccia 109. Egli dice pure: Noi che, a faccia velata, rispecchiamo la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, in conformità all’operazione del Signore che è spirito 110. È questo che si realizza in coloro che progrediscono di giorno in giorno nel bene.

La piena somiglianza dell’immagine si avrà nella visione; il nostro corpo divenuto immortale ci renderà simili al Figlio

18. 24. L’apostolo Giovanni, da parte sua, dice: O miei diletti, ora noi siamo figli di Dio, e ancora non è stato mostrato quello che saremo. Sappiamo che quando ciò sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 111. Da questo testo appare che in questa immagine di Dio si realizzerà la piena rassomiglianza di lui, quando essa possederà la piena visione di lui. Quantunque questa affermazione dell’apostolo Giovanni si possa intendere anche dell’immortalità del corpo 112. Anche in essa noi saremo simili a Dio, ma soltanto al Figlio, perché egli è l’unico nella Trinità che ha assunto un corpo che, morto, ha risuscitato ed ha condotto al Cielo. Perché si dice pure che questa è immagine del Figlio di Dio, immagine secondo la quale come lui avremo un corpo immortale, resi conformi sotto questo aspetto non alla immagine del Padre o dello Spirito Santo, ma soltanto del Figlio, perché di lui solo leggiamo e ce lo conferma una fede pienamente ortodossa: Il Verbo si è fatto carne 113. Ecco perché l’Apostolo dice: Coloro infatti che preconobbe li ha pure predestinati conformi all’immagine del suo Figlio, affinché egli sia il primogenito fra molti fratelli 114. Primogenito, certamente, tra i morti 115, secondo lo stesso Apostolo, per quella morte per cui è stata sotterrata la sua carne come un seme nell’ignominia, ed è risuscitata nella gloria. Secondo questa immagine del Figlio, al quale per l’immortalità noi ci conformeremo nel corpo, compiamo anche ciò che similmente dice lo stesso Apostolo: Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo terrestre, così rivestiremo pure l’immagine di quello celeste 116; parole scritte perché teniamo con una fede sincera ed una speranza ferma e sicura che, noi, dopo essere stati mortali secondo Adamo, saremo immortali secondo Cristo. Così infatti noi possiamo portare ora questa immagine, non ancora nella visione, ma nella fede; non ancora nella realtà, ma nella speranza. È della risurrezione del corpo che parlava l’Apostolo, quando diceva queste parole 117.

L’immagine, che si rinnova interiormente per mezzo della conoscenza di Dio, raggiungerà la perfezione nella visione

19. 25. Ma per quanto riguarda l’immagine della quale è stato detto: Facciamo l’uomo ad immagine e somiglianza nostra 118, dato che il testo non dice: "a mia immagine", né "a tua immagine", crediamo che l’uomo è stato fatto ad immagine della Trinità e, per quanto ci è stato possibile, abbiamo cercato di comprendere ciò attraverso la nostra indagine. Di conseguenza è piuttosto in questo senso che bisogna ugualmente comprendere l’espressione dell’Apostolo: Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 119. Perché queste parole concernono colui del quale egli aveva detto: Siamo figli di Dio 120. L’immortalità della carne troverà anch’essa la sua perfezione nell’istante della risurrezione di cui l’apostolo Paolo dice: In un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, anche i morti risorgeranno incorruttibili, e noi saremo trasformati 121. Perché in questo istante, in un batter d’occhio, prima del giudizio, risorgerà nella forza, nell’incorruttibilità, nella gloria 122 come corpo spirituale il corpo animale che ora è seminato nell’infermità, nella corruzione, nell’ignominia. Invece l’immagine che, non esteriormente, ma interiormente, nello spirito dell’anima intellettiva, con la conoscenza di Dio 123, si rinnova di giorno in giorno 124, essa troverà la sua perfezione nella visione, che allora, dopo il giudizio, sarà a faccia a faccia 125, mentre ora progredisce per mezzo di uno specchio ed in enigma 126. È a riguardo di questa perfezione che bisogna intendere questa affermazione: Saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è 127. Questo dono ci sarà dato, quando ci sarà detto: Venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del Regno che è stato preparato per voi 128. Allora sarà cacciato l’empio perché non veda la sublimità del Signore, quando quelli che sono a sinistra andranno nel supplizio eterno, mentre quelli che stanno a destra andranno nella vita eterna 129. Ora, come dice la verità, la vita eterna è questa: che conoscano te, solo vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo 130.

La sapienza sarà perfetta nella beatitudine

19. 26. È questa sapienza contemplativa che, a mio parere, le Scritture chiamano propriamente sapienza, distinguendola dalla scienza; sapienza dell’uomo certamente, ma che egli non possiede, a meno che non la riceva da Colui che, per partecipazione, può rendere veramente sapiente lo spirito razionale e intelligente. È di essa che Cicerone fa l’elogio alla fine del dialogo "Ortensio": Noi che giorno e notte meditiamo queste cose ed aguzziamo la nostra intelligenza, che è la punta viva dello spirito e che stiamo attenti a non lasciarla ottundersi, cioè noi che viviamo da filosofi, abbiamo una grande speranza: o ciò che pensiamo e gustiamo spiritualmente è mortale e caduco, ed allora, compiuti i doveri umani, la morte ci sarà dolce e ci estingueremo senza rimpianto, e sarà come il riposo della vita; o se, come hanno pensato gli antichi filosofi e fra essi i più grandi e di gran lunga più illustri, abbiamo un’anima eterna e divina, allora dobbiamo ritenere che quanto più un uomo avrà agito senza distogliersi dalla sua via, cioè in conformità alla ragione ed al desiderio di sapere e quanto meno si sarà mescolato e avrà preso parte ai vizi e agli errori degli uomini, tanto più l’ascesa e il ritorno al cielo gli saranno facili 131. Poi riprendendo e completando il suo ragionamento aggiunge: Per questo, per por fine a questa discussione, se vogliamo estinguerci tranquillamente, dopo esserci dedicati durante la nostra vita a queste discipline, o se vogliamo passare senza alcun intervallo di tempo da questa dimora in un’altra infinitamente migliore, dobbiamo dedicare a questi studi tutti i nostri sforzi e tutta la nostra attenzione 132. Mi meraviglio che un uomo di tanto ingegno a degli uomini dediti alla filosofia, che li rende beati con la contemplazione della verità, prometta, una volta compiuti i loro doveri umani, una morte dolce, se ciò che pensiamo e gustiamo spiritualmente è mortale e caduco, come se morisse e si estinguesse qualcosa che non amiamo, anzi ciò che odiavamo di tutto cuore al punto di vederlo scomparire con gioia. In verità ciò non lo aveva appreso dai filosofi, che esalta con grandi elogi, ma è un’opinione in cui si avverte l’ispirazione della Nuova Accademia, da cui apprese a dubitare anche delle cose più evidenti. Dai filosofi invece, che egli stesso riconosce come i più grandi e di gran lunga più illustri, aveva appreso che le anime sono immortali 133. Certo non è male che con questi incoraggiamenti le anime immortali vengano esortate a farsi trovare nella loro via, quando verrà il termine di questa vita, cioè a vivere in conformità alla ragione e al desiderio di ricerca, e a mescolarsi e invischiarsi il meno possibile ai vizi e agli errori degli uomini, affinché sia loro più facile il ritorno a Dio. Ma questa via che consiste nell’amore e nella ricerca della verità non basta agli infelici, cioè a tutti i mortali che hanno solo la ragione, senza la fede del Mediatore. È ciò che nei libri precedenti di quest’opera, soprattutto nel quarto e nel tredicesimo, mi sono sforzato di mostrare, per quanto ho potuto.

 

LIBRO QUINDICESIMO

Agostino vuole esercitare il lettore attraverso le cose create, affinché intenda, se può, in qualche modo la Trinità

1. 1. Volendo esercitare il lettore nella contemplazione delle cose create per condurlo alla conoscenza di Colui che le ha create, eccoci già giunti ora fino alla sua immagine: l’uomo, più esattamente ciò per cui esso supera gli altri animali, cioè la ragione, l’intelligenza, ed ogni altra caratteristica dell’anima razionale ed intellettiva, che appartenga a quella realtà che chiamiamo spirito (spiritus), o animo (animus) 1. Con questa parola alcuni scrittori di lingua latina, secondo il modo di parlare che hanno adottato, distinguono ciò che vi è di più nobile nell’uomo e non si trova nelle bestie, dall’anima (anima), che si trova anche nelle bestie 2. Dunque, al di sopra di questa natura, se cerchiamo qualcosa, e cerchiamo la verità, incontriamo Dio, cioè la natura non creata, ma creatrice. Che Dio sia Trinità, è ciò che dobbiamo ora dimostrare allo sguardo della fede con l’autorità delle Scritture, ma anche, se lo possiamo, allo sguardo dell’intelligenza con una riflessione razionale. Perché io abbia detto: "se lo possiamo", l’oggetto stesso lo mostrerà meglio, quando ne avremo iniziata la discussione.

Sebbene Dio sia incomprensibile non ci si deve stancare di cercarlo: si cerca per trovarlo con maggior dolcezza e si trova per cercarlo con maggior ardore

2. 2. Dio stesso, che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto dire nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate Dio e siate forti; cercate sempre il suo volto 3. Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché il Salmista non dice: "Si rallegri il cuore di coloro che trovano", ma: di coloro che cercano il Signore 4? E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi, l’empio abbandoni le sue vie e l’iniquo i suoi pensieri 5. Se dunque, cercandolo, si può trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il suo volto 6? Sarà forse che, anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l’affermazione che l’Ecclesiastico pone in bocca della Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete 7. Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; per questo il Profeta dice: Se non crederete, non comprenderete 8. E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo ispirato, per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio 9. Dunque per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.

Non inutilmente si cercano le vestigia della Trinità nella creatura

2. 3. Ci siamo dunque sufficientemente soffermati sulle cose che Dio ha creato per conoscere, per mezzo di esse, lui, che le ha create 10: Infatti le sue perfezioni invisibili, dopo la creazione del mondo, sono rese visibili all’intelligenza per mezzo delle cose che sono state fatte 11. Per questo nel libro della Sapienza vengono rimproverati coloro che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è, né, considerando le opere, seppero conoscere il loro artefice, ma il fuoco o il vento, o l’aria veloce, la volta stellata, le acque violente o i luminari del cielo, credettero dèi, governatori del mondo. Se quelle cose credettero dèi, perché dilettati dalla loro bellezza, sappiano quanto è migliore il padrone di esse, perché l’autore della bellezza le ha create. Se poi ciò che li ha colpiti è la loro forza e la loro energia, comprendano da queste cose quanto è più potente Colui che le ha formate, poiché dalla bellezza e dalla grandezza delle creature, argomentando, si poteva conoscere il loro Creatore 12. Ho citato queste parole del libro della Sapienza per impedire che qualche fedele giudichi vano ed inutile il mio tentativo con cui, partendo dalle cose, che nel loro ordine sono degli abbozzi di trinità, per elevarmi, come per gradi, fino allo spirito dell’uomo, ho cercato nelle creature le tracce di quella suprema Trinità, che cerchiamo quando cerchiamo Dio 13.

Riassunto dei libri precedenti

3. 4. Ma, poiché le esigenze della discussione e del ragionamento mi hanno costretto, nel corso di quattordici libri, a dire una quantità di cose, che non possiamo tutte abbracciare con un solo sguardo per riferirci con un rapido movimento di pensiero alle verità che vogliamo attingere, lasciando da parte ogni discussione, tenterò, per quanto lo potrò, con l’aiuto del Signore, di riassumere in breve ciò che, in ciascun libro, ho cercato di far comprendere, discutendolo ampiamente, e porrò, come sotto lo sguardo dello spirito, non gli argomenti con cui ho provato le mie asserzioni, ma le verità provate, facendo in modo che le conclusioni non siano talmente lontane dalle premesse, che l’esame delle conclusioni faccia dimenticare le premesse, o che, almeno, se ciò accadrà, si possa rapidamente, con una nuova lettura, ricordare ciò che si sarà dimenticato.

3. 5. Nel libro primo, basandomi sulle sacre Scritture, ho mostrato l’unità e l’uguaglianza di quella suprema Trinità 14. Nel secondo, terzo e quarto ho trattato lo stesso argomento; ma la trattazione diligente ed esauriente delle questioni delle missioni del Figlio e dello Spirito Santo costituisce l’argomento dei tre libri, ed ho dimostrato che Colui che è stato mandato non è minore di Colui che manda, per il fatto che questo manda e quello è mandato, perché la Trinità, che è uguale in tutto, è ugualmente indivisibile nel suo operare, essendo, per sua natura, immutabile, invisibile e ovunque presente 15. Nel quinto libro, a causa di coloro che ritengono che il Padre e il Figlio non sono di una stessa sostanza (perché pensano che tutto ciò che si dice di Dio si riferisca alla sostanza e, poiché generare ed essere generato, o essere generato ed essere ingenerato sono termini distinti, pretendono che si tratti di sostanze diverse) 16, ho dimostrato che non tutto ciò che si dice di Dio lo si dice sotto l’aspetto della sostanza come quando lo si afferma buono e grande e gli si danno altri simili attributi. Si dice anche sotto l’aspetto della relazione, ossia non rispetto a quello che è in se stesso, bensì rispetto a qualcosa che non è l’assoluto in Dio 17; per esempio quando si dice Padre in relazione al Figlio o si dice Signore in relazione alle creature che lo servono 18. Se queste attribuzioni relative hanno anche un riferimento al tempo come nell’invocazione del Salmista: Signore, tu sei divenuto per noi un rifugio 19, allora non è che a Dio accada qualcosa che lo faccia cambiare, ma egli rimane assolutamente immutabile nella sua natura o essenza 20. Nel libro sesto mi sono chiesto in che senso Cristo sia stato chiamato dall’Apostolo forza di Dio e sapienza di Dio 21, differendo a più tardi, per studiarla con più diligenza, la seguente questione: si deve dire che Colui che ha generato Cristo non è egli stesso sapienza, ma soltanto Padre della sapienza, o, al contrario, che egli è sapienza che ha generato la sapienza 22? Ma qualunque sia la risposta a questa alternativa, anche in questo libro appariva l’uguaglianza della Trinità, e come Dio non è triplice, ma Trinità, ed apparve che il Padre e il Figlio non sono qualcosa di duplice in rapporto allo Spirito Santo, realtà semplice, là dove i Tre non sono un qualcosa di più che uno solo di loro 23. Si è anche discusso come si possa intendere l’espressione del vescovo Ilario: L’eternità nel Padre, la bellezza nell’Immagine, la fruizione nel Dono 24. Nel settimo libro si spiega la questione che era stata differita e si giunge alla conclusione che Dio, in quanto ha generato il Figlio, non solo è il Padre della sua forza e della sua sapienza, ma è anche lui stesso forza e sapienza, come pure lo Spirito Santo, ma tuttavia non ci sono tre forze o tre sapienze, ma una sola forza ed una sola sapienza, come vi è un solo Dio ed una sola essenza 25. Poi mi sono chiesto in che senso si parli di una sola essenza e di tre Persone, o, come dicono alcuni scrittori greci, di una essenza e di tre sostanze 26, e ho risposto che sono le esigenze del linguaggio che vogliono che noi facciamo ricorso ad una sola parola per rispondere alla domanda: "Che cosa sono questi Tre?", perché noi confessiamo con piena verità che sono tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo 27. Nel libro ottavo ho fatto ricorso anche alla riflessione per mostrare chiaramente all’intelligenza che nella verità sostanziale non solo il Padre non è più grande del Figlio, ma che nemmeno tutti e due insieme sono un qualcosa di più grande del solo Spirito Santo; che due Persone qualsiasi nella medesima Trinità non sono un qualcosa di più grande di una sola; che tutte e tre prese insieme non sono un qualcosa di più grande che ciascuna considerata singolarmente 28. Poi, argomentando dalla verità immediatamente attinta dall’intelligenza, dal Bene supremo dal quale deriva ogni bene, dalla giustizia a motivo della quale l’anima giusta è amata anche dall’anima che non è ancora giusta, mi sono sforzato di far comprendere, per quanto è possibile, quella natura, non solo immateriale, ma anche immutabile, che è Dio 29; infine, riflettendo sulla carità, che è chiamata Dio nelle Sacre Scritture, ho incominciato a fare intravedere all’intelligenza, per quanto poco, la Trinità stessa, per analogia dell’amante, dell’amato, dell’amore 30. Nel libro nono la mia analisi giunge all’immagine di Dio: l’uomo, considerato nel suo spirito. Nello spirito umano ho trovato una specie di trinità, ossia lo spirito, la conoscenza con cui si conosce, l’amore con cui ama se stesso e la conoscenza che ha di sé; ho mostrato che queste tre cose sono uguali tra loro ed appartengono ad una medesima essenza 31. Nel libro decimo, ho ripreso lo stesso argomento con più attenzione e precisione e sono stato condotto a trovare nello spirito una trinità più manifesta: quella della memoria, dell’intelligenza, della volontà 32. Ma, poiché ho scoperto pure che lo spirito non può mai esistere senza ricordarsi di sé, senza comprendersi, senza amarsi, sebbene esso non pensi sempre a se stesso e, quando pensa a sé, non sempre riesca in questo stesso atto di pensiero a distinguersi dagli oggetti sensibili, ho rimandato a più tardi lo studio circa la Trinità, di cui lo spirito è immagine, per cercare una trinità nella stessa percezione degli oggetti visibili e permettere all’attenzione del lettore di esercitarsi su realtà che essa percepisce più chiaramente 33. Per questo, nel libro undicesimo mi sono soffermato sullo studio del senso della vista sapendo che ciò che vi avrei scoperto si sarebbe potuto applicare anche agli altri quattro sensi, senza bisogno di ripeterlo. E così è apparsa la trinità dell’uomo esteriore: trinità costituita dal corpo percepito, dalla forma da esso impressa nello sguardo del soggetto percipiente, e dall’attenzione della volontà che unisce l’uno all’altra 34. Ma apparve manifesto che questi tre elementi non sono uguali tra loro e non appartengono alla medesima sostanza. Poi, nell’anima stessa, a partire da ciò che, sentito all’esterno, è come introdotto in noi, ho scoperto un’altra trinità in cui i tre elementi sembrano appartenere alla medesima sostanza: l’immagine del corpo presente nella memoria, la forma che la riproduce quando lo sguardo del soggetto che pensa si volge ad essa, e l’attenzione della volontà che unisce l’una all’altra. Ma si è visto che questa trinità appartiene ancora all’uomo esteriore, perché ha la sua origine nei corpi che percepiamo dall’esterno. Nel libro dodicesimo ci è parso di dover distinguere la sapienza dalla scienza 35, e di dover cercare prima in quella che si chiama propriamente scienza, perché è inferiore alla sapienza, una specie di trinità nel suo genere; sebbene essa appartenga già all’uomo interiore, tuttavia non bisogna né dire né pensare che sia immagine di Dio 36. È questo l’argomento trattato nel libro tredicesimo, mostrando il valore della fede cristiana 37. Nel libro quattordicesimo invece è proprio la vera sapienza dell’uomo, cioè quella che gli è data per dono di Dio nella sua partecipazione a Dio stesso e che è distinta dalla scienza 38, che costituisce l’oggetto della mia indagine. Tale indagine è giunta a scoprire una trinità nell’immagine di Dio, che è l’uomo considerato nel suo spirito, che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che ha creato l’uomo 39 a sua immagine 40, e così si percepisce che la sapienza si trova là dove c’è contemplazione delle realtà eterne.

