Sant’Agostino
Alcuni argomentavano contro gli Ariani partendo dalle parole della Scrittura: Cristo è la forza e la sapienza di Dio
1. 1. Alcuni ritengono che l’uguaglianza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sia difficilmente concepibile in quanto la Scrittura dice: Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio
1. Non sembra vi sia uguaglianza perché il Padre non è personalmente la forza e la sapienza, ma il genitore della forza e della sapienza. E certamente indagare in che senso il Padre si chiami Dio della forza e della sapienza è cosa che ordinariamente esige una riflessione tutt’altro che superficiale. Ora l’Apostolo afferma: Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio. Partendo da questo testo alcuni dei nostri hanno argomentato contro gli Ariani, contro quelli precisamente che per primi si ribellarono alla fede cattolica, contrapponendo il seguente ragionamento. Si attribuisce allo stesso Ario questa argomentazione: Se Cristo è figlio, è nato. Se è nato vi fu un tempo in cui il figlio non esisteva 2. Ario dunque non comprendeva che anche l’essere nato, in Dio, è eterno, cosicché il Figlio è coeterno al Padre, come lo splendore che il fuoco genera e diffonde è coevo al fuoco e sarebbe coeterno se il fuoco fosse eterno. Perciò alcuni Ariani più tardi hanno respinto questa opinione ed ammesso che il Figlio di Dio non ha avuto inizio nel tempo. Ma nelle controversie che i nostri sostennero con coloro che affermavano: Vi fu un tempo in cui il Figlio non esisteva, alcuni inserivano anche questo ragionamento: "Se il Figlio di Dio è la forza e la sapienza di Dio, e se Dio non è mai stato senza la forza e la sapienza, il Figlio è coeterno a Dio Padre. Ora l’Apostolo afferma: Cristo è la forza e la sapienza di Dio, ed è stolto pretendere che Dio in qualsiasi momento non abbia avuto la forza e la sapienza; dunque non vi fu alcun momento in cui non esistesse il Figlio 3".Inconvenienti di questo modo di argomentare
1. 2. Questo ragionamento ci obbliga ad ammettere che Dio Padre non è sapiente se non in quanto possiede la sapienza da lui generata
4, non in quanto è da sé la stessa sapienza. Inoltre, se le cose stanno così, bisogna vedere se anche lo stesso Figlio possa essere chiamato "Sapienza da sapienza", come è chiamato "Dio da Dio", "Luce da luce", nel caso che il Padre non sia la sapienza stessa, ma il genitore della sapienza. In questa ipotesi, perché il Padre non sarebbe anche il genitore della sua grandezza e della sua bontà, della sua eternità, della sua onnipotenza, in modo da non essere lui stesso la sua grandezza e la sua bontà e la sua eternità e la sua onnipotenza, ma grande per la grandezza che ha generato e buono per la bontà, eterno per l’eternità, onnipotente per l’onnipotenza nata da lui, allo stesso modo che egli non è lui stesso la sua sapienza, ma sapiente per la sapienza che è nata da lui 5? Infatti non c’è da pensare di sentirci costretti ad ammettere l’esistenza di molti figli di Dio - lasciando da parte l’adozione della creatura - figli coeterni al Padre, se il Padre è genitore della sua grandezza e della sua bontà e della sua eternità e della sua onnipotenza. A questo sofisma infatti è facile rispondere: sebbene siano nominate molte cose, non ne consegue che egli sia padre di molti figli coeterni, alla stessa maniera che dal fatto che Cristo è detto forza di Dio e sapienza di Dio 6, non consegue che egli sia padre di due figli. Infatti in lui la forza si identifica con la sapienza e la sapienza con la forza. E lo stesso vale per tutte le altre denominazioni, cosicché la grandezza è identica alla forza e così anche si dica per tutti gli attributi già enumerati e per gli altri che si potrebbero enumerare.Ogni attributo che designa la loro essenza concerne il Padre e il Figlio insieme
2. 3. Ma se al Padre in se stesso non si riconosce altro che quanto di lui si dice rispetto al Figlio, cioè padre, genitore, principio, essendo logicamente colui che genera principio per colui che viene generato; se poi qualunque altro attributo gli è dato con il Figlio, o piuttosto nel Figlio: grande per la grandezza da lui generata, giusto per la giustizia da lui generata, buono per la bontà da lui generata, potente per la potenza, o per la forza da lui generata, sapiente per la sapienza da lui generata, mentre il Padre non è detto la grandezza stessa, ma il generatore della grandezza; se, d’altra parte, l’attributo di Figlio è proprio del Figlio e non comune con il Padre, sebbene relativo al Padre, e tuttavia il Figlio non è grande da se stesso, bensì con il Padre di cui egli è la grandezza, ed ugualmente sapiente con il Padre di cui egli è la sapienza, come il Padre è sapiente con il Figlio, essendo sapiente per la sapienza da lui generata
7, ne consegue che tutti gli attributi che competono a ciascuna delle due Persone in senso assoluto non le competono con esclusione dell’altra, ossia ogni attributo che si riferisce alla loro sostanza li include entrambi. Ne segue che né il Padre è Dio senza il Figlio, né il Figlio è Dio senza il Padre. Ma ambedue insieme sono Dio. E l’espressione: In principio era il Verbo, si ha da intendere: "Nel Padre era il Verbo". Oppure se "in principio" equivale a prima di tutte le cose, nelle parole seguenti: E il Verbo era presso Dio 8, s’intende per Verbo solo il Figlio, non il Padre e il Figlio insieme come un unico Verbo. (Si corrispondono infatti Verbo ed Immagine 9; ma il Padre e il Figlio non sono insieme una Immagine, bensì solo il Figlio è Immagine del Padre come è suo Figlio; non sono ambedue insieme un unico Figlio). Nell’affermazione successiva: E il Verbo era presso Dio 10, interessa intendere il Verbo per il solo Figlio, era presso Dio non per il solo Padre, ma Dio come Padre e Figlio insieme. Che c’è di strano se in questo modo possiamo esprimerci a proposito di certe cose molto diverse tra loro? Infatti quali cose più differenti dell’anima e il corpo? Eppure si può dire: L’anima era presso l’uomo, cioè nell’uomo, perché l’anima non è il corpo e l’uomo è insieme anima e corpo 11. Di modo che le parole che seguono: Il Verbo era Dio, s’intendono così: Il Verbo che non è il Padre, era Dio insieme con il Padre. Qual è, dunque, la conclusione? Diciamo così nel senso che il Padre è il generatore della grandezza, ossia il generatore della propria forza, il generatore della propria sapienza; il Figlio è la grandezza, la forza e la sapienza 12; Dio invece, grande, onnipotente, sono ambedue insieme? Come allora Dio da Dio, luce da luce? Non infatti ambedue insieme Dio da Dio, ma solo il Figlio da Dio, cioè dal Padre; né ambedue luce da luce, ma solo il Figlio dalla luce, che è il Padre. A meno che, forse, per suggerire ed inculcare sinteticamente la coeternità del Figlio con il Padre non sia stata usata l’espressione: "Dio da Dio" o "luce da luce", ed ogni altra espressione di questo genere, per dire: ciò che il Figlio non è senza il Padre, gli viene da ciò che il Padre non è senza il Figlio, cioè questa luce, che non è luce senza il Padre, da quella luce che è il Padre, il quale non è luce senza il Figlio; così nell’espressione: Dio - ciò che il Figlio non è senza il Padre - e da Dio - ciò che il Padre non è senza il Figlio - si comprende perfettamente che il genitore non è anteriore a ciò che ha generato. Se è così, solo ciò che non sono tutti e due insieme, non si può dire di essi "questo da quello". Come non si può dire "Verbo da Verbo", perché non sono Verbo tutti e due insieme, ma solo il Figlio; né "Immagine da Immagine", perché non sono ambedue insieme immagine, né "Figlio da Figlio", perché non sono ambedue insieme Figlio, secondo l’espressione: Io e il Padre siamo una sola cosa 13. Siamo una sola cosa è detto. Ciò che Egli è, lo sono anch’io secondo l’essenza, non secondo la relazione.Il Padre e il Figlio sono una sola cosa, in quanto una sola sostanza
3. 4. Ed ignoro se si trovi nella Scrittura l’espressione: "sono una sola cosa" a proposito di esseri di natura differente. Ma se anche vi sono esseri della stessa natura, ma di sentimenti diversi non sono una sola cosa certo, in quanto hanno sentimenti diversi. Quando raccomandò i suoi discepoli al Padre, Cristo, se già fossero stati una cosa sola per il fatto che erano uomini, non avrebbe detto: Che siano una sola cosa, come anche noi siamo una sola cosa
14. Ma Paolo ed Apollo erano tutti e due uomini e pensavano allo stesso modo, e così l’Apostolo disse: Colui che pianta e colui che irriga sono una stessa cosa 15. Dunque l’espressione "una sola cosa" quando non si specifica di che unità si tratti, e si dice che sono una sola varie cose, significa che sono di una identica natura ed essenza, senza dissomiglianza e dissentimento. Se al contrario si precisa di che unità si tratta, l’espressione può applicarsi ad una cosa composta di molti elementi, anche di diversa natura. Per esempio l’anima ed il corpo non sono evidentemente una sola cosa - che c’è infatti di più diverso? - a meno che non si precisi o sottintenda di che unità si tratti: un uomo o un animale. Perciò l’Apostolo dice: Colui che si unisce ad una meretrice, è un solo corpo con essa 16. Non disse "sono una sola cosa", oppure "è una sola cosa", ma aggiunse la parola "corpo", quasi si trattasse di un solo corpo, composto dal contatto dei due differenti corpi dell’uomo e della donna. E ancora: Colui che si unisce al Signore è un solo spirito 17. Non disse: "Colui che si unisce al Signore è uno solo, o sono una cosa sola", ma aggiunse la parola: spirito. Infatti lo spirito di Dio e lo spirito dell’uomo sono una cosa diversa per natura, ma per l’unione si forma un solo spirito da due spiriti diversi, in modo tale che lo spirito di Dio è beato e perfetto senza lo spirito dell’uomo, ma lo spirito dell’uomo non è beato che con Dio 18. Né è casuale il fatto, credo, che nel Vangelo di San Giovanni il Signore, pur parlando tante volte e con tanto vigore dell’unità, della sua unità con il Padre, o della mutua unità tra noi, non abbia mai detto: "Che noi ed essi siamo una cosa sola", ma: Che siano una sola cosa, come anche noi siamo una sola cosa 19. Dunque il Padre ed il Figlio sono una sola cosa, beninteso, di un’unità di sostanza e un solo Dio, un solo grande, un solo sapiente, come si è dimostrato.Uguaglianza totale del Figlio col Padre per quanto concerne la sostanza
3. 5. Ma allora, in che cosa è più grande il Padre
20? Se è più grande, è più grande per la grandezza. Ma perché la sua grandezza è suo Figlio e questo non è certo più grande di colui che lo ha generato, né quest’ultimo più grande della grandezza per la quale è grande, ne consegue che è uguale, ma come uguale se non per quello che è, non distinguendosi in lui l’essere dall’essere grande? Se fosse per l’eternità che il Padre è più grande, il Figlio non è uguale a lui sotto ogni aspetto. Da che cosa proviene infatti la sua uguaglianza? Se si risponde che proviene dalla grandezza, è facile controbattere che non è uguale una grandezza che è meno eterna dell’altra e così di seguito. O forse è uguale per la forza, ma ineguale in sapienza? Ma come può essere uguale una forza che ha meno sapienza dell’altra? O è forse uguale in sapienza, ma non in forza? Ma come può essere uguale una sapienza che ha meno potenza dell’altra? Non resta dunque che concludere che, se in una cosa non è uguale, non è uguale da nessun punto di vista. Ma la Scrittura proclama: Non giudicò rapina l’essere uguale a Dio 21. Perciò, per quanto nemico della verità uno sia, purché rispetti l’autorità dell’Apostolo, è costretto a riconoscere l’uguaglianza del Figlio con Dio, sotto ogni aspetto, come in uno solo. Scelga quello che vorrà: sarà sufficiente per provargli l’uguaglianza del Figlio in tutto ciò che si predica della sua sostanza.Analogia tratta dalla virtù umana
4. 6. Succede la stessa cosa con le virtù dell’anima umana. Le une rispondono ad una nozione, le altre ad un’altra, ma non sono affatto separate le une dalle altre, di modo che coloro che sono uguali, per esempio, in fortezza, lo saranno pure e in prudenza, e giustizia e temperanza. Se infatti affermerai che costoro sono uguali in fortezza, ma che uno è superiore in prudenza, ne consegue che la fortezza degli altri è meno prudente e perciò non sono uguali nemmeno in fortezza, essendo più prudente la fortezza di uno di essi. Ed osserverai la stessa cosa delle altre virtù, se le passerai in rivista alla stessa maniera. Infatti non si tratta del vigore del corpo, ma della fortezza dell’anima. Con quanta maggiore perfezione si verificherà questa stessa cosa in quella immutabile ed eterna sostanza, incomparabilmente più semplice dell’anima umana? Perché, per l’anima umana, essere non è la stessa cosa che essere forte, o prudente, o giusta, o temperante; infatti può esistere l’anima senza possedere nessuna di queste virtù; ma per Dio essere è la stessa cosa che essere potente, o giusto, o sapiente e tutto ciò che attribuirai a quella semplice molteplicità o molteplice semplicità per designare la sua sostanza. Perciò, sia che l’espressione "Dio da Dio" si adoperi in modo che il nome Dio convenga a ciascuno di essi in particolare non tuttavia nel senso che ambedue insieme siano due dèi, ma un solo Dio (essi infatti sono tanto uniti tra loro come l’Apostolo afferma anche di sostanze distanti e differenti tra loro. Per esempio il Signore da solo è Spirito
22 e da solo lo spirito dell’uomo è spirito. Tuttavia se lo spirito umano aderisce al Signore fa un solo spirito 23, quanto più allora l’unità non sarà da affermarsi là dove vige un vincolo così indistruttibile ed eterno, affinché non si abbia l’aria di pensare in maniera assurda ad un figlio di due persone quando si parla di Figlio di Dio 24, se il nome di Dio non si applica ad ambedue insieme), sia che tutto ciò che si dice di Dio come indicante la sua sostanza non si predichi che di ambedue, anzi della stessa Trinità insieme; sia dunque vera la prima ipotesi o la seconda - il problema è da discutersi più a fondo - per l’argomento di cui ora trattiamo ci basta sapere che il Figlio non è uguale al Padre in nessuna maniera se si rivela ineguale a lui in qualche cosa che concerna la sua sostanza, come già abbiamo mostrato. Ma l’Apostolo ha detto che è uguale, perciò il Figlio è uguale al Padre sotto ogni aspetto 25, ed è di una medesima ed unica sostanza.Lo Spirito Santo è la "carità" del Padre e del Figlio, ad essi consustanziale
5. 7. Per questo anche lo Spirito Santo sussiste insieme in questa medesima unità e uguaglianza di sostanza. Sia egli infatti l’unità delle due altre Persone, o la loro santità, o il loro amore, sia la loro unità perché è il loro amore, e sia il loro amore perché è la loro santità, è chiaro che non è affatto una delle due prime Persone, in cui si attua il vincolo della loro mutua unione, in cui il generato sia amato dal suo generante ed ami il suo generatore, in cui tutti e due conservino, non per partecipazione, ma per loro essenza, non per il dono di un essere superiore, ma per il dono di sé, l’unità di spirito nel vincolo della pace
26. E ciò che ci viene comandato di imitare, aiutati dalla grazia 27, sia nei riguardi di Dio, sia tra noi stessi; in questi due precetti è contenuta tutta la Legge ed i Profeti 28. E così questi Tre sono un solo Dio unico, grande, sapiente, santo, beato. Noi invece siamo beati da lui, per mezzo di lui, in lui 29, perché per grazia sua siamo una sola cosa tra noi ed un solo spirito 30 con lui, sempre che la nostra anima si unisca a lui. Aderire a Dio è il nostro bene 31, perché egli perderà chiunque gli è infedele 32. Lo Spirito Santo è dunque qualcosa di comune al Padre e al Figlio, qualsiasi cosa sia, o più precisamente la stessa comunione consustanziale ed eterna; se il nome di amicizia le si addice, la si chiami così, ma è più esatto chiamarla carità. Ed anche questa carità è sostanza, perché Dio è sostanza e Dio è carità 33, secondo la Scrittura. D’altra parte, come la carità è sostanza insieme con il Padre e con il Figlio così anche insieme è grande, buona, santa e tutto ciò che di Dio si dice in senso assoluto, perché per Dio è la stessa cosa essere ed essere grande o buono o gli altri attributi, come sopra abbiamo mostrato. Infatti se in lui la carità è meno grande della sapienza, la sapienza non è amata, tale quale è, ma la sapienza è uguale al Padre 34, come sopra abbiamo indagato; perciò è uguale anche lo Spirito Santo e, se è uguale, è uguale sotto ogni aspetto per la somma semplicità di quella sostanza divina. Di conseguenza non sono più di tre: uno che ama colui che ha origine da lui, uno che ama colui dal quale ha origine, e l’amore stesso. E se questo è niente, in che modo Dio è carità 35? E se questo non è sostanza, in che modo Dio è sostanza?In che senso la sostanza divina è semplice e molteplice
6. 8. Se ci si chiede come questa sostanza è semplice e molteplice, bisogna prima osservare perché la creatura è composta e in nessun modo veramente semplice. Anzitutto l’universo corporeo si compone, beninteso, di parti in modo che vi è una parte più grande, un’altra più piccola, e l’universo è più grande di qualsiasi sua parte, per quanto grande essa sia. Infatti il cielo e la terra sono parti della massa dell’universo e la terra sola o il cielo solo a loro volta si compongono di innumerevoli parti e la terza parte è minore del resto e la metà minore del tutto. L’insieme del mondo che si è soliti chiamare con i nomi delle sue due parti, il cielo e la terra, è più grande certo che il cielo e la terra presi separatamente. Inoltre in ogni corpo altra cosa è la grandezza, altra il colore, altra la forma. Infatti può diminuire la grandezza, pur restando immutati il colore e la forma; può mutare il colore, restando identica la forma e la grandezza; può cambiare la forma, pur conservando il corpo la sua grandezza e il suo colore. Tutte le proprietà fisiche attribuite al corpo possono trasformarsi tutte insieme o alcune senza le altre. Di qui si ha la prova che la natura corporea è composta e manca assolutamente di semplicità. La stessa creatura spirituale, l’anima per esempio, paragonata al corpo è molto più semplice, ma al di fuori di questo paragone, è composta; anch’essa è priva di semplicità. Certo è più semplice del corpo, perché non espande la sua mole nello spazio, ma in ogni corpo è tutta intera nel tutto, tutta intera in ogni parte e per questo, quando accade nella più piccola particella del corpo un qualcosa che l’anima possa sentire, sebbene ciò non accada nel corpo intero, l’anima lo sente tutta intera, perché ad essa tutta intera non sfugge. Tuttavia anche per l’anima una cosa è essere attiva, altra essere inerte; una cosa aver lo spirito penetrante, altra la memoria fedele; una cosa è il desiderio, altra il timore; una cosa è la gioia, altra la tristezza, e queste disposizioni possono trovarsi nella natura dell’anima le une senza le altre, alcune con maggiore intensità, altre con minore, in maniera infinita, incalcolabile. È perciò evidente che l’anima non è una natura semplice, ma molteplice. Infatti nulla di ciò che è semplice è mutevole, ma qualsiasi creatura è mutevole.
Dio è Trinità, ma non per questo è triplice
7. Dio invece riceve molti attributi: grande, buono, sapiente, beato, verace e ogni altro non indegno di lui. Ma la sua grandezza s’identifica con la sua sapienza (infatti non è grande per la sua mole, ma per la sua potenza), e la sua bontà è la stessa cosa che la sua sapienza e grandezza, e la stessa verità è la identica cosa che tutto questo. Ed in lui non è altra cosa l’essere beato e l’essere grande e sapiente, o vero, o buono, o semplicemente l’essere.
7. 9. Né perché è Trinità ne consegue che si debba ritenerlo triplice: altrimenti il Padre solo, o il Figlio solo sarebbero minori del Padre e Figlio insieme. Sebbene d’altra parte non si veda come si possa parlare di Padre solo e di Figlio solo, perché l’uno è sempre inseparabilmente con il Figlio, l’altro con il Padre; non che siano tutti e due Padre o tutti e due Figlio, ma perché sono sempre l’uno con l’altro, mai solo né l’uno né l’altro. Allo stesso modo noi diciamo un Dio "solo" la stessa Trinità, benché sia sempre in compagnia degli spiriti e delle anime sante, ma noi lo chiamiamo "solo" in quanto è Dio, perché questi non sono Dio con lui, altrettanto diciamo del Padre che è "solo", non perché sia separato dal Figlio, ma perché non sono Padre tutti e due insieme.