Tutta la natura ci spinge a risalire a Dio

4. 6. Cerchiamo dunque ormai quella Trinità che è Dio in quelle realtà eterne, incorporee ed immutabili, nella cui piena contemplazione ci è promessa la vita beata, che è tale solo perché eterna 41. Infatti, non è soltanto l’autorità delle divine Scritture che ci insegna che Dio esiste, ma tutta intera la natura stessa che ci circonda, e di cui noi stessi facciamo parte, proclama l’esistenza di un supremo Creatore 42, che ha dotato la nostra natura di uno spirito e di una ragione, con cui vediamo di dover preferire gli esseri viventi ai non viventi, quelli dotati di senso ai non senzienti, quelli intelligenti ai non intelligenti, quelli immortali ai mortali, quelli potenti ai privi di potenza, quelli giusti agli ingiusti, quelli belli ai deformi, quelli buoni ai cattivi, quelli incorruttibili ai corruttibili, quelli immutabili ai mutevoli, quelli invisibili ai visibili, quelli incorporei ai corporei, quelli felici agli infelici. Per questo stesso motivo, perché noi poniamo senza esitazione il Creatore al di sopra delle creature, dobbiamo confessare che egli possiede la pienezza della vita, che sente e comprende tutto; che egli non può morire, corrompersi, mutare; che egli non è corpo ma lo spirito di tutti più potente, più giusto, più bello, più buono e più beato.

Le numerose perfezioni vengono ricondotte a poche fondamentali

5. 7. Ma queste affermazioni e tutte le altre che, espresse in modo simile con linguaggio umano, sembrano degne di Dio, convengono sia alla Trinità tutta intera, che è un Dio solo, sia, in questa stessa Trinità, a ciascuna Persona. Chi infatti oserà dire che o questo Dio unico, che è la stessa Trinità 43, o il Padre, o il Figlio, o lo Spirito Santo, non vive, o non sente nulla o non intende nulla, oppure che in quella natura, che fonda la loro mutua uguaglianza 44, qualcuna delle Persone è mortale, corruttibile, mutevole, corporea; ovvero infine ci sarà qualcuno che negherà che nella Trinità qualcuna delle Persone sia in sommo grado potente, giusta, bella, buona, beata 45? Se dunque tutte queste perfezioni e tutte le altre dello stesso ordine possono essere attribuite alla Trinità e, in essa, a ciascuna delle Persone, dove e come potremo scoprire la Trinità? Riduciamo dunque anzitutto queste numerosissime perfezioni ad alcune soltanto. La vita che si afferma esistere in Dio è la sua stessa esistenza e la sua natura. Per questo Dio vive di una vita che non è altro che ciò che egli stesso è per se stesso. Questa vita non è della stessa sorte di quella dell’albero, che è privo di intelligenza e di sensibilità, né della stessa sorte di quella degli animali; infatti la vita dell’animale è dotata di sensibilità che si diversifica in cinque sensi, ma è del tutto priva di intelligenza. Invece quella vita che è Dio sente e comprende tutto, ma Dio sente spiritualmente, non corporeamente, perché Dio è spirito 46. Infatti Dio non sente per mezzo del corpo, come gli animali che hanno un corpo, perché non è composto di anima e di corpo, e per questo 47, essendo semplice, quella natura sente come comprende, comprende come sente; in essa senso ed intelletto sono identici. Né la sua natura è tale che possa ad un dato momento cessare di esistere o incominciare ad esistere: è infatti immortale. Non invano di lui è detto che è il solo a possedere l’immortalità 48, perché è veramente immortalità l’immortalità di Colui la cui natura è priva di qualsiasi mutazione. Vera è pure l’eternità per la quale Dio è immutabile, senza inizio e senza fine e per ciò stesso incorruttibile. Si esprime dunque una sola e medesima cosa, sia che si dica che Dio è eterno, sia che si dica che è immortale, che è incorruttibile, che è immutabile; similmente quando si dice che è vivente, e intelligente o, che è lo stesso, sapiente, si dice la medesima cosa. Dio infatti non ha ricevuto una sapienza che lo abbia reso sapiente, ma egli stesso è la sapienza. E questa vita è la stessa cosa che la forza o la potenza, la stessa cosa che la bellezza, per cui è detto potente e bello. Che c’è infatti di più potente e di più bello della sapienza che si estende con potenza da una estremità all’altra del mondo e tutto amministra con dolcezza 49? La bontà e la giustizia differiscono forse tra loro nella natura di Dio, allo stesso modo che nelle sue opere, come se vi fossero due qualità distinte in Dio: una, la bontà, l’altra, la giustizia? Certamente no: la sua giustizia è la sua stessa bontà, e la sua bontà è la sua beatitudine stessa. E Dio è detto incorporeo, immateriale perché si creda e si comprenda 50 che egli è spirito, non corpo.

Tutto ciò che sembra affermato di Dio secondo la qualità deve essere compreso come detto dell’essenza

5. 8. Se dunque diciamo: "Eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, vivente, sapiente, potente, bello, giusto, buono, beato, spirito", potrebbe sembrare che, fra tutti questi termini, solo l’ultimo designi la sostanza, mentre gli altri sembrerebbero designare solo le qualità di questa sostanza, ma non è così in quella natura ineffabile e semplice. Tutto ciò che ivi sembra venir affermato come concernente le qualità, deve essere compreso come riguardante la sostanza o l’essenza. Sia lungi da noi il pensare che, quando si dice che Dio è spirito, questa affermazione riguardi la sostanza, e quando si dice che è buono, tale affermazione concerna la qualità: l’una e l’altra affermazione riguardano la sostanza. Lo stesso si dica di tutte le altre perfezioni che abbiamo ricordato e di cui abbiamo già lungamente parlato nei libri precedenti. Fra le quattro prime perfezioni che abbiamo enumerato e distinto, cioè: eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, scegliamone dunque una, perché, come ho già detto, queste quattro designano una sola realtà; affinché la nostra attenzione non si disperda nella considerazione di molte cose, scegliamo quella che abbiamo nominato al primo posto, cioè l’eternità. Facciamo la stessa cosa per le quattro del secondo gruppo: vivente, sapiente, potente, bello. E poiché anche gli animali hanno la vita, per quanto imperfetta, mentre non hanno la sapienza; poiché d’altra parte quando paragona la sapienza alla potenza, che sono tutte e due perfezioni dell’uomo, la Sacra Scrittura dice: Il sapiente è superiore al forte 51; poiché infine si chiamano correttamente belli anche i corpi, tra queste quattro perfezioni fra le quali abbiamo da scegliere; scegliamo la sapienza, sebbene occorra dire che queste quattro perfezioni in Dio non sono ineguali: ci sono infatti quattro parole, ma una sola realtà. Veniamo alle quattro del terzo ed ultimo gruppo. Benché in Dio essere giusto sia la stessa cosa che essere buono e beato, essere spirito la stessa cosa che essere giusto, buono e beato; tuttavia poiché negli uomini lo spirito può non essere beato, può essere giusto e buono, ma non ancora beato; poiché invece colui che è beato è inevitabilmente giusto, buono e spirito; scegliamo di preferenza la perfezione che nemmeno negli uomini può esistere senza le altre tre, cioè la beatitudine.

Come possiamo non solo credere, ma capire che Dio assolutamente semplice è Trinità?

6. 9. Quando dunque diciamo: "Eterno, sapiente, beato", queste tre perfezioni costituiscono forse quella Trinità che si chiama Dio? Abbiamo ridotto quelle dodici perfezioni al piccolo numero di tre; forse allo stesso modo noi possiamo ridurre queste tre ad una sola. Perché se nella natura divina sapienza e potenza, o vita e sapienza, possono essere una sola e medesima realtà, perché non potrebbero essere una sola e medesima cosa nella natura divina eternità e sapienza, o beatitudine e sapienza? Allora, allo stesso modo che era indifferente parlare di dodici o di tre perfezioni, quando abbiamo ridotto quelle molteplici perfezioni ad alcune, così è indifferente parlare di tre perfezioni o di un’unica perfezione alla quale si possono ridurre le altre due come abbiamo mostrato. Ma allora quale metodo di discussione, quale forza e quale potenza di intelligenza, quale vivacità di ragione, quale penetrazione di pensiero ci mostreranno, per tacere delle altre, come questa sola perfezione, questa sapienza che è chiamata Dio, è Trinità? Infatti Dio non percepisce una sapienza che gli proviene da qualcuno, come noi percepiamo una sapienza che ci proviene da lui, ma è egli stesso la sua sapienza, perché non sono due cose diverse la sapienza e l’essenza per Colui per il quale è una stessa cosa essere ed essere sapiente. Certo le Sacre Scritture affermano che Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio 52, ma si è discusso nel libro settimo come si debba intendere questa espressione 53, perché non sembri che sia il Figlio a far sì che il Padre sia sapiente, ed il nostro ragionamento ci ha condotto a concludere che il Figlio è sapienza da sapienza, come è luce da luce, Dio da Dio. Riguardo allo Spirito Santo le nostre conclusioni non hanno potuto essere differenti: anch’egli è sapienza e tutte e tre le Persone insieme sono una sola sapienza, come sono un solo Dio, una sola essenza 54. Ma allora come comprendere che questa sapienza, che è Dio, è Trinità? Non ho detto "come credere", perché per i fedeli è questa una verità che non deve essere messa in questione, ma se possiamo in una certa maniera vedere per mezzo dell’intelligenza ciò che crediamo, quale sarà questa maniera?

Le analogie trinitarie nell’uomo

6. 10. Se infatti cerchiamo di ricordarci in quale momento, nel corso di questi libri, la nostra intelligenza ha cominciato ad intravedere la Trinità, troviamo che fu nel libro ottavo. In questo libro infatti, per quanto lo abbiamo potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi di innalzare l’attenzione dello spirito fino all’intelligenza di quella suprema e immutabile natura che il nostro spirito non è. Tuttavia noi la contemplavamo non lontana da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso di noi per la pienezza della sua luce. In essa tuttavia non ci appariva ancora la Trinità, perché non tenevamo fermo lo sguardo dello spirito su quello splendore per cercarla; tutt’al più perché ciò che appariva non era una massa materiale, che ci obbligasse a vedere che la grandezza di due o tre era maggiore di quella di uno, cominciavamo ad intravedere quel mistero. Ma quando si giunse alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture 55, il mistero si chiarì un poco con la trinità dell’amante, dell’amato e dell’amore 56. Ma, poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla, inserendo una digressione tra ciò che avevamo iniziato a dire e ciò che avevamo deciso di dire, ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio 57, trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata, e così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l’intelligenza le perfezioni invisibili di Dio 58. Ed ecco che ora, dopo aver esercitato la nostra intelligenza nelle cose inferiori, quanto era necessario o forse più di quanto fosse necessario, vogliamo elevarci alla contemplazione di quella suprema Trinità che è Dio e non ne siamo capaci. Forse come vediamo delle trinità assai certe, quelle che hanno origine, venendo dal di fuori, dalle cose corporee, quelle che hanno origine quando vengono pensati gli oggetti percepiti esteriormente; o quando quelle cose che hanno origine nell’anima e non appartengono ai sensi del corpo, come la fede, come le virtù, che regolano la vita, sono conosciute dalla ragione con chiarezza e costituiscono oggetto della scienza; o quando lo spirito con cui conosciamo tutto ciò che a questo titolo diciamo di conoscere, conosce se stesso o si pensa; o quando discerne qualcosa di eterno e immutabile che non è esso stesso; forse che dunque come in tutti questi casi vediamo delle trinità assai certe, perché si producono in noi o sono in noi quando ricordiamo, vediamo, vogliamo tali cose, allo stesso modo vediamo anche il Dio Trinità, perché anche là vediamo con l’intelligenza uno che "dice" e il suo verbo, cioè il Padre e il Figlio, e, procedente dall’uno e dall’altro, la carità che è loro comune, cioè lo Spirito Santo? O non si deve invece dire che queste trinità che appartengono ai nostri sensi o alla nostra anima le vediamo più che crederle, mentre invece crediamo più che vedere che Dio è Trinità? Se è così, certamente o non vediamo, in quanto non la comprendiamo, alcuna delle perfezioni invisibili di Dio per mezzo delle cose create 59, o, se ne vediamo alcune, non vediamo in esse la Trinità, ed è là ciò che dobbiamo vedere, è ciò che, anche se non vediamo, dobbiamo credere. Ma che noi vediamo il bene immutabile, sebbene noi non siamo questo bene, lo mostra il libro ottavo 60, e l’abbiamo ricordato nel libro quattordicesimo, parlando della sapienza che l’uomo riceve da Dio 61. Perché dunque non vi riconosciamo la Trinità? Forse che questa sapienza, che è chiamata Dio, non comprende se stessa, non ama se stessa? Chi oserà dirlo? Chi non vede che là dove non c’è nessuna scienza non potrebbe in alcun modo esservi sapienza? O si dovrà ritenere forse che la sapienza, che è Dio, conosce le altre cose e non conosce se stessa o ama le altre cose e non ama se stessa? Sia affermare sia credere tali cose è stolto ed empio. Ecco allora che c’è qui la Trinità, cioè la sapienza, la conoscenza che essa ha di sé, l’amore che essa ha di sé. Allo stesso modo infatti anche nell’uomo abbiamo trovato una trinità, costituita dallo spirito, dalla conoscenza con cui esso si conosce, dall’amore con cui si ama 62.

L’analogia tra le trinità create e Dio è molto imperfetta

7. 11. Ma questi tre elementi sono nell’uomo, non sono l’uomo. L’uomo è infatti, secondo la definizione degli antichi, un animale ragionevole, mortale 63. Quelle realtà sono dunque ciò che c’è di migliore nell’uomo 64, ma esse non sono l’uomo. Ed una persona da sola, cioè ciascun uomo considerato singolarmente, ha quei tre elementi nello spirito o lo spirito. Se diamo dell’uomo quest’altra definizione: "l’uomo è una sostanza razionale che consta di anima e di corpo" 65 è fuori dubbio che l’uomo possiede un’anima che non è il corpo, possiede un corpo che non è l’anima. Di conseguenza quei tre elementi non sono l’uomo, appartengono all’uomo o sono nell’uomo. Supponendo anche che noi facciamo astrazione dal corpo e consideriamo solo l’anima, lo spirito è una parte di essa, ne è come il capo, l’occhio, il viso. Ma queste cose non si devono pensare come se fossero corporee. Non dunque l’anima, ma la parte migliore dell’anima è chiamata spirito 66. Ma possiamo forse dire che la Trinità si trova in Dio in modo da essere un qualcosa di Dio senza essere essa stessa Dio? Perciò ogni singolo uomo, chiamato immagine di Dio non secondo tutta l’ampiezza della sua natura, ma soltanto in quanto è spirito, è una sola persona, e l’immagine della Trinità è nello spirito. Invece quella Trinità di cui è immagine non è, tutta intera, nient’altro che Dio; tutta intera, nient’altro che Trinità. E nulla appartiene alla natura divina che non appartenga a quella Trinità: le tre Persone sono una sola essenza 67, non come ogni singolo uomo che è una sola persona.

7. 12. Ma vi è un’altra differenza importante: se nell’uomo consideriamo lo spirito e la conoscenza e l’amore che ha di sé o la memoria, l’intelligenza, la volontà 68, non c’è alcuna parte dello spirito di cui ci ricordiamo se non per mezzo della memoria, nessuna parte che comprendiamo se non per mezzo dell’intelligenza, nessuna parte che amiamo se non per mezzo della volontà 69. Ma in quella Trinità chi oserà dire che il Padre non comprende se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo se non per mezzo del Figlio, che non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo e da sé ricorda soltanto se stesso o il Figlio o lo Spirito Santo; che il Figlio a sua volta non ricorda se stesso e il Padre se non per mezzo del Padre e non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo; che parimenti anche lo Spirito Santo per mezzo del Padre ricorda il Padre, il Figlio e se stesso, e per mezzo del Figlio comprende il Padre e il Figlio e se stesso, mentre, da sé, soltanto ama se stesso, il Padre e il Figlio; come se il Padre fosse la memoria sua, del Figlio e dello Spirito Santo, il Figlio, l’intelligenza sua, del Padre e dello Spirito Santo, lo Spirito Santo l’amore suo, del Padre e del Figlio? Chi avrebbe l’audacia di opinare e affermare tali cose circa la Trinità? Se ivi infatti è il Figlio solo a comprendere, per se stesso, per il Padre e per lo Spirito Santo, si ricade in quell’opinione assurda che la sapienza del Padre non gli proviene da lui stesso ma dal Figlio e che la sapienza non ha generato la sapienza, ma il Padre è detto essere sapiente per la sapienza che ha generato. Dove infatti non c’è intelligenza, non vi può nemmeno essere sapienza; di conseguenza se il Padre non comprende egli stesso per se stesso, ma è il Figlio che comprende per il Padre, non vi è dubbio che è il Figlio che fa sapiente il Padre. E se in Dio essere è la stessa cosa che essere sapiente, e se in lui l’essenza è identica alla sapienza, non è più il Figlio che riceve dal Padre l’essenza - come è vero - ma il Padre invece la riceve dal Figlio, ciò che è il colmo dell’assurdità e dell’errore. Tale assurdità abbiamo discusso, condannato, respinto nella maniera più formale nel libro settimo 70. Il Padre è dunque sapiente per la sua propria sapienza, che egli stesso è, e il Figlio è la sapienza del Padre che procede dalla sapienza che è il Padre, dal quale il Figlio è stato generato. Di conseguenza il Padre anche comprende per la sua propria intelligenza che egli stesso è; chi infatti non avesse l’intelligenza non potrebbe avere la sapienza; il Figlio invece è l’intelligenza del Padre, generato dall’intelligenza che è il Padre. Lo stesso si può affermare senza inconveniente della memoria. Come può essere infatti sapiente colui che nulla ricorda o non si ricorda di sé? Dunque in quanto è sapienza il Padre, sapienza il Figlio 71, allo stesso modo che si ricorda per sé il Padre, così si ricorda per sé il Figlio; e come il Padre si ricorda di sé e del Figlio non con la memoria del Figlio, ma con la sua, così il Figlio si ricorda di sé e del Padre non con la memoria del Padre, ma con la propria. Infine chi potrebbe dire che vi è sapienza dove non vi è in alcun modo dilezione? Da ciò si conclude che il Padre è il suo proprio amore, come è la sua intelligenza e la sua memoria. Ecco dunque che quelle tre perfezioni: la memoria, l’intelligenza, la dilezione o volontà, in quella suprema ed immutabile essenza che è Dio, non sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre solo. E poiché anche il Figlio è sapienza generata 72 dalla sapienza, come non è il Padre che comprende per lui, non è nemmeno lo Spirito Santo che comprende per lui, ma egli stesso per se stesso; così pure non è il Padre che ricorda per lui, né lo Spirito Santo che ama per lui, ma lui per se stesso; egli infatti è la sua propria memoria, la sua intelligenza, il suo amore, ma che egli sia tale gli proviene dal Padre, da cui è nato. Anche lo Spirito Santo, poiché è sapienza che procede dalla sapienza 73, non ha il Padre come memoria, il Figlio come intelligenza e se stesso come amore; infatti non sarebbe nemmeno sapienza, se qualche altro ricordasse per lui e un altro comprendesse per lui ed egli stesso soltanto amasse per se stesso, ma anch’egli ha queste tre perfezioni e le possiede in tal modo, che è egli stesso tali perfezioni. Tuttavia che egli sia tale gli proviene dalla fonte da cui procede.