Nessun accrescimento in Dio per il numero
8. Poiché dunque tanto grande è il Padre da solo o il Figlio da solo o lo Spirito Santo da solo, quanto il Padre il Figlio e lo Spirito Santo insieme, in nessun modo si deve dire triplice. I corpi crescono per addizione. Sebbene colui che si unisce alla sua sposa non faccia che un solo corpo
36, tuttavia questo è un corpo più grande che se fosse il corpo dell’uomo solo o della donna sola. Ma nelle cose spirituali, quando il più piccolo si unisce al più grande, come la creatura al Creatore, il primo diventa più grande di quello che era, non il secondo. Infatti in queste realtà la cui grandezza non è quantitativa, divenir più grande equivale a divenire migliore. Ora migliore si fa lo spirito creato aderendo al Creatore cui prima non aderiva, e in tanto anche più grande in quanto migliore. Chi dunque si unisce al Signore è un solo spirito 37, ma il Signore non diventa per questo più grande, sebbene lo diventi colui che al Signore si unisce. Ebbene in Dio stesso quando il Figlio, che è uguale al Padre, aderisce al Padre, che è uguale al Figlio, e lo Spirito Santo, che è loro uguale, aderisce al Padre e al Figlio, Dio non diviene più grande di ciascuno di loro, perché quella perfezione non può crescere in alcun modo. Perfetto tanto il Padre, tanto il Figlio, tanto lo Spirito Santo e perfetto Dio Padre e Figlio e Spirito Santo, e perciò Trinità piuttosto che triplicità.La Trinità è un solo vero Dio
9. 10. Poiché abbiamo mostrato in che modo il Padre possa dirsi solo, cioè nel senso che nella Trinità egli soltanto è Padre, dobbiamo esaminare l’affermazione che il solo vero Dio non è il Padre soltanto, ma il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Se qualcuno chiede: "Il Padre solo è Dio?" come rispondere che non lo è, a meno forse di dire: "Il Padre è Dio, ma non il solo Dio, perché il solo Dio è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo". Ma come interpreteremo allora la testimonianza del Signore? Egli parlava al Padre - e "Padre" era il nome che dava a colui al quale si rivolgeva - quando esclamò: Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio
38. Gli Ariani sono soliti interpretare quella affermazione nel senso che il Figlio non è vero Dio 39. Lasciando da parte costoro, occorre vedere se siamo obbligati a intendere questa espressione del Signore, rivolta al Padre: Che conoscano te solo Dio vero 40, nel senso che abbia voluto far intendere che il solo Padre è il vero Dio e metterci in guardia dal pensare che sono un solo Dio i Tre insieme: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Non è forse dunque basandoci sulla testimonianza del Signore che noi chiamiamo il Padre solo vero Dio, il Figlio solo vero Dio, lo Spirito Santo solo vero Dio e il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo insieme, cioè tutta la Trinità insieme, non tre veri dèi, ma l’unico vero Dio 41? O perché ha aggiunto: E colui che hai mandato, Gesù Cristo 42, si debbono sottintendere le parole: "unico vero Dio" e ordinare così la frase: "che conoscano te e colui che hai mandato Gesù Cristo, come l’unico vero Dio"? Perché allora non parla dello Spirito Santo? Forse perché ovunque si nomina una realtà unita ad un’altra con una pace così profonda che di queste due cose se ne fa una, si deve di conseguenza pensare a questa stessa pace, sebbene non sia menzionata? Infatti l’Apostolo sembra quasi passare sotto silenzio lo Spirito Santo, e tuttavia pensa a lui nel passo: Tutto è vostro, voi siete di Cristo e Cristo è di Dio 43; e altrove: Il capo della donna è l’uomo; il capo dell’uomo è Cristo; il capo di Cristo è Dio 44. Ma d’altra parte, se non sono Dio che queste tre Persone insieme, come può essere Dio il capo di Cristo, cioè come può essere la Trinità il capo di Cristo, dato che Cristo appartiene alla Trinità, perché vi sia la Trinità? Forse ciò che è il Padre congiuntamente con il Figlio, è capo di ciò che è il Figlio solo? Infatti il Padre è Dio in unione con il Figlio, ma il Figlio solo è Cristo, considerato soprattutto che è il Verbo fatto carne 45 che parla. È anche per questo suo umile stato che il Padre è più grande di lui, come lo afferma: Perché il Padre è più grande di me 46. Così lo stesso essere Dio, che il Verbo ha in comune con il Padre, è capo dell’uomo mediatore, che il Verbo solo è. Infatti se noi siamo nel giusto quando affermiamo che lo spirito è l’elemento principale dell’uomo, ossia, se così si può dire, che è il capo della sostanza umana pur essendo, l’uomo, uomo per il suo spirito; perché non è più esatto e molto preferibile affermare che il Verbo è, con il Padre, Dio insieme con lui, capo di Cristo, sebbene sia impossibile pensare il Cristo uomo 47, senza la presenza del Verbo fatto carne 48? Ma, come si è già detto, considereremo più attentamente questo punto più avanti. Per il momento abbiamo dimostrato, quanto più brevemente l’abbiamo potuto, l’uguaglianza, l’unità e l’identità sostanziale della Trinità affinché in qualunque modo si presenti la questione di cui si è appena parlato, e la cui discussione abbiamo rimandato per sottoporla ad un esame più attento, niente ci impedisca di riconoscere la suprema uguaglianza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.Le proprietà delle Persone secondo Ilario
10. 11. Uno scrittore, volendo far comprendere in poche parole le proprietà di ciascuna delle Persone della Trinità disse: L’eternità è nel Padre, la forma nell’Immagine, la fruizione nel Dono
49. Si tratta di un uomo la cui autorità è grande nell’interpretazione delle Scritture e nella difesa della fede. È Ilario che ha scritto ciò nei suoi libri. Di questi termini: Padre, Immagine, Dono, eternità, forma, fruizione, ho scrutato, per quanto ne sono capace, il senso nascosto e non credo di essermi discostato dal suo pensiero a proposito della parola "eternità" intendendola così: Il Padre non ha un Padre da cui procede, il Figlio invece riceve dal Padre e la sua esistenza e la sua coeternità con lui. Se l’immagine infatti riproduce perfettamente la realtà di cui è immagine, è essa che si eguaglia alla realtà e non questa all’immagine. In questa immagine egli pone in risalto la forma, a causa, penso, della bellezza. In essa vi è una così perfetta proporzione, la suprema uguaglianza, la suprema rassomiglianza, senza alcuna differenza, senza nessuna specie di ineguaglianza, senza la minima dissomiglianza, ma una corrispondenza fino all’identità con la realtà di cui è immagine. In essa c’è la vita primale e suprema, per la quale vivere non è diverso dall’essere, ma la stessa cosa è l’essere e il vivere. In essa vi è l’intelligenza prima e suprema per la quale non è diverso vivere e intendere, ma intendere è vivere, è essere tutt’uno 50. Essa è come un verbo perfetto, cui nulla manchi, una specie di arte di Dio onnipotente e sapiente, piena di tutte le ragioni immutabili degli esseri viventi: tutte in essa sono un’unica cosa, come essa è qualcosa d’uno che ha origine dall’Uno con il quale è una sola cosa. In essa Dio conosce tutto ciò che ha fatto per mezzo di essa e così, mentre i tempi passano e si succedono, niente passa e niente si succede nella scienza di Dio. Infatti gli esseri creati, non sono conosciuti da Dio perché sono stati creati, ma piuttosto sono stati creati, anche se mutevoli, perché immutabilmente conosciuti da lui. Così quell’ineffabile amplesso del Padre e dell’Immagine non è senza fruizione, senza carità, senza gioia. Questa dilezione, questo diletto, questa felicità, o, diciamo, beatitudine, se tuttavia una parola umana può esprimerla adeguatamente, Ilario chiama in maniera concisa "fruizione" ed è nella Trinità lo Spirito Santo che non è generato, ma è la soavità del genitore e del generato e inonda con la sua liberalità, con la sua abbondanza immensa tutte le creature secondo la loro capacità, affinché conservino il loro ordine e riposino nei loro luoghi.Vestigia della Trinità nelle creature
10. 12. Dunque tutte queste opere dell’arte divina presentano in sé una certa unità, forma ed ordine. Ognuna di queste costituisce qualcosa di uno, come le nature corporee e i caratteri delle anime; è costituita secondo una certa forma, come le figure e le qualità dei corpi, le teorie e le tecniche delle anime; persegue o tiene un determinato ordine, come i pesi e le posizioni dei corpi, gli amori ed i piaceri delle anime. È dunque necessario che, conoscendo il Creatore per mezzo delle sue opere
51, ci eleviamo alla Trinità, di cui la creazione, in una certa e giusta proporzione, porta la traccia 52. È nella Trinità infatti che si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfetta, il gaudio completo. Così queste tre cose sembrano determinarsi da sé vicendevolmente e sono in se stesse infinite. Però quaggiù nelle cose corporee una cosa sola non è uguale a tre cose insieme e due cose sono più di una sola, mentre nella suprema Trinità una cosa sola è tanto grande quanto tre cose insieme, e due non sono maggiori di una. Inoltre sono in se stesse infinite. Così ciascuna di esse è in ciascuna delle altre, tutte sono in ciascuna, ciascuna in tutte, tutte in tutte e tutte sono una sola cosa. Colui che vede ciò anche parzialmente, anche per specchio, in enigma 53, goda di conoscere Dio, l’onori come Dio e gli renda grazie. Colui che non lo vede, si sforzi di vederlo per mezzo della pietà non di calunniare per la sua cecità. Perché c’è un solo Dio, ma è Trinità. Dunque non bisogna intendere come dette alla rinfusa queste parole: Dal quale, per mezzo del quale, nel quale sono tutte le cose 54, e non a molti dèi ma: a lui è la gloria nei secoli dei secoli. Amen 55.Agostino riprende il problema: Ciascuna persona è per se stessa sapienza?
1. 1. Ed ora investighiamo con maggior diligenza, nella misura in cui Dio lo concederà, il problema che poco fa abbiamo lasciato in sospeso: nella Trinità ciascuna Persona può essere - per se stessa e indipendentemente dalle altre due - chiamata Dio, o grande, o sapiente, o verace, o onnipotente, o giusto, o qualsiasi altro appellativo applicabile a Dio, non in senso relativo ma in senso assoluto? Oppure queste espressioni si debbono usare soltanto quando si pensa alla Trinità? La difficoltà nasce dal testo: Cristo è forza di Dio e sapienza di Dio 1. Ci si chiede se Dio è padre della sua sapienza e della sua forza in modo che egli sia sapiente per la sapienza che ha generato e potente per la forza che ha generato e se, poiché è sempre potente e sapiente 2, sempre abbia generato la forza e la sapienza. Se le cose stanno così, dicevamo, perché non sarebbe padre anche della sua grandezza per la quale è grande, della sua bontà per la quale è buono, della giustizia per la quale è giusto, e così degli altri attributi, se ve ne sono? E se tutto ciò, sotto nomi diversi, è compreso nella stessa sapienza e forza in modo che la grandezza sia la stessa cosa che la forza, la bontà la stessa cosa che la sapienza, ed ancora la sapienza la stessa cosa che la forza, come abbiamo già mostrato nella nostra trattazione, ci ricorderemo, quando nomino uno di questi attributi, di prenderlo come se li nominassi tutti. Ci si chiede dunque se il Padre, anche considerato come persona singola, sia sapiente e se è per se stesso la propria sapienza, ovvero se è sapiente come "dicente". Infatti è dicente con il Verbo che ha generato 3, ma non con il verbo che si pronuncia, risuona e passa, bensì con il Verbo che era presso Dio, e il Verbo era Dio 4, e tutte le cose furono fatte per mezzo di lui 5. Con il Verbo uguale a lui, con il quale sempre e immutabilmente dice se stesso. Il Padre infatti non è Verbo, come non è nemmeno Figlio, né Immagine. Egli è invece "dicente" (escludiamo le parole passeggere che Dio fa udire alle creature; infatti queste risuonano e passano) "dicente", ripeto, con quel Verbo che è a lui coeterno e, come tale, non si considera a parte ma in unione con lo stesso Verbo, senza il quale evidentemente non è "dicente". È dunque sapiente allo stesso modo che "dicente", così che sia sapienza come Verbo ed essere Verbo equivalga ad essere sapienza, e altresì ad essere forza e s’identifichino forza, sapienza e Verbo e tutto ciò si predichi relativamente come Figlio e Immagine? Così il Padre non sarebbe né sapiente né potente considerato singolarmente, ma solo in unione con la forza e la sapienza che ha generato, come non è "dicente" considerato a parte, ma per quel Verbo e con quel Verbo che ha generato, e così pure grande per quella grandezza e con quella grandezza che ha generato? Se ciò per cui il Padre è grande non è diverso da ciò per cui è Dio, ma è grande per ciò per cui è Dio, perché per lui essere grande ed essere Dio è la stessa cosa, ne consegue che non è nemmeno Dio da solo, ma per quella deità e con quella deità che ha generato. Allora il Figlio sarebbe la deità del Padre, come è la forza e la sapienza del Padre, come anche è il Verbo e l’Immagine del Padre 6. E poiché per lui non è cosa diversa essere ed essere Dio, il Figlio sarebbe anche l’essenza del Padre, come è il suo Verbo e la sua Immagine. E perciò il Padre non soltanto non sarebbe Padre, ma non sarebbe nulla affatto, se non a condizione di avere un Figlio, e così non solo la sua paternità, che evidentemente non ha significato assoluto bensì relativo al Figlio, essendo Padre precisamente perché ha un Figlio, ma anche ciò che egli è per se stesso assolutamente dipende dall’aver egli generato la sua essenza. Come egli non è grande che per la grandezza che ha generato, così non è che per l’essenza che ha generato, perché essere ed essere grande è per lui una stessa cosa. Ma allora è padre della sua essenza, come è padre della sua grandezza, come è padre della sua forza e della sua sapienza, dato che la sua grandezza è la stessa cosa che la sua forza e la sua essenza è la stessa cosa che la sua grandezza?
Soluzione del problema: il Figlio è sapienza da sapienza come luce da luce
1. 2. Questa discussione è nata dall’affermazione della Scrittura: Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio 7. Il nostro modo di esprimerci è per questo fatto come chiuso nella morsa di precise alternative, quando intendiamo esprimere l’ineffabile: o negare che Cristo sia la forza di Dio e la sapienza di Dio, e così metterci in opposizione con l’affermazione dell’Apostolo, ciò che costituisce un’impudenza e un’empietà; oppure ammettere che Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio, ma senza affermare che il Padre sia padre della sua forza e della sua sapienza, cosa non meno empia, perché allora egli non sarebbe padre nemmeno di Cristo, poiché Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio; o riconoscere che il Padre non è potente per la sua forza, né sapiente per la sua sapienza (ma chi oserà dirlo?); ovvero pensare che nel Padre essere ed essere sapiente siano cose diverse in modo che sia diverso ciò per cui egli è e ciò per cui è sapiente, come si pensa comunemente dell’anima che è talvolta insensata, altra volta sapiente alla maniera di una sostanza mutevole e non sommamente e perfettamente semplice; oppure ammettere che il Padre non è una realtà assoluta e che non solo in quanto è Padre, ma in quanto semplicemente esiste è relativo al Figlio. Come allora il Figlio è della stessa essenza del Padre, se questi in senso assoluto non è essenza, né in sé esiste in alcun modo, essendo per lui l’esistenza stessa relativa al Figlio? Al contrario, invece: il Figlio è tanto più di una medesima essenza con il Padre, perché il Padre e il Figlio sono una sola e medesima essenza. Il Padre non esiste in senso assoluto, ma relativamente al Figlio come essenza che egli ha generato e per la quale egli è tutto ciò che è. Nessuno dei due, dunque, è per se stesso e ciascuno dei due si dice relativamente all’altro, oppure solo per il Padre è vero che non soltanto la sua paternità, ma semplicemente tutto ciò che si predica di lui, gli si attribuisce relativamente al Figlio, mentre questi avrebbe anche attributi assoluti? Se fosse così, quali gli attributi assoluti? Forse la stessa essenza? Ma il Figlio è l’essenza del Padre, come egli è la forza e la sapienza del Padre, come è il Verbo e l’Immagine del Padre 8. Se, al contrario, il Figlio è detto essenza in senso assoluto, allora il Padre non è l’essenza, ma il genitore dell’essenza ed egli non esiste di per se stesso, ma per quella stessa essenza che ha generato, alla stessa maniera che è grande per quella stessa grandezza che ha generato. Allora però il Figlio sarebbe chiamato in senso assoluto anche grandezza, e dunque forza, sapienza, Verbo ed Immagine. Ma che cosa vi è di più assurdo che parlare di una immagine assoluta? Se Immagine e Verbo non sono la stessa cosa che forza e sapienza, perché i primi due termini hanno un significato relativo, i secondi due assoluto, senza rapporto ad un’altra cosa, il Padre non inizia ad essere sapiente per la sapienza che ha generato, perché non si può affermare che il Padre dica relazione alla sapienza, mentre questa non direbbe relazione a lui. Infatti tutti i termini correlativi si predicano scambievolmente. Non resta altra alternativa che anche per la sua essenza il Figlio si dica relativamente al Padre e si giunge così a questo senso del tutto inaspettato che l’essenza non è essenza o, almeno, che quando si parla di essenza è la relazione e non l’essenza che si designa. Come quando, per esempio, si dice "padrone" non si indica l’essenza, ma la relazione in rapporto allo "schiavo"; al contrario quando si dice "uomo", o qualcosa di simile, il cui significato è assoluto, non relativo, allora si designa l’essenza. Quando perciò un uomo si dice "padrone", essenza è l’uomo stesso, padrone s’intende quindi relativamente: uomo infatti ha senso assoluto, padrone senso relativo allo schiavo. Ora, per tornare al nostro problema, se l’essenza stessa si prende in un senso relativo, la stessa essenza non è più essenza. Inoltre ogni essenza designata in senso relativo è pure qualcosa indipendentemente dalla relazione. Per esempio, nelle espressioni "uomo padrone", "uomo schiavo", "cavallo da tiro", "moneta caparra": "uomo", "cavallo", "moneta" sono termini assoluti, sono sostanze od essenze; invece "padrone", "schiavo", "da tiro", "caparra" sono termini che hanno un senso relativo. Ma se non ci fosse l’uomo, cioè una sostanza, non ci sarebbe alcuno che potesse venir chiamato "padrone" in senso relativo; se il cavallo non fosse un’essenza, non vi sarebbe nulla che si possa chiamare "da tiro" in senso relativo; così pure se la moneta non fosse una sostanza non potrebbe chiamarsi nemmeno "caparra" in senso relativo. Perciò anche il Padre, se non è nulla di assoluto, non può essere nemmeno alcunché di relativo 9. Non succede qui come per il colore che è relativo all’oggetto colorato. Non esiste assolutamente un colore assoluto; il colore è sempre il colore di qualcosa di colorato. Mentre l’oggetto al quale appartiene il colore, anche se in quanto oggetto colorato dice relazione al colore, in quanto corpo è qualcosa di assoluto. In nessun modo possiamo pensare così il Padre: che egli non sia nulla di assoluto, ma che tutto si dica di lui in senso relativo al Figlio; che il Figlio invece sia e qualcosa di assoluto in se stesso e qualcosa di relativo al Padre; assoluto evidentemente quando si dice grandezza grande e forte potenza; relativo al Padre, quando si dice grandezza e forza del Padre grande e potente; grandezza e forza cioè per cui il Padre è grande e potente. Questo non è dunque vero; ma l’uno e l’altro sono sostanza, e l’uno e l’altro sono la stessa sostanza. Ma come è assurdo affermare che la bianchezza non è bianca, così è assurdo affermare che la sapienza non è sapiente; e come la bianchezza è bianca in senso assoluto, così la sapienza è sapiente in senso assoluto. La bianchezza del corpo però non è un’essenza, perché è il corpo che è l’essenza e la bianchezza ne è la qualità. Perciò è per la bianchezza che il corpo è bianco, perché per il corpo essere non è la stessa cosa che essere bianco. Qui infatti una cosa è la forma, un’altra il colore e né l’una, né l’altra sono in se stesse, ma in una certa massa, massa che non è né la forma né il colore, ma è formata e colorata. La sapienza al contrario è sapiente, e sapiente di per se stessa, e poiché ogni anima diventa sapiente solo per partecipazione alla sapienza, se ridiventa insensata, nondimeno la sapienza rimane in se stessa, e quando anche l’anima dovesse mutare nel senso dell’insipienza, essa non muta. Non succede per colui che essa rende sapiente la stessa cosa che per la bianchezza nel corpo che essa fa bianco. Quando il corpo sarà stato mutato da un colore in un altro, non rimane quella bianchezza ma scompare totalmente. Ora, se il Padre che ha generato la sapienza è sapiente 10 per essa, se per lui essere, ed essere sapiente non è la stessa cosa, il Figlio è una sua qualità, non la sua prole e non vi sarà più qui una suprema semplicità. Ma non sia mai che si pensi che sia così: là vi è l’essenza supremamente semplice e là dunque essere ed essere sapiente si identificano. Ma se là essere ed essere sapiente sono la stessa cosa, non è la sapienza che egli ha generato che fa il Padre sapiente, altrimenti non lui avrebbe generato essa, ma essa lui. Che altro infatti diciamo, quando diciamo: per lui essere è essere sapiente, se non: è sapiente per ciò per cui è? Di conseguenza la causa che fa sì che sia sapiente è la stessa causa che fa sì che egli sia. Pertanto se la sapienza che il Padre ha generato è la causa che fa sì che egli sia sapiente, essa è anche la causa che fa sì che egli sia. E questo non è possibile se non in quanto lo genera e lo crea. Ma nessuno chiamerà mai la sapienza né generatrice, né creatrice del Padre. Che vi è infatti di più insensato? Dunque il Padre stesso è la sapienza e si chiama il Figlio sapienza del Padre come lo si chiama luce del Padre 11. Cioè allo stesso modo che si chiama il Figlio "luce da luce", e l’uno e l’altro sono una sola luce, così si ha da intendere "sapienza da sapienza" e l’uno e l’altro sono una sola sapienza. Perciò sono pure una sola essenza, perché qui essere è la stessa cosa che essere sapiente. Infatti ciò che essere sapiente è in rapporto alla sapienza, e il potere alla potenza, l’essere eterno all’eternità, l’essere giusto alla giustizia, l’essere grande alla grandezza, l’essere stesso lo è all’essenza. E poiché in quella semplicità essere sapiente non è cosa diversa dall’essere, ivi la sapienza è la stessa cosa che l’essenza.
Identità del Padre e del Figlio negli attributi essenziali, non nelle proprietà personali
2. 3. Dunque il Padre e il Figlio sono insieme una sola essenza, una sola grandezza, una sola verità, una sola sapienza. Tuttavia il Padre e il Figlio non sono entrambi insieme un solo Verbo, perché non sono entrambi insieme un solo Figlio. Infatti allo stesso modo che "Figlio" dice relazione al Padre e non ha un senso assoluto, così pure, quando si parla di Verbo, Verbo dice relazione a Colui di cui è Verbo. Egli è Figlio per ciò per cui è Verbo, ed è Verbo per ciò per cui è Figlio. Poiché dunque il Padre e il Figlio non sono evidentemente entrambi insieme un solo Figlio, ne consegue che il Padre e il Figlio non sono tutti e due insieme un solo Verbo. E perciò non vi è Verbo per il fatto che c’è sapienza, perché "verbo" non è termine assoluto, ma soltanto relativo a colui di cui è verbo, come Figlio a Padre, mentre invece vi è sapienza per il fatto stesso per cui vi è essenza. Perciò in quanto vi è un’essenza, vi è una sapienza. Tuttavia, poiché anche il Verbo è sapienza, ma non Verbo, per la stessa ragione che è sapienza - Verbo infatti s’intende relativamente, sapienza essenzialmente - quando si dice Verbo lo dobbiamo prendere come equivalente a sapienza nata 12, nello stesso senso di Figlio ed Immagine 13. E nell’espressione sapienza nata, il termine nata lo indica come Verbo, come Immagine, come Figlio; tutti vocaboli non assoluti, ma relativi, mentre il termine "sapienza" che è anche assoluto, essendo sapienza per se stessa, indica pure l’essenza e l’identità tra l’essenza e la sapienza 14. Presi dunque insieme il Padre e il Figlio sono una stessa sapienza, perché una stessa essenza, e presi singolarmente il Figlio è sapienza da sapienza, come essenza da essenza. Non si deve dunque pensare che, perché il Padre non è il Figlio, e il Figlio non è il Padre, o perché l’uno non è generato e l’altro è generato, per questo essi non sono una stessa essenza: i nomi di Padre e di Figlio indicano le loro relazioni, ma ambedue sono insieme una sola sapienza, una sola essenza, perché in essi si identificano essere ed essere sapiente. Tuttavia non sono entrambi insieme Verbo o Figlio perché non è la stessa cosa essere ed essere Verbo o Figlio, in quanto già abbiamo sufficientemente mostrato il senso relativo di questi termini.
Nella Scrittura "Sapienza" designa il Verbo
3. 4. Perché dunque nella Scrittura quasi in nessun luogo si parla della sapienza, se non per indicare che è generata o creata da Dio 15? Generata, quando si tratta della sapienza per mezzo della quale tutte le cose sono state fatte 16; creata o fatta, per esempio, negli uomini, quando si volgono verso la sapienza che non è stata creata né fatta, ma generata, e ne sono illuminati; in essi infatti diviene allora ciò che si chiama la loro sapienza; o ancora quando le Scritture preannunciano o raccontano che il Verbo si è fatto carne ed abitò fra noi 17. Infatti in questo modo Cristo è la sapienza fatta 18, perché si è fatto uomo. O forse nei Libri santi la sapienza non parla o non se ne tratta che per mostrarla come nata da Dio o fatta da Dio, sebbene anche il Padre sia la stessa sapienza, per raccomandarci ed invitarci ad imitare questa sapienza, ad imitazione della quale noi siamo formati 19? Il Padre infatti la dice, perché sia il suo Verbo, ma non alla maniera in cui si proferisce con la bocca il verbo sonoro o come questo è concepito prima di venir proferito, perché questo verbo per realizzarsi richiede periodi di tempo; quello invece è eterno e, illuminandoci, ci dice di sé e del Padre ciò che occorre dire agli uomini. Perciò afferma: Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo 20, perché è per mezzo del Figlio, cioè per mezzo del suo Verbo, che il Padre rivela. Se infatti il verbo che noi proferiamo è temporale e transitorio, e tuttavia manifesta se stesso e ciò di cui parliamo, quanto più il Verbo di Dio, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose 21? E manifesta il Padre proprio come il Padre è, perché anche lui è come è il Padre e ciò che è il Padre, in quanto è sapienza ed anche essenza. Infatti in quanto Verbo, non è ciò che è il Padre, perché il Verbo non è il Padre, e il Verbo è un termine relativo, come Figlio, ciò che il Padre evidentemente non è. Cristo è la potenza e la sapienza di Dio 22, proprio perché anche lui potenza e sapienza, ma dalla potenza e dalla sapienza che è il Padre, come è luce dalla luce che è il Padre, e fonte di vita 23 presso Dio Padre, che certo è fonte di vita. Poiché presso di te, dice la Scrittura, è la fonte della vita, nella tua luce vedremo la luce 24, perché come il Padre ha in se stesso la vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in se stesso 25; ed egli era la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo 26. Ora questa luce era il Verbo presso Dio, ma anche il Verbo era Dio 27; ma Dio è luce e tenebra alcuna non è in lui 28; luce non materiale, ma spirituale e non una luce spirituale ottenuta attraverso un’illuminazione come il Signore dice agli Apostoli: Voi siete la luce del mondo 29; ma la luce che illumina ogni uomo 30, la sapienza stessa che è Dio, la sapienza suprema, di cui ora trattiamo 31. Dunque il Figlio è sapienza dalla sapienza che è il Padre, come è "luce da luce", "Dio da Dio", in modo tale che il Padre è luce preso singolarmente, ed anche il Figlio è luce preso singolarmente; il Padre è Dio individualmente, ed anche il Figlio è Dio individualmente, e di conseguenza il Padre è sapienza individualmente ed anche il Figlio è sapienza individualmente. E come entrambi sono insieme una sola luce, ed un solo Dio, così sono entrambi una sola sapienza. Ma il Figlio è diventato per noi sapienza da parte di Dio, e giustizia e santificazione 32, perché è nel tempo, cioè a partire da un certo tempo, che noi ci convertiamo a lui, per restare con lui eternamente. E d’altra parte anche lui ad un certo momento del tempo Verbo, si è fatto carne ed abitò fra noi 33.
Il Verbo, Sapienza di Dio, senza modello per sé, è modello per noi
3. 5. Perciò, allorquando la Scrittura annuncia o narra qualcosa intorno alla sapienza, sia che la sapienza stessa parli, sia che si parli di essa, è il Figlio soprattutto che ci viene manifestato. Ad imitazione di questa immagine non allontaniamoci nemmeno noi da Dio, perché anche noi siamo immagine di Dio 34, ineguale certo, perché creata dal Padre per mezzo del Figlio, non nata dal Padre come quella sapienza; anche noi siamo immagine, perché illuminati dalla luce, mentre quella, perché è luce che illumina e perciò, senza modello per sé, è modello per noi. Essa infatti non è modellata su qualcuno che la precede guidandola al Padre, dal quale non è mai assolutamente separabile, perché è identica nell’essere a Colui dal quale ha origine. Noi, al contrario, con sforzo imitiamo un modello che non muta, seguiamo una guida che non si muove e camminando in lui tendiamo a lui, perché è divenuto per noi, nella sua umiltà, una via attraverso il tempo, lui che nella sua divinità è per noi una dimora eterna 35. Agli spiriti immateriali rimasti puri e che la superbia non ha fatto cadere, egli offre un modello nella sua natura divina, in quanto uguale a Dio 36, e come Dio, ma per offrirsi anche come modello del ritorno all’uomo caduto, incapace di vedere Dio per l’immondizia dei peccati e la condanna alla mortalità si è esinanito 37, non mutando la sua divinità, ma assumendo la nostra mutabilità e prendendo la natura di servo, venne in questo mondo 38, verso di noi, lui che era in questo mondo, perché il mondo è stato fatto per mezzo di lui 39, per essere d’esempio a quelli che lassù contemplano in lui Dio, esempio a quelli che quaggiù ammirano in lui l’uomo, esempio di perseveranza per i sani, esempio di guarigione per gli infermi, esempio di coraggio per i morituri, esempio di risurrezione per i morti, avendo il primato in tutte le cose 40. Poiché per raggiungere la beatitudine l’uomo doveva seguire solo Dio, ma non era in suo potere vedere Dio, mettendosi al seguito di Dio fatto uomo, l’uomo avrebbe seguito nello stesso tempo uno che aveva la capacità di vedere ed uno che aveva il dovere di seguire. Amiamolo dunque ed uniamoci a lui con la carità che è stata diffusa nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo, che ci è stato dato 41. Niente di strano dunque se per l’esempio che, per riformarci ad immagine di Dio, ci offre l’immagine uguale al Padre 42, la Scrittura, quando parla della Sapienza, parla del Figlio, che noi seguiamo vivendo con sapienza, sebbene anche il Padre sia sapienza, come è luce e Dio.
Lo Spirito Santo è col Padre ed il Figlio una sola Sapienza
3. 6. Non conta che consideriamo lo Spirito Santo come la carità somma che congiunge tra loro il Padre e il Figlio e soggioga noi - non è una considerazione indegna di lui perché è scritto che Dio è carità 43 -, dunque non è sapienza anche lo Spirito Santo, essendo egli la luce, se Dio è Luce 44? Oppure che indichiamo l’essenza dello Spirito Santo in senso personale e proprio in altro modo. Questo è certo: essendo egli Dio, è la Luce, essendo la Luce è la Sapienza. Ora che lo Spirito Santo sia Dio la Scrittura lo proclama per bocca dell’Apostolo: Non sapete che siete tempio di Dio? e subito aggiunge: E lo Spirito di Dio abita in voi 45. Dio infatti abita nel suo tempio 46. Infatti lo Spirito di Dio non abita nel tempio di Dio come ministro, perché in un altro passo l’Apostolo dice più chiaramente: Non sapete che i vostri corpi sono tempio dello Spirito Santo, che è in voi e che avete ricevuto da Dio, e che voi non appartenete a voi stessi? Infatti voi siete stati comprati a gran prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo 47. Ma che cos’è la sapienza se non una luce spirituale ed immutabile? Certo anche il nostro sole è una luce, ma corporea; anche la creatura spirituale è luce, ma non immutabile. Dunque il Padre è luce, il Figlio è luce, lo Spirito Santo è luce; ma tutti e tre insieme non costituiscono tre luci, ma una sola Luce. Di conseguenza il Padre è sapienza, il Figlio è sapienza e lo Spirito Santo è sapienza, ed insieme non fanno tre sapienze, ma una sola Sapienza. E poiché qui essere è la stessa cosa che essere sapiente, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza. Né qui essere è altra cosa che essere Dio: perciò il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio 48.
Un’essenza, tre Persone
4. 7. Per parlare dell’ineffabile, affinché potessimo esprimere in qualche modo ciò che in nessun modo si può spiegare, i nostri Greci hanno usato questa espressione: una essenza, tre sostanze; i Latini invece: una essenza o sostanza, tre Persone 49, perché, come abbiamo già detto, nella nostra lingua, cioè in latino, "essenza" e "sostanza" sono correntemente considerate sinonimi. E purché si intenda almeno in enigma 50 ciò che si dice, ci si è accontentati di queste espressioni per rispondere qualcosa quando si chiede che cosa sono i Tre; questi Tre di cui la fede ortodossa afferma l’esistenza, quando dichiara che il Padre non è il Figlio e lo Spirito Santo, che è il dono di Dio 51, non è né il Padre né il Figlio. Quando si chiede dunque che cosa sono queste tre cose o questi Tre, ci affanniamo a trovare un nome specifico o generico che abbracci queste tre cose, ma non si presenta allo spirito, perché l’eccellenza sopraeminente della divinità trascende la capacità del linguaggio abituale 52. Quando si tratta di Dio il pensiero è più vero della parola e la realtà più vera del pensiero. Infatti, quando diciamo che Giacobbe non è Abramo, ed Isacco non è né Abramo né Giacobbe, riconosciamo che sono tre: Abramo, Isacco e Giacobbe. Ma quando si chiede che cosa siano questi tre rispondiamo tre uomini, e diamo loro un nome specifico al plurale, mentre è un nome generico se diciamo tre animali. L’uomo infatti è, secondo la definizione degli antichi, un animale ragionevole, mortale 53. Lo stesso quando con il linguaggio abituale delle nostre Scritture diciamo: tre anime, se si preferisce esprimere il tutto per mezzo della parte migliore, cioè, per mezzo dell’anima, sia il corpo sia l’anima, che sono l’uomo intero. È in questo senso che la Scrittura dice che scesero in Egitto con Giacobbe settantacinque anime, cioè settantacinque uomini 54. Così quando diciamo: "Il tuo cavallo non è lo stesso che il mio", e "un terzo cavallo, che appartiene a qualche altro, non è né il mio né il tuo", riconosciamo che sono tre e, se ci si domanda che cosa sono questi tre rispondiamo con un termine specifico: "tre cavalli"; con un termine generico: "tre animali". Così pure quando diciamo che un bue non è un cavallo, che un cane non è né un bue né un cavallo, parliamo di tre esseri. Ed a coloro che ci chiedono che cosa sono questi tre esseri, non rispondiamo con il nome specifico: tre cavalli, o tre buoi, o tre cani, perché questi tre esseri non sono della stessa specie, ma con un nome generico: tre animali, o con un termine generico più ampio: tre sostanze, tre creature, tre nature. Ora tutto ciò che si può designare con un termine specifico al plurale, si può pure esprimere con un solo termine generico ma non possiamo esprimere con un solo termine specifico tutto ciò che si può designare con un solo termine generico. Per esempio tre cavalli - che è un termine specifico - li chiamiamo anche tre animali, ma il cavallo, il bue e il cane li chiamiamo soltanto tre animali o tre sostanze - che sono termini generici - o con qualche altro nome generico che si può loro attribuire, ma non possiamo chiamarli tre cavalli, o tre buoi, o tre cani, che sono tutti termini specifici. Ossia chiamiamo con un solo nome, sebbene sia al plurale, le realtà che hanno in comune ciò che questo nome significa. Così Abramo, Isacco, Giacobbe hanno in comune l’umanità, perciò sono chiamati tre uomini; il cavallo, il bue e il cane hanno in comune l’animalità, perciò sono chiamati tre animali. Allo stesso modo tre lauri li chiamiamo anche tre alberi, ma un lauro, un mirto e un olivo li chiamiamo soltanto tre alberi, o tre sostanze o tre nature. Ancora, tre pietre le chiamiamo anche tre corpi; ma la pietra, il legno e il ferro li chiamiamo soltanto tre corpi o con qualche altro appellativo più ampio che si potrà loro attribuire. Ora il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, dato che sono tre 55, investighiamo che cosa siano, che cosa abbiano in comune. Infatti ciò che è loro comune non è ciò che costituisce il Padre, in maniera che reciprocamente siano padri, come alcuni amici - appellativo di relazione reciproca - possono essere chiamati tre amici, perché sono amici vicendevolmente. Questo non può verificarsi qui, perché soltanto il Padre è padre, né è padre di due, ma di un Figlio unico. Né vi sono tre figli, perché qui il Padre non è il Figlio, né lo Spirito Santo. Né vi sono tre spiriti santi, perché né il Padre, né il Figlio sono Spirito Santo nel senso proprio in cui lo si chiama dono di Dio 56. Che cosa sono dunque questi Tre? Se sono tre Persone 57, essi hanno in comune ciò che caratterizza la persona; dunque hanno un nome specifico o generico, se ci atteniamo al linguaggio abituale. Ma dove non c’è alcuna differenza di natura, diverse realtà possono essere espresse con un nome generico, in maniera che possono essere espresse anche con nome specifico. È una differenza di natura che impedisce di chiamare il lauro, il mirto, l’olivo, il cavallo, il bue, il cane con nome specifico: tre lauri nel primo caso, tre buoi nel secondo, ma con nome generico tre alberi i primi, tre animali i secondi. Ma qui, dove non c’è alcuna differenza di essenza, occorre anche che queste tre realtà abbiano un nome specifico, nome che tuttavia non si trova. Perché persona è un nome generico, tanto che lo si può applicare anche all’uomo, sebbene sia così grande la distanza tra l’uomo e Dio.
La Scrittura non parla di tre persone in Dio
4. 8. Inoltre insistendo nell’usare un nome generico, se noi parliamo di tre Persone in quanto i Tre hanno in comune ciò che caratterizza la persona (altrimenti non potrebbero in nessun modo essere chiamati così, come non sono chiamati tre figli, perché essi non hanno in comune ciò che caratterizza il Figlio) perché non possiamo chiamarli anche tre dèi? Senza dubbio infatti, poiché il Padre è una persona, il Figlio è una persona, lo Spirito Santo è una persona, vi sono tre persone: ma allora, poiché il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, perché non vi sono tre dèi? E se in virtù di una unione ineffabile queste tre realtà insieme sono un Dio solo, perché non sono una sola persona, cosicché non possiamo chiamarli tre persone, sebbene chiamiamo Persona ciascuna delle tre persone, come non possiamo parlare di tre dèi, sebbene noi chiamiamo Dio ciascuno di essi: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo? Forse perché la Scrittura non parla di tre dèi? Ma non troviamo nemmeno che la Scrittura parli di tre persone. O forse perché la Scrittura non parla né di tre né di una persona a proposito di queste tre realtà (vi leggiamo infatti della persona del Signore, ma non della persona che è il Signore), perciò siamo autorizzati per le necessità del linguaggio e della disputa a parlare di tre persone, non perché la Scrittura lo dica, ma perché non lo contraddice; mentre se parlassimo di tre dèi, sarebbe contrario alla Scrittura, che afferma: Ascolta, Israele: Il Signore Dio tuo è un unico Dio 58? Ma allora perché non è lecito parlare anche di tre essenze, perché allo stesso modo la Scrittura, se non lo dice, nemmeno lo contraddice? Infatti, se essenza è un termine specifico comune ai Tre, perché non dire tre essenze, come Abramo, Isacco e Giacobbe sono detti tre uomini, perché uomo è un termine specifico, comune a tutti gli uomini? Se invece essenza è un termine non specifico, ma generico, perché l’uomo, le bestie, l’albero, l’astro, l’angelo sono delle essenze, perché non chiamarli tre essenze, come tre cavalli sono chiamati tre animali, tre lauri sono chiamati tre alberi, tre pietre, tre corpi? O, se non sono dette tre essenze, ma una sola essenza 59 per l’unità della Trinità, perché, per questa stessa unità della Trinità, non si dicono una sostanza ed una persona invece che tre sostanze o tre persone? Il termine essenza è loro comune, in modo che ciascuno di essi si chiami essenza, nella stessa misura in cui è loro comune il termine "sostanza" o "persona". Infatti ciò che abbiamo detto delle persone, secondo il nostro modo abituale di parlare, occorre intenderlo delle sostanze secondo quello dei Greci, in quanto essi dicono: "tre sostanze, una essenza", come noi diciamo: "tre persone, una essenza o sostanza".
Questi termini hanno origine dalla esigenza del linguaggio
4. 9. Che ci resta dunque? Ci resta forse da riconoscere che queste espressioni sono state originate dall’indigenza del linguaggio, quando erano necessarie delle lunghe dispute contro le insidie e gli errori degli eretici 60? Infatti, quando la povertà umana tentava di esprimere con parole adatte ai sensi degli uomini, ciò che nel segreto dello spirito sa, secondo la sua capacità, del Signore Dio suo Creatore, sia per la fede religiosa sia per qualsiasi altra conoscenza, essa ha temuto di parlare di tre essenze, perché non si sospettasse una qualche diversità in quella suprema uguaglianza. D’altra parte non poteva negare l’esistenza di tre realtà perché, per averla negata, Sabellio cadde nell’eresia 61. E dalla Scrittura risulta, con assoluta certezza, ciò che si deve credere con fedeltà, e l’occhio dello spirito percepisce con piena chiarezza: che esiste il Padre, esiste il Figlio, esiste lo Spirito Santo, ma che il Figlio non è lo stesso che il Padre, e lo Spirito Santo non è lo stesso che il Padre o il Figlio. La povertà umana si è chiesta come designare queste tre realtà e le ha chiamate sostanze o Persone, con i quali termini volle escludere tanto la diversità di essenza quanto l’unicità delle Persone, in modo da suggerire non solo l’idea di unità con l’espressione "una essenza", ma anche l’idea di Trinità con l’espressione "tre sostanze o Persone". Infatti se in Dio essere è la stessa cosa che sussistere, non bisogna parlare di tre sostanze, come non si parla di tre essenze, come - dato che in Dio essere è la stessa cosa che essere sapiente - non si parla di tre sapienze allo stesso modo che non si parla di tre essenze. Così dunque, poiché in Dio essere Dio è la stessa cosa che essere, non è permesso dire tre essenze, come non è permesso dire tre dèi. Se, al contrario, in Dio essere e sussistere si oppongono tra loro, come essere Dio ed essere Padre ed essere Padrone - essere si dice in senso assoluto, essere Padre in senso relativo al Figlio, essere Padrone in senso relativo alla creatura, che è suddita - allora Dio sussiste sotto forma di relazione, come sotto forma di relazione genera e come sotto forma di relazione domina. Allora la sostanza non sarà più sostanza, perché sarà una relazione. Come infatti la parola "essenza" deriva da "essere", così da "sussistere" deriva la parola "sostanza". Ma è un’assurdità dare alla parola "sostanza" un senso relativo, perché ogni cosa sussiste in rapporto a se stessa; con quanta maggior ragione Dio?