7. 13. Quale uomo dunque può comprendere questa sapienza con la quale Dio conosce tutte le cose in modo che quelle che si dicono passate in lui non passino, né quelle che si dicono future si attende che si realizzino come se fossero ancora assenti, ma quelle passate e quelle future siano tutte presenti con le presenti; ed in modo che non siano pensate ad una ad una, cosicché il suo pensiero passi dalle une alle altre, ma le abbracci tutte insieme con un solo sguardo; quale uomo, dico, comprende questa sapienza che è insieme preveggenza, che è scienza, quando noi non comprendiamo nemmeno la nostra sapienza? Se le cose presenti ai nostri sensi o alla nostra intelligenza le possiamo vedere in qualche modo, invece quelle che sono assenti e tuttavia furono una volta presenti, le conosciamo per mezzo della memoria, quelle almeno di cui non ci siamo dimenticati. Né congetturiamo le cose passate in base alle cose future, ma quelle future in base alle passate ed anche queste con conoscenza incerta. Quando infatti prevediamo alcuni nostri pensieri futuri con maggior chiarezza e certezza come i più vicini a realizzarsi, lo dobbiamo all’azione della memoria (quando siamo capaci di farlo per quanto è in nostro potere), memoria che sembra riguardare le cose passate, non quelle future. Ci è facile fare una tale esperienza in quei discorsi o cantici, dei quali possiamo recitare a memoria il susseguirsi delle frasi. Se infatti non vedessimo in anticipo con il pensiero ciò che segue, certamente non diremmo nulla; e tuttavia a far sì che vediamo in anticipo non è la preveggenza, ma la memoria. Perché, fino a quando non abbiamo finito di parlare o di cantare, non proferiamo nulla che non sia stato previsto e considerato in anticipo. E tuttavia, quando facciamo questo, non si dice che noi cantiamo o recitiamo con l’aiuto della preveggenza, ma della memoria; e coloro che hanno una capacità fuori del comune nel recitare a questo modo delle lunghe composizioni, vengono esaltati di solito non per la loro preveggenza, ma per la loro memoria. Che questo accada nella nostra anima lo sappiamo e ne siamo assolutamente certi, ma quanto maggiore è l’attenzione che poniamo nel voler comprendere come questo accada, tanto più il nostro linguaggio viene sopraffatto e la stessa attenzione non rimane ferma fino al punto di permettere alla nostra intelligenza, in mancanza della nostra parola, di giungere ad un qualcosa di chiaro. Pensiamo noi allora di poter comprendere, data la così grande debolezza del nostro spirito, come la preveggenza è identica alla memoria e all’intelligenza, in Dio che non vede le cose pensandole ad una ad una, ma abbraccia in una visione eterna, immutabile ed ineffabile tutto ciò che conosce? In mezzo a queste difficoltà e complicazioni è grato gridare al Dio vivente: Troppo mirabile è la tua scienza; troppo sublime, e non posso comprenderla 74. A partire dalla mia esperienza, comprendo quanto sia mirabile ed incomprensibile la tua scienza 75 con la quale mi hai creato; e tuttavia nelle mie meditazioni mi infiamma un fuoco 76 che mi spinge a cercare sempre la tua faccia 77.

La conoscenza di Dio "attraverso uno specchio in enigma"

8. 14. So che la sapienza è una sostanza immateriale, che essa è una luce in cui si vede ciò che non si vede con gli occhi della carne; e tuttavia quell’uomo così eminente e così spirituale dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma, allora a faccia a faccia 78. Se ci chiediamo quale sia e che cosa sia questo specchio, il primo pensiero che ci viene in mente è certamente quello che nello specchio non si vede che un’immagine. Ci siamo dunque sforzati, a partire da questa immagine che siamo noi, di vedere in qualche modo, come in uno specchio, Colui che ci ha fatti. È questo il senso di quest’altra espressione dello stesso Apostolo: Noi che a faccia svelata comprendiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, come ad opera dello spirito del Signore 79. Chiama speculantes coloro che contemplano in uno specchio (speculum), non coloro che guardano da un posto di osservazione (de specula). Il testo greco, dal quale sono state tradotte le Lettere dell’Apostolo, non presenta alcuna ambiguità al riguardo. In greco infatti la parola che significa specchio, in cui appaiono le immagini delle cose, è totalmente diversa, anche per il suono, dalla parola che significa "specola" dall’alto della quale lo sguardo si estende più lontano ed appare sufficientemente chiaro che l’Apostolo ha derivato da specchio e non da specola la parola speculantes, quando dice che contempliamo come in uno specchio (speculantes) la gloria di Dio. Quanto a queste parole: siamo trasformati nella stessa immagine 80, è certo che con esse l’Apostolo vuol fare riferimento all’immagine di Dio, che egli chiama la stessa immagine, cioè quella stessa che noi contempliamo, perché questa stessa immagine è anche la gloria di Dio, come dice in un altro passo: L’uomo non deve velare il suo capo, dato che egli è l’immagine di Dio 81. Il senso di queste parole è stato precisato nel libro dodicesimo 82. Siamo trasformati egli dice dunque, siamo cioè mutati da una forma ad un’altra e passiamo da una forma oscura ad una forma luminosa perché la stessa forma oscura è immagine di Dio e, se è immagine, è certamente anche gloria, nella quale siamo stati creati uomini, superiori agli altri animali 83. È della stessa natura umana che è detto: L’uomo non deve velare il suo capo, dato che è immagine e gloria di Dio 84. Questa natura, la più nobile tra le cose create, quando viene giustificata, ad opera del suo Creatore, dall’empietà, lascia la sua forma deforme (deformis forma), per acquisire una forma bella (forma formosa). Perché anche nella stessa empietà, quanto più è degna di biasimo la corruzione, tanto più certamente è degna di lode la natura. È per questo che l’Apostolo aggiunge: di gloria in gloria 85; dalla gloria della creazione alla gloria della giustificazione. Tuttavia si può intendere in altra maniera l’espressione: di gloria in gloria; dalla gloria della fede alla gloria della visione, dalla gloria che fa di noi dei figli di Dio alla gloria che ci renderà simili a lui, perché lo vedremo come egli è 86. E le parole che aggiunge: come ad opera dello Spirito del Signore 87, mostrano che è per la grazia di Dio che ci viene conferito il beneficio di una trasformazione così desiderabile.

L’enigma è una allegoria oscura

9. 15. Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell’Apostolo che afferma che noi vediamo ora come in uno specchio 88. Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua nella lingua latina. Come infatti parliamo più correntemente di "schemi" che di "figure", così parliamo più correntemente di "tropi" che di "figure retoriche". Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata. Così alcuni dei nostri interpreti, volendo evitare la parola greca, traducono il passo in cui l’Apostolo dice: Queste cose sono dette in senso allegorico 89, con questa circonlocuzione: "Queste cose significano una cosa per un’altra" 90. Ora questo genere di tropo, cioè l’allegoria, si suddivide in molte specie, tra le quali si trova anche quella che si chiama "enigma". Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie. Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria, ma non ogni allegoria è enigma. Che è dunque un’allegoria se non un tropo in cui si fa intendere una cosa con un’altra, come in quel passo della Lettera ai Tessalonicesi: Dunque non dormiamo come gli altri uomini, ma vigiliamo e siamo sobri. Infatti quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si inebriano, si inebriano di notte; ma noi che siamo figli del giorno, siamo sobri 91? Ma questa allegoria non è un enigma. Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente. L’enigma invece è, per spiegarlo in breve, un’allegoria oscura 92, come il passo: La sanguisuga ha tre figlie 93, ed altri di questo genere. Tuttavia, quando l’Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole, ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l’altro della donna libera 94 (non si trattava di parole, ma anche di un fatto) devono significare i due Testamenti; questo fatto prima della spiegazione restava oscuro. Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma, se si usa un termine specifico.

L’Apostolo col termine "specchio" indica l’immagine, con quello di "enigma" una rassomiglianza, ma oscura

9. 16. Ma, poiché non soltanto coloro che ignorano le lettere, in cui si studiano i tropi, si chiedono che cosa abbia voluto dire l’Apostolo quando afferma che ora noi vediamo in enigma 95, ma anche coloro che le conoscono desiderano tuttavia sapere che cosa sia quell’enigma in cui ora vediamo, dobbiamo formare una sola espressione costituita da queste due affermazioni, quella che dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, e quella che ha aggiunto: in enigma. È infatti una sola espressione perché l’Apostolo dice in una sola frase così: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma 96. Perciò, a quanto mi sembra, se con la parola "specchio" volle significare l’immagine, con la parola "enigma", sebbene abbia voluto significare una "somiglianza", ha voluto tuttavia significare una somiglianza oscura e difficile da attingere. Se dunque si può intendere che con le parole "specchio" ed "enigma" l’Apostolo ha voluto significare qualunque somiglianza adatta a farci comprendere Dio, nella misura in cui è possibile, tuttavia niente è più adatto di ciò che, non senza fondamento, è chiamato immagine di Dio. Nessuno si meravigli dunque - dato il modo di vedere che ci è concesso durante questa vita, cioè attraverso uno specchio e in enigma - dello sforzo che dobbiamo fare per vedere in qualche modo. Perché se fosse facile vedere, non si incontrerebbe in questo passo la parola "enigma". E l’enigma è ancora più grande per questo: che non vediamo ciò che non possiamo non vedere. Infatti chi non vede il suo pensiero? E chi vede il suo pensiero, non dico con gli occhi della carne, ma con lo sguardo interiore? Chi non lo vede e chi lo vede? Perché il pensiero è una specie di visione dell’anima, sia che siano presenti gli oggetti che anche gli occhi del corpo possono vedere o gli altri sensi possono percepire, sia che tali oggetti siano assenti e con il pensiero si vedano le loro immagini; sia che non venga pensato nulla di questo, ma si pensino cose che non sono corporee, né sono immagini di cose corporee, così si pensano le virtù e i vizi e lo stesso pensiero pensa se stesso; sia che si pensino le conoscenze trasmesse dalle scienze e dalle arti liberali; sia che si pensino le cause superiori di tutte queste cose o le loro ragioni nella natura immutabile; sia che si pensino cose cattive, futili e false, sia che non vi consenta il senso, sia che erri il consenso.

Il verbo dello spirito specchio ed enigma del Verbo divino

10. 17. Ma parliamo ora di queste cose già conosciute alle quali pensiamo e che restano nella nostra conoscenza anche quando non le pensiamo, sia che si tratti di cose che appartengono alla scienza contemplativa, che si deve chiamare propriamente sapienza, sia che appartengano alla scienza attiva, che si deve chiamare propriamente scienza, come ho spiegato. L’una e l’altra insieme appartengono infatti allo stesso spirito e costituiscono una sola immagine di Dio. Se si tratta in modo più speciale ed esclusivamente di quella che è inferiore, non bisogna allora dire che è immagine di Dio, sebbene anche allora vi si possa trovare qualche somiglianza della Trinità, come ho mostrato nel libro tredicesimo 97. Ora dunque noi parliamo della scienza dell’uomo considerata in tutta la sua estensione, scienza nella quale conosciamo tutte le cose che conosciamo; cose vere di certo, altrimenti non le conosceremmo. Infatti nessuno conosce le cose false, se non quando sa che sono false e, se conosce ciò, conosce il vero, perché è vero che quelle cose sono false. Ora discutiamo dunque delle cose conosciute alle quali pensiamo e che conosciamo, anche se non le pensiamo. Ma non c’è dubbio che, se vogliamo esprimerle, non lo possiamo fare che se le pensiamo. Infatti, sebbene non vi sia il suono delle parole, sempre parla nel suo cuore colui che pensa. Per questo vi è la seguente espressione nel libro della Sapienza: Dissero nel loro interno pensando male 98. Il senso delle parole: Dissero nel loro interno è spiegato dalla parola pensando. Vi è nel Vangelo un testo analogo; vi si narra che alcuni Scribi udendo il Signore dire al paralitico: Confida, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati; dissero dentro di sé: Costui bestemmia 99. Che significa infatti: Dissero dentro di sé, se non "dissero pensando"? Infine il testo continua: Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse: Perché pensate il male nei vostri cuori? 100. Così Matteo. Ma Luca racconta lo stesso avvenimento in questi termini: Gli Scribi e i Farisei incominciarono a pensare, dicendo: Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati se non Iddio solo? Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, rispose loro dicendo: Che pensate nei vostri cuori? 101. Come nel Libro della Sapienza c’è: Dissero pensando, qui c’è: Pensarono dicendo. L’uno e l’altro testo mostrano che parlare dentro di sé e nel proprio cuore equivale a parlare pensando. I Farisei hanno parlato dentro di sé, e il Signore ha detto loro: Che pensate? Allo stesso modo, a proposito di quel ricco, i cui campi avevano prodotto frutti copiosi, il Signore dice: E pensava dentro di sé, dicendo 102.

10. 18. I pensieri dunque sono una specie di linguaggio del cuore, nel quale il Signore ci mostra che esiste una bocca, quando dice: Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l’uomo 103. In una sola frase il Signore parla in qualche modo di due bocche dell’uomo: una del corpo, una del cuore. Perché è evidente che secondo l’opinione dei Giudei, ciò che contamina l’uomo entra per la bocca del corpo, mentre, secondo l’affermazione del Signore, ciò che contamina l’uomo esce dalla bocca del cuore 104. Così infatti egli stesso ha spiegato le sue parole. Perché poco dopo su questo argomento dice ai suoi discepoli: Siete ancora, anche voi, senza intelligenza? Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e finisce in una fogna? 105.In questo passo si parla, in maniera assai evidente, della bocca del corpo. Ma nel passo che segue allude alla bocca del cuore, quando dice: Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo, perché dal cuore vengono i cattivi pensieri 106. Che cosa si può pretendere di più chiaro di questa spiegazione? Tuttavia quando diciamo che i pensieri sono le parole del cuore, non neghiamo per questo che siano anche visioni scaturite dalla visione della conoscenza implicita (notitia), almeno quando sono vere. Infatti, quando queste cose si producono al di fuori per mezzo del corpo, una cosa è la parola, altra la visione, ma all’interno quando pensiamo sono tutte e due una cosa sola. Proprio come l’atto di vedere e di udire sono due cose distinte nei sensi del corpo, mentre nell’anima udire e vedere non sono cose diverse; e per questo, mentre la parola esteriore non si vede, ma invece si sente, al contrario le parole interiori, cioè i pensieri, sono state viste, non udite dal Signore, come ci dice il santo Vangelo. Il testo afferma: Dissero dentro di sé: Costui bestemmia, e poi aggiunge: E Gesù, vedendo i loro pensieri 107. Dunque egli vide ciò che essi dissero. Infatti vide con il suo pensiero i loro pensieri che ritenevano di essere i soli a vedere.

Il verbo che diciamo nel cuore quando pensiamo il vero non appartiene a nessuna lingua

10. 19. Chiunque perciò può comprendere che cosa sia il verbo, non soltanto prima che risuoni al di fuori, ma anche prima che il pensiero si occupi delle immagini dei suoni (questo verbo infatti non appartiene ad alcuna lingua, a nessuna di quelle che chiamano "lingue delle genti", tra le quali c’è anche la nostra lingua latina); chiunque, dico, può comprendere che cosa sia il verbo, può già vedere, per mezzo di questo specchio ed in questo enigma 108 una certa somiglianza di quel Verbo di cui è detto: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio 109. Infatti quando diciamo il vero, cioè ciò che sappiamo, è necessario che nasca dalla scienza che conserviamo nella nostra memoria un verbo che sia pienamente della stessa specie della scienza da cui è nato. Il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo è il verbo che pronunciamo nel cuore: verbo che non è né greco, né latino, che non appartiene ad alcun’altra lingua; ma quando c’è bisogno di portarlo a conoscenza di coloro ai quali parliamo, si fa ricorso a qualche segno che lo esprima. Tale segno è nella maggior parte dei casi un suono, talvolta è un gesto; il primo si dirige agli orecchi, il secondo agli occhi, affinché per mezzo dei segni corporei venga fatto conoscere anche ai sensi corporei il verbo che portiamo nello spirito. Perché anche il fare un gesto, che altro è se non parlare, in qualche modo, visibilmente? Nelle Sacre Scritture si trova una prova di questa affermazione; infatti nel Vangelo secondo Giovanni si legge: In verità, in verità vi dico, uno di voi mi tradirà. I discepoli allora si guardarono l’un l’altro, non sapendo a chi volesse alludere. Ma uno dei suoi discepoli, quello da Gesù prediletto, stava appoggiato presso il petto di lui. A questo fece cenno Simon Pietro e gli disse: chi è quello di cui parla? 110. Ecco, Pietro esprime con un gesto ciò che non osa dire con le parole. Ma questi segni corporei ed altri di questo genere sono diretti agli orecchi o agli occhi dei presenti con i quali parliamo. La Scrittura invece è stata inventata anche per permetterci di comunicare con gli assenti, ma le lettere scritte sono segni delle parole, mentre le parole nella nostra conversazione sono segni delle cose che pensiamo 111.

Somiglianza del Verbo divino al nostro verbo interiore, in cui però esiste sempre una dissomiglianza profonda col Verbo di Dio

11. 20. Perciò il verbo che risuona al di fuori è segno del verbo che risplende all’interno e che, più di ogni altro, merita tale nome di verbo. Perché ciò che pronunciamo materialmente con la bocca è voce del verbo e si chiama anch’esso verbo in quanto serve al verbo interiore per apparire all’esterno. Il nostro verbo infatti si fa in qualche modo voce del corpo servendosene per manifestarsi ai sensi umani, alla stessa maniera che il Verbo di Dio si è fatto carne 112, assumendola per manifestarsi sensibilmente agli uomini 113. E come il nostro verbo si fa voce, senza cambiarsi in cose, così il Verbo di Dio si è fatto carne, ma non si pensi assolutamente che si è mutato in carne. Infatti il nostro verbo si fa voce, e il Verbo di Dio si è fatto carne per assunzione rispettivamente della voce e della carne, non per consunzione di sé nella voce e nella carne. Ecco perché chi desidera trovare una qualche rassomiglianza del Verbo di Dio, somiglianza d’altra parte con molte dissomiglianze, non deve considerare il nostro verbo che risuona agli orecchi, né quando lo proferiamo con la voce, né quando lo pensiamo in silenzio. Perché, anche silenziosamente, si possono pensare i suoni delle parole di tutti gli idiomi, e si possono recitare interiormente dei poemi, senza che si muovano le labbra; non soltanto i ritmi delle sillabe, ma anche le melodie dei canti, benché siano cose corporee ed appartengano a quel senso corporeo che si chiama udito, per mezzo di immagini corporee che li rappresentano sono presenti al pensiero di coloro che in silenzio fanno scorrere tutti questi ricordi. Ma bisogna superare tutto ciò per giungere a quel verbo umano che è una specie di somiglianza in cui possiamo vedere un po’, come in enigma 114, il Verbo di Dio, non quel verbo che è stato indirizzato a questo o a quel Profeta di cui si è detto: Il Verbo di Dio si diffondeva e si moltiplicava 115, e del quale è detto ancora: Dunque la fede dipende dall’ascolto, e l’ascolto dalla parola di Dio 116; o infine: Perché accogliendo da noi il verbo che Dio vi ha fatto udire, voi lo riceveste non come verbo di uomini, ma, com’è in realtà, verbo di Dio 117. E nella Scrittura vi sono innumerevoli testimonianze che parlano di quel verbo di Dio che, per mezzo dei suoni appartenenti a molte e varie lingue, si diffonde nei cuori e sulle labbra degli uomini. Si parla in questo caso di verbo di Dio, perché ci presenta un insegnamento divino e non umano. Ma il Verbo di Dio che noi cerchiamo di vedere ora in qualche modo attraverso questa somiglianza è quello di cui è detto: Il Verbo era Dio 118; del quale è detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 119; di cui è detto: E il Verbo si è fatto carne 120; di cui è detto: La fonte della sapienza è il Verbo di Dio nei luoghi eccelsi 121. Dobbiamo giungere dunque a quel verbo dell’uomo 122, a quel verbo di un essere dotato di anima razionale 123, a quel verbo dell’immagine di Dio - immagine non nata da Dio, ma creata da Dio 124 -, verbo che non è nemmeno proferito in un suono né pensato alla maniera di un suono - ché allora dovrebbe appartenere a qualche lingua -, ma che è anteriore a tutti i segni in cui viene espresso ed è generato dalla scienza immanente all’anima, quando questa stessa scienza si esprime in una parola interiore tale quale è. Infatti la visione del pensiero è in tutto simile alla visione della scienza. Perché questa scienza, quando viene espressa attraverso un suono o qualche segno corporeo, non viene espressa com’è, ma come può essere vista o udita dal corpo. Ma quando ciò che è nel verbo riproduce esattamente ciò che è nella conoscenza implicita (notitia), è allora che c’è un verbo vero e c’è la verità quale l’uomo la desidera; che cioè quanto c’è nella conoscenza ci sia anche nel verbo, che ciò che non è nella conoscenza non sia nemmeno nel verbo. Si riconosce qui quel Sì, sì; no, no 125. Così la somiglianza dell’immagine creata si approssima, per quanto è possibile, alla somiglianza dell’immagine generata, quella per la quale si afferma che Dio Figlio è simile sostanzialmente in tutto al Padre. Bisogna rilevare in questo enigma anche un’altra somiglianza con il Verbo di Dio. Come è detto di quel Verbo: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 126, testo in cui è affermato che Dio ha fatto tutto per mezzo del Verbo suo unigenito, così l’uomo non fa nulla che prima non dica nel suo cuore; per questo è scritto: Il verbo è l’inizio di ogni opera 127. Ma anche qui, quando il verbo è vero, allora è l’inizio di un’opera buona. Ora il verbo è vero, quando è generato dalla scienza del bene operare, cosicché anche là sia rispettato il: Sì, sì; no, no 128. Se la scienza che regola la vita pronuncia , questo sia anche nel verbo che regola l’azione; e vi sia no, se è no. Altrimenti questo verbo sarà menzogna, non verità, e ciò che ne procederà sarà peccato, non azione retta. Vi è ancora tra il Verbo di Dio e il nostro questa somiglianza. Il nostro verbo può esistere, senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione, se non la preceda il verbo, come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura 129, ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose 130. Di conseguenza non Dio Padre, non lo Spirito Santo, non la Trinità stessa, ma il Figlio solo, che è il Verbo di Dio, si è fatto carne 131 (sebbene l’incarnazione sia opera della Trinità), affinché, seguendo ed imitando il nostro verbo il suo esempio, vivessimo nella giustizia, cioè non avessimo sia nella contemplazione sia nell’azione del nostro verbo alcuna menzogna. Senza dubbio verrà un giorno in cui questa immagine attingerà la sua perfezione. È per condurci a questa perfezione che il buon Maestro ci istruisce con la fede cristiana e gli insegnamenti della religione affinché a faccia svelata 132, liberati dal velo della Legge che è come l’adombramento delle cose future 133, contempliamo la gloria di Dio, cioè vedendolo attraverso uno specchio, siamo trasformati nella medesima immagine di gloria in gloria, come per opera dello Spirito di Dio 134, secondo la spiegazione che di queste parole abbiamo già data 135.

11. 21. Quando dunque, con questa trasformazione, questa immagine sarà rinnovata fino a raggiungere la sua perfezione 136, saremo simili a Dio, perché lo vedremo non per mezzo di uno specchio, ma come egli è 137, o come dice l’apostolo Paolo: a faccia a faccia 138. Ma chi può spiegare quanta dissomiglianza c’è ora in questo specchio, in questo enigma 139, in questa imperfetta somiglianza? Mi sforzerò tuttavia con alcuni tratti di rendere avvertibili queste differenze nella misura in cui mi sarà possibile.

Confutazione degli Accademici

12. In primo luogo questa stessa scienza, che informa secondo verità il nostro pensiero, quando diciamo ciò che sappiamo, di che genere è ed in qual misura un uomo, per quanto competente e dotto egli sia, può possederla? Prescindiamo da ciò che nell’anima è apporto dei sensi; in questo campo la realtà è così spesso diversa dall’apparenza che l’insensato, avendo l’anima troppo ingombra di queste false apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia dell’Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta in una follia più miserevole 140. Prescindendo dunque da ciò che si trova nell’anima come apporto dei sensi, c’è, fra quelle che ci restano, una conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere? In questo caso non abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa apparenza 141, perché è certo che anche colui che si inganna, vive. Qui non accade come nel caso della vista degli oggetti esterni, in cui l’occhio si può ingannare, come si inganna quando un remo appare spezzato nell’acqua 142, quando una torre sembra muoversi a coloro che navigano 143, e mille altri casi 144 in cui la realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l’occhio della carne. È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere, cosicché un filosofo dell’Accademia non può neppure obiettare: "Forse tu dormi senza saperlo, e quello che tu vedi lo vedi in sogno". Chi non sa infatti che le cose viste in sogno sono assai simili alle cose viste in stato di veglia 145? Ma colui che, con scienza certa, sa di vivere, non dice: "So di essere sveglio", ma: "So di vivere", dunque che dorma o che sia sveglio, vive. Si tratta di un sapere che il sonno non può rendere illusorio, perché sia dormire che vedere in sogno sono proprietà di uno che vive. Né contro questa scienza l’Accademico può obiettare: "Forse sei pazzo senza saperlo", perché, è vero che anche le visioni dei folli sono estremamente simili alle visioni dei sani di mente, ma colui che è folle, vive 146. E contro gli Accademici non afferma: "So di non essere pazzo", ma: "So di vivere". Non si può dunque sbagliare, né può mentire colui che dice che sa di vivere. Si possono dunque opporre innumerevoli esempi di errori dei sensi a colui che afferma: "So di vivere", non ne temerà alcuno, perché colui stesso che si inganna, vive. Ma se la scienza umana si limita a queste conoscenze, sarebbero ben poche, a meno che non si moltiplichino in ogni direzione, in modo tale che non soltanto divengano più numerose, ma si estendano all’infinito. Infatti colui che afferma: "So di vivere", afferma di sapere una cosa 147; ma se dice: "So che so di vivere" sa già due cose; il fatto poi che egli sa queste due cose, significa che ne conosce una terza; procedendo così ne può aggiungere una quarta, una quinta, e innumerevoli, se ne è capace. Ma, poiché non può con un’addizione sempre rinnovata di singole unità, né comprendere un numero innumerevole né esprimerlo con una ripetizione indefinita, comprende almeno e dice con assoluta certezza che questa affermazione è vera e che può ripeterla un numero così grande di volte che veramente il numero infinito di essa non si può comprendere, né esprimere. Altrettanto si può affermare quando si tratta delle certezze proprie della volontà. Non sarebbe prenderlo in giro rispondere: "Ti inganni" a qualcuno che dicesse: "Voglio essere felice"? E se egli dice: "So che voglio questo e so di saper questo", può aggiungere una terza certezza alle due prime, cioè che egli sa queste due verità e poi una quarta: che sa di sapere queste due verità e così continuare all’infinito. Così se qualcuno dice: "Non voglio sbagliare", non sarà forse vero che, sia che sbagli, sia che non sbagli, in ogni caso è vero che non vuole sbagliare? Chi avrà l’impudenza di dirgli: "Forse ti inganni"? perché è fuori dubbio che, sebbene si inganni su tutte le altre cose, non si inganna su questa: che non vuole ingannarsi. E se dice che sa questa verità, aumenta il numero delle sue conoscenze, quanto vuole, sino ad ottenere un numero infinito. Infatti colui che dice: "Non voglio ingannarmi e so che non lo voglio e so di sapere questo" può già, sebbene sia difficile esprimerlo, mostrare che vi è là la fonte di un numero infinito. Esistono altri esempi che hanno grande forza contro gli Accademici, che pretendono che l’uomo non possa sapere nulla. Ma bisogna usare moderazione, tanto più che questo non costituisce l’oggetto dell’indagine del presente lavoro. Abbiamo scritto tre libri su questo argomento subito dopo la nostra conversazione. Chi potrà e vorrà leggerli e, avendoli letti, li avrà compresi, non si lascerà scuotere certamente da alcuno dei numerosi argomenti che essi hanno escogitato contro la possibilità di attingere la verità. Ci sono infatti due specie di conoscenze: quelle che l’anima percepisce per mezzo dei sensi del corpo e quelle che essa percepisce da sé: quei filosofi hanno detto molte chiacchiere contro il valore della conoscenza dei sensi, ma alcune conoscenze di cose vere che l’anima percepisce da sé con la più grande certezza (come è quella per cui afferma: "So di vivere" e di cui ho parlato) non hanno potuto in alcun modo revocarle in dubbio. Ma sia lungi da noi il dubitare della verità delle cose che si attingono per mezzo dei sensi del corpo; è per mezzo di essi che abbiamo conosciuto il cielo e la terra e quelle cose che essi contengono e che ci sono note nella misura in cui il nostro ed il loro Creatore ha voluto farcele conoscere. Sia pure lungi da noi il negare la scienza che abbiamo appreso per testimonianza degli altri, altrimenti noi non sappiamo che c’è un Oceano, non sappiamo che ci sono dei territori e delle città che la loro rinomanza ha reso molto celebri, non sappiamo che sono esistiti degli uomini e le loro opere che la lettura degli storici ci fa conoscere; non sappiamo le notizie che ogni giorno ci pervengono da tutte le parti e sono confermate da prove concordanti e costanti; infine non sappiamo dove e da chi siamo nati, perché noi accettiamo tutte queste conoscenze basandoci sulle testimonianze degli altri. Se è dunque il colmo dell’assurdità affermare questo, dobbiamo confessare che non solo i nostri sensi corporei, ma anche quelli degli altri hanno arricchito il nostro sapere di numerose conoscenze.

Differenze tra la nostra scienza e quella divina, tra il nostro verbo e il Verbo divino

12. 22. Dunque tutte queste conoscenze che l’anima umana acquisisce da sé, e per mezzo dei sensi del corpo e per testimonianza degli altri, le tiene riposte nel tesoro della sua memoria; sono esse che generano un verbo vero, quando diciamo ciò che sappiamo, verbo che precede ogni parola che risuona e ogni pensiero della parola che risuona. Allora infatti il verbo è perfettamente simile alla cosa conosciuta da cui nasce e di cui è immagine, perché dalla visione della scienza procede la visione del pensiero, che è un verbo non appartenente a nessuna lingua, verbo vero da una cosa vera, che non possiede niente di proprio ma riceve tutto da quella scienza da cui ha origine. Poco importa il momento in cui colui che dice ciò che sa lo ha appreso; a volte, appena lo apprende, lo dice; l’importante è che il verbo sia vero, cioè che abbia tratto la sua origine da cose conosciute.

13. Ma sarà forse che Dio Padre, dal quale è nato il Verbo, Dio da Dio; forse che dunque Dio Padre, in quella sapienza che è lui stesso per se stesso, ha acquisito alcune conoscenze per mezzo dei sensi del suo corpo, altre da sé? Chi potrebbe dir questo, se pensa Dio non come un animale ragionevole, ma come superiore all’anima razionale 148, per quanto almeno Dio può essere pensato dagli uomini che lo pongono al di sopra di tutti gli animali e di tutte le anime, benché lo vedano solo attraverso uno specchio e in enigma 149, per congettura, non ancora a faccia a faccia, come egli è 150? Forse che Dio Padre queste stesse verità che conosce non per mezzo del corpo, che egli non ha, ma per mezzo di sé, le ha apprese da altri o ha avuto bisogno di messaggeri o di testimoni per conoscerle? No certamente, per sapere tutto ciò che sa, quella perfezione basta a se stessa. Dio ha, è vero, i suoi messaggeri: gli Angeli, ma non tuttavia per annunciargli ciò che non sa, perché non c’è nulla che egli non sappia, ma è per il loro bene che essi prendono consiglio dalla verità di lui nel loro agire; quando si dice che annunciano a Dio certe cose, non è che egli le apprenda da loro, ma sono loro che le apprendono da lui per mezzo del suo Verbo, senza suono corporeo. Annunciano infatti ciò che Dio vuole, inviati da lui a coloro a cui egli vuole, tutto udendo da lui per mezzo del suo Verbo, cioè trovando nella verità di lui ciò che debbono fare; che cosa, a chi, quando debbono annunciare. Infatti anche noi lo preghiamo e tuttavia non gli insegniamo quali siano le nostre necessità. Il Padre vostro, ci dice il suo Verbo, sa che cosa vi sia necessario, prima che voi glielo abbiate chiesto 151. E queste cose non le sa per averle apprese in questo o in quel momento, ma tutti gli avvenimenti futuri e, fra questi avvenimenti, l’oggetto e il momento delle nostre preghiere, l’opportunità di esaudire o no questa o quell’altra preghiera di questo o di quest’altro uomo li ha previsti in anticipo, dall’eternità. Tutte le sue creature, spirituali e corporee, non le conosce perché esistono, ma esistono perché le conosce. Infatti non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato. Dunque è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute. E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle: questi esseri nulla infatti hanno aggiunto alla sua sapienza, ma sono venuti all’esistenza come e quando era opportuno, restando immutata la sua sapienza. Così è scritto nell’Ecclesiastico: Prima che fossero create, tutte le cose erano da lui conosciute; lo sono ancora allo stesso modo dopo il loro compimento 152. Alla stessa maniera è detto, non diversamente, sia prima che fossero create, sia dopo il loro compimento, Dio conosce le cose. Assai differente è perciò dalla scienza divina la nostra scienza. In Dio la scienza è identica alla sapienza e la sapienza è identica all’essenza o sostanza. Perché nella mirabile semplicità di quella natura non sono cose diverse essere sapiente ed essere; ma è la stessa cosa essere sapiente ed essere, come lo abbiamo spesso ripetuto nei libri precedenti 153. Invece la nostra scienza in molti campi può essere perduta, ed essere recuperata perché in noi non è la stessa cosa essere, sapere o essere sapiente (sapere), perché noi possiamo essere anche se non sappiamo né gustiamo (sapiamus) ciò che abbiamo appreso da altra fonte. Per questo come la nostra scienza è differente dalla scienza di Dio, così il nostro verbo che nasce dalla nostra scienza è differente da quel Verbo divino che è nato dall’essenza del Padre, che è come se dicessi: "dalla scienza del Padre, dalla sapienza del Padre"; o, in maniera più precisa, "dal Padre che è scienza, dal Padre che è sapienza".