Sostanza ed essenza in Dio
5. 10. Ma sostanza è una parola degna di Dio? Esattamente si usa il nome "sostanza" per indicare il soggetto di cui hanno bisogno certe cose per esistere; per esempio il colore o la forma di un corpo. Il corpo sussiste e perciò è sostanza, le altre cose invece esistono nel corpo sussistente e sottostante, non sono sostanze, ma nella sostanza. Dunque se quel colore o quella forma cessano d’esistere non privano il corpo del suo essere corpo, perché per il corpo essere non è la stessa cosa che conservare questa o quella forma. Sono dunque le cose mutevoli e composte che si chiamano propriamente sostanze. Ma, se Dio sussiste in modo da poter essere detto propriamente sostanza, qualcosa esiste in lui come in soggetto, e non è l’essere semplice per il quale essere è identico a qualsiasi altro attributo che si applica a lui in senso assoluto, come grande, onnipotente, buono ed ogni altro attributo degno di lui. Ora è proibito affermare che Dio sussista e sia soggetto della sua bontà; è proibito affermare che questa bontà non sia sostanza, o piuttosto essenza, e che Dio non sia la sua bontà, ma che al contrario la bontà esista in lui come in un soggetto. Perciò è chiaro che Dio si chiama sostanza in senso improprio, per far intendere con un nome più corrente che è essenza, termine giusto e proprio, al punto che forse solo Dio si deve chiamare essenza. Infatti lui solo "è" veramente, perché è immutabile, e con questo nome ha designato se stesso al suo servitore Mosè, quando gli disse: lo sono colui che sono, e: Dirai a loro: Colui che è mi ha mandato a voi 62. Tuttavia lo si chiami essenza 63, termine proprio, o sostanza 64, termine improprio, ambedue questi termini sono assoluti, non relativi 65. Perciò per Dio essere è la stessa cosa che sussistere, e dunque se la Trinità è una sola essenza, essa è anche una sola sostanza. Allora è forse più esatto parlare di tre Persone che di tre sostanze 66.
Perché non si dice che nella Trinità c’è una sola persona e tre essenze
6. 11. Ma perché non sembri che io usi parzialità in favore dei nostri, spingiamo più a fondo la nostra ricerca su questo punto. I Greci, è vero, se volessero, potrebbero chiamare i Tre prosopa: tre persone, come chiamano le tre ipostasi: tre sostanze. Ma hanno preferito questa espressione, che forse è più conforme alla natura della loro lingua. D’altra parte per le "persone" le cose stanno allo stesso modo che per la "sostanza", perché per Dio essere ed essere persona non sono cose diverse, ma assolutamente la stessa cosa. Se essere è un termine assoluto, persona invece relativo, chiameremo allora il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo tre Persone, allo stesso modo che chiamiamo certi uomini tre amici, o tre parenti, o tre vicini per le loro mutue relazioni, non per quello che ognuno è in senso assoluto. Dunque ognuno di loro è amico degli altri due, o parente o vicino, perché queste parole esprimono una relazione. Che dire dunque? Ci si concederà di affermare che il Padre è la persona del Figlio e dello Spirito Santo, ovvero che lo Spirito Santo è la persona del Padre e del Figlio? Il termine "persona" non si usa mai in questo senso, e quando nella Trinità nominiamo la persona del Padre, non intendiamo significare altra cosa che la sostanza del Padre. Di conseguenza, come la sostanza del Padre è il Padre stesso, non ciò per cui è Padre, ma ciò per cui è; così la persona del Padre non è una cosa diversa dal Padre stesso, perché si dice persona in senso assoluto, non in senso relativo al Figlio o allo Spirito Santo, come Dio è detto in senso assoluto grande, buono, giusto ed ogni altro attributo di questo genere. E come per lui è la stessa cosa essere ed essere Dio, essere grande, essere buono, così per lui è la stessa cosa essere ed essere persona. Perché dunque non chiamiamo questi Tre insieme una sola Persona, come li chiamiamo una sola essenza e un solo Dio, ma li chiamiamo tre Persone, mentre non parliamo di tre dèi o di tre essenze, se non perché vogliamo avere una parola che esprima in che senso si debba concepire la Trinità e non restare senza dire proprio nulla quando ci viene domandato che cosa sono questi Tre, dato che noi stessi abbiamo ammesso che sono tre? Perché se, come alcuni ritengono, l’essenza è il genere, la sostanza (o la persona), la specie - lasciando da parte ciò che ho detto prima - si parlerà inevitabilmente di tre essenze, come si parla di tre sostanze o tre persone, allo stesso modo che tre cavalli sono anche chiamati tre animali, perché "cavallo" è la specie, "animale" il genere. Infatti in questo caso la specie non è al plurale ed il genere al singolare, come se si dicesse: "tre cavalli sono un animale", ma come diciamo: "tre cavalli" con nome specifico, così diciamo: "tre animali" con nome generico. Se affermiamo invece che il termine "sostanza" o "persona" non designa la specie, ma un qualcosa di singolare ed individuale, cosicché il termine "sostanza" o "persona" non abbia un senso equivalente a quello del termine "uomo" preso come termine comune a tutti gli uomini, ma nel senso di questa parola applicata a "questo uomo", per esempio Isacco, Abramo, Giacobbe o a ciascun individuo la cui presenza si possa indicare con il dito, anche in questo caso avrebbe valore contro di essi lo stesso ragionamento. Infatti Abramo, Isacco e Giacobbe sono tre individui e sono anche tre uomini e tre anime. Perché allora anche il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, se applichiamo loro le categorie di genere, specie ed individuo, non sono detti tre essenze, come sono detti tre sostanze o persone? Ma, come ho detto, lascio da parte questo; affermo invece: se l’essenza è un genere, un’essenza che sia unica non ha specie, come, ad esempio, poiché animale è un genere, se c’è un solo animale è senza specie. Allora il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono le tre specie di un’essenza unica. Se invece l’essenza è una specie, nello stesso modo in cui l’uomo è una specie, allora i Tre che chiamiamo sostanze o persone hanno in comune la stessa specie, come Abramo, Isacco e Giacobbe hanno in comune la specie umana. La specie umana si suddivide in Abramo, Isacco, Giacobbe, ma un uomo non si può suddividere allo stesso modo in vari individui umani; questo è assolutamente impossibile, perché un uomo è già un individuo umano. Perché dunque l’unica essenza (divina) si suddivide in tre sostanze o persone? Se infatti l’essenza è una specie, come "uomo", vale per una essenza unica ciò che vale per un uomo singolo. Quando abbiamo tre uomini dello stesso sesso, della stessa costituzione, dello stesso temperamento, dello stesso carattere, diciamo che sono di una stessa natura, perché vi sono tre uomini, ma una sola natura; è dunque nello stesso senso che parliamo qui di tre sostanze e una sola essenza, o di tre persone e una sola sostanza o essenza? Senza dubbio si tratta di una cosa del tutto simile, perché gli antichi che parlavano in latino, prima di conoscere i termini di "sostanza" o "essenza", che sono venuti in uso di recente, usavano al loro posto quello di "natura". Dunque noi usiamo questi termini non nel senso del genere o della specie, ma per indicare, per così dire, una materia comune ed identica. Così, se venissero formate dallo stesso lingotto d’oro tre statue, diremmo tre statue un solo lingotto d’oro, ma non diremmo che l’oro è il genere, le statue la specie, né che l’oro è la specie, le statue gli individui. Non esiste alcuna specie che vada oltre i suoi individui ed abbracci un elemento estraneo. Infatti, quando avrò definito l’uomo, che è un termine specifico, tutti i singoli uomini che sono individui sono contenuti nella stessa definizione, e non entra in essa alcun elemento specifico che non s’incontri nell’uomo. Invece se definisco l’oro, apparterranno all’oro non solo le statue, supponendo che siano d’oro, ma anche gli anelli e tutto ciò che è formato da questo metallo. Anche se non si costruisce nulla con esso, rimane oro, perché le statue si possono fare anche senza l’oro. Allo stesso modo nessuna specie va oltre i limiti della definizione del suo genere. Infatti quando definisco l’animale, poiché il cavallo è una specie di questo genere, ogni cavallo è animale, ma non ogni statua è d’oro. Perciò, sebbene a proposito di tre statue d’oro, sia esatto parlare di tre statue e di un solo lingotto d’oro, non diciamo questo per fare intendere che l’oro è il genere, le statue la specie. Non è dunque in questo senso che noi chiamiamo la Trinità tre Persone o sostanze, una essenza ed un solo Dio, come se vi fossero tre realtà che sussistono formate dalla stessa materia, sebbene questa materia - qualunque cosa essa sia - sia suddivisa tra questi Tre. Infatti non c’è qualche altra cosa che appartenga alla essenza divina in aggiunta alla Trinità. Tuttavia diciamo: le tre Persone sono della stessa essenza, o le tre Persone sono una sola essenza, ma non diciamo: le tre Persone sono state formate dalla stessa essenza - come se qui una cosa fosse l’essenza, altra cosa la persona - come possiamo parlare di tre statue formate dallo stesso oro, perché in questo caso una cosa è essere oro, altra cosa essere statue. E quando diciamo: tre uomini sono una sola natura, o: tre uomini sono di una stessa natura, possiamo anche dire: tre uomini provengono da una stessa natura, perché anche altri tre uomini possono aver origine dalla stessa natura. Nell’essenza della Trinità, invece, è assolutamente impossibile che qualsiasi altra persona possa aver origine da questa stessa essenza. Inoltre nelle cose di questo mondo, un uomo solo non è tanto, quanto tre uomini insieme, e due uomini sono più che un uomo solo; e se sono della stessa dimensione c’è più oro in tre statue insieme che in una sola e c’è meno oro in una che in due. Ma in Dio le cose non stanno così; il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo insieme non costituiscono un’essenza più grande che il Padre solo o il Figlio solo, ma insieme queste tre sostanze o Persone (se si deve chiamarle così), sono uguali a ciascuna di esse. È ciò che l’uomo carnale non comprende 67, perché i fantasmi che volteggiano nella sua anima rappresentandogli i corpi, gli permettono di concepire soltanto masse ed estensioni, piccole o grandi.
Ciò che deve credere chi non comprende; l’uomo ad immagine e immagine di Dio
6. 12. Fino a che non sia purificato da questa impurità l’uomo carnale creda nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, in un solo Dio, unico, grande, onnipotente, buono, giusto, misericordioso, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili 68 e tutto ciò che secondo le capacità umane si può affermare essere degno di lui e vero. Quando sente dire che il Padre è il solo Dio, non ne separi il Figlio o lo Spirito Santo 69, perché il Padre è un solo Dio soltanto in unione con Colui con il quale è Dio unico, perché anche quando sentiamo dire che il Figlio è il solo Dio, bisogna intenderlo senza esclusione del Padre e dello Spirito Santo. Se parla di un’unica essenza lo faccia senza pensare ad una superiorità di grandezza o di valore dell’uno o ad una qualsiasi sua diversità nei riguardi dell’altro. Ma tuttavia non pensi che il Padre è il Figlio e lo Spirito Santo e che ogni persona abbia qualsiasi attributo che esprima la relazione delle singole Persone. Per esempio "Verbo" designa solo il Figlio, "Dono" lo Spirito Santo 70. Per questo d’altra parte le persone ammettono il numero plurale come nel passo del Vangelo in cui è scritto: Io e il Padre siamo una sola cosa 71. Da una parte il Signore dice: una sola cosa, dall’altra siamo; una sola cosa, secondo l’essenza, perché sono un unico Dio; siamo secondo la relazione perché il primo è Padre, l’altro Figlio. A volte è passata sotto silenzio l’unità dell’essenza e sono menzionate solo le relazioni al plurale: Io e il Padre verremo a lui e dimoreremo presso di lui 72. Verremo e dimoreremo sono al plurale perché prima aveva detto: Io e il Padre, cioè il Figlio e il Padre, termini indicanti mutua relazione. A volte le relazioni sono designate in maniera del tutto velata, come nel Genesi: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza 73. Facciamo e nostra è un plurale che si deve intendere soltanto nel senso delle relazioni. Non ha da intendersi infatti nel senso che a fare l’uomo sarebbero stati degli dèi o che lo avrebbero fatto ad immagine e somiglianza degli dèi, ma nel senso che erano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che lo facevano, ad immagine dunque del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, affinché l’uomo esistesse come immagine di Dio. Ora Dio è Trinità 74. Ma poiché questa immagine di Dio 75 non era del tutto uguale al suo modello, perché non è nata da Dio ma è stata creata da Lui, per significare questo è un’immagine che è "ad immagine di...", ossia è un’immagine che non raggiunge il modello per l’uguaglianza, ma gli si accosta per una certa rassomiglianza 76. Infatti non ci si avvicina a Dio superando delle distanze spaziali, ma con la rassomiglianza ed è con la dissomiglianza che ci si allontana da lui. Vi sono alcuni che fanno questa distinzione: l’Immagine è il Figlio, mentre l’uomo non è immagine, ma ad immagine 77. Ma li confuta l’Apostolo che dice: L’uomo invece non deve coprirsi la testa, perché è immagine e gloria di Dio 78. Non ha detto: ad immagine, ma: l’immagine; questa immagine tuttavia, poiché altrove è detta ad immagine, non si riferisce al Figlio che è immagine perfetta del Padre 79; diversamente Dio non direbbe: a nostra immagine 80. In che senso nostra infatti, dato che il Figlio è immagine soltanto del Padre? È a motivo, come abbiamo detto, di una rassomiglianza imperfetta, che l’uomo è detto a immagine e si aggiunge nostra perché l’uomo fosse immagine della Trinità; non uguale alla Trinità, come il Figlio al Padre, ma accostandosene per una certa rassomiglianza, come abbiamo detto, nel modo in cui degli esseri lontani sono vicini non per contatto spaziale, ma per imitazione. È questo che intendono significare le parole seguenti: Trasformatevi rinnovando il vostro spirito 81, ed ai suoi destinatari l’Apostolo dice anche: Siate dunque imitatori di Dio, come figli dilettissimi 82. È all’uomo nuovo infatti che è detto: Si va rinnovando in proporzione della conoscenza di Dio, conformandosi all’immagine di colui che l’ha creato 83. Ora, se per le esigenze della controversia si preferisce, pur lasciando da parte i nomi relativi, accettare il plurale, per poter rispondere con una sola parola alla domanda: "che cosa sono i Tre?", e dire "tre sostanze o tre Persone", si badi a tener lontana ogni idea di massa o di estensione, ogni carattere, per quanto piccolo, di dissomiglianza che ci faccia pensare che vi sia qui una cosa inferiore ad un’altra, qualunque sia la maniera in cui uno può essere inferiore ad un altro, cosicché venga esclusa la confusione delle persone e una distinzione che implichi ineguaglianza. Se l’intelligenza è incapace di comprenderlo, lo si tenga per fede, fino a quando brilli nei nostri cuori Colui che ha detto per bocca del Profeta: Se non crederete, non comprenderete 84.