Il Verbo di Dio è in tutto uguale al Padre

14. 23. Il Verbo di Dio Padre è dunque il suo Figlio unigenito, in tutto simile e uguale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, sapienza da sapienza, essenza da essenza; egli è assolutamente ciò che è il Padre, ma non è il Padre, perché questo è Figlio, quello Padre. Per questo conosce tutto ciò che conosce il Padre, ma per lui il conoscere viene dal Padre, come l’essere. Infatti in Dio conoscere ed essere sono una sola cosa. E dunque come il conoscere non viene al Padre dal Figlio, così nemmeno gli proviene l’essere. Pertanto è come "dicendo" se stesso che il Padre ha generato il Verbo, in tutto uguale a sé. Egli infatti non "avrebbe detto" interamente e perfettamente se stesso, se ci fosse nel suo Verbo qualcosa di meno o di più di ciò che c’è in lui. È qui che si verifica in modo supremo il sì, sì; no, no 154. E dunque questo Verbo è veramente la verità, perché tutto ciò che c’è in quella scienza dalla quale è stato generato, c’è anche in lui e ciò che non c’è in essa non c’è nemmeno in lui. Ed in questo Verbo non vi può mai essere nulla di falso, perché è immutabilmente ciò che è colui che lo genera. Infatti: Il Figlio non può far nulla da sé, se non ciò che ha veduto fare dal Padre 155. È segno di potenza, il non poter far questo; né è infermità ma fermezza questa, perché la verità non può essere falsa. Dunque il Padre conosce tutto in se stesso, tutto nel Figlio; in se stesso come se stesso, nel suo Figlio come il suo Verbo, che procede da tutto ciò che è lui. Anche il Figlio conosce tutto alla stessa maniera, in se stesso, come ciò che è nato da quanto il Padre conosce in se stesso; nel Padre invece come ciò da cui è nato quello che il Figlio stesso conosce in sé. Il Padre e il Figlio hanno dunque una conoscenza reciproca, ma il primo generando, il secondo nascendo. E tutto ciò che è nella loro scienza, sapienza ed essenza, ciascuno di loro lo vede simultaneamente, non separatamente o isolatamente, come se con il suo sguardo passasse alternativamente da un oggetto all’altro ritornando dal secondo al primo, e poi di nuovo lasciasse questo o quell’altro per fissarsi su questo o su quello, come se non potesse vedere una cosa che cessando di vederne un’altra; ma, come ho detto, vede insieme tutte le cose e non ce n’è alcuna che non sia sempre vista da ciascuno di essi.

Differenze tra il nostro verbo e il Verbo divino. Il nostro verbo non è sempre vero né permanente

14. 24. Per quanto concerne il nostro verbo, quel verbo che non comporta suono né pensiero di un suono, ma è espressione di quella realtà che, vedendola, diciamo interiormente e perciò non appartiene ad alcuna lingua e di conseguenza in questo enigma ha una certa somiglianza con quel Verbo di Dio, Dio egli pure, perché anch’esso nasce dalla nostra scienza, come quello divino è nato dalla scienza del Padre. Per quanto concerne questo nostro verbo, dunque, se vi abbiamo riscontrato una qualche somiglianza con quello divino, non esitiamo affatto a considerare anche fino a che punto ne è dissimile, nella misura in cui ci sarà possibile dirlo.

15. Il nostro verbo nasce forse dalla nostra scienza sola? Non diciamo anche molte cose che non sappiamo? E quando diciamo tali cose non dubitiamo a loro riguardo, ma le diciamo ritenendo che siano vere. Supponiamo che per caso esse siano vere, esse sono vere nelle cose stesse di cui parliamo, ma non lo sono nel nostro verbo, poiché è vero solo quel verbo che è generato da ciò che si sa. Il nostro verbo è perciò falso, in questo caso, non perché vi sia menzogna, ma perché vi è errore. Quando invece dubitiamo, non vi è ancora un verbo concernente la realtà di cui dubitiamo, ma c’è un verbo concernente il dubbio stesso. Infatti, sebbene non sappiamo se sia vero ciò di cui dubitiamo, tuttavia noi sappiamo di dubitare e dunque quando diciamo di dubitare, c’è un verbo vero, perché diciamo ciò che conosciamo. Ora, che pensare del fatto che possiamo anche mentire? Quando mentiamo, è volontariamente e scientemente che abbiamo un verbo falso: in questo caso c’è un verbo vero e concerne il fatto che noi mentiamo perché sappiamo di mentire. E quando confessiamo di aver mentito, diciamo il vero; diciamo infatti ciò che sappiamo 156, perché sappiamo di aver mentito. Ora il Verbo che è Dio, ed è più potente di noi, non può mentire. Perché egli non può fare nulla, se non ciò che ha visto fare dal Padre 157. Egli non parla da se stesso, ma tutto ciò che dice gli viene dal Padre, perché il Padre dice unicamente il suo Verbo 158, ed è un grande potere di questo Verbo il non poter mentire; perché in lui non vi può essere sì e no, ma soltanto sì, sì; no, no 159. Certo non si dovrebbe nemmeno dire verbo, quello che non è vero. Che debba essere così ne convengo volentieri. Ma quando il nostro verbo è vero e merita dunque il nome di verbo, si può dire forse, come si può dire che è visione da visione, scienza da scienza, che è essenza da essenza, come lo si dice per eccellenza e come lo si deve dire per eccellenza del Verbo di Dio 160? No, senza dubbio. Perché questo? Perché per noi essere non è la stessa cosa che conoscere. Infatti conosciamo molte cose che vivono, per dir così, per opera della memoria, muoiono per così dire, a causa dell’oblio; anche quando esse non esistono più nella nostra conoscenza, noi tuttavia continuiamo ad esistere; e quando la nostra scienza abbia abbandonato la nostra anima fino a scomparire completamente da noi, tuttavia noi continuiamo a vivere.

15. 25. Anche le cose che si conoscono in tal modo, che non è possibile dimenticarle, perché ci sono sempre presenti e sono inseparabili dalla natura dell’anima stessa, per esempio il fatto di sapere che viviamo (è questa una conoscenza che resta fino a quando resta l’anima, e, poiché l’anima resta sempre, anch’essa sempre resta); questa conoscenza dunque ed altre simili, se se ne trovano, nelle quali principalmente si ha da riconoscere l’immagine di Dio, sebbene siano sempre conosciute, tuttavia, poiché non sono anche sempre pensate, è difficile vedere come si dica a loro riguardo un verbo eterno, dato che il nostro verbo è detto dal nostro pensiero. Infatti, per l’anima, vivere è una cosa che dura sempre, ed è una cosa che dura sempre il sapere che vive; ma il pensare la sua vita, o il pensare alla conoscenza della sua vita non sono cose che durano sempre, perché dal momento in cui comincerà a pensare a questa o a quest’altra cosa, smetterà di pensare che vive, sebbene non cessi di saperlo. Da ciò consegue che, se l’anima può avere in sé una scienza che dura sempre, e non può durare sempre il pensiero di questa scienza, e d’altra parte il nostro verbo interiore vero non può essere detto che dal nostro pensiero, si deve concludere che Dio solo ha un Verbo che dura sempre e gli è coeterno. A meno che non si debba dire che la possibilità stessa di pensare (perché ciò che si sa, anche quando non viene pensato, è tuttavia suscettibile di venir esplicato in un pensiero che lo riproduce fedelmente) è un verbo che dura sempre come sempre dura la scienza. Ma come può essere verbo, quello che non ha ancora preso forma nella visione del pensiero? Come sarà simile alla scienza dalla quale nasce, se non ne riproduce la forma e se merita già questo nome di verbo solo perché lo si può riprodurre? È come se si dicesse che bisogna già chiamarlo verbo, perché può essere verbo. Ma che cos’è questa cosa che può essere verbo e per questo già merita il nome di verbo? Che è, dico, questo qualcosa di formabile e di non ancora formato, se non un qualcosa del nostro spirito che con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là, quando pensiamo ora questo ora quello a seconda che lo scopriamo o ci si presenta spontaneamente? C’è un verbo vero, quando ciò che, come ho già detto, con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone la piena rassomiglianza; cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza che si pensi a una parola che senza dubbio appartiene a qualche lingua. Di conseguenza, anche se concludiamo - per non dare l’impressione di fare una questione di parola - che si debba già chiamare verbo quel qualcosa del nostro spirito che può ricevere forma dalla nostra scienza, e ciò, anche prima che abbia preso forma, perché è già, per dir così, formabile, chi non vedrà quanto grande è qui la dissomiglianza con quel Verbo di Dio, che è nella forma di Dio 161, in tal maniera che non è stato prima formabile e poi formato, né può mai essere informe, ma è forma pura e veramente uguale a Colui dal quale ha origine ed al quale essa è mirabilmente coeterna?.

16. Perciò così quello si dice Verbo di Dio, senza che si possa dire pensiero di Dio, affinché non si creda alla presenza in Dio di qualcosa che cambi, e che ora si dia una forma per essere verbo, ora la riceva, la possa perdere e possa in qualche modo passare da una forma all’altra. Aveva infatti buona conoscenza delle parole ed intuito della forza del pensiero quell’egregio scrittore che dice nel suo poema:

rivolge nel suo spirito le varie vicende della guerra 162,

ossia "pensa". Il Figlio di Dio non si chiama dunque pensiero di Dio, ma Verbo di Dio. Poiché il nostro pensiero costituisce il nostro verbo vero, quando termina a ciò che noi conosciamo e da esso prende forma. Perciò il Verbo di Dio deve intendersi senza che vi sia pensiero da parte di Dio, così da essere una forma semplice in se stessa, né informe, né formabile. È vero che anche nelle Scritture sante si parla di pensieri di Dio 163, ma nello stesso senso assolutamente improprio in cui in esse si parla pure di dimenticanza di Dio.

Nemmeno nella visione la differenza tra il nostro verbo e quello di Dio cesserà

16. 26. Se dunque la disuguaglianza da Dio e dal Verbo di Dio è tanta adesso in questo enigma, nel quale tuttavia abbiamo riscontrato qualche somiglianza, dobbiamo dichiarare che anche quando saremo somiglianti a lui e lo vedremo come è 164 (colui che lo ha scritto ha senza dubbio avvertito la disuguaglianza attuale) nemmeno allora saremo uguali a lui per natura. Infatti la natura creata è sempre inferiore alla natura creatrice 165. È vero che allora il nostro verbo non sarà falso, perché non mentiremo né ci inganneremo, forse anche i nostri pensieri non saranno più caratterizzati da quel movimento che li fa andare e ritornare da una cosa all’altra 166, ma attingeremo tutta la nostra scienza con un solo sguardo, contemporaneamente. Tuttavia, anche allorquando sarà, e se pure sarà così, sarà formata la creatura prima formabile, così da possedere la pienezza della forma che doveva raggiungere; essa tuttavia non si dovrà mettere alla pari di quella semplicità divina, dove esiste la forma pura senza nulla di formabile che viene formato o riformato; dove esiste una sostanza per se stessa eterna ed immutabile, né informe né formata.

La carità comune alle tre Persone

17. 27. Abbiamo parlato sufficientemente del Padre e del Figlio, nella misura in cui abbiamo potuto vederli attraverso questo specchio e in questo enigma 167. Ora è tempo di trattare dello Spirito Santo, nella misura in cui Dio ci concederà di vederlo. Questo Spirito Santo, secondo la Sacra Scrittura, non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma di ambedue 168, e perciò fa pensare alla carità comune con la quale si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio. Ma la parola di Dio per esercitarci non ci fornisce delle verità esplicite, ma nascoste, che noi dobbiamo tirare fuori dal loro nascondiglio con un più grande studio. La Sacra Scrittura infatti non dice: "lo Spirito Santo è carità"; se lo avesse detto, la questione ne sarebbe stata molto chiarita. Ma essa dice: Dio è carità 169, cosicché non è chiaro - e dunque bisogna indagare - se è Dio Padre che è carità, o Dio Figlio, o Dio Spirito Santo, o Dio Trinità. Non diremo infatti che, se Dio è detto carità, non è perché la carità stessa sia una sostanza che meriti il nome di Dio, ma perché è un dono di Dio, nel senso, per esempio, che il Salmista dice a Dio: Perché tu sei la mia pazienza 170. Queste parole infatti non significano assolutamente che la nostra pazienza è sostanza Dio, ma che la pazienza ci viene da Dio, come lo mostra questo altro testo: Perché la mia pazienza mi viene da lui 171. Che non si tratti della sostanza divina, lo mostra chiaramente il modo di esprimersi delle Scritture. L’espressione: Tu sei la mia pazienza ha la stessa forma dell’espressione: Signore, mia speranza 172, e: Mio Dio, mia misericordia 173, e così molti altri passi simili. Ma non è detto: "Signore, mia carità", o: "Tu sei la mia carità", o: "Dio, mia carità", ma è detto: Dio è carità 174, come è detto: Dio è spirito 175. Chi non comprende questa distinzione, domandi a Dio l’intelligenza, non a noi la spiegazione, perché non possiamo dire nulla di più chiaro.

17. 28. Dio è dunque carità 176. Ma se sia il Padre ad essere carità, se sia il Figlio, se sia lo Spirito Santo, se sia la Trinità stessa - perché la Trinità, anch’essa, non è tre dèi, ma un Dio solo -, ecco ciò che costituisce il problema. Ma già in precedenza in questo libro 177 ho chiarito che la Trinità che è Dio non va concepita alla luce dei tre elementi che abbiamo mostrato nella trinità del nostro spirito, come se nella Trinità il Padre fosse la memoria di tutte e tre le Persone, il Figlio l’intelligenza di tutte e tre, e lo Spirito Santo la carità di tutte e tre, quasi che il Padre non abbia per suo conto né intelligenza né amore, ma il Figlio gli sia intelligenza e lo Spirito Santo gli sia amore, ed egli sia, e per sé e per gli altri, memoria soltanto; quasi che il Figlio non sia per sé né memoria né amore, ma abbia per memoria il Padre e per amore lo Spirito Santo, ed egli sia per sé e per gli altri intelligenza soltanto; ugualmente quasi che lo Spirito Santo non abbia in se stesso né memoria né intelligenza, ma la memoria nel Padre, l’intelligenza nel Figlio, ed egli sia, per sé e per loro, amore soltanto. Al contrario tutte e tre le cose sono possesso naturale di tutte e tre le Persone e di ciascuna Persona. Né queste perfezioni sono diverse nelle Persone divine, come in noi si differenziano tra loro la memoria, l’intelligenza, la dilezione o carità. Sono invece una cosa sola che le vale tutte, come la stessa sapienza. E ciascuna Persona ne è talmente in possesso naturale da essere ciò che possiede, come sostanza immutabile e semplice. Se dunque si sono comprese queste cose e se, per quanto misteri così grandi ci permettono di vedere o di congetturare, si sono manifestate come vere, non so perché non si possa chiamare carità sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme un’unica carità; così come si chiama sapienza sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme non tre, ma una sola sapienza. Allo stesso modo infatti il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, e tutti insieme un solo Dio.

Tuttavia è lo Spirito Santo che riceve in proprio il nome di Carità, come col nome di Sapienza chiamiamo il Verbo

17. 29. E tuttavia non è senza motivo che in questa Trinità si chiama Verbo di Dio solo il Figlio, Dono di Dio lo Spirito Santo solo 178, e Dio Padre quello solo da cui è generato il Verbo e da cui procede primariamente lo Spirito Santo 179. Ho aggiunto "primariamente" perché si legge che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio 180. Ma anche questo glielo ha dato il Padre, non dopo che già esisteva senza esserne in possesso, perché quanto ha dato al Verbo unigenito glielo ha dato generandolo. Egli lo ha dunque generato, in modo che il loro Dono comune procedesse anche dal Figlio e che lo Spirito Santo fosse lo spirito di ambedue. Non basta dunque rilevare di passaggio, ma occorre considerare con attenzione questa distinzione nella inseparabile Trinità. È in virtù di essa infatti che il Verbo di Dio è chiamato anche propriamente Sapienza di Dio 181, sebbene siano sapienza anche il Padre e lo Spirito Santo. Se dunque si deve chiamare propriamente Carità una delle tre Persone, a quale questo nome si adatterà meglio che allo Spirito Santo? Però sempre a condizione che in quella semplice e suprema natura non siano due cose distinte la sostanza e la carità, ma la sostanza stessa si identifichi con la carità e la carità stessa con la sostanza sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, e tuttavia sia lo Spirito ad essere chiamato propriamente Carità.

17. 30. Per fare un esempio, con il nome di Legge si designano talvolta tutti i libri dell’Antico Testamento. Infatti è alla testimonianza del profeta Isaia che l’Apostolo si richiama quando dice: Con altre lingue e con labbra d’altri io parlerò a questo popolo 182, e tuttavia introduce questa citazione con le parole: Sta scritto nella Legge 183. E lo stesso Signore ha detto: Sta scritto nella loro Legge: mi odieranno senza ragione 184, e questo testo si trova nei Salmi 185. Talvolta invece è chiamata Legge in senso proprio quella che è stata data a Mosè 186, nel senso in cui è detto: La Legge ed i Profeti fino a Giovanni 187, o ancora: Da questi due precetti dipendono tutta la Legge ed i Profeti 188. In questi passi si tratta della Legge presa in senso proprio, della Legge data sul monte Sinai. D’altra parte con il nome di Profeti sono designati anche i Salmi; e tuttavia in un altro passo lo stesso Signore dice: Bisognava che si adempisse tutto ciò che sta scritto nella Legge, nei Profeti e nei Salmi a mio riguardo 189. Qui, quando parla di Profeti, il Signore esclude i Salmi. Il nome di Legge, presa in senso generico, include i Profeti e i Salmi, ma si usa anche in senso proprio e designa allora la Legge che è stata data per mezzo di Mosè 190. Così il nome di "Profeti", nel senso largo del termine, include i Salmi, in senso proprio li esclude. Si potrebbe provare con molti altri esempi che molte parole si usano talvolta in senso generico, talvolta si applicano in senso proprio a realtà determinate, ma la cosa è troppo chiara perché ci sia bisogno di un lungo discorso. Se ho dato questa spiegazione è perché non vi sia qualcuno che pensi che ho torto di chiamare Carità lo Spirito Santo, per il fatto che anche Dio Padre e Dio Figlio si possono chiamare carità.

Per opera sua è diffusa nei nostri cuori la carità di Dio

17. 31. Come dunque il Verbo unico di Dio riceve in proprio il nome di Sapienza 191, benché, quando il termine è preso in senso generico, anche lo Spirito Santo e il Padre siano sapienza, così lo Spirito Santo riceve in proprio il nome di Carità, benché quando il termine è preso in senso generico, anche il Padre e il Figlio siano carità. Ma il Verbo di Dio, cioè il Figlio unigenito di Dio, è chiamato esplicitamente sapienza di Dio per bocca dell’Apostolo, quando dice: Cristo forza di Dio e sapienza di Dio 192, mentre per trovare un passo in cui lo Spirito Santo sia chiamato Carità, bisogna scrutare attentamente gli scritti di Giovanni. Questi, dopo queste parole: Carissimi, amiamoci a vicenda, perché l’amore procede da Dio, aggiunge subito: e ognuno che ama è nato da Dio; colui che non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore 193. È chiaro che qui chiama Dio l’amore che prima afferma procedere da Dio. L’amore è dunque Dio da Dio. Ma poiché il Figlio è nato da Dio Padre e lo Spirito Santo procede da Dio Padre 194 è legittimo chiedersi a quale fra i due bisogna, di preferenza, applicare queste parole: "Dio è amore". Solo il Padre infatti è Dio senza essere Dio da Dio, di conseguenza l’amore che in tanto è Dio in quanto procede da Dio è o il Figlio o lo Spirito Santo. Ma nel seguito del testo Giovanni, dopo aver parlato dell’amore di Dio, non dell’amore con cui noi amiamo Dio, ma di quello con cui egli stesso ci ha amato ed ha inviato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati 195 ed averne approfittato per esortarci ad amarci l’un l’altro affinché Dio abiti in noi, poiché aveva definito Dio come amore, volendo spiegare più chiaramente questo punto aggiunge subito: Da questo conosciamo che noi siamo in lui ed egli è in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 196. È dunque lo Spirito Santo, del quale egli ci ha dato, che fa sì che noi restiamo in Dio e lui in noi: ora questo è opera dell’amore. È dunque lo Spirito Santo il Dio amore. Infine poco dopo, avendo ripetuto che Dio è amore, aggiunge subito: E colui che è nell’amore è in Dio, e Dio in lui 197, presenza mutua di cui prima aveva detto: Sappiamo che noi siamo in lui e lui in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 198. È dunque lo Spirito che è designato in questa affermazione: Dio è amore 199. Ecco perché lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, una volta dato all’uomo, l’accende d’amore per Dio e per il suo prossimo, essendo lui stesso amore 200. L’uomo infatti non riceve se non da Dio l’amore per amare Dio. Per questo poco dopo afferma: Noi dobbiamo amarlo, perché egli per primo ci ha amati 201. Anche l’apostolo Paolo dice: La carità di Dio è stata diffusa nel nostri cuori, mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato 202.