Proemio
Le Persone divine distinte per le relazioni, identiche nell’essenza
1. 1. Abbiamo detto altrove
1 che nella Trinità si applicano in maniera propria e distinta a ciascuna delle Persone i nomi che implicano mutua relazione, come Padre, Figlio e Spirito Santo, Dono 2 di ambedue, perché il Padre non è la Trinità, il Figlio non è la Trinità, né la Trinità è il loro Dono. Invece quando si esprime ciò che sono le Persone, considerate ciascuna in se stessa, non si parla di tre al plurale, ma vi è una sola realtà: la stessa Trinità. Così il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio; il Padre è buono, il Figlio è buono, lo Spirito Santo è buono; il Padre è onnipotente, il Figlio è onnipotente, lo Spirito Santo è onnipotente. Tuttavia non vi sono tre dèi, tre buoni, tre onnipotenti, ma un solo Dio, buono, onnipotente 3: la Trinità stessa. E così si dica di qualsiasi altro attributo, che non si applichi alle Persone considerate nelle loro relazioni, ma a ciascuna Persona considerata in se stessa. Questi attributi infatti concernono l’essenza, perché in Dio è la stessa cosa essere ed essere grande, buono, sapiente e tutto ciò che si afferma di ciascuna Persona considerata in se stessa o della Trinità. Perciò non si parla, abbiamo detto, di tre Persone o tre sostanze 4 per far intendere una diversità di essenza, ma per tentare, con una sola parola, di rispondere a questa domanda: "chi sono questi Tre, o che cosa sono questi Tre?". E tanta è l’uguaglianza in seno alla Trinità che non solo il Padre non è più grande del Figlio in ciò che concerne la divinità, ma il Padre e il Figlio insieme non sono una realtà più grande dello Spirito Santo, né ciascuna delle tre Persone, qualunque essa sia, è una realtà meno grande che la Trinità stessa. Queste verità sono già state dette e se, volgendole e rivolgendole vi ritorniamo sopra molto spesso, ci diventeranno più familiari, ma bisogna anche usare una certa misura e supplicare Dio con pietà e con grande devozione perché apra la nostra intelligenza ed elimini dalla nostra ricerca ogni senso di ostinazione, affinché il nostro spirito possa discernere l’essenza della verità pura da ogni materia, da ogni mutevolezza. Ora dunque, per quanto lo stesso Creatore mirabilmente misericordioso ci aiuterà, dedichiamoci allo studio di queste cose, che considereremo in modo più interiore delle precedenti, quantunque si tratti della stessa verità; sempre salva la regola che, se qualcosa resta ancora oscuro per la nostra intelligenza, non ci allontaneremo dalla fermezza della fede.Uguaglianza delle tre Persone divine
1. 2. Affermiamo dunque che nella Trinità due o tre Persone non sono una realtà più grande di una sola di esse, cosa che non comprende la nostra esperienza carnale
5, e questo per il motivo che, se percepisce, come può, la verità delle cose create, non può contemplare la Verità che le ha create. Infatti, se lo potesse, questa luce corporea non le sarebbe più chiara di ciò che abbiamo detto. Nella sostanza della verità, perché essa sola esiste veramente, una cosa non è maggiore di un’altra, se non perché è più vera. Ora tra le cose spirituali ed immutabili, nessuna è più vera di un’altra, essendo tutte ugualmente immutabili ed eterne, e quanto si dice grande null’altro ha per ragione della sua grandezza che la propria verità. Per questo, dove la grandezza è la stessa verità, ciò che ha più grandezza ha necessariamente più verità, e ciò che non ha più verità non ha nemmeno più grandezza. Inoltre ciò che è più grande è anche certamente più vero, come è più grande ciò che ha più grandezza. Là dunque è più grande ciò che è più vero. Ora il Padre e il Figlio insieme non sono qualcosa di più vero del Padre solo o del Figlio solo. Dunque i due insieme non sono qualcosa di più grande di ciascuno di essi preso in particolare. E, poiché anche lo Spirito Santo è ugualmente vero, il Padre e il Figlio insieme non sono qualcosa di più grande dello Spirito Santo, perché non sono qualcosa di più vero. Alla stessa maniera, poiché il Padre e lo Spirito Santo insieme non superano il Figlio in verità - infatti non sono qualcosa di più vero - non lo superano nemmeno in grandezza. Così pure il Figlio e lo Spirito Santo insieme hanno lo stesso grado di grandezza, che il Padre solo, perché hanno anche lo stesso grado di verità. Così anche la Trinità ha tanta grandezza quanta ne ha in essa ciascuna Persona. Tra loro infatti, dove la verità è la stessa grandezza, non è più grande quella che non è più vera. Perché nella verità per essenza si identificano tra loro la verità e l’essenza, l’essenza e la grandezza, quindi la grandezza e la verità. Le cose dunque che in essa sono ugualmente vere, sono per forza anche ugualmente grandi.Dio Verità suprema
2. 3. Nell’ordine materiale delle cose invece, può accadere che sia oro ugualmente vero questo e quel pezzo d’oro, ma che questo sia più grande di quello, perché qui grandezza e verità non si identificano e una cosa è essere oro altra cosa essere grande. Così per la natura dell’anima: dire che un’anima è grande non equivale a dire che è vera, perché ha un’anima vera anche chi non è magnanimo. Questo perché l’essenza del corpo e dell’anima non è l’essenza della stessa verità, come lo è invece la Trinità: Dio uno, unico, grande, vero, verace, verità. Questo Dio, se ci sforziamo di pensarlo, nella misura in cui ce lo concede e permette, non pensiamolo in contatto con lo spazio, abbracciante lo spazio, come una specie di essere costituito da tre corpi. Non si ha da immaginare in lui nessuna unione di parti congiunte, come in quel Gerione dai tre corpi, di cui parlano le favole
6; ogni immagine per cui tre sarebbero più grandi di uno solo, uno più piccolo di due, cacciamole senza esitazione dalla nostra anima: così infatti respingiamo ogni elemento corporeo. Nell’ordine spirituale, nulla di ciò che ci si presenta come sottoposto al mutamento, dobbiamo ritenere che sia Dio. Non è una piccola conoscenza, quando, da questo abisso, elevandoci a quella vetta riprendiamo lena, il poter conoscere che cosa Dio non è, prima di sapere che cosa è. Egli non è certamente né terra né cielo; nulla che assomigli alla terra o al cielo, nulla di uguale a ciò che vediamo in cielo, nulla di uguale a ciò che in cielo non vediamo e forse vi si trova. Tu potrai accrescere con l’immaginazione la luce del sole quanto ti sarà possibile, sia in volume, sia in splendore, mille volte di più o all’infinito, nemmeno questo sarà Dio. E se ci rappresentassimo gli Angeli, puri spiriti che animano i corpi celesti, li muovono e li dirigono 7 secondo un volere che è al servizio di Dio; anche se questi Angeli, che sono migliaia di migliaia 8, venissero riuniti tutti per formare un solo essere, Dio non sarebbe nulla di simile. E lo stesso discorso varrebbe anche se si giungesse a rappresentarsi questi spiriti senza corpi, cosa assai difficile per il nostro pensiero carnale. Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione 9 e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce 10, non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione 11?Dio Bene supremo
3. 4. Ancora una volta comprendi, se lo puoi. Tu non ami certamente che il bene, perché buona è la terra con le alte montagne, le moderate colline, le piane campagne; buono il podere ameno e fertile, buona la casa ampia e luminosa, dalle stanze disposte con proporzioni armoniose; buoni i corpi animali dotati di vita; buona l’aria temperata e salubre; buono il cibo saporito e sano; buona la salute senza sofferenze né fatiche; buono il viso dell’uomo, armonioso, illuminato da un soave sorriso e vivi colori; buona l’anima dell’amico per la dolcezza di condividere gli stessi sentimenti e la fedeltà dell’amicizia; buono l’uomo giusto e buone le ricchezze, che ci aiutano a trarci d’impaccio; buono il cielo con il sole, la luna e le stelle; buoni gli Angeli per la loro santa obbedienza; buona la parola che istruisce in modo piacevole e impressiona in modo conveniente chi l’ascolta; buono il poema armonioso per il suo ritmo e maestoso per le sue sentenze. Che altro aggiungere? Perché proseguire ancora nell’enumerazione? Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da un altro bene, ma è il Bene di ogni bene. Infatti fra tutti questi beni - quelli che ho ricordato, o altri che si vedono o si immaginano - noi non potremmo dire che uno è migliore dell’altro, quando noi giudichiamo secondo verità, se non fosse impressa in noi la nozione del bene stesso, regola secondo la quale dichiariamo buona una cosa, e preferiamo una cosa ad un’altra
12. È così che noi dobbiamo amare Dio: non come questo o quel bene, ma come il bene stesso. Perché bisogna cercare il bene dell’anima, non quello su cui essa sorvola con i suoi giudizi, ma quello a cui essa aderisca con il suo amore. E chi lo è se non Dio? Non una buona anima, o un buon angelo, o un buon cielo, ma il Bene buono. Ciò rende forse più facile la comprensione di ciò che vorrei dire. Quando sento dire, per esempio, che un’anima è buona, vi sono due parole, e da queste due parole ricavo due idee: che è anima e che è buona. Per essere un’anima, l’anima stessa non ha fatto nulla; infatti non esisteva ancora per agire al fine di darsi l’essere: ma per essere un’anima buona bisogna, lo vedo, che eserciti la sua volontà. Non che il fatto stesso di essere anima non sia un bene, altrimenti come si potrebbe dire - e dire in tutta verità - che è migliore del corpo? Ma non si dice ancora che l’anima è buona, perché le resta da esercitare la sua volontà per divenire migliore: se trascura questo esercizio, le se ne fa una colpa giustamente e si dice che non è buona. Differisce infatti da quella che esercita la sua volontà, e poiché quella è degna di lode, questa che rimane inattiva è degna di biasimo. Se invece l’anima si applica all’esercizio della sua volontà e diviene un’anima buona, non raggiungerà questo scopo, senza volgersi verso qualcosa di diverso da essa. Verso che cosa dunque si volge per diventare un’anima buona, se non verso il bene, amandolo e desiderandolo e conquistandolo? E se tornerà a distaccarsi da esso perdendo così la propria bontà per il solo fatto di distaccarsi dal bene, a meno che non rimanga in essa il bene da cui si è distaccata, non avrà più nulla verso cui volgersi di nuovo, se vorrà emendarsi.Bene assoluto e bene partecipato
3. 5. Non ci sarebbero dunque beni mutevoli se non ci fosse un Bene immutabile. Ecco perché quando senti parlare di questo o quel bene, che visti da un altro punto di vista possono anche non essere chiamati beni, se potrai fare astrazione dai beni, che sono tali perché partecipano al bene, per vedere il bene stesso di cui partecipano - di questo bene infatti si ha intelligenza nel momento stesso in cui si sente dire questo e quel bene - se dunque giungerai, facendo astrazione da questi beni, a vedere il bene in se stesso, vedrai Dio. E se aderirai con amore a lui, immediatamente troverai la felicità. Se le altre cose non si amano se non perché sono buone, vergogniamoci di non amare per attaccamento ad esse il Bene stesso per cui sono buone. Anche l’anima, per il solo fatto che è anima, ancora prima che abbia acquistato quella bontà che proviene dalla sua conversione al Bene immutabile, l’anima, ripeto, in quanto tale, quando ci piace fino al punto che la preferiamo, se comprendiamo bene, alla stessa luce corporea, non ci piace in se stessa, ma nell’arte con la quale è stata creata. Ivi infatti l’approviamo, dopo la sua creazione, dove appare che conveniva che fosse creata. Cioè nella verità e nel bene assoluto; il bene che non è altro che bene, e quindi anche il Bene sommo
13. Perché un bene è suscettibile di diminuzione o di accrescimento, solo se riceve da un altro la sua bontà. L’anima dunque si volge, per essere buona, verso il Bene dal quale riceve il suo essere anima. La volontà si accorda con la natura per perfezionare l’anima nel bene, quando è amato, per la conversione della volontà, quel bene da cui proviene anche ciò che l’anima non può perdere nemmeno per l’avversione della volontà. Perché, distogliendosi dal Bene supremo, l’anima cessa di essere buona, ma non cessa di essere anima e questo è già un bene superiore al corpo; dunque la volontà perde ciò che la volontà acquista. Infatti esisteva già l’anima per voler volgersi verso Colui da cui aveva ricevuto l’essere, ma, per voler essere prima di essere, non esisteva ancora. Questo è il nostro bene in cui vediamo che ha dovuto, o deve essere, tutto ciò di cui comprendiamo che ha dovuto o deve essere e in cui vediamo che non avrebbe potuto essere, se non avesse dovuto essere, anche ciò di cui non comprendiamo come abbia dovuto essere. Questo bene dunque non è lontano da ciascuno di noi; in lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo 14.Compito purificatore della fede
4. 6. Ma per godere pienamente della presenza di questo Bene dal quale riceviamo l’essere e senza il quale non potremmo essere, bisogna tenerci presso di lui, aderire a lui con l’amore. Fino a quando camminiamo per fede, non per visione
15 non vediamo ancora 16 Dio a faccia a faccia 17, come dice lo stesso Apostolo; ma, se non lo amiamo fin d’ora, non lo vedremo mai. Ma chi ama ciò che ignora? Infatti si può conoscere una cosa e non amarla, ma amare una cosa che non si conosce è possibile? Perché, se è impossibile, nessuno ama Dio, prima di conoscerlo. E che cos’è conoscere Dio, se non vederlo, attingerlo fermamente con lo spirito? Dio non è un corpo, perché lo si cerchi con gli occhi di carne, ma prima di essere capaci di vedere e di attingere Dio, come egli può essere visto e attinto (privilegio riservato ai cuori puri: Beati infatti, i puri di cuore, perché essi vedranno Dio 18) se Dio non è amato per fede 19, il cuore non potrà purificarsi per diventare capace e degno di vederlo. Dove sono dunque quelle tre virtù che l’impalcatura di tutti i Libri santi tende ad edificare nella nostra anima: la fede, la speranza, la carità 20, se non nell’animo di colui che crede ciò che non vede ancora e che spera e ama ciò che crede? Si ama dunque anche ciò che si ignora ma che tuttavia si crede. Però occorre stare attenti perché, credendo ciò che non vede, l’anima non si raffiguri qualche cosa che non esiste e dia un falso oggetto alla sua fede e al suo amore. In questa ipotesi la carità non proverrà da un cuore puro, da una coscienza buona, da una fede non finta, che è il fine del precetto 21, come dice ancora l’Apostolo.La fede implica una conoscenza
4. 7. Ogniqualvolta noi crediamo a delle realtà sensibili di cui abbiamo sentito parlare e di cui abbiamo letto, ma che non abbiamo visto, è una necessità, per la nostra anima, farsi, conformemente a ciò che si presenta all’immaginazione, un’immagine dei contorni e delle forme corporee. Sia che questa immagine corrisponda, cosa che accade di rado, sia che non corrisponda alla realtà, l’importante per noi non è di prestar fede a questa immagine, ma attingere un’altra conoscenza utile, che ci viene suggerita da questa rappresentazione. Chi infatti, tra coloro che leggono o ascoltano gli scritti dell’apostolo Paolo, o ciò che è stato scritto su di lui, non si rappresenta nel suo animo il viso dell’Apostolo e quelli di tutti coloro i cui nomi sono ivi ricordati? Ora, poiché fra tanta moltitudine di persone che conoscono queste Epistole, gli uni si rappresentano in un modo, gli altri in un altro i lineamenti e l’aspetto fisico di questi uomini, è ben difficile sapere chi si avvicini di più alla verità. Ma ciò che interessa la nostra fede, non è sapere che sembianze abbiano avuto quegli uomini, ma il sapere che sono vissuti in tal modo con la grazia di Dio e che hanno compiuto quelle azioni che ci riferisce la Scrittura; ecco ciò che dobbiamo credere, ciò di cui non dobbiamo disperare, ciò che dobbiamo desiderare. Lo stesso viso del Signore varia all’infinito, secondo le diverse rappresentazioni che ciascuno se ne fa, e tuttavia era uno solo, qualunque esso fosse. Ma ciò che è salutare nella fede che noi abbiamo circa il Signore Gesù Cristo, non è ciò che l’anima si rappresenta, forse in maniera molto diversa dalla realtà, ma ciò che pensiamo dell’uomo secondo la natura specifica. Abbiamo infatti impressa in noi, come una regola, la nozione di natura umana, secondo la quale riconosciamo immediatamente che è uomo, formalmente uomo, ogni essere in cui essa si realizza.
Come si ama la Trinità senza conoscerla
5. È secondo questa nozione che si foggia il nostro pensiero quando crediamo che Dio, per noi, si è fatto uomo per dare un esempio di umiltà e per farci conoscere l’amore di Dio verso di noi
22. Per noi è utile infatti credere e ritenere con fermezza incrollabile nel cuore che l’umiltà che ha spinto Dio a nascere da donna 23 ed a lasciarsi, fra tanti oltraggi, condurre a morte da uomini mortali, è il supremo rimedio per guarirci dal gonfiore del nostro orgoglio ed il sublime sacramento per sciogliere il reato del peccato. E così si dica della potenza dei suoi miracoli e della sua stessa risurrezione; perché sappiamo che cosa è l’onnipotenza, crediamo in un Dio onnipotente e, secondo la conoscenza innata o acquisita per esperienza che abbiamo delle specie e dei generi, noi giudichiamo dei fatti di questo tipo, affinché la nostra fede non sia finta. Noi non conosciamo nemmeno il viso della Vergine Maria, che, senza l’intervento di alcun uomo, rimasta intatta nello stesso parto, ha dato alla luce miracolosamente Cristo. Non conosciamo neppure l’aspetto fisico di Lazzaro, non abbiamo visto Betania, né il sepolcro, né la pietra che il Signore ha fatto rimuovere quando egli lo risuscitò 24, né il sepolcro nuovo scavato nella roccia, da cui egli risuscitò 25, né il monte degli Olivi da cui è asceso al cielo 26 e tutti noi che non abbiamo visto queste cose non sappiamo affatto se siano come le immaginiamo, anzi noi riteniamo più probabile che non siano così. Perché se l’aspetto di un luogo, di un uomo, di un corpo qualunque si presenta ai nostri occhi quale si presentava alla nostra anima, quando lo immaginavamo prima di vederlo, restiamo fortemente sorpresi dalla stranezza della cosa perché una tale coincidenza si verifica solo raramente, o quasi mai. E tuttavia crediamo fermamente queste cose perché ce le rappresentiamo secondo una nozione specifica e generica che teniamo per certa. Crediamo che il Signore Gesù Cristo è nato da una Vergine che si chiamava Maria, ma non crediamo che cosa sia una vergine, che cosa è nascere, e che cosa sia un nome proprio: lo sappiamo. Se il viso di Maria sia stato come ce lo immaginiamo quando parliamo di queste cose o quando vi pensiamo, non lo sappiamo affatto, né lo crediamo. Dunque, in questo caso, restando salva l’integrità della fede, possiamo dire: "Forse la Vergine aveva questo volto, forse non l’aveva così"; ma nessuno potrà dire: "Forse Cristo è nato da una Vergine", senza ferire la fede cristiana.La conoscenza della giustizia
5. 8. Per questo, desiderando comprendere, nella misura in cui ci è concesso di farlo, l’eternità, l’uguaglianza e l’unità della Trinità, dobbiamo credere
27 prima di comprendere e dobbiamo vigilare che la nostra fede sia sincera 28. È della Trinità che dobbiamo godere per vivere nella beatitudine 29; ora, se crediamo qualcosa di falso a suo riguardo, vana sarà la nostra speranza e non casta la nostra carità 30. Ma in che modo la fede può permetterci di amare questa Trinità che non conosciamo? Sarà forse guidati da quella conoscenza di specie e generi che ci permette di amare l’apostolo Paolo? Ma, sebbene l’Apostolo non abbia avuto un viso uguale a quello che ci si presenta all’immaginazione quando pensiamo a lui, e noi siamo nell’ignoranza più completa a questo riguardo, sappiamo almeno che cos’è un uomo. Senza andar lontano, noi lo siamo ed è manifesto che anche lui lo fu e che la sua anima ha vissuto questa vita mortale unita ad un corpo. Crediamo dunque di lui ciò che troviamo in noi, secondo la specie ed il genere che comprende tutta la natura umana. Ma di questa trascendenza della Trinità quale conoscenza generica o specifica abbiamo noi? Esistono forse molte altre trinità simili, alcune delle quali conosciamo per esperienza, di modo che, grazie a una regola di somiglianza impressa in noi o grazie ad una conoscenza del genere e della specie, possiamo credere che essa sia come quelle e così possiamo amare una realtà nella quale crediamo e che non conosciamo ancora, per la sua somiglianza con una realtà che conosciamo? Certamente non è così. O forse possiamo amare, per mezzo della fede, la Trinità che non vediamo e simile alla quale non ne abbiamo mai vista alcuna, alla stessa maniera che amiamo la risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo dai morti, sebbene non abbiamo mai visto risuscitare nessun morto? Ma che cosa sia vivere e che cosa sia morire lo sappiamo molto bene, perché noi viviamo ed abbiamo avuto occasione di vedere e sappiamo per esperienza che cosa è un morto ed un morente. Ora, che altro è risorgere se non rivivere, cioè ritornare dalla morte alla vita 31? Quando dunque diciamo e crediamo che esiste la Trinità, sappiamo che cosa sia una trinità, perché sappiamo che cosa è essere tre, ma non è questo che amiamo. Infatti una trinità la possiamo trovare facilmente, quando lo vogliamo, non foss’altro, per non parlare del resto, giocando alla morra con tre dita. Ma ciò che amiamo non è ciò che è qualsiasi trinità, ma ciò che è questa Trinità: Dio. Questo dunque amiamo nella Trinità, che essa è Dio. Ora noi non abbiamo visto, non conosciamo alcun altro Dio, perché c’è un solo Dio 32, quello solo che non abbiamo ancora visto e che amiamo per fede. Ma il problema consiste nel chiedersi a partire da quale similitudine, da quale comparazione con cose da noi conosciute crediamo in Dio ed anche lo amiamo 33 prima ancora di conoscerlo.Il vero amore con il quale si conosce la Trinità
6. 9. Facciamo dunque insieme un passo indietro ed esaminiamo perché amiamo l’Apostolo. È forse perché, grazie al concetto di natura umana, che conosciamo benissimo, crediamo che fu un uomo? Certamente no, perché altrimenti non esisterebbe ora l’oggetto del nostro amore, dato che egli non è più uomo in quanto la sua anima (anima) è stata separata dal corpo. Ma ciò che amiamo in lui noi crediamo che viva ancora adesso; amiamo infatti la sua anima (animus) giusta. Ed in virtù di quale norma generica e specifica, se non perché sappiamo che cos’è un’anima e che cosa è un giusto? Che cosa sia un’anima (animus) noi pretendiamo di saperlo, e non senza fondamento, perché anche noi abbiamo un’anima. Noi non abbiamo mai visto un’anima con gli occhi e non ce ne siamo formati un concetto generico e specifico a partire dalla rassomiglianza di più anime da noi viste, ma piuttosto, come ho detto, lo sappiamo perché anche noi l’abbiamo. C’è infatti una cosa conosciuta più intimamente, che senta con più chiarezza la sua esistenza, di ciò con cui si sentono anche tutte le altre cose, cioè l’anima stessa? Perché anche i movimenti dei corpi per mezzo dei quali percepiamo che vivono altri esseri oltre noi, noi li conosciamo per analogia con noi in quanto anche noi è grazie alla vita che muoviamo il nostro corpo, come vediamo che si muovono quei corpi. Infatti quando si muove un corpo vivente, non si apre ai nostri occhi alcuno spiraglio per cui possiamo percepire l’anima, realtà che non si può vedere con gli occhi. Ma noi percepiamo che c’è in quella massa corporea un principio analogo a quello che in noi muove similmente la nostra massa: questo principio è la vita e l’anima (anima). Ed esso non è come un qualcosa di esclusivo della prudenza e della ragione dell’uomo, perché anche le bestie sentono che vivono non soltanto esse stesse, ma anche altre bestie in relazione con loro e sentono che anche noi stessi viviamo. Non è che vedano le nostre anime ma sentono che noi viviamo a partire dai movimenti dei corpi e lo fanno istantaneamente e con la massima facilità per una specie d’istinto naturale. Perciò noi conosciamo l’anima (animus) di qualsiasi uomo per analogia con la nostra, e per analogia con la nostra crediamo in quella che non conosciamo. Infatti noi non soltanto sentiamo l’anima, ma possiamo anche sapere che cosa sia l’anima, considerando la nostra, perché abbiamo un’anima. Ma che cosa sia un giusto, da che cosa lo conosciamo? Abbiamo detto che il solo motivo per cui amiamo l’Apostolo è che egli è un’anima giusta. Dunque noi sappiamo che cos’è un giusto, come sappiamo che cos’è un’anima. Ma che cosa sia un’anima, come si è detto, noi lo sappiamo da noi stessi, perché c’è in noi un’anima. Al contrario che cosa sia un giusto da che cosa lo sappiamo, se non siamo giusti? Se nessuno sa che cosa sia un giusto se non colui che è giusto, nessuno ama il giusto se non il giusto. Nessuno può infatti amare colui che crede giusto, precisamente perché lo crede giusto, se ignora che cosa sia un giusto, e secondo quanto abbiamo più sopra dimostrato nessuno ama ciò che crede e non vede, se non secondo una norma di conoscenza generica o specifica. Ma allora, se ama il giusto solo il giusto, come vorrà essere giusto uno che non lo è ancora? Nessuno infatti vuol essere ciò che non ama. Ma perché divenga giusto colui che non lo è ancora, deve proprio voler essere giusto; e per volerlo ama il giusto. Perciò ama il giusto anche chi ancora non è giusto. Ma non può amare il giusto se ignora che cosa sia il giusto. Dunque sa che cosa sia il giusto anche chi non lo è ancora. Da dove gli deriva questa conoscenza? L’ha visto con gli occhi, o c’è forse un corpo giusto, come c’è un corpo bianco, nero, quadrato, rotondo? Chi oserà affermarlo? Ma con gli occhi si vedono solo i corpi. Ora nell’uomo non è giusta che l’anima e quando si dice che un uomo è giusto lo si dice secondo l’anima, non secondo il corpo. La giustizia è una specie di bellezza dell’anima; essa rende belli gli uomini, anche molti di quelli che hanno il corpo contraffatto e deforme. Ma come con gli occhi non si vede l’anima, così non si vede nemmeno la sua bellezza. Da che cosa apprende dunque che cosa sia il giusto, colui che non lo è ancora ed ama il giusto per diventarlo? Forse che i movimenti dei corpi fanno brillare certi segni i quali rivelano che questo o quest’altro uomo è giusto? Ma da che cosa sa che quei segni rivelano un’anima giusta, se ignora totalmente che cosa sia un giusto? Lo sa dunque. Ma da che cosa apprendiamo che cosa sia il giusto, anche quando non siamo giusti? Se lo sappiamo per qualcosa che è fuori di noi, lo vediamo in qualche corpo. Ma quella che vediamo non è una realtà corporea. È dunque in noi che vediamo che cosa sia il giusto. Quando cerco di parlarne non ne trovo l’idea altrove, ma solo in me; e se chiedo ad un altro che cosa sia il giusto, è in se stesso che egli cerca ciò che deve rispondere; e chiunque su questo punto può rispondere il vero, trova in se stesso che cosa può rispondere. Così quando voglio parlare di Cartagine, è in me che cerco ciò che ne dirò, e in me trovo l’immagine (phantasia) di Cartagine
34; ma questa immagine l’ho ricevuta per mezzo del corpo, cioè per mezzo dei sensi del corpo, perché è una città in cui sono stato fisicamente presente, che ho visto, percepito con i miei sensi, di cui conservo il ricordo, cosicché ne trovo in me un verbo quando intendo parlarne. Questo "verbo" è l’immagine (phantasia) che ne conservo nella mia memoria; non questo suono, queste tre sillabe che pronuncio quando nomino Cartagine, neppure il nome che penso in silenzio durante un certo intervallo di tempo; no, è ciò che vedo nella mia anima quando pronuncio queste tre sillabe o anche prima di pronunciarle. Così pure, quando voglio parlare di Alessandria, che non ho mai visto, ne appare in me una rappresentazione immaginaria (phantasma). Avendo sentito dire da molti ed essendomi persuaso, prestando fede alle descrizioni che a me se ne sono potute fare, che è una grande città, me ne sono formato con l’anima un’immagine approssimativa; questa immagine è il suo "verbo" in me, quando voglio parlarne, prima che abbia pronunciato queste cinque sillabe, questo nome che quasi tutti conoscono. E tuttavia se io potessi far uscire questa immagine dalla mia anima e presentarla agli occhi di coloro che conoscono Alessandria, certamente o esclamerebbero tutti: "non è essa", o, se mi dicessero: "è proprio essa", ne sarei molto stupito e contemplandola nella mia anima, o piuttosto l’immagine che ne è come la pittura, non potrei da me riconoscere che è proprio essa, ma presterei fede a coloro che l’hanno vista e ne conservano il ricordo. Ma non è così che cerco che cosa sia il giusto, né così che lo trovo, che lo vedo, né così che mi si approva, quando ne parlo, né così che approvo quando ne sento parlare, come se si trattasse di qualcosa che ho visto con gli occhi, o percepito con qualche senso corporeo, o udito da coloro che l’hanno appreso mediante la conoscenza sensibile. Quando dico, e con piena conoscenza di causa: "L’anima giusta è quella che, regolando la sua vita e i suoi costumi secondo i dettami della scienza e della ragione, dà a ciascuno il suo" 35, non penso ad una realtà assente, come Cartagine; non si tratta di una cosa di cui mi faccio un’immagine approssimativa, come Alessandria, che questa immagine corrisponda o no alla verità; ma contemplo una realtà presente, e la contemplo in me, sebbene non sia io stesso ciò che contemplo, e molti, se mi udranno parlare, mi approveranno. E chiunque mi ascolta e mi approva con piena conoscenza di causa, vede anche lui in sé ciò che vede anche se non è egli stesso ciò che vede. Il giusto invece quando parla di questo, vede e dice ciò che è egli stesso. E dove lo vede anch’egli, se non in se stesso? Ma ciò non può far meraviglia: dove potrebbe infatti vedere se stesso, se non in se stesso? Ma ciò che stupisce è che un’anima veda in se stessa ciò che non ha visto in nessun’altra parte, se ne faccia un’idea vera e veda un’anima veramente giusta sebbene essa sia sì un’anima, ma non l’anima giusta che vede in se stessa. Forse che c’è un’altra anima giusta nell’anima che non è ancora giusta? E se non c’è, che anima vede in sé, quando vede e dice ciò che è un’anima giusta, cosa che non vede in un’altra parte se non in sé, mentre tuttavia essa non è un’anima giusta? Ciò che essa vede non sarà la verità interiore, presente all’anima capace di intuirla? Ma tutti non ne sono capaci: e quelli che sono capaci di intuirla non sono tutto ciò che intuiscono, cioè non sono anch’essi delle anime giuste, benché possano vedere e dire che cosa sia un’anima giusta. E come potranno diventarlo, se non aderendo a questo stesso ideale che intuiscono, per modellarsi in conformità di esso e diventare anime giuste, non accontentandosi di contemplare e dire che è giusta l’anima che ordina la sua vita e la sua condotta secondo i dettami della scienza e della ragione e distribuisce a ciascuno ciò che gli spetta, ma per vivere anch’essi secondo giustizia ed improntare ad essa la loro condotta distribuendo a ciascuno ciò che gli spetta, in modo che non debbano nulla a nessuno, se non la mutua dilezione 36? E come si aderisce a quell’ideale se non con l’amore? Perché dunque amiamo noi un altro uomo che riteniamo giusto e non amiamo quello stesso ideale in cui vediamo che cosa sia un’anima giusta al fine di poter diventare giusti anche noi? O forse si deve dire che senza amare questo ideale non ameremmo colui che esso ci fa amare, ma che, fino a quando non siamo ancora giusti, l’amore di questo ideale è troppo debole per darci la forza di diventare giusti anche noi? Dunque l’uomo che è ritenuto giusto è amato secondo la verità che contempla ed intuisce in sé colui che ama; questa verità ideale però non si ama per un motivo diverso, ma per se stessa. Perché al di fuori di essa non troviamo nulla che le sia simile e che ci permetta, fintantoché non la conosciamo, di amarla per fede, riferendoci ad un’analogia di un essere già conosciuto. Infatti tutto ciò che ci appare tale, è già essa stessa; o meglio non c’è nulla di simile, perché essa sola è tale, quale essa è. Colui dunque che ama gli uomini, deve amarli perché sono giusti o perché lo diventino. Così infatti deve amare anche se stesso: o perché è giusto, o per diventare giusto. Allora ama il prossimo come se stesso 37 senza alcun pericolo. Chi si ama in maniera diversa si ama in maniera ingiusta, perché si ama per essere ingiusto, dunque per essere cattivo e di conseguenza non si ama; infatti: Chi ama l’iniquità odia la sua anima 38.Cercare Dio interiormente
7. 10. Perciò in questa questione sulla Trinità e la conoscenza di Dio dobbiamo principalmente indagare che cosa sia il vero amore, o meglio, che cosa sia l’amore, perché non c’è amore degno di tal nome che quello vero: il resto è concupiscenza. Ed è improprio dire che amano gli uomini dominati dalla concupiscenza, come dire che sono dominati dalla concupiscenza gli uomini che amano. Ora il vero amore consiste nell’aderire alla verità per vivere nella giustizia
39. Dunque disprezziamo tutte le cose mortali per amore degli uomini, amore che ci fa desiderare che essi vivano nella giustizia. Allora potremo giungere anche al punto di essere disposti a morire per il bene dei nostri fratelli, come il Signore Gesù Cristo ci ha insegnato con il suo esempio. Benché vi siano due precetti dai quali dipende tutta la Legge ed i Profeti: l’amore di Dio e l’amore del prossimo 40, non è senza motivo che la Scrittura di solito ne ricordi uno per tutti e due. Talvolta parla solo dell’amore di Dio, come in questo passo: Sappiamo che per coloro che amano Dio, egli fa concorrere tutto al bene 41; ed in quest’altro: Chiunque ama Dio, questi è conosciuto da lui 42; ed ancora: Perché l’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato 43, ed in molti altri passi. Perché chi ama Dio è naturale che faccia ciò che Dio ha prescritto e lo ami, nella misura in cui lo fa. Di conseguenza amerà anche il prossimo, perché Dio lo ha comandato 44. Talvolta la Scrittura ricorda soltanto l’amore del prossimo, come nel passo: Sopportate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo 45; ed in questo: Tutta la Legge infatti si compendia in questo solo comando: Ama il prossimo tuo come te stesso 46; e nel Vangelo: Tutto quanto desiderate che gli uomini facciano a voi di bene, fatelo voi pure a loro; poiché questa è la Legge ed i Profeti 47. E noi incontriamo nelle sante Scritture molti altri passi, in cui solo l’amore del prossimo sembra comandato per la perfezione, mentre non si parla dell’amore di Dio. E tuttavia la Legge e i Profeti dipendono dall’uno e dall’altro precetto 48. Ma ancora una volta la ragione di questo silenzio è che chi ama il prossimo ama necessariamente, prima di tutto, l’amore stesso. Ora: Dio è amore, e chi dimora nell’amore dimora in Dio 49. Ne consegue dunque che ama principalmente Dio.7. 11. Di conseguenza quelli che cercano Dio
50 per mezzo delle potestà che governano il mondo o le parti del mondo, sono trascinati lontano da lui e gettati a distanza, non per la lontananza di luogo, ma per la diversità dell’affetto 51. Infatti si sforzano di andare all’esterno ed abbandonano la loro interiorità, nell’intimità della quale c’è Dio. Perciò anche quando intendono parlare di qualche celeste Potestà o se la rappresentano in qualsiasi modo, desiderano soprattutto il suo potere che stupisce la debolezza umana, e non imitano la sua pietà con cui si accede al riposo di Dio. Preferiscono infatti, superbamente, potere ciò che può l’Angelo, piuttosto che essere, piamente, ciò che è l’Angelo. Perché nessun santo si compiace della sua potenza, ma di quella di Colui che gli concede di poter fare tutto ciò che può fare con saggezza. Sa che ha più potenza se si unisce all’Onnipotente con pia volontà, che se può compiere con la sua potenza e volontà qualcosa che faccia tremare coloro che ne sono privi. Perciò lo stesso Signore Gesù Cristo operando tali prodigi per avviare verso più alte verità coloro che li ammiravano e convertire alle realtà eterne ed interiori gli spiriti attenti e come sospesi verso dei miracoli temporali, disse: Venite a me voi che siete affaticati e stanchi ed io vi darò completo riposo. Prendete su di voi il mio giogo 52. Non disse: "Imparate da me che risuscito dei morti da quattro giorni", ma: Imparate da me perché sono docile ed umile di cuore 53. Infatti è più potente e sicura la solidissima umiltà che l’altissima grandezza gonfia di vento. Perciò il Signore aggiunge: E troverete pace per le anime vostre 54. Infatti l’amore non si gonfia 55 e Dio è amore 56, e quelli che sono fedeli riposano con lui nell’amore 57, richiamati dal tumulto esteriore alle gioie silenziose. Ecco: Dio è amore; perché andar correndo nel più alto dei cieli, nel più profondo della terra, alla ricerca di Colui che è presso di noi se noi vogliamo stare presso di lui 58?Chi ama il fratello è nato da Dio e lo conosce
8. 12. Nessuno dica: "non so che cosa amare". Ami il fratello ed amerà l’amore stesso. Infatti conosce meglio l’amore con cui ama che il fratello che ama. Ed ecco che allora Dio gli sarà più noto che il fratello; molto meglio noto, perché più presente; più noto perché più interiore; più noto perché più certo. Abbraccia il Dio amore e abbraccia Dio con l’amore. È quello stesso amore che associa tutti gli Angeli buoni e tutti i servi di Dio con il vincolo della santità e che ci unisce scambievolmente insieme, essi e noi, unendoci a lui che è al di sopra di noi. Quanto più dunque siamo esenti dal gonfiore della superbia, tanto più siamo pieni d’amore. E di che cosa è pieno se non di Dio colui che è pieno d’amore? "Ma, si dirà, vedo la carità e, per quanto posso, fisso su di essa lo sguardo dello spirito e credo alla Scrittura che dice: Dio è carità, e chi dimora nella carità, dimora in Dio
59. Ma quando vedo la carità, non vedo in essa la Trinità". Ebbene, sì, tu vedi la Trinità, se vedi la carità. Mi sforzerò, se lo posso, di farti vedere che la vedi: soltanto che la Trinità ci assista affinché la carità ci muova verso qualche bene. Quando infatti amiamo la carità, la amiamo come amante qualcosa, per il fatto stesso che la carità ama qualcosa. Che cosa ama dunque la carità, perché anche la carità stessa possa essere amata? Non è infatti carità quella che non ama nulla. Se ama se stessa, occorre che ami qualcosa, per amarsi come carità. Infatti se la parola significa qualcosa, così significa anche se stessa, ma non significa se stessa se non perché è fatta per significare qualcosa. Allo stesso modo la carità si ama certamente, ma se non si ama come amante qualcosa, non si ama come carità. Che ama dunque la carità, se non ciò che amiamo con la carità? Ora questo, per partire da ciò che abbiamo di più prossimo, è il fratello. Osserviamo quanto l’apostolo Giovanni ci raccomanda l’amore fraterno: Colui che ama il suo fratello, egli dice, dimora nella luce, e nessuno scandalo è in lui 60. È chiaro che egli ha posto la perfezione della giustizia nell’amore del fratello; perché colui nel quale non c’è scandalo è perfetto. E tuttavia sembra aver taciuto dell’amore di Dio, cosa che non avrebbe mai fatto se nello stesso amore fraterno non sottintendesse Dio. Poco dopo infatti, nella stessa Epistola, dice in modo chiarissimo: Carissimi, amiamoci vicendevolmente perché l’amore viene da Dio; colui che ama è nato da Dio, e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore 61. Questo contesto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno - infatti l’amore fraterno è quello che ci fa amare vicendevolmente - non solo viene da Dio, ma che, secondo una così grande autorità, è Dio stesso. Di conseguenza, amando secondo l’amore il fratello, lo amiamo secondo Dio. Né può accadere che non amiamo principalmente questo amore, con cui amiamo il fratello. Da ciò si conclude che quei due precetti non possono esistere l’uno senza l’altro. Poiché in verità Dio è amore 62, ama certamente Dio, colui che ama l’amore ed è necessario che ami l’amore colui che ama il fratello. Perciò poco più innanzi l’apostolo Giovanni afferma: Non può amare Dio, che non vede, colui che non ama il prossimo che vede 63, perché la ragione per cui non vede Dio è che non ama il fratello. Infatti chi non ama il fratello, non è nell’amore e chi non è nell’amore non è in Dio, perché Dio è amore 64. Inoltre chi non è in Dio non è nella luce, perché: Dio è luce, e tenebra alcuna non è in lui 65. Qual meraviglia, dunque, se chi non è nella luce non vede la luce, cioè non vede Dio, perché è nelle tenebre 66? Vede il fratello con sguardo umano che non permette di vedere Dio. Ma se amasse colui che vede per sguardo umano, con carità spirituale, vedrebbe Dio, che è la carità stessa, con lo sguardo interiore con cui lo si può vedere. Perciò chi non ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede, precisamente perché Dio è amore 67, amore che manca a colui che non ama il fratello? E non si ponga più il problema di sapere quanto amore dobbiamo al fratello, quanto a Dio. A Dio, senza alcun confronto, più che a noi. Al fratello poi tanto, quanto a noi stessi. Amiamo infine tanto più noi stessi quanto più amiamo Dio. È dunque con una sola ed identica carità che amiamo Dio e il prossimo; ma amiamo Dio per se stesso, noi stessi invece ed il prossimo per Dio 68.Amiamo l’anima giusta perché amiamo Dio
9. 13. Quale motivo abbiamo dunque, chiedo, di infiammarci quando ascoltiamo e leggiamo questo passo: Ecco ora il tempo propizio, ecco ora il giorno della salvezza. Noi cerchiamo di non dare a nessuno motivo di scandalo, perché non venga vituperato il nostro ministero, ma anzi sotto ogni aspetto ci sforziamo di renderci raccomandabili come ministri di Dio, con molta pazienza, nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, sotto le battiture, nelle prigioni, nei turbamenti, nelle fatiche, nelle vigilie, nei digiuni, con la purezza, con la scienza, con la longanimità, con la bontà, con lo Spirito Santo, con carità sincera, con la parola della verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia a destra e a sinistra; in mezzo alla gloria e all’ignominia, alla buona e cattiva reputazione; creduti impostori, mentre siamo veraci; quasi fossimo sconosciuti, mentre siamo notissimi; come morenti ed ecco siamo vivi; come dei fustigati ma non messi a morte; come degli afflitti mentre siamo sempre allegri, come dei miserabili, noi che arricchiamo tanti; come non possedendo nulla, noi che possediamo tutto
69? Che motivo abbiamo di accenderci nell’amore di Paolo apostolo, quando leggiamo queste cose, se non perché crediamo che egli è vissuto così? E pertanto che i ministri di Dio debbono vivere così non lo crediamo sulla testimonianza di altri, ma noi lo vediamo nell’intimo di noi stessi, o meglio, al di sopra di noi, nella Verità stessa 70. Perciò amiamo lui che crediamo abbia vissuto così, in virtù di un ideale che vediamo. E se non amassimo prima di tutto questo ideale, che sta sempre stabile ed immutabile davanti al nostro sguardo, non ameremmo l’Apostolo proprio perché, come riteniamo per fede, ha aderito e si è conformato ad esso durante la sua vita nella carne. Ma non so come per la convinzione che ci proviene dalla fede che qualcuno ha vissuto così si ravvivi il nostro amore per questo ideale; e la speranza per la quale anche noi, dato che siamo uomini, confidiamo di vivere così, visto che alcuni uomini l’hanno fatto, ci impedisca di disperare e faccia sì che lo desideriamo più ardentemente e preghiamo con più confidenza. Così l’amore di questo ideale, secondo il quale crediamo che altri siano vissuti, ci fa amare la loro vita, e d’altra parte la loro vita, stimata tale, suscita in noi un amore più ardente per questo ideale; cosicché, quanto più ardentemente amiamo Dio, tanto più certa e serena è la visione che abbiamo di esso; perché è in Dio che contempliamo questo immutabile ideale di giustizia, secondo il quale giudichiamo che l’uomo debba vivere. Perciò la fede giova alla conoscenza ed all’amore di Dio, non nel senso che ce lo faccia conoscere ed amare perché prima non lo conoscevamo affatto o non lo amavamo affatto, ma giova a farcelo conoscere in maniera più luminosa ed amare con amore più fermo.Vestigio della Trinità nell’amore
10. 14. Che è dunque l’amore o carità, tanto lodato e celebrato dalle divine Scritture, se non l’amore del bene? Ma l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce, o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato? È così anche negli amori più bassi e carnali, ma per attingere ad una fonte più pura e cristallina, calpestiamo con i piedi la carne ed eleviamoci fino all’anima. Che ama l’anima in un amico, se non l’anima? Anche qui dunque ci sono tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore. Ci rimane di elevarci ancora e cercare più in alto queste cose, per quanto è concesso all’uomo di farlo
71. Ma riposiamo per il momento un po’ la nostra attenzione, non perché essa ritenga di aver trovato già ciò che cerca, ma come si riposa di solito colui che ha trovato il luogo in cui deve cercare qualche cosa 72; non l’ha ancora trovata, ma ha trovato dove cercarla 73. Che queste riflessioni ci bastino e siano come il primo filo a partire dal quale noi tesseremo il resto della nostra trama.Natura della ricerca sulla Trinità
1. 1. La nostra ricerca concerne, certo, non una trinità qualsiasi, ma la Trinità che è Dio, il vero, supremo ed unico Dio. Pazienta dunque, tu che mi ascolti, chiunque tu sia, perché stiamo ancora cercando e nessuno ha il diritto di biasimare chi si dedica alla ricerca di tali cose, sempre che ricerchi, basandosi su una fede incrollabile, ciò che è così difficile da conoscere e da esprimere. Chiunque invece vede meglio o insegna meglio ha ragione di riprendere immediatamente le affermazioni di chi non cerca. Cercate il Signore, è detto, e vivrà la vostra anima 1. E per evitare che qualcuno si rallegri alla leggera di aver in qualche modo appreso la verità, è detto: Cercate sempre la sua faccia 2. E l’Apostolo dice: Se qualcuno crede di sapere qualcosa, non sa ancora in che modo bisogna sapere. Chiunque ama Dio, questi è conosciuto da lui 3. Non dice: "Conosce Dio", che è pericolosa presunzione, ma invece: è conosciuto da lui. Così, avendo detto in un altro passo: Ora che conoscete Dio, si corregge subito e dice: anzi, che siete stati conosciuti da Dio 4. Ma ecco il passo più significativo: Fratelli, non credo di averla ancora raggiunta, ma una sola cosa faccio: dimentico quello che è indietro e, proteso, con una tensione di tutto me stesso, verso ciò che è davanti, corro verso la meta, per il premio di quella suprema chiamata di Dio in Gesù Cristo. Quanti dunque siamo perfetti, cerchiamo di avere questi sentimenti 5. La perfezione in questa vita, secondo l’Apostolo, non è altra cosa che dimenticare ciò che è indietro e protendersi, per una tensione di tutto se stessi, verso ciò che sta davanti 6. Questa tensione nella ricerca è la via più sicura fino a quando non si abbia attinto ciò verso cui tendiamo e che ci estende al di là di noi stessi. Ma è retta solo la tensione che procede dalla fede. È la certezza della fede che, in qualche maniera, è inizio della conoscenza, ma la certezza della conoscenza non sarà compiuta che dopo questa vita, quando vedremo a faccia a faccia 7. Abbiamo dunque questa intima convinzione e conosceremo che è più sicuro il sentimento che ci spinge a cercare la verità di quello che ci fa presumere di conoscere ciò che non conosciamo. Cerchiamo dunque con l’animo di chi sta per trovare e troviamo con l’animo di chi sta per cercare. Infatti: Quando l’uomo penserà di aver finito, allora incomincerà 8. Circa le verità da credere, nessun dubbio proveniente dalla mancanza di fede, circa le verità da comprendere, nessuna affermazione temeraria; in quelle dobbiamo attenerci all’autorità, in queste si ha da indagare la verità. Per quanto concerne dunque la nostra questione, crediamo che il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo sono un solo Dio, Creatore e Reggitore di tutta la creazione 9; che il Padre non è il Figlio, che lo Spirito Santo non è il Padre, né il Figlio, ma che sono una Trinità di persone in mutue relazioni in un’unica ed uguale essenza 10. Cerchiamo di comprendere questo, implorando aiuto da Colui stesso che vogliamo comprendere, e cerchiamo di spiegare, per quanto ci è concesso, ciò che comprendiamo, con così grande diligenza e pia sollecitudine che, supponendo anche che noi affermiamo una cosa per un’altra, in ogni caso non diciamo nulla che non sia degno di Dio. Che se, per esempio, diciamo del Padre qualcosa che non gli conviene in proprio, convenga almeno al Figlio, o allo Spirito Santo, o alla Trinità. Se diciamo del Figlio qualcosa che non gli conviene in proprio, almeno convenga al Padre, o allo Spirito Santo o alla Trinità. Così se attribuiamo allo Spirito Santo qualcosa che non indichi una proprietà dello Spirito Santo, non sia almeno estranea al Padre o al Figlio, o al Dio unico, la Trinità stessa. Per esempio, desideriamo ora vedere se lo Spirito Santo è in senso proprio quella incomparabile carità; se non lo è, lo è il Padre, o il Figlio, o la stessa Trinità; perché non possiamo contraddire all’assoluta certezza della fede né all’autorità inconcussa della Scrittura che afferma: Dio è carità 11. Tuttavia non dobbiamo mai lasciarci traviare dal sacrilego errore che ci faccia affermare della Trinità qualcosa che non convenga al Creatore, ma invece alla creatura 12, o che sia frutto di vane finzioni dell’immaginazione.