Lo Spirito Santo è dono di Dio

18. 32. Non c’è dunque dono di Dio più eccellente della carità 203; è il solo che distingue i figli del regno eterno dai figli della perdizione eterna 204. Ci sono dati altri doni mediante lo Spirito Santo 205, ma senza la carità non servono a nulla 206. Perciò chiunque non abbia ricevuto lo Spirito Santo in tal misura da renderlo innamorato di Dio e del prossimo, non passa dalla parte sinistra alla destra 207. E lo Spirito non è chiamato propriamente dono che a motivo dell’amore; chi non lo possiederà, anche se parlerà le lingue degli uomini e degli Angeli non è che un bronzo sonoro, un cembalo squillante; avesse pure la profezia, conoscesse i misteri tutti e tutta la scienza e possedesse la pienezza della fede al punto di trasportare le montagne, non è nulla; distribuisse pure tutti i suoi beni e desse il suo corpo a bruciare, a nulla gli giova. Che grande bene è dunque quello senza il quale dei beni così grandi non possono condurre nessuno alla vita eterna? Ma, se colui che non parla le lingue, non conosce tutti i misteri, e tutta la scienza, non distribuisce tutti i suoi beni ai poveri - sia che non ne abbia da distribuire, sia che il bisogno gli impedisca di farlo -, non dà il suo corpo alle fiamme, perché gli manca l’occasione di soffrire tale martirio, possiede la dilezione o carità (infatti i due nomi designano una sola cosa), essa lo conduce al regno, dato che solo la carità può fare in modo che la fede stessa sia utile. Senza dubbio, senza la carità la fede può esistere, ma non essere utile. Per questo anche l’apostolo Paolo dice: Perché in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione, ma solo la fede operante per la carità 208, distinguendo così questa fede da quella con la quale credono e tremano i demoni 209. L’amore che è da Dio e che è Dio è dunque propriamente lo Spirito Santo, mediante il quale viene diffusa nei nostri cuori la carità di Dio, facendo sì che la Trinità intera abiti in noi 210. Per questo motivo lo Spirito Santo, essendo Dio, è chiamato nello stesso tempo molto giustamente anche Dono di Dio 211. Tale Dono che cosa deve designare propriamente se non la carità, che conduce a Dio e senza la quale qualsiasi altro dono di Dio non conduce a Dio?

Si dimostra dalla Scrittura che lo Spirito Santo è il Dono di Dio

19. 33. Dobbiamo provare anche che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio nelle Sacre Scritture? Se si desidera tale prova, la troviamo nel Vangelo di Giovanni che riferisce queste parole del Signore Gesù: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Dall’intimo di chi crede in me, come dice la Scrittura, scaturiranno fiumi d’acqua viva 212. L’Evangelista aggiunge poi subito: Disse questo dello Spirito che avrebbero ricevuto quelli che avessero creduto in lui 213. Per questo anche l’apostolo Paolo dice: Tutti siamo stati dissetati con un solo Spirito 214. Ma qui è chiamata dono di Dio quest’acqua, che è lo Spirito Santo? Ecco ciò che è in questione. Ma come troviamo che in questo passo quest’acqua è chiamata Spirito Santo, così in un altro passo dello stesso Vangelo troviamo che quest’acqua è chiamata dono di Dio 215. Infatti nella conversazione che ebbe presso il pozzo con la Samaritana lo stesso Signore le aveva detto Dammi da bere 216; avendogli essa risposto che i Giudei non andavano d’accordo con i Samaritani, Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell’acqua viva. La donna gli rispose: Signore, non hai un recipiente per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? 217, ecc. Gesù le rispose: Chi berrà di questa acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno, ma l’acqua che gli darò io diventerà in lui sorgente d’acqua zampillante, fino alla vita eterna 218. Poiché quest’acqua viva, come spiega l’Evangelista 219, è lo Spirito Santo, non c’è dubbio che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 220, di cui il Signore dice qui: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell’acqua viva 221. Perché ciò che dice: Dal suo intimo scaturiranno fiumi di acqua viva 222; equivale a queste parole: Diventerà in lui sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna 223.

19. 34. Anche l’apostolo Paolo dice: A ciascuno di noi è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo 224, e per far vedere che questo dono di Cristo è lo Spirito Santo, aggiunge subito: Perciò dice: Ascendendo in alto ha condotta schiava la schiavitù, dette doni agli uomini 225. Ora tutti sanno assai bene che il Signore Gesù, una volta asceso al cielo, dopo la risurrezione dai morti, ha dato lo Spirito Santo, e che, riempiti di questo Spirito, i credenti si misero a parlare nelle lingue di tutti i popoli. Né deve far difficoltà il fatto che abbia detto doni 226 e non dono, perché ciò facendo si richiama alla testimonianza del Salmo in cui si legge: Tu sei salito in alto, hai condotto con te i prigionieri, hai ricevuti doni negli uomini 227. Tale è infatti la lezione di molti codici, in particolare di quelli greci, ed è proprio la traduzione dall’ebraico. "Doni" dice dunque l’Apostolo, con il Profeta, non "dono". Ma mentre il Profeta dice: hai ricevuto doni negli uomini 228, l’Apostolo ha preferito dire: Egli ha dato doni agli uomini 229; affinché questi due testi, l’uno profetico, l’altro apostolico, ma fondati ambedue sull’autorità della parola divina, rendano il senso in tutta la sua pienezza. Tutte e due le cose infatti sono vere, perché ha dato agli uomini e perché ha ricevuto negli uomini. Egli ha dato agli uomini come il capo ai suoi membri, ma egli ha anche ricevuto negli uomini, cioè nei suoi membri, membri per i quali ha gridato dal cielo: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 230 e dei quali dice: Ogni volta che l’avete fatto al più piccolo dei miei, è a me che l’avete fatto 231. Lo stesso Cristo ha dunque nello stesso tempo dato dal cielo e ricevuto in terra. Ora tutti e due, il Profeta e l’Apostolo, hanno parlato di doni al plurale, perché ad opera di questo dono, che è lo Spirito Santo, dato in comune a tutti i membri di Cristo, è distribuita una moltitudine di doni propri a ciascuno. Infatti ciascuno non possiede tutti i doni, ma gli uni questi, gli altri quelli, benché quello stesso dono dal quale sono distribuiti a ciascuno i propri, lo abbiamo tutti, cioè lo Spirito Santo 232. Infine in un altro passo l’apostolo Paolo, dopo aver enumerato una moltitudine di doni, aggiunge: Ora tutte queste cose le compie un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare come vuole 233. Espressione che si trova anche nella Epistola agli Ebrei, dove è scritto: Mentre Dio confermava la loro testimonianza con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e con le distribuzioni dello Spirito Santo 234. Lo stesso Apostolo dopo aver detto qui: Ascendendo in alto condusse schiava la schiavitù, dette doni agli uomini, aggiunse: ma "ascese" che cosa vuol dire se non che egli è anche disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso è quel medesimo che è asceso sopra tutti i cieli per riempire tutto. Ed egli diede ad alcuni di essere Apostoli, ad altri Profeti, ad altri Evangelisti, ad altri pastori e docenti 235. Ecco perché ha parlato di doni al plurale, perché come dice in un altro passo: Forse che tutti sono Apostoli? Forse che tutti sono Profeti? 236. Ma qui aggiunge: Per il perfezionamento dei santi, nell’opera del ministero per l’edificazione del corpo di Cristo 237. È questa la casa che, come canta il Salmo, è costruita dopo la cattività 238, perché è unendo insieme quanti vengono strappati al diavolo che li teneva schiavi, che si edifica il corpo di Cristo, che è la casa chiamata Chiesa 239. Ora questa schiavitù l’ha condotta schiava 240 Colui che ha vinto il demonio. È per impedire che il demonio trascinasse con sé all’eterno supplizio coloro che dovevano diventare le membra di questo santo capo, che Cristo ha incatenato il demonio prima con le catene della giustizia, poi con le catene della potenza. Ecco perché il demonio è chiamato schiavitù, schiavitù che ha condotto schiavo colui che è asceso in alto e ha dato doni agli uomini 241, o ha ricevuto doni negli uomini.

19. 35. L’apostolo Pietro, come si legge in quel libro canonico in cui sono narrati gli Atti degli Apostoli, mentre parlava di Cristo, avendogli detto i Giudei, profondamente commossi nel loro cuore: Fratelli, che cosa dobbiamo fare? Spiegatecelo; rispose loro: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo in remissione dei peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo 242. Nello stesso libro si legge anche che Simon Mago volle dare del denaro agli Apostoli per ricevere da loro il potere di dare lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani 243. Ma lo stesso Pietro gli disse: Va’ in perdizione tu e il tuo denaro, perché hai creduto che il dono di Dio si potesse acquistare col denaro 244. Ed in un altro passo dello stesso libro, in cui è narrato che Pietro annunciava e predicava Cristo a Cornelio e a coloro che erano con lui, la Scrittura dice: Non aveva ancora Pietro finito di pronunciare queste parole che lo Spirito Santo discese sopra tutti quelli che ascoltavano la parola. Tutti i fedeli circoncisi, venuti con Pietro, rimasero meravigliati nel vedere come il dono dello Spirito Santo fosse pure diffuso sopra i gentili. Li sentivano infatti parlare le lingue e glorificare Dio 245. Giustificandosi poi del fatto che aveva battezzato degli incirconcisi - perché lo Spirito Santo, per sciogliere il nodo della questione, era disceso su costoro prima che venissero battezzati - presso i fratelli di Gerusalemme che la notizia aveva sconcertato, terminò con queste parole: Quando ebbi cominciato a parlare loro, lo Spirito Santo discese su di loro, come all’inizio era disceso su di noi. Mi sono ricordato allora di questa parola del Signore: "Giovanni ha battezzato nell’acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo". Se dunque Dio ha concesso loro il medesimo dono che a noi, che abbiamo creduto nel Signore Gesù Cristo, io chi ero da poter impedire a Dio di dar loro lo Spirito Santo? 246. E ci sono molti altri passi della Scrittura che concordano nel testimoniare che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 247, in quanto è dato a coloro che per mezzo di lui amano Dio. Ma sarebbe troppo lungo enumerarli tutti. E d’altra parte quale potrebbe bastare a coloro ai quali non bastano quelli che abbiamo citato?

19. 36. D’altra parte, poiché essi vedono almeno che lo Spirito Santo è stato chiamato Dono di Dio bisogna far loro rilevare che le parole: Dono dello Spirito Santo 248 è un’espressione dello stesso genere di quella: Con la spogliazione del corpo di carne 249. Infatti come il corpo di carne non è altro che la carne, così il Dono dello Spirito Santo non è altro che lo Spirito Santo. Egli è dunque Dono di Dio, in quanto è dato a coloro ai quali è dato. Ma in se stesso egli è Dio, anche nel caso che non sia dato ad alcuno, perché era Dio coeterno al Padre e al Figlio prima di essere dato a chiunque. E sebbene essi lo diano ed egli sia dato, non è per questo a loro inferiore. Infatti egli è dato come Dono di Dio in modo tale che è anche lui, in quanto Dio, a darsi. Perché non si può dire che non sia padrone di se stesso Colui di cui è detto: Lo Spirito soffia dove vuole 250, o ancora nel passo dell’Apostolo già citato 251: Ma è un solo e medesimo Spirito che produce tutti questi doni, distribuendoli a ciascuno come gli piace 252. Non esiste qui dipendenza per colui che è dato, superiorità per coloro che danno, ma intesa perfetta tra colui che è dato e coloro che danno.

Lo Spirito Santo ineffabile comunione del Padre e del Figlio

19. 37. Perciò, se la Sacra Scrittura proclama: Dio è carità 253, e se, d’altra parte, la carità viene da Dio e la sua azione all’interno di noi fa sì che noi siamo in Dio e Dio in noi, e infine questa presenza testimonia che Dio ci ha dato del suo Spirito, ne consegue che lo stesso Spirito è il Dio carità 254. Inoltre, se fra i doni di Dio nessuno è più grande della carità e d’altra parte non c’è dono di Dio più grande dello Spirito Santo, che c’è di più conseguente che concludere che è lui stesso la Carità che è chiamata Dio ed è detta procedere da Dio? E, se la carità con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre ci rivela l’ineffabile comunione dell’uno con l’altro, che c’è di più conseguente che concludere che conviene in proprio il nome di Carità a Colui che è lo Spirito comune all’uno e all’altro? Infatti è più giusto credere e comprendere che non solo lo Spirito è carità nella Trinità, ma anche che non è senza fondamento che gli si attribuisce in proprio il nome di Carità, per i motivi che abbiamo spiegato. Allo stesso modo che non è il solo in quella Trinità ad essere Spirito, ad essere santo, perché anche il Padre è Spirito, anche il Figlio è spirito, anche il Padre è santo, anche il Figlio è santo, cosa di cui non dubita la nostra pietà 255; e tuttavia non è senza fondamento che la terza Persona riceva in proprio il nome di Spirito Santo. In quanto infatti è comune ad ambedue, lo si denomina per quello che ambedue sono ugualmente. Altrimenti se in quella Trinità solo lo Spirito Santo è carità, il Figlio non è soltanto Figlio del Padre, ma anche dello Spirito Santo. Infatti in numerosissimi passi si dice e si legge che il Figlio è il Figlio unigenito del Padre, ma tale affermazione si deve conciliare con l’affermazione dell’Apostolo che dice che Dio Padre ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio della sua carità 256. L’Apostolo non ha detto "del Figlio suo"; avrebbe potuto dire ciò in tutta verità, e di fatto l’ha detto in tutta verità in molti altri passi; ma ha detto: del Figlio della sua carità. Dunque, se solo lo Spirito Santo è la carità di Dio in quella Trinità, il Figlio è anche Figlio dello Spirito Santo. Ora se questa è un’affermazione completamente assurda, non resta che concludere che non solo lo Spirito Santo nella Trinità è carità, ma per i motivi che ho sufficientemente esposti, egli riceve in proprio il nome di Carità. Per quanto concerne l’espressione: del Figlio della sua carità, essa non significa altra cosa che "del suo Figlio diletto", in conclusione "del Figlio della sua sostanza". Perché la carità del Padre, che esiste nella sua natura ineffabilmente semplice, non è altro che la sua stessa natura e sostanza, come spesso ho detto e come non cesserò di ripetere. Di conseguenza il Figlio della sua carità non è altro che quello che è stato generato dalla sua sostanza.

Confutazione dell’opinione di Eunomio

20. 38. Pertanto sono ridicoli i sofismi di Eunomio, dal quale ha avuto origine la setta eretica degli Eunomiani. Costui, non potendo comprendere e non volendo credere 257 che il Verbo unigenito di Dio, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose è per natura Figlio di Dio, cioè generato dalla sostanza del Padre, affermò che non è il Figlio della natura, della sostanza di lui, o dell’essenza, ma il Figlio della volontà di Dio, intendendo con questo una volontà accidentale esistente in Dio, volontà che sarebbe il principio della generazione del Figlio 258. Senza dubbio questa opinione gli è stata suggerita dalla nostra esperienza, in quanto ci accade di volere ciò che prima non volevamo, come se questo non fosse un segno della mutevolezza della nostra natura, mutevolezza che dobbiamo guardarci bene dal pensare che esista in Dio. Se la Scrittura dice: Molti sono i pensieri del cuore dell’uomo, ma il consiglio di Dio dura in eterno 259, proprio per farci comprendere o credere 260 che, come Dio è eterno, così il suo consiglio è eterno e dunque immutabile, come è lui stesso. Ora ciò che diciamo dei suoi pensieri possiamo ugualmente dire in tutta verità dei suoi voleri. Numerosi sono i voleri nel cuore dell’uomo, ma la volontà di Dio dura in eterno. Alcuni, per non dire che il Verbo unigenito è Figlio del consiglio e della volontà di Dio, hanno affermato che questo Verbo è lo stesso consiglio, la stessa volontà del Padre. Ma è meglio dire, ritengo, che il Verbo è consiglio da consiglio, volontà da volontà, come è sostanza da sostanza, sapienza da sapienza, per evitare così quella opinione assurda, che abbiamo già confutato, secondo la quale il Figlio renderebbe il Padre sapiente e volente, se il Padre non possiede sostanzialmente il consiglio e la volontà. Acuta senza dubbio fu la risposta di un tale ad un eretico che gli domandava assai capziosamente se Dio ha generato il Figlio volendo o non volendo; rispondere che lo fece senza volere significava porre in Dio un limite inconcepibile in lui; rispondere che lo generò volendo, sarebbe stato fare il gioco dell’eretico, che ne avrebbe concluso immediatamente, come con un ragionamento invincibile, che il Verbo è Figlio non della natura, ma della volontà del Padre. Ma quello, con grande presenza di spirito, domandò a sua volta al suo interlocutore se Dio Padre è Dio volendo o non volendo; rispondere che è Dio non volendo, significava porre in Dio una imperfezione che non si può ammettere senza grande follia; rispondere che lo è volendo significava mettere l’altro in condizione di replicare così: "Dunque anche lui è Dio per sua volontà, non per natura" 261. Che restava dunque all’eretico se non tacere e vedersi, con la sua stessa domanda, imprigionato in un legame insolubile? Ma la volontà di Dio, se bisogna attribuirla in proprio a qualche persona della Trinità, è allo Spirito Santo che conviene di più, come la carità. Infatti che altro è la carità se non la volontà?