Lo spirito e l’amore con cui si ama
2. 2. Stando così le cose 13, fissiamo la nostra attenzione su queste tre realtà che ci sembra di aver scoperto. Non parliamo ancora della suprema Trinità, non parliamo ancora di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, bensì di questa immagine inadeguata, ma pur sempre immagine, cioè dell’uomo; forse questa immagine è qualcosa di più familiare e di più accessibile per il debole sguardo del nostro spirito. Pensate a me, a me che cerco questo. Quando amo qualcosa, ci sono tre cose: io, ciò che amo e l’amore stesso. Infatti non amo l’amore, se non lo amo amante, perché non c’è amore, dove nulla è amato. Ecco dunque tre cose: colui che ama, ciò che è amato, e l’amore. Ma che dire se non amo che me stesso? Non ci saranno solo due cose, ciò che amo e l’amore? Quando si ama se stessi, colui che ama e ciò che è amato sono la stessa cosa; come amare ed essere amato sono allo stesso modo la medesima cosa, quando qualcuno ama se stesso. Si esprime due volte la medesima cosa, quando si dice: ama se stesso ed è amato da sé. Allora amare non è cosa diversa che essere amato, proprio come colui che ama non è diverso da colui che è amato. Ma resta tuttavia che l’amore e ciò che è amato anche allora sono due cose. Infatti quando qualcuno ama se stesso, non c’è amore, se anche l’amore stesso non è amato. Ora amare se stesso ed amare il proprio amore sono due cose diverse. L’amore infatti non si ama, se esso già non ama qualcosa, perché dove non si ama nulla non c’è amore. Quando dunque qualcuno si ama vi sono due cose: l’amore e ciò che è amato, perché allora chi ama e ciò che è amato sono una sola cosa. Sembra dunque illogico concludere che ovunque ci sia amore ci siano per ciò stesso tre cose. Prescindiamo, in questa considerazione, dai molti altri elementi costitutivi dell’uomo 14, e al fine di porre nella più grande chiarezza possibile l’oggetto della nostra presente ricerca, trattiamo del solo spirito. Lo spirito dunque, quando ama se stesso, manifesta due cose: lo spirito e l’amore. Ma che cosa è amarsi, se non voler essere disponibile a sé per fruire di sé? E, quando vuole essere nella stessa misura in cui è, la volontà è allora adeguata allo spirito e l’amore adeguato a colui che ama. E se l’amore è una sostanza, non è certamente corpo, ma spirito (spiritus); nemmeno l’anima intellettiva (mens) è corpo, ma è spirito (spiritus). Tuttavia l’amore e l’anima intellettiva non sono due spiriti, ma uno spirito solo; né due essenze, ma una sola, e tuttavia vi sono due realtà che ne formano una sola: colui che ama e l’amore, o, per dirla in altro modo: ciò che è amato e l’amore. E queste due cose dicono relazione mutua l’una all’altra, perché colui che ama dice relazione all’amore, e l’amore a colui che ama. Infatti, chi ama, ama per mezzo di qualche amore e l’amore appartiene a uno che ama. Anima intellettiva e spirito al contrario non si dicono in senso relativo, ma designano l’essenza. Infatti non è per la loro appartenenza ad un uomo che l’anima intellettiva e lo spirito sono anima intellettiva e spirito. Togliete all’uomo ciò che lo costituisce, cioè l’unione con il corpo: se togliete dunque il corpo, l’anima intellettiva e lo spirito restano; se si toglie, al contrario, colui che ama, non c’è più amore e, tolto l’amore, non c’è più chi ami. Perciò in quanto dicono relazione mutua, sono due, ma considerati in senso assoluto, ciascuno è spirito e tutti e due insieme sono un solo spirito; ciascuno è anima intellettiva e tutti e due insieme sono una sola anima intellettiva. Dove trovare dunque una trinità? Concentriamo il più possibile la nostra attenzione e imploriamo la luce eterna di illuminare le nostre tenebre e vediamo in noi, per quanto ci è concesso, l’immagine di Dio 15.
Lo spirito e la conoscenza che ha di sé
3. 3. Lo spirito non può amare se stesso se anche non si conosce; come può infatti amare ciò che ignora?. È veramente da insensati affermare che è in virtù di una conoscenza generica o specifica che lo spirito si crede simile agli altri spiriti, conosciuti da esso per esperienza, e grazie a questa conoscenza ama se stesso. Come conosce lo spirito un altro spirito se non conosce se stesso? Lo spirito non conosce gli altri spiriti ed ignora se stesso, come l’occhio del corpo che vede gli altri occhi, ma non vede se stesso 16. Infatti con gli occhi del corpo vediamo i corpi, perché i raggi che essi emettono e che toccano gli oggetti che guardiamo 17 non possiamo rifrangerli e farli ritornare su di essi, a meno di non guardare in uno specchio 18. Questo è oggetto di discussione molto sottile ed oscura fino a quando non si sia dimostrato con tutta chiarezza che la realtà è o non è così. Ma qualunque sia questa forza che permette agli occhi di vedere, si tratti di irradiazione o altra cosa diversa, questa forza, con gli occhi, non la possiamo vedere; ma è con lo spirito che noi indaghiamo e, se è possibile, è con lo spirito che noi comprendiamo questo fenomeno 19. Perciò lo spirito, come raccoglie per mezzo dei sensi del corpo le conoscenze delle realtà corporee, così raccoglie le conoscenze delle realtà incorporee per mezzo di se stesso. Dunque conosce anche se stesso per mezzo di se stesso, perché incorporeo 20. Infatti, se non si conosce, non si ama.
Spirito, amore e conoscenza di sé, loro distinzione ed uguaglianza
4. 4. Ma come sono due cose lo spirito ed il suo amore, quando lo spirito ama se stesso, così sono due cose lo spirito e la sua conoscenza quando conosce se stesso. Dunque lo spirito, il suo amore e la sua conoscenza sono tre cose e queste tre cose non ne fanno che una e, quando sono perfette, sono uguali. Se infatti l’amore con cui lo spirito si ama è inadeguato al suo essere, come se, per esempio, lo spirito si ama nella misura in cui deve essere amato il corpo dell’uomo, mentre esso è superiore al corpo, pecca e il suo amore non è perfetto. Così se l’amore con cui si ama sarà superiore a quello che merita il suo essere, come se si ama nella misura in cui si deve amare Dio, essendo esso incomparabilmente inferiore a Dio, ancora una volta pecca gravemente e l’amore che ha di sé non è perfetto. Più perverso e più iniquo è il suo peccato, quando ama il corpo nella misura in cui si deve amare Dio. Similmente la conoscenza, se è inferiore all’oggetto conosciuto e pienamente conoscibile, è imperfetta. Se invece è superiore, allora il soggetto conoscente vale più dell’oggetto conosciuto; così la conoscenza che si ha di un corpo è superiore al corpo che tale conoscenza ci rende noto. Infatti la conoscenza è una specie di vita nella ragione di colui che conosce, mentre il corpo non è vita. E la vita, qualunque essa sia, è superiore al corpo, qualunque esso sia, non in volume, ma in potenza. Ma quando lo spirito conosce se stesso, la sua conoscenza non è superiore al suo essere, perché è esso che conosce, esso che è conosciuto. Quando dunque conosce se stesso tutto intero e niente altro con sé, la sua conoscenza è uguale ad esso perché, quando si conosce, non trae la sua conoscenza da un’altra natura. E quando si percepisce tutto intero e niente più, non è né inferiore né superiore. A ragione abbiamo detto dunque che queste tre cose, quando sono perfette, sono necessariamente uguali.
Unità di sostanza tra spirito, conoscenza ed amore, che sono distinti per la relazione
4. 5. Nello stesso tempo ci accorgiamo anche, per quanto ci è possibile, che queste cose sussistono nell’anima e quasi da implicite diventano esplicite, così da farsi avvertire ed analizzare quale sostanza o, per così dire, essenza, non come esistenti in un soggetto alla maniera del colore o della figura o di altre qualità o quantità in un corpo 21. Tutte queste proprietà sono limitate al soggetto in cui si trovano. Infatti questo colore o la forma di questo corpo non possono essere anche quelli di un altro corpo. Invece lo spirito con l’amore con cui si ama, può amare altra cosa diversa da sé. Ed allo stesso modo lo spirito non conosce solo se stesso, ma anche molte altre cose. Dunque l’amore e la conoscenza non ineriscono allo spirito come ad un soggetto, ma si trovano, anch’essi, come lo spirito, in senso sostanziale, perché, anche se li esprimiamo in senso relativo riferendoli l’uno all’altra, considerati a parte esistono ciascuno nella loro propria sostanza. La loro relazione non è come quella del colore e dell’oggetto colorato, che sono relativi l’uno all’altro, ma nel senso che il colore è nel corpo colorato senza avere in sé la propria sostanza, perché il corpo colorato è sostanza, ma il colore è nella sostanza. La relazione di cui parliamo è invece come quella che esiste tra due amici, che sono ambedue uomini e quindi due sostanze; quando li si designa con il nome di uomini, non si dicono in senso relativo, ma amici si dicono in senso relativo.
Sono inseparabili
4. 6. Così, sebbene sia sostanza colui che ama e conosce, sia sostanza la sua conoscenza e sostanza sia il suo amore, tuttavia colui che ama e l’amore, o colui che conosce e la conoscenza, sono termini relativi l’uno all’altro, come lo sono gli amici. Invece l’anima intellettiva o lo spirito non debbono essere considerati termini relativi, come nemmeno gli uomini sono realtà relative. Tuttavia se gli amici possono essere separati tra loro, non lo possono al contrario chi ama e il suo amore, chi conosce e la sua conoscenza. È vero che anche gli amici sembra che possano stare separati fisicamente, ma non spiritualmente, in quanto amici, ma può accadere tuttavia che un amico incominci ad odiare l’amico e per ciò stesso cessi d’essere amico, all’insaputa dell’altro, che ancora lo ama. Se invece cessa di esistere l’amore con cui lo spirito si ama, nello stesso tempo lo spirito cessa di amare. Così pure, se cessa di esistere la conoscenza con cui lo spirito si conosce, nello stesso momento lo spirito cessa di conoscersi. Alla stessa maniera, è naturale, non c’è testa se non c’è un corpo di cui è testa. Essi sono termini relativi sebbene siano anche sostanze, perché la testa e ciò di cui è testa sono realtà fisiche; e se non ci sarà il corpo, non ci sarà un qualcosa che porti la testa. Tuttavia queste due realtà possono venir separate l’una dall’altra, ma per le cose dello spirito è impossibile.
Sono di una identica sostanza, ma non confusi
4. 7. Vi sono dei corpi che non si possono assolutamente sezionare e dividere, tuttavia, se non fossero costituiti da parti, non sarebbero corpi. La parte dunque dice relazione al tutto, perché ogni parte è parte di un tutto ed il tutto è tutto per tutte le sue parti. Ma poiché parte e tutto sono corpi, essi non hanno solo valore relativo, ma esistono anche in senso sostanziale. Si dirà, forse, allora, che lo spirito è il tutto, mentre l’amore con cui si ama e la conoscenza con cui si conosce sono come le sue parti, due parti dalle quali quel tutto è costituito? O forse ci sono tre parti uguali, di cui un tutto unico sarebbe la somma? Ma nessuna parte abbraccia il tutto, di cui è parte. Invece lo spirito, quando si conosce tutto intero, cioè si conosce perfettamente, la sua conoscenza penetra tutto il suo essere e, quando si ama perfettamente, si ama tutto ed il suo amore penetra tutto il suo essere. E dunque dobbiamo forse ragionare, quando si tratta della compresenza dello spirito, della conoscenza e dell’amore come si ragiona dell’acqua, del vino e del miele che fanno una sola pozione in cui ciascuno dei liquidi si trova sparso in tutta la massa e tuttavia vi sono tre cose (perché non vi è alcuna parte della pozione che non le contenga: infatti questi liquidi non sono giustapposti, come sarebbero l’acqua e l’olio, ma intimamente fusi; tutti sono sostanze, e tutto il liquido non è, in qualche modo, che una sola sostanza composta da tre)? Ma l’acqua, il vino e il miele non appartengono ad una sola sostanza, sebbene dalla loro mescolanza risulti l’unica sostanza della pozione. Non vedo al contrario come quelle tre realtà non siano di una stessa essenza, dato che è lo spirito che ama se stesso, ed è lo spirito che conosce se stesso, e l’unione di queste tre realtà è tale che per nessun’altra cosa lo spirito è oggetto di amore o di conoscenza. Tutte e tre queste cose è necessario dunque che appartengano ad un’unica e medesima essenza. E perciò se fossero come fuse in una mescolanza, esse non potrebbero essere tre, e non potrebbero essere in relazione scambievole. Se si fanno con un unico ed identico oro tre anelli simili, sebbene intrecciati l’un l’altro, essi sono in mutua relazione, perché sono simili; infatti ogni simile è simile a qualcosa. C’è dunque una trinità di anelli ed un oro unico. Ma se si fondono insieme, e ciascuno si mescola con la massa totale, quella trinità scompare, non esisterà assolutamente più. E non solo si parlerà di un medesimo oro com’era nei tre anelli, ma non esisteranno più i tre oggetti d’oro.
Immanenza e circuminsessione di spirito, amore e conoscenza di sé
5. 8. Ma quando lo spirito si conosce e si ama, in quelle tre realtà - lo spirito, la conoscenza, l’amore - resta una trinità; e non c’è né mescolanza né confusione, sebbene ciascuna sia in sé, e tutte si trovino scambievolmente in tutte, ciascuna nelle altre due, e le altre due in ciascuna. Di conseguenza tutte in tutte 22. Infatti lo spirito è certamente in sé, perché si dice spirito in relazione a se medesimo, sebbene, come conoscente, conosciuto e conoscibile, esso sia relativo alla conoscenza con cui si conosce; ed anche in quanto amante, amato o amabile dica relazione all’amore con cui si ama. E la conoscenza, sebbene si riferisca allo spirito, che conosce o è conosciuto, tuttavia la si dice conosciuta o conoscente in se stessa; infatti la conoscenza con cui lo spirito si conosce non è sconosciuta a se stessa. E sebbene l’amore si riferisca allo spirito che ama e di cui è l’amore, tuttavia è amore anche in se stesso, cosicché esiste anche in se stesso, perché anche l’amore è amato e non può essere amato che con l’amore, cioè con se stesso. Sicché ciascuna di queste realtà, considerata a parte, esiste in se stessa. L’una poi è nell’altra così: lo spirito che ama nell’amore, l’amore nella conoscenza dello spirito che ama, la conoscenza nello spirito che conosce. Ciascuna è nelle altre due così: lo spirito che conosce ed ama se stesso è nel suo amore e nella sua conoscenza; l’amore dello spirito che si ama e si conosce è nello spirito e nella sua conoscenza; e la conoscenza dello spirito che si conosce e si ama è nello spirito e nel suo amore, perché si ama come conoscente e come amante. E per questo anche le altre due sono in ciascuna, perché lo spirito che si conosce ed ama è con la sua conoscenza nell’amore e con il suo amore nella conoscenza; anche l’amore stesso e la conoscenza sono insieme nello spirito che si ama e si conosce. Come poi ognuna sia tutta in tutte lo abbiamo già mostrato sopra: lo spirito ama tutto se stesso, conosce tutto se stesso, conosce tutto il proprio amore, ama tutta la conoscenza di sé, se queste tre cose sono perfette in se stesse. Così queste tre realtà sono in modo meraviglioso inseparabili tra loro, e tuttavia ciascuna di esse, considerata a parte, è sostanza, e tutte insieme sono una sola sostanza o essenza, sebbene nel contempo si predichino in vicendevole relazione.
La duplice conoscenza dello spirito
6. 9. Ma quando lo spirito umano conosce ed ama se stesso, non conosce ed ama qualcosa di immutabile. Diversa è la maniera con cui ciascun uomo, attento a ciò che accade in lui, esprime il suo spirito con la parola, altra quella in cui definisce lo spirito umano con una conoscenza specifica o generica. Così quando un uomo mi parla del suo proprio spirito e mi dice se comprende o no questa o quella cosa, se vuole o no questa o quella cosa, io gli credo; ma quando dice la verità sull’essenza generica o specifica dello spirito umano riconosco ed approvo. Appare chiaro che: altra cosa è ciò che ciascuno vede in se stesso e a chi lo ascolta offre da credere, ma non da vedere; altra cosa è ciò che vede nella verità stessa che può vedere anche chi lo ascolta; la prima cosa può cambiare con il tempo, la seconda è immutabile per l’eternità. Perché non è vedendo con gli occhi corporei una moltitudine di spiriti che ci facciamo una conoscenza generica o specifica dello spirito umano, unificando i caratteri simili, ma noi intuiamo l’inviolabile verità secondo la quale definiamo in modo perfetto, in quanto è possibile, non ciò che lo spirito di ciascun uomo è, ma ciò che deve essere secondo le ragioni eterne.
Le verità eterne
6. 10. Così pure, per quanto concerne le immagini delle cose materiali attinte per mezzo dei sensi del corpo e come infuse nella memoria, per mezzo delle quali ci formiamo, anche delle cose che non abbiamo visto, delle rappresentazioni immaginarie (siano, queste immagini, diverse o, per caso, corrispondenti alla realtà), è ancora secondo regole del tutto diverse, regole immutabili che trascendono il nostro spirito, che noi le approviamo o disapproviamo in noi stessi, quando le approviamo o disapproviamo secondo il retto giudizio. Infatti anche quando mi ricordo delle mura di Cartagine che ho visto, ed immagino quelle di Alessandria che non ho visto, e preferisco tra queste rappresentazioni presenti alla mia immaginazione talune ad altre, la mia preferenza è razionale; si afferma e brilla al di sopra di esse il giudizio di verità e gli danno fermezza le regole incorruttibili del suo diritto; e sebbene sia quasi velato da una nube di immagini materiali, esso non ne è avviluppato e non si confonde con esse.
6. 11. Ma mi interessa sapere se io sotto questa caligine o in essa possa essere come isolato dal cielo sereno, o se invece possa, come suole accadere sulla cima elevata delle montagne, trovarmi tra i due godendo dell’aria pura, contemplando al di sopra di me la luce limpidissima e al di sotto le densissime nubi. Infatti da che proviene che io mi infiammi di amore fraterno quando sento dire che un uomo ha, per la bellezza e fermezza della fede, sopportato dei tormenti troppo crudeli? E se mi si indica con il dito questo stesso uomo, desidero unirmi a lui, desidero farglielo comprendere e legarmi a lui con l’amicizia. E dunque se mi si presenta l’occasione propizia mi avvicino, gli parlo, converso con lui, gli esprimo, come posso, il mio affetto, voglio che egli mi ripaghi l’affetto e me lo dica, provoco il nostro abbraccio spirituale basandomi sulla fede in ciò che mi è stato detto, perché non posso in poco tempo espletare la mia indagine e penetrare nel suo interno. Amo questo eroe della fede con amore casto e fraterno. Ma se nella nostra conversazione mi confessa o mi lascia intendere incautamente che egli ha su Dio delle idee indegne di Dio e che ciò che desidera in Dio è ancora qualcosa di carnale e che ha sopportato quei tormenti per sostenere tale errore o per cupidigia di un lucro desiderato, o vano desiderio di gloria umana, subito l’amore che mi portava verso di lui, offeso e come respinto dall’ostacolo, si ritira dall’uomo che non ne è più degno, ma tuttavia rimane in quella forma ideale, che me lo aveva fatto amare quando lo credevo degno. A meno che non lo ami ora perché divenga tale quale ho visto che non era. Tuttavia in quell’uomo nulla è cambiato: ma può mutarsi per diventare ciò che avevo creduto che fosse inizialmente. Però nel mio spirito senza dubbio è mutata la valutazione che avevo di lui: essa era diversa prima da quello che ora è, ma è lo stesso amore che si è distolto dal desiderio della fruizione per tendere alla benevolenza, e questo per il comando della giustizia immutabile e trascendente. È lo stesso ideale di verità stabile ed incrollabile - il quale mi faceva fruire di quell’uomo, ritenendolo buono, e che mi fa ora volere che divenga buono, con la luce della ragione incorruttibile e purissima - che inonda della sua serena eternità lo sguardo del mio spirito e quella nube dell’immaginazione che vedo al di sotto, quando penso a quell’uomo che avevo visto. Così quando mi ricordo un arco curvato in forma bella ed esatta, che ho visto, per esempio, a Cartagine, l’oggetto materiale trasmesso allo spirito per mezzo degli occhi, passato nella memoria, suscita una rappresentazione immaginaria. Ma ciò che contemplo con lo spirito, secondo cui approvo la sua bellezza, e secondo cui lo correggerei se non mi piacesse, è tutt’altra cosa. E così giudichiamo di queste cose corporee secondo la verità eterna che percepisce l’intuizione dell’anima razionale. Queste cose invece, se presenti, noi le tocchiamo con i sensi del corpo; se assenti ricordiamo le loro immagini conservate nella memoria, o secondo la loro rassomiglianza, le immaginiamo tali come le faremmo nella realtà, se ne avessimo la volontà e i mezzi. Una cosa è dunque rappresentarsi con l’anima (animus) le immagini dei corpi, o vedere per mezzo del corpo le cose materiali, altra cosa intuire con la pura intelligenza, al di sopra dello sguardo dello spirito, le ragioni e l’arte ineffabilmente bella di tali immagini.
La generazione del verbo umano
7. 12. Dunque in quella eterna verità, secondo la quale sono state create tutte le cose temporali, vediamo, con lo sguardo dello spirito, la forma che è il modello del nostro essere, e di quanto facciamo in noi o nei corpi, quando agiamo secondo la vera e retta ragione; e la conoscenza vera che grazie ad essa noi concepiamo l’abbiamo come verbo presso di noi, un verbo che generiamo dicendolo al di dentro di noi e che nascendo non si separa da noi. Quando parliamo ad altri, restando il verbo a noi immanente, ricorriamo all’aiuto della parola o di un segno sensibile per provocare anche nell’anima di chi ascolta, mediante un’evocazione sensibile, un qualcosa di somigliante a ciò che permane nell’anima di chi parla. Così nulla facciamo con le membra del nostro corpo, nei gesti o nelle parole, con cui approviamo o disapproviamo la condotta degli uomini, che non anticipiamo con un verbo espresso nell’intimo di noi stessi. Nessuno infatti fa qualcosa volontariamente, che prima non l’abbia detto nel suo cuore.
7. 13. Questo verbo è concepito per amore o della creatura o del Creatore, cioè o della natura mutevole, o della verità immutabile.
Concupiscenza e carità
8. È dunque per concupiscenza o per carità; non che non si debba amare la creatura, ma se questo amore viene riferito al Creatore, non sarà più concupiscenza, ma carità. C’è infatti concupiscenza, quando la creatura è amata per se stessa. Allora non è più di utilità per chi ne usa, ma corrompe chi di essa fruisce. Dato perciò che la creatura o ci è uguale o ci è inferiore, bisogna usare di quella inferiore in vista di Dio, fruire invece di quella uguale, ma in Dio. Come infatti tu devi compiacerti di te stesso, non in te stesso bensì in Colui che ti ha creato, così pure di colui che ami come te stesso. Di noi dunque e dei fratelli fruiamo in Dio e non osiamo abbandonarci a noi stessi e lasciarci trascinare, per così dire, verso il basso. Il verbo nasce quando un pensiero ci attira al peccato o a far bene. Mediatore tra il nostro verbo e la mente da cui è generato, l’amore dunque li unisce e si stringe con loro due, come terzo elemento, in un abbraccio spirituale senza con essi confondersi.
Il verbo nell’amore delle cose spirituali e nell’amore delle cose carnali
9. 14. Il verbo è identico nella sua concezione e nella sua nascita, quando la volontà si riposa nella conoscenza, cosa che accade nell’amore delle cose spirituali. Colui che, per esempio, conosce perfettamente ed ama perfettamente la giustizia, è già giusto, anche prima che debba tradurre questo ideale di giustizia in un atto esteriore mediante le membra del corpo. Al contrario, nell’amore delle cose carnali e temporali, è come nella generazione degli animali; una cosa è la concezione del verbo, un’altra il parto. In questo caso infatti ciò che si concepisce con il desiderio, nasce con il conseguimento. Perché non basta all’avarizia conoscere ed amare l’oro, se anche non lo possiede; non basta conoscere ed amare i piaceri della tavola e del letto, se non se ne gode di fatto; né conoscere ed amare gli onori ed il potere, se non li si consegue. Ma anche quando si posseggono tutti, questi beni non bastano. È detto: Chi berrà di questa acqua, tornerà ad aver sete 23. Perciò è detto nel Salmo: Ha concepito il dolore e generato l’iniquità 24. Il Salmista dice che si concepisce il dolore o la pena, quando si concepiscono le cose che non basta conoscere e volere, e l’anima arde e soffre nella sua indigenza fino a quando non abbia raggiunto quelle cose e non le abbia quasi date alla luce. Da ciò deriva che nella lingua latina si dice non senza una certa eleganza: parta (partoriti) e reperta, comperta (trovati, scoperti), parole che secondo l’assonanza sembrano derivare da partus (parto). Perché: La concupiscenza quando ha concepito, genera il peccato 25. Di qui il grido del Signore: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi 26, ed in un altro passo dice: Guai alle donne incinte ed allattanti in quei giorni 27. E dunque, riferendo ogni buona azione o ogni peccato alla nascita di un verbo, dice: Dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato 28, intendendo parlare non delle labbra visibili, ma di quelle interiori, invisibili, del pensiero e del cuore.
Solo la conoscenza amata è verbo dello spirito
10. 15. Si ha dunque motivo di chiedersi se ogni conoscenza è verbo o lo è soltanto la conoscenza amata. Infatti noi conosciamo anche le cose che odiamo; ma non si deve dire che sono concepite e generate dall’anima le cose che ci dispiacciono. Perché non tutto ciò che ci tocca in qualche modo è concepito, ma alcune cose ci toccano per essere soltanto conosciute senza che, come tali, meritino il nome di verbo, come quelle di cui ora trattiamo. In un senso si dice verbo la parola, le cui sillabe - sia che si pronuncino, sia che si pensino - occupano un certo spazio di tempo; in un senso diverso tutto ciò che è conosciuto si dice verbo impresso nell’anima, fintantoché la memoria può esprimerlo e definirlo, sebbene la cosa in sé dispiaccia; in un altro senso infine si parla di verbo quando piace ciò che lo spirito concepisce. Secondo quest’ultima accezione della parola "verbo" va intesa l’espressione dell’Apostolo: Nessuno dice: Signore Gesù, se non nello Spirito Santo 29. Ma è secondo un’altra accezione della parola "verbo" che si debbono intendere le parole di coloro di cui il Signore dice: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli 30. Ma quando ciò che odiamo ci ispira una giusta avversione e lo disapproviamo a ragione, noi approviamo questa disapprovazione e ce ne compiacciamo, e c’è il verbo. Non è la conoscenza dei difetti che ci dispiace, ma sono i difetti in se stessi. Infatti mi piace conoscere e definire cosa sia l’intemperanza, e questo è il suo verbo. Così l’ideale artistico non esclude la conoscenza di alcuni difetti, ed a ragione si trova che è una cosa buona conoscerli, quando il conoscitore discerne la presenza e l’assenza di una qualità, come si distingue l’affermazione dalla negazione e l’essere dal non-essere; ma essere privi di una qualità e cadere in un difetto è cosa condannabile. Definire l’intemperanza, dire il suo verbo, fa parte della scienza morale: essere intemperante appartiene a ciò che disapprova la morale. Come sapere e definire che cos’è un solecismo fa parte delle regole del linguaggio, proferire un solecismo è un difetto che queste regole condannano. Il verbo, di cui ora vogliamo discernere e suggerire la natura, è dunque la conoscenza unita all’amore. Ecco perché quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l’amore. E poiché ama la conoscenza e conosce l’amore, il verbo è nell’amore e l’amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo.
La conoscenza dello spirito è sua immagine e suo verbo
11. 16. Ma ogni conoscenza che attinge la conformità di una cosa alla sua idea è simile alla realtà che conosce. C’è infatti un altro tipo di conoscenza che attinge la privazione in rapporto all’idea e che esprimiamo quando disapproviamo qualcosa. Ma la disapprovazione di questa privazione è un elogio dell’idea e per questo la si approva. Dunque l’anima ha in sé una qualche similitudine dell’idea conosciuta sia quando essa piace, sia quando la sua assenza dispiace. Perciò nella misura in cui conosciamo Dio noi gli siamo simili, ma non simili fino all’uguaglianza, perché non lo conosciamo tanto quanto egli conosce se stesso. E quando con un verbo sensibile conosciamo i corpi, si produce nella nostra anima una certa somiglianza di essi, che è la loro immagine presente nella memoria, perché non sono affatto i corpi stessi che sono nella nostra anima, quando li pensiamo, ma le loro immagini, e perciò cadiamo in errore quando prendiamo quelle per questi, poiché l’errore consiste nel prendere una cosa per un’altra; e tuttavia l’immagine del corpo nell’anima è superiore alla forma corporea, in quanto appartiene ad una natura superiore, cioè ad una sostanza vivente, quale è l’anima. Allo stesso modo, quando conosciamo Dio, sebbene diventiamo migliori di quello che eravamo prima di conoscerlo, soprattutto quando questa conoscenza, provocando la compiacenza e l’amore che merita, è verbo e diviene una somiglianza di Dio, tuttavia essa è inferiore a Dio, perché appartiene ad una natura inferiore: l’anima infatti è creatura, Dio è Creatore. Da questo si deduce che, quando lo spirito si conosce ed approva, questa conoscenza è il suo verbo che gli è del tutto uguale e adeguato, e ciò ad ogni istante, perché non è una conoscenza di natura inferiore, come il corpo, né di una natura superiore, come Dio. E poiché la conoscenza rassomiglia a ciò che conosce, cioè a ciò di cui essa è conoscenza, ha una somiglianza perfetta e adeguata la conoscenza con cui lo spirito stesso, che conosce, conosce se stesso. Perciò è immagine e verbo, perché da esso è espressa, allorché nell’atto della conoscenza ad esso si eguaglia e ciò che è generato è uguale al generante.
Perché lo spirito non genera l’amore di sé?
12. 17. Che è dunque l’amore? Non è esso un’immagine? un verbo? non è esso generato?. Perché lo spirito genera la sua conoscenza, quando si conosce; e non genera il suo amore, quando si ama? Infatti se esso è causa della sua conoscenza, perché è conoscibile, è anche causa del suo amore, perché è amabile. Dunque è difficile dire perché non generi tutti e due. Questa stessa questione si pone a proposito della Trinità suprema, Dio onnipotente creatore, ad immagine del quale l’uomo è stato creato 31, e ingenera molto spesso questa difficoltà per gli uomini che la verità divina, per mezzo del linguaggio umano, invita alla fede; perché non si crede o non si pensa che anche lo Spirito Santo è stato generato da Dio Padre, cosicché anche lui si chiami figlio? È ciò che ci sforziamo ora di investigare in qualche modo, nello spirito umano, affinché, partendo da una immagine inferiore, nella quale la nostra stessa natura, interrogata in qualche maniera, ci offre delle risposte che sono più alla nostra portata, dirigiamo lo sguardo del nostro spirito meglio esercitato dalla creatura illuminata alla luce immutabile; sempre supponendo tuttavia che la verità stessa ci abbia persuasi che lo Spirito Santo è carità, come non vi è dubbio per nessun cristiano che il Figlio è il Verbo di Dio 32. Ritorniamo dunque a questa immagine creata, cioè allo spirito razionale, per interrogarlo e considerarlo più attentamente circa questa questione. Infatti in essa si produce nel tempo la conoscenza di alcune cose che prima non c’era, e l’amore di alcune cose che prima non erano amate, e questo ci fa vedere in maniera più distinta ciò che abbiamo da dire; perché al linguaggio che si sviluppa esso stesso nel tempo è più facile spiegare una cosa che si inserisce nell’ordine del tempo.
Soluzione del problema: lo spirito, la conoscenza e l’amore di sé, immagine della Trinità
12. 18. Anzitutto sia chiaro che può accadere che vi sia una cosa conoscibile, cioè che si potrà conoscere e che tuttavia si ignora; e che, al contrario, non può accadere che si conosca ciò che è inconoscibile. Si deve dunque tenere come evidente che ogni cosa che noi conosciamo co-ingenera in noi la conoscenza che abbiamo di essa. Infatti la conoscenza è generata da tutti e due, dal conoscente e dal conosciuto 33. Perciò, quando lo spirito conosce se stesso, esso solo genera la sua conoscenza, perché esso è insieme il conosciuto e il conoscente. Esso era conoscibile a sé, anche prima che si conoscesse, ma non era in esso la conoscenza di sé, quando esso non conosceva se stesso. Per il fatto che si conosce, genera una conoscenza uguale a sé, perché non si conosce meno di quello che è, e la sua conoscenza non è quella di un’altra essenza, e questo non solo perché è esso che conosce, ma anche perché conosce se stesso, come abbiamo detto prima. Che dobbiamo dunque dire dell’amore? Perché non riteniamo ugualmente che, quando ama se stesso, lo spirito genera anche il suo amore? Infatti esso era amabile a sé anche prima che si amasse, perché poteva amare se stesso; come era conoscibile a sé anche prima che si conoscesse, perché poteva conoscersi. Infatti, se non fosse conoscibile a sé, non avrebbe mai potuto conoscersi. Perché allora non si dice che, amandosi, genera il suo amore come, conoscendo se stesso, genera la sua conoscenza? Sarà forse perché appare sì ben chiaro che il principio dell’amore è ciò da cui procede e l’amore procede dallo spirito che è amabile a sé prima di amarsi e dunque è lo spirito il principio dell’amore di sé con cui si ama, ma non si può dire secondo verità che è generato da esso, come la conoscenza di sé con cui si conosce, perché è per mezzo della conoscenza che è già stato scoperto (inventum) ciò che, si dice, è generato (partum) e riprodotto (repertum), scoperta che è spesso preceduta da una ricerca che non si appaga che giungendo a questo suo termine? Infatti la ricerca è desiderio di scoprire (inveniendi), o, che è la stessa cosa, di riprodurre (reperiendi). Le cose che si riproducono (reperiuntur), è come se si generassero (pariuntur); per cui sono simili ad una prole, e dove accade ciò se non nella conoscenza? Là infatti, come esprimendosi, vengono formate. Perché se già esistevano le cose che la ricerca scopre, non esisteva tuttavia la conoscenza, che paragoniamo ad un figlio che nasce. Il desiderio che ispira la ricerca procede da chi cerca e sta, in qualche modo, in sospeso e non riposa nel termine cui tende se non quando ciò che è cercato, una volta trovato, sia unito a colui che cerca. E questo appetito, cioè questa ricerca, sebbene non sembri essere amore - perché con l’amore si ama ciò che già si conosce e qui non si tratta che di una tendenza a conoscere -, tuttavia è qualcosa dello stesso genere. Infatti la si può già chiamare volontà, perché chiunque cerca vuole trovare 34 e, se si cerca qualcosa che appartiene alla conoscenza, chiunque cerca vuol conoscere. E se lo vuole con ardore ed insistenza si dice che "studia", termine che si suole riservare soprattutto per esprimere la investigazione e l’acquisizione di tutti i tipi di scienze. Perciò il parto dell’anima è preceduto da un desiderio, grazie al quale cercando e trovando ciò che vogliamo conoscere, nasce la prole, che è la stessa conoscenza. Di conseguenza questo desiderio che è causa della concezione e della nascita della conoscenza non si può dire, se si vuole parlare propriamente, "parto" e "figlio". E questo stesso desiderio, che spinge verso la cosa da conoscere, diventa amore della cosa conosciuta quando possiede ed abbraccia questa prole in cui si compiace, cioè la conoscenza, e la unisce al principio generatore. Ed ecco una certa immagine della Trinità: lo spirito, la sua conoscenza che è la sua prole ed il verbo generato da esso, e, in terzo luogo, l’amore; e queste tre realtà fanno una sola cosa 35 ed una sola sostanza. Né è inferiore la prole allo spirito, fintantoché questo si conosce in maniera adeguata al suo essere; né è inferiore l’amore, fintantoché lo spirito si ama in misura adeguata alla conoscenza di sé ed al suo essere.
L’amore dell’anima che cerca non è amore di una cosa sconosciuta
1. 1. Per spiegare ora queste stesse cose in maniera più rigorosa e chiara, occorre un’attenzione più penetrante. Anzitutto, poiché nessuno può amare una cosa del tutto sconosciuta, bisogna esaminare con cura di quale natura sia l’amore di coloro che si dedicano allo studio, cioè di coloro che non sanno ancora, ma desiderano conoscere una scienza, qualunque essa sia. Se si tratta di cose a proposito di cui non si suole usare la parola studio, il nostro amore per esse scaturisce ordinariamente da ciò che ne abbiamo sentito dire; così l’anima si accende del desiderio di vedere e di godere una cosa per la fama della sua bellezza, perché essa possiede una conoscenza generale della bellezza corporea, per il fatto che ha visto molti bei corpi e nel suo interno vi è una norma per cui approva il corpo esteriore che desidera conoscere. Quando questo accade, non si risveglia l’amore di una cosa totalmente sconosciuta perché lo spirito ne conosce altre dello stesso genere. Quando poi amiamo un uomo brutto, del quale non abbiamo visto la fisionomia, lo amiamo per la conoscenza delle sue virtù, che conosciamo nella stessa verità. Se si tratta della conoscenza di nuove scienze, il più delle volte accende in noi il desiderio l’autorità di coloro che le lodano e le celebrano e, tuttavia, se non avessimo impressa nello spirito, come in abbozzo, la nozione di ciascuna scienza, non arderemmo dal desiderio di apprenderla. Chi infatti, per esempio, dedicherebbe la minima cura e fatica allo studio della retorica, se non sapesse in antecedenza che essa è la scienza del ben parlare? A volte anche ammiriamo, per sentito dire, o per esperienza, i fini cui mirano le stesse scienze e di conseguenza ardiamo dal desiderio di acquisire la capacità, attraverso lo studio, di poter giungere ad essi. È come se ad un illetterato si dicesse che c’è una scienza, alla portata di tutti, con cui si può trasmettere a qualcuno, sia pure molto lontano, delle parole tracciate con la mano in silenzio, e raccolte dal destinatario non con le orecchie, ma con gli occhi, ed egli sia testimone di questo fatto; non sarà egli, nel desiderio di sapere come possa fare altrettanto, mosso dall’ardente ricerca di un fine, di cui già possiede la conoscenza? Così si accende il gusto per lo studio in coloro che desiderano apprendere, perché è assolutamente impossibile amare ciò che si ignora totalmente.
Il segno
1. 2. E così pure se qualcuno ode un segno che gli è sconosciuto, per esempio il suono di una parola, di cui ignora il significato, desidera conoscerlo, cioè desidera sapere quale idea evoca questo suono; se, per esempio, ode pronunciare la parola temetum, poiché ignora tale parola, ne cerca il senso. Ma è necessario che sappia già che è un segno, cioè che quella parola non è un suono vuoto, ma un suono che significa qualcosa, altrimenti questo trisillabo è già conosciuto e per mezzo del senso dell’udito è stato impresso nell’anima il modo di articolarlo; che altro ci sarebbe da cercare in esso per meglio conoscerlo, dato che tutte le sue lettere e la quantità di ciascuna sillaba sono note, se lo spirito non sapesse nello stesso tempo con tutta evidenza che è un segno e se non si mettesse