Riassunto di quanto detto sopra: l’uomo, immagine della Trinità, deve orientare tutto se stesso a ricordare, contemplare, amare la Trinità

20. 39. Vedo che ciò che ho detto in questo libro 262 basandomi sulle Sacre Scritture circa lo Spirito Santo dà ai fedeli una sufficiente istruzione. Essi già sapevano che lo Spirito Santo è Dio 263, che è della stessa sostanza del Padre, che non è inferiore al Padre e al Figlio, verità che ho provato nei libri precedenti basandomi su queste stesse Scritture 264. Inoltre, partendo dalla creatura, opera di Dio, ho cercato, per quanto ho potuto, di condurre coloro che chiedono ragione di tali cose a contemplare con l’intelligenza, per quanto era loro possibile, i segreti di Dio per mezzo delle cose create e ho fatto particolarmente ricorso alla creatura ragionevole e intelligente, che è stata creata ad immagine di Dio 265, per far loro vedere, come in uno specchio, per quanto lo possono e, se lo possono, il Dio Trinità, nella nostra memoria, intelligenza e volontà 266. Chiunque, con una intuizione viva, vede che queste tre potenze, in virtù di una intenzione divina, costituiscono la struttura naturale del suo spirito; percepisce quale cosa grande sia per lo spirito il poter ricordare, vedere, desiderare la natura eterna ed immutabile; la ricorda con la memoria, la contempla con l’intelligenza, l’abbraccia con l’amore, certamente vi scopre l’immagine di quella suprema Trinità. Per ricordare, vedere, amare quella suprema Trinità deve ad essa riferire tutto ciò che vive perché tale Trinità divenga oggetto del suo ricordo, della sua contemplazione e della sua compiacenza. Tuttavia ho mostrato, per quanto mi sembrava necessario, che questa immagine che è opera della stessa Trinità, che è stata deteriorata dalla sua propria colpa, si deve evitare di compararla alla Trinità come se le fosse in tutto simile, ma si deve vedere anche una grande dissomiglianza in questa tenue somiglianza.

L’immagine del Padre e del Figlio nella nostra memoria e intelligenza

21. 40. Ecco Dio Padre e Dio Figlio, il Dio generante che, in qualche modo, "ha detto" nel suo Verbo, che gli è coeterno, tutto ciò che possiede sostanzialmente, e lo stesso Dio Verbo del Padre, che, anch’egli, possiede sostanzialmente né più né meno ciò che è Colui che ha generato non con menzogna ma veracemente il Verbo. Mi sono sforzato di significare questa relazione come ho potuto, non come se vedessimo già queste realtà a faccia a faccia 267, ma per congettura attraverso questa rassomiglianza in enigma, per quanto debole essa sia, che si trova nell’intimo dello spirito nella relazione della memoria e della intelligenza: attribuendo alla memoria tutto ciò che sappiamo, sebbene da questa conoscenza non nasca alcun pensiero, all’intelligenza invece una informazione del pensiero secondo il modo che le è proprio. Infatti quando pensiamo una cosa di cui avremo scoperto la verità, diciamo che ne abbiamo una perfetta intelligenza, poi la lasciamo di nuovo nella memoria. Ma c’è una profondità più segreta della memoria, in cui l’atto del pensiero giunge a farci scoprire ciò che ne è l’elemento primitivo, e in cui è generato il verbo intimo, che non appartiene a nessuna lingua, come un sapere che proviene da un sapere, una visione che proviene da una visione, una intelligenza che si manifesta nel pensiero, intelligenza che proviene da un’intelligenza già presente nella memoria, ma ancora nascosta; ancorché se anche il pensiero stesso non avesse una sua specie di memoria, non ritornerebbe sulla conoscenza che aveva lasciato nella memoria, quando pensava ad altra cosa.

La nostra volontà immagine dello Spirito Santo

21. 41. Invece per quanto riguarda lo Spirito Santo non abbiamo scoperto in questo enigma 268 niente che gli rassomigli se non la volontà, o l’amore o la dilezione, che non è che la volontà in tutta la sua forza; perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l’attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti. Che è essa dunque? Diremo forse che la nostra volontà, quando è retta, ignora ciò che deve cercare, ciò che deve evitare? Ma se lo sa, occorre che possieda una certa conoscenza, conoscenza che non potrebbe esistere senza la memoria e la intelligenza. O forse bisogna dare ascolto a chi pretende che la carità ignora ciò che fa, essa che non agisce alla leggera? Dunque, come è immanente l’intelligenza, è immanente anche la dilezione a quella memoria che ne è il principio, in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l’atto del pensiero; perché prendiamo coscienza che anche queste due potenze sono nella memoria, quando con l’atto del pensiero prendiamo coscienza che comprendiamo qualcosa ed amiamo qualcosa: esse vi esistevano già, anche quando non vi pensavamo. E come è immanente la memoria, così è immanente la dilezione a questa intelligenza che prende forma nell’atto del pensiero: questo verbo vero lo diciamo interiormente, senza ricorrere ad alcuna lingua, quando diciamo ciò che sappiamo; perché senza il ricordo lo sguardo del nostro pensiero non ritornerebbe su una conoscenza, e senza l’amore non si prenderebbe cura di ritornarvi. Così la dilezione, che unisce, in una specie di relazione di paternità e di filiazione, la visione presente nella memoria e la visione del pensiero che prende forma da essa, se non possiede la conoscenza di ciò che deve desiderare, conoscenza che non può esistere senza la memoria e l’intelligenza, non saprebbe ciò che è giusto amare.

Profonda differenza tra la trinità dello spirito e la Trinità divina

22. 42. Quando queste tre potenze si trovano in una sola persona, come è il caso dell’uomo, qualcuno potrebbe dirci: "Queste tre potenze: memoria, intelligenza, amore appartengono a me, non a se stesse; non è per se stesse, ma è per me che compiono ciò che compiono, anzi sono io che agisco per mezzo di esse. Sono io infatti che ricordo con la memoria, che comprendo con l’intelligenza, che amo con l’amore; e quando volgo verso la mia memoria lo sguardo del pensiero e dico così nel mio cuore ciò che so e dalla mia scienza è generato un verbo vero, queste due cose sono mie, sia la conoscenza che il verbo. Infatti sono io che so e che dico nel mio cuore ciò che so. E quando con l’atto del pensiero scopro che nella mia memoria già comprendevo, già amavo qualcosa - intelligenza e amore che già erano nella memoria ancor prima che ne prendessi coscienza con il pensiero -, è la mia intelligenza e il mio amore che scopro nella mia memoria e sono io che comprendo e amo per mezzo di essi, non essi stessi. Così pure, quando il mio pensiero cerca un ricordo e vuole ritornare su ciò che aveva lasciato nella memoria, vederlo con l’intelligenza 269 e dirlo interiormente, è con la mia memoria che ricorda, è con la mia volontà che vuole, non con la sua memoria e con la sua volontà. Anche il mio amore, quando ricorda e comprende ciò che deve desiderare, ciò che deve evitare, ricorda con la mia, non con la sua memoria, e con la mia intelligenza, non con la sua, comprende tutto ciò che ama, comprendendolo". Tutto ciò si può esprimere in breve così: "Per mezzo di tutte queste tre potenze, sono io che ricordo, io che comprendo, io che amo, io che non sono né memoria, né intelligenza né amore, ma che li possiedo". Tutto ciò può dunque essere detto da una sola persona, che possiede queste tre potenze, ma che non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Analisi di questa differenza

23. 43. Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, altra cosa l’immagine della Trinità in una realtà diversa: è proprio a causa di questa immagine che ciò in cui si trovano queste tre potenze è anche chiamato immagine, come si chiama immagine sia la tela che ciò che è dipinto sulla tela, ma è a causa della pittura che la ricopre che è chiamata immagine anche la tela. Ma in quella suprema Trinità, incomparabilmente superiore a tutte le cose, è tanto accentuata l’inseparabilità che, mentre una trinità di persone umane non si può chiamare un solo uomo, essa è detta ed è un solo Dio, e quella Trinità non è in un solo Dio, ma è un solo Dio 270. Ed ancora per quanto riguarda quella Trinità le cose non stanno come nella sua immagine, l’uomo, che sebbene possegga quelle tre potenze è una sola persona; ma vi sono tre Persone: il Padre del Figlio, il Figlio del Padre, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio. Sebbene infatti la memoria dell’uomo - e particolarmente quella che non possiedono le bestie, cioè quella che contiene delle realtà intelligibili che non provengono dai sensi del corpo - presenti a suo modo, in questa immagine della Trinità, una somiglianza, incomparabilmente indegna certo, ma tuttavia non del tutto dissimile, del Padre; e così pure, sebbene l’intelligenza dell’uomo che è informata dalla memoria per mezzo dell’attenzione del pensiero, quando si dice ciò che si sa e si produce quel verbo del cuore che non appartiene ad alcuna lingua, presenti, malgrado la sua accentuata differenza, una certa somiglianza del Figlio; e sebbene l’amore dell’uomo, che procede dalla conoscenza e unisce la memoria e l’intelligenza - essendo comune alla potenza che svolge in qualche modo la funzione di padre e a quella che svolge la funzione di figlio, motivo per cui se ne deduce che non è né padre né figlio -, presenti, in questa immagine, una certa somiglianza, benché molto imperfetta, dello Spirito Santo, tuttavia, mentre in questa immagine della Trinità queste tre potenze non sono un solo uomo, ma appartengono ad un solo uomo, in questa suprema Trinità, di cui l’uomo è immagine, queste tre realtà non appartengono ad un solo Dio, ma sono un solo Dio ed esse sono tre Persone, non una sola. Ecco una cosa di certo meravigliosamente ineffabile o ineffabilmente meravigliosa: sebbene in questa immagine della Trinità vi sia una sola persona, invece nella suprema Trinità vi siano tre Persone, è più inseparabile quella Trinità di tre Persone, che questa di una sola. Perché in quella natura della divinità, o per meglio dire della deità, ciò che è, è, e quella divinità è immutabilmente e sempre uguale tra le Persone; non vi fu un tempo in cui non esistette o esistette in modo diverso, né vi sarà un tempo in cui non esisterà o esisterà in modo diverso. Invece le tre potenze che sono nell’immagine imperfetta della Trinità, sebbene non siano separabili nello spazio, perché non sono dei corpi, lo sono tra loro ora in questa vita per grandezza. Infatti in esse non vi è alcuna massa corporea, nondimeno vediamo che in un uomo la memoria è più grande dell’intelligenza, in un altro vediamo il contrario; vediamo in un altro l’amore che sorpassa in grandezza queste due potenze, siano esse tra loro due uguali o non lo siano. E così accade che due di loro siano inferiori ad una sola, una sola alle altre due, o l’una all’altra, le più piccole alle più grandi. E quando, guarite dalla loro debolezza, saranno uguali tra loro, nemmeno allora questa realtà, che per mezzo della grazia è sottratta al mutamento, sarà uguale alla realtà immutabile per natura, perché mai la creatura può eguagliare il Creatore e il fatto stesso di venir guarita dalla sua debolezza sarà per essa un mutamento.

La conoscenza "attraverso uno specchio"

23. 44. Ma questa Trinità, che non è soltanto immateriale, ma anche supremamente inseparabile e veramente immutabile, quando verrà la visione a faccia a faccia che ci è promessa, la vedremo con molta maggiore chiarezza e certezza di quanto ora vediamo la sua immagine che noi siamo. Tuttavia coloro che vedono attraverso questo specchio e in questo enigma 271, come ci è concesso di vedere in questa vita, non sono coloro che percepiscono nel loro spirito queste tre potenze che abbiamo indicato nella nostra analisi, ma coloro che vedono il loro spirito come immagine, in modo da poter riferire ciò che vedono, in qualunque sia maniera, a colui di cui il loro spirito è immagine ed in modo da poter vedere, per congettura per mezzo dell’immagine che vedono contemplandola, Dio, perché non possono ancora vederlo a faccia a faccia. Infatti l’Apostolo non dice: "vediamo ora uno specchio", ma invece: "Vediamo attraverso uno specchio".

24. Coloro dunque che vedono il loro spirito, come è possibile vederlo, ed in esso vedono questa trinità circa la quale ho discusso, come ho potuto, con molte analisi, ma che non credono e non comprendono 272 che essa è l’immagine di Dio, vedono lo specchio, ma tanto poco vedono colui che deve essere ora veduto nello specchio da non sapere nemmeno che lo specchio è uno specchio, ossia l’immagine di lui. Se lo sapessero, forse avvertirebbero che questo Dio di cui lo spirito è lo specchio deve essere cercato attraverso questo specchio, deve essere visto in maniera imperfetta e provvisoria attraverso questo specchio, con una fede sincera 273 che purifica i cuori affinché possano vedere a faccia a faccia Colui che ora vedono attraverso uno specchio 274. Se disprezzano questa fede che purifica i cuori, l’intelligenza che acquisiscono della natura dello spirito umano attraverso queste sottilissime discussioni che altro risultato può conseguire se non la dannazione per testimonianza della loro stessa intelligenza? Non si darebbero tanto da fare in questa ricerca per giungere appena a qualche certezza se non fossero avvolti in queste tenebre che sono un castigo e non fossero onerati dal gravame del corpo corruttibile che pesa sull’anima 275. E perché ci è stato inflitto questo male, se non per il peccato? Per questo, una volta che la loro attenzione è stata richiamata sull’ampiezza di un male così grande, dovrebbero seguire l’Agnello 276 che toglie il peccato del mondo 277.

25. Infatti, per coloro che appartengono a questo Agnello, fossero pure più tardi di ingegno di quelli di cui ho parlato, quando alla fine di questa vita vengono liberati dal corpo, le potenze invidiose perdono il diritto di trattenerli. L’Agnello che da esse è stato ucciso, mentre non doveva pagare alcun debito dovuto al peccato, non le ha volute vincere con la forza della sua potenza prima di vincerle con la giustizia del suo sangue. Perciò, liberi dal potere del diavolo 278, sono ricevuti dagli Angeli santi, liberati da tutti i mali ad opera del Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù 279; perché tutte le Scritture sono concordi, sia l’Antico che il Nuovo Testamento, l’Antico preannunciando Cristo, il Nuovo annunciandone la venuta, nel dire che non esiste sotto il cielo altro nome per mezzo del quale gli uomini debbono essere salvati 280. Purificati da ogni contagio di corruzione saranno collocati in luoghi tranquilli fino a quando non riprendano i loro corpi, ma corpi ormai incorruttibili, che siano un ornamento, non un peso. Perché è piaciuto al Creatore supremamente buono e sapiente che lo spirito dell’uomo, piamente sottomesso a Dio, possieda beatamente un corpo sottomesso e che la stessa beatitudine duri senza mai finire.

Nella visione vedremo senza più alcuna difficoltà, perché lo Spirito Santo non proceda come generato dal Padre e dal Figlio

25. 45. Là vedremo la verità senza alcuna fatica e ne fruiremo con piena chiarezza e certezza. Non cercheremo più nulla con lo spirito che si serve del raziocinio, ma con lo spirito che si apre alla contemplazione vedremo perché lo Spirito Santo non è il Figlio, benché proceda dal Padre. In quella luce non ci sarà più problema alcuno, ma quaggiù il mio tentativo mi è sembrato presentare tali difficoltà - e così senza alcun dubbio apparirà a coloro che mi leggeranno con intelligenza attenta - che, malgrado la promessa fatta nel secondo libro, di spiegare più avanti questo punto 281, ogni qualvolta nella creatura che siamo noi ho voluto scoprire qualche analogia con quel mistero, la pur piccola comprensione che potevo avere non ha trovato adeguata espressione nelle mie parole; sebbene abbia avuto la sensazione che anche questa mia comprensione sia stata più un tentativo che una riuscita. È vero che ho trovato in una sola persona umana un’immagine di quella suprema Trinità e, per meglio farla comprendere, ho voluto, in particolare nel libro IX, mostrare questi tre termini in una realtà soggetta al mutamento, mostrandoli separati anche da intervalli di tempo 282; ma queste tre potenze appartenenti alla stessa persona non hanno potuto, contrariamente alla nostra attesa umana, corrispondere alle tre Persone divine, come abbiamo dimostrato in questo libro XV.

26. Inoltre in questa suprema Trinità che è Dio non ci sono intervalli di tempo che permettano di mostrare, o almeno di indagare, se prima sia nato il Figlio dal Padre e poi sia avvenuta da ambedue la processione dello Spirito Santo. La Sacra Scrittura ci dice infatti che egli è lo Spirito di ambedue 283. È di lui infatti che l’Apostolo dice: Poiché siete figli di Dio, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori 284. È pure di lui che il Figlio medesimo dice: Non siete voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi 285. E molti altri passi delle Sacre Scritture confermano che è del Padre e del Figlio lo Spirito indicato nella Trinità come persona dello Spirito Santo; è di lui che il Figlio medesimo dice ancora: Colui che io vi mando da presso il Padre 286; ed in un altro passo: Colui che il Padre manderà in nome mio 287. Che egli procede da ambedue ce lo insegnano i seguenti passi: il Figlio stesso dice: Egli procede dal Padre 288; e d’altra parte, dopo la sua risurrezione dai morti e la sua apparizione agli Apostoli, alitò su di essi e disse: Ricevete lo Spirito Santo 289, per mostrare che lo Spirito procede anche da lui. È ancora lo Spirito Santo la virtù che usciva da lui, come si legge nel Vangelo, e guariva tutti 290.

Il Signore Gesù diede lo Spirito Santo come Dio e lo ricevette come uomo

26. 46. Per quale motivo, dopo la sua risurrezione, Cristo ha dato una prima volta lo Spirito Santo sulla terra 291 e poi lo ha mandato dal cielo 292? Perché, ritengo, con questo dono viene diffusa nei nostri cuori la carità 293 con la quale amiamo Dio e il prossimo, secondo quei due precetti dai quali dipendono tutta la Legge ed i Profeti 294. Volendo significare ciò, il Signore Gesù ha dato due volte lo Spirito Santo, una volta sulla terra per significare l’amore del prossimo, una seconda volta dal cielo per significare l’amore di Dio. Forse si potrà dare un’altra spiegazione di questa duplice donazione dello Spirito Santo, ma ciò di cui non dobbiamo dubitare è che lo Spirito che è stato dato, quando Gesù alitò sugli Apostoli, è lo stesso di cui si tratta nelle parole che Gesù pronunciò subito dopo: Andate, battezzate le genti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 295, testo che è la più espressa rivelazione della Trinità 296. È lui dunque che è stato dato anche dal cielo nel giorno della Pentecoste 297, cioè dieci giorni dopo l’ascensione del Signore. Come dunque non sarebbe Dio Colui che dà lo Spirito Santo? Anzi, che grande Dio è Colui che dà Dio? Nessuno dei suoi discepoli infatti ha dato lo Spirito Santo. Pregavano perché egli venisse in coloro ai quali imponevano le mani, ma non lo davano loro stessi. Questo costume lo osserva ancora oggi la Chiesa nei suoi ministri. Infine anche Simon Mago, offrendo denaro agli Apostoli, non dice: "Date anche a me questo potere" di dare lo Spirito Santo, ma invece: Datemi il potere che ogni uomo al quale imporrò le mani, riceva lo Spirito Santo 298. Perché nemmeno la Scrittura aveva detto prima: "Vedendo Simone che gli Apostoli davano lo Spirito Santo", ma aveva detto: Ora Simone vedendo che lo Spirito Santo veniva dato per mezzo dell’imposizione delle mani degli Apostoli 299. Ecco perché lo stesso Signore Gesù non solo dette lo Spirito Santo in quanto Dio, ma anche lo ricevette in quanto uomo; per questo la Scrittura lo dice pieno di grazia 300. Ed in maniera più chiara sta scritto di lui negli Atti degli Apostoli: Perché Dio lo unse con lo Spirito Santo 301. Non lo unse certo con un olio visibile, ma con il dono della grazia significata dall’unguento visibile, crisma con cui la Chiesa unge i battezzati. E senza dubbio Cristo non è stato unto con lo Spirito Santo quando lo Spirito discese su di lui, appena battezzato, sotto forma di colomba 302; infatti in quel giorno egli ha voluto prefigurare il suo Corpo, cioè la sua Chiesa, nella quale si riceve lo Spirito Santo in particolar modo battezzandosi 303. Ma bisogna comprendere che Cristo è stato unto con questa mistica e invisibile unzione, nello stesso momento in cui il Verbo di Dio si è fatto carne 304, cioè nel momento in cui la natura umana senza alcun merito precedente di opere buone, è stata unita al Dio Verbo nel seno della Vergine, in modo da divenire con lui una sola persona. Per questo confessiamo che Cristo è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. È infatti assolutamente ridicolo il credere che Cristo avesse già trent’anni (a tale età infatti fu battezzato da Giovanni 305) quando ricevette lo Spirito Santo, ma venne a quel battesimo assolutamente senza alcun peccato e dunque non privo dello Spirito Santo. Se infatti dello stesso Giovanni, suo servo e precursore, è scritto che sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 306, perché sebbene generato da un padre, una volta formato nel seno, ricevette lo Spirito Santo, che cosa dobbiamo pensare e credere del Cristo uomo, la cui stessa carne non fu concepita in maniera carnale, ma spirituale 307? Inoltre, quando la Scrittura dice di lui che ricevette dal Padre la promessa dello Spirito Santo e che lo ha diffuso 308, viene messa in evidenza la sua duplice natura, cioè quella umana e quella divina; ricevette come uomo, diffuse come Dio. Noi possiamo certo ricevere questo dono secondo la nostra capacità, ma non possiamo diffonderlo sugli altri; ma perché questa effusione avvenga invochiamo su di loro Dio, che può fare questo dono.

Lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio, ma "primariamente" dal Padre

26. 47. Chiedersi se, quando il Figlio è nato, era già avvenuta la processione dello Spirito Santo dal Padre o se invece non era ancora avvenuta e, una volta nato il Figlio 309, lo Spirito Santo procedette dal Padre e dal Figlio, è cosa che può forse avere un senso, là dove non esiste affatto il tempo? Là dove il tempo entra in gioco abbiamo invece potuto chiederci se è la volontà per prima che procede dallo spirito umano per cercare ciò che, una volta trovato, si chiama prole; perché una volta nata e generata questa, la volontà riceve la sua perfezione, riposandosi nel suo fine, in modo che quello che era stato desiderio della volontà che cerca, divenga amore della volontà che fruisce, amore che ormai procede dall’uno e dall’altra, cioè dallo spirito che genera e dalla conoscenza generata, essendo questi due in una specie di relazione di paternità e di filiazione. Ma non si possono più porre assolutamente simili domande a proposito di una realtà dove nulla incomincia nel tempo, per compiersi nel tempo che viene dopo. Di conseguenza colui che può comprendere la generazione intemporale del Figlio dal Padre, intenda la processione intemporale dello Spirito Santo da ambedue. E chi può comprendere da queste parole del Figlio: Come il Padre ha in sé la vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé 310 che il Padre ha dato la vita al Figlio non come a un essere che esistesse già senza avere la vita, ma che lo ha generato al di fuori del tempo in modo che la vita che il Padre ha dato al Figlio generandolo sia coeterna alla vita del Padre che glie l’ha data; questi comprenda, dico, che come il Padre ha in se stesso anche la proprietà di essere principio della processione dello Spirito Santo, ha dato ugualmente al Figlio di essere principio della processione del medesimo Spirito Santo, processione fuori del tempo nell’uno e nell’altro caso, e comprenda che è stato detto che lo Spirito Santo procede dal Padre 311 perché si intenda che l’essere anche il Figlio principio della processione dello Spirito Santo, proviene al Figlio dal Padre. Se infatti tutto ciò che il Figlio ha, lo riceve dal Padre, riceve anche dal Padre di essere anch’egli principio da cui procede lo Spirito Santo. Ma ci si guardi bene dal pensare che esista qui il tempo, in cui si distingua un prima e un poi, perché qui non esiste affatto il tempo. Come, allora, non sarebbe il colmo dell’assurdità il dire che lo Spirito Santo è il Figlio delle due altre Persone, dato che se è per generazione che il Padre comunica al Figlio la sua essenza senza inizio di tempo, senza alterazione di natura, è per processione che il Padre e il Figlio comunicano allo Spirito Santo la loro essenza senza alcun inizio di tempo, senza alcuna alterazione di natura? Se dunque non diciamo che lo Spirito Santo è generato, non osiamo tuttavia dire che è ingenerato, per timore che questa parola faccia supporre che ci sono due padri nella Trinità, o due persone che non hanno origine da un’altra. Solo il Padre infatti non ha origine da un’altra Persona, perciò solo lui è chiamato ingenerato, non nella Scrittura, ma nel linguaggio usuale di coloro che trattano di un così grande mistero e si sono espressi come hanno potuto 312. Il Figlio invece è nato dal Padre, e lo Spirito Santo procede, primariamente, dal Padre, e per il dono che il Padre ne fa al Figlio senza alcun intervallo di tempo, dal Padre e dal Figlio insieme 313. Si direbbe che lo Spirito Santo è Figlio del Padre e del Figlio, se - cosa che respinge spontaneamente il buonsenso - lo avessero ambedue generato. Non è dunque generato dal Padre e dal Figlio lo Spirito di tutti e due, ma procede dall’uno e dall’altro.

È difficile distinguere tra "generazione" e "processione"

27. 48. Ma, poiché in quella coeterna, uguale, incorporea ineffabilmente immutabile e indivisibile Trinità è estremamente difficile distinguere la generazione dalla processione, basti frattanto per coloro che non riescono ad elevarsi a più grandi altezze ciò che su questo argomento abbiamo detto in un Sermone che pronunciammo davanti al popolo cristiano e che poi abbiamo scritto. Fra le altre cose, infatti, avendo insegnato, basandomi sulle testimonianze delle Sacre Scritture, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio: Se dunque, dicevo, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio perché il Figlio dice: "Lo Spirito procede dal Padre" 314? Per quale motivo, ritieni, se non perché il Figlio è solito riferire anche ciò che è suo a colui dal quale ha origine? Ecco perché dice: La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato 315. Se qui dunque s’intende come sua la dottrina che pur dichiara non sua ma del Padre, quanto più si deve intendere come procedente anche da lui lo Spirito Santo nel testo dove dice che procede dal Padre senza dire: "non procede da me"? Da colui dal quale riceve di essere Dio (è infatti Dio da Dio), da lui riceve pure di essere, anche lui, principio da cui procede lo Spirito Santo; e per questo che lo Spirito proceda anche dal Figlio come procede dal Padre, il Figlio lo riceve dal Padre stesso. Così comprendiamo anche in quale modo, per quanto, deboli come siamo, possiamo comprenderlo, perché non si dica che lo Spirito Santo è nato, ma piuttosto che procede; per il fatto che, se si dicesse che anche lui è Figlio, sarebbe figlio di tutte e due le altre Persone, ciò che sarebbe un grandissimo assurdo. Nessuno infatti è figlio di due persone se non avendole come padre e madre. Ma sia lungi da noi l’idea di immaginare tra Dio Padre e Dio Figlio un rapporto simile. Perché anche nell’ordine umano il figlio non procede nel medesimo tempo dal padre e dalla madre, ma quando procede dal padre nella madre, allora non procede dalla madre, e quando procede dalla madre alla luce di questo mondo, allora non procede dal padre. Ora lo Spirito Santo non procede dal Padre nel Figlio e poi dal Figlio per santificare la creatura, ma procede dall’uno e dall’altro simultaneamente, benché sia il Padre che ha dato al Figlio di essere, come lo è egli stesso, principio da cui procede lo Spirito. Nemmeno possiamo infatti dire che lo Spirito Santo non sia vita, dato che è vita il Padre, è vita il Figlio; di conseguenza, come il Padre, che ha la vita in se stesso, ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso, così gli ha dato che la vita proceda da lui, Figlio, come procede anche da lui, Padre 316. Ho trascritto qui le parole del mio sermone, ma allora parlavo ai credenti, non a coloro che non credono.

Bisogna però attenersi alla regola della fede, e pregare e cercare e vivere bene per capire

27. 49. Ma se alcuni non arrivano a contemplare questa immagine né a vedere nel loro spirito quanto sono reali queste tre potenze, che non sono tre persone, bensì possesso tutte e tre di una sola persona umana; perché circa la somma Trinità di Dio non credono a quello che si trova nei Libri sacri invece di reclamare una spiegazione evidente che non è alla portata dell’intelligenza umana, che è tarda e debole? E dopo che avranno creduto fermissimamente alle Scritture sante come a testimoni veracissimi, s’industrino con la preghiera, con lo studio, con la vita retta, di capire, cioè di vedere con lo spirito, per quanto è possibile, quanto ritengono per fede. Chi glielo impedirà? Anzi, chi non li esorterà a farlo? Se tuttavia ritengono di dover negare questi misteri, perché i loro spiriti ciechi non li possono vedere, bisognerebbe pure che i ciechi dalla nascita negassero che esiste il sole. La luce dunque risplende nelle tenebre 317; se le tenebre non riescono a comprenderla, si lascino illuminare dapprima dal dono di Dio per aver la fede, ed incomincino ad essere luce in confronto a coloro che non hanno la fede e, gettato questo fondamento, si elevino per vedere quelle cose che credono, affinché un giorno le possano vedere. Vi sono infatti delle cose che si credono senza la speranza di non poterle mai vedere. Non si vedrà una seconda volta Cristo in croce, ma se non si crede che quello è un fatto accaduto ed è stato visto, senza tuttavia che si possa sperare che si riproduca e lo si veda di nuovo, non si giunge a Cristo, come lo si deve vedere eternamente. Invece per quanto concerne quella suprema, ineffabile, immateriale, immutabile natura che, in qualche modo, deve essere vista con l’intelligenza, non vi è nulla, purché lo si faccia sotto la direzione della regola della fede, su cui lo sguardo dello spirito si possa meglio esercitare di ciò che nella natura umana è superiore agli altri animali, è superiore anche alle altre parti dell’anima umana, voglio dire lo spirito: esso cui è accordata una certa visione delle cose invisibili, che come da un tribunale interiore che presiede con onore riceve tutte le conoscenze che gli stessi sensi del corpo sottomettono al suo giudizio; esso non ha nulla di superiore cui debba sottomissione ed obbedienza, eccetto Dio.

Agostino indica la differenza tra generazione e processione nel modo diverso di procedere del verbo e dell’amore: l’amore non procede come immagine, ma come appetito o fruizione

27. 50. Ma tra le molte cose che ho detto, oso professare di non aver detto nulla che sia degno di quella suprema ed ineffabile Trinità, ma piuttosto confessare che la mirabile conoscenza di Dio ha superato la mia debolezza e che non ho potuto elevarmi fino ad essa 318. O tu, anima mia, dove ti senti di essere, dove giaci, dove stai, in attesa che Colui che si è fatto propizio a tutte le tue iniquità guarisca le tue infermità 319? Senza dubbio riconosci di essere in quella locanda in cui il Samaritano condusse colui che trovò semivivo con il corpo coperto di numerose ferite inflittegli dai ladroni 320. E tuttavia tu hai visto molte verità, non con quegli occhi che vedono i corpi colorati, ma con quelli per i quali pregava colui che diceva: I miei occhi vedano la giustizia 321. Sì, tu hai visto molte verità, e le hai distinte da quella luce che ti ha illuminato per fartele vedere; eleva ora gli occhi verso quella luce e fissali su di essa, se puoi. Così infatti vedrai che differenza vi sia tra la nascita del Verbo e la processione del Dono di Dio, differenza per cui il Figlio unigenito ha detto che lo Spirito Santo 322 non è generato dal Padre (altrimenti sarebbe suo fratello) ma ne procede. Per questo, essendo lo Spirito di ambedue come comunione consustanziale dell’uno e dell’altro, non si dice - sarebbe sacrilegio il dirlo - che è figlio di tutti e due. Ma per vedere chiaramente e perspicuamente questo mistero, tu non puoi fissare là il tuo sguardo; lo so, non lo puoi. Dico il vero, lo dico a me stesso; so ciò che non posso. Ma quella luce ti ha fatto vedere in te quelle tre potenze, in cui puoi riconoscere te come l’immagine di quella stessa suprema Trinità che sei ancora incapace di contemplare tenendo fisso su di essa il tuo sguardo. Essa ti ha fatto vedere che c’è in te un verbo vero, quando è generato dalla tua scienza, cioè quando diciamo ciò che sappiamo, sebbene non pronunciamo né pensiamo alcuna parola comprensibile di alcuna lingua umana, ma invece il nostro pensiero prende forma da ciò che sappiamo e nello sguardo di colui che pensa l’immagine della conoscenza è esattamente simile a quella contenuta nella memoria, essendo questi due termini, come generante e come prole, uniti dalla volontà o dilezione che costituisce il terzo termine. Ma che questa volontà proceda dalla conoscenza (nessuno infatti vuole ciò di cui ignora totalmente la natura e la qualità) senza essere tuttavia l’immagine della conoscenza e che perciò in questa realtà intelligibile sia suggerita una certa differenza tra nascita e processione, perché non è la stessa cosa vedere con il pensiero e desiderare o anche fruire con la volontà, lo vede e lo discerne chi lo può. L’hai potuto anche tu, sebbene non abbia potuto e non possa spiegare con linguaggio adeguato ciò che tra le nebbie delle immagini corporee, che non cessano di addensarsi sul pensiero umano, hai solo intravisto. Ma quella luce che non è ciò che sei tu, ti ha anche mostrato che una cosa sono le immagini incorporee dei corpi, altra cosa la verità che, respingendo queste immagini, attingiamo con l’intelligenza; queste certezze ed altre simili quella luce ha mostrato ai tuoi occhi interiori. Perché dunque non puoi vedere questa verità stessa tenendovi fisso lo sguardo se non a motivo della sua debolezza? E quale la causa di questa debolezza, se non, certo, l’iniquità? Chi dunque guarisce tutte le tue infermità, se non Colui che è propizio riguardo a tutte le tue iniquità 323? Perciò è meglio che finalmente concluda questo libro con una preghiera piuttosto che con una discussione.

Preghiera - Conclusione e preghiera finale

28. 51. Signore nostro Dio, crediamo in te, Padre e Figlio e Spirito Santo. Perché la Verità non avrebbe detto: Andate, battezzate tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo 324, se Tu non fossi Trinità. Né avresti ordinato, Signore Dio, che fossimo battezzati nel nome di chi non fosse Signore Dio. E una voce divina non avrebbe detto: Ascolta Israele: Il Signore Dio tuo è un Dio Unico 325, se Tu non fossi Trinità in tal modo da essere un solo Signore e Dio. E se Tu fossi Dio Padre e fossi pure il Figlio tuo Verbo, Gesù Cristo, e il Vostro Dono lo Spirito Santo, non leggeremmo nelle Sacre Scritture: Dio ha mandato il Figlio suo 326, né Tu, o Unigenito, diresti dello Spirito Santo: Colui che il Padre manderà in mio nome 327 e: Colui che io manderò da presso il Padre 328. Dirigendo la mia attenzione verso questa regola di fede, per quanto ho potuto, per quanto tu mi hai concesso di potere, ti ho cercato ed ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto, ed ho molto disputato e molto faticato. Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore 329. Dammi Tu la forza di cercare, Tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, ricevimi quando entro; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di te, che comprenda te, che ami te. Aumenta in me questi doni, fino a quando Tu mi abbia riformato interamente. So che sta scritto: Quando si parla molto, non manca il peccato 330, ma potessi parlare soltanto per predicare la tua parola e dire le tue lodi! Non soltanto eviterei allora il peccato, ma acquisterei meriti preziosi, pur parlando molto. Perché quell’uomo di cui Tu fosti la felicità non avrebbe comandato di peccare al suo vero figlio nella fede, quando gli scrisse: Predica la parola, insisti a tempo e fuori tempo 331. Non si dovrà dire che ha molto parlato colui che non taceva la tua parola, Signore, non solo a tempo, ma anche fuori tempo? Ma non c’erano molte parole, perché c’era solo il necessario. Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima misera alla tua presenza e che si rifugia nella tua misericordia. Infatti non tace il pensiero, anche quando tace la mia bocca. Se almeno non pensassi se non ciò che ti è grato, certamente non ti pregherei di liberarmi dalla moltitudine di parole. Ma molti sono i miei pensieri, tali quali Tu sai che sono i pensieri degli uomini, cioè vani 332. Concedimi di non consentirvi e, anche quando vi trovo qualche diletto, di condannarli almeno e di non abbandonarmi ad essi come in una specie di sonno. Né essi prendano su di me tanta forza da influire in qualche modo sulla mia attività, ma almeno siano al sicuro dal loro influsso i miei giudizi, sia al sicuro la mia coscienza, con la tua protezione. Parlando di Te un sapiente nel suo libro, che si chiama Ecclesiastico, ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla meta, la somma di tutte le parole è: Lui è tutto 333. Quando dunque arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti 334, e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te. Signore, unico Dio, Dio Trinità, sappiano essere riconoscenti anche i tuoi per tutto ciò che è tuo di quanto ho scritto in questi libri. Se in essi c’è del mio, siimi indulgente Tu e lo siano i tuoi. Amen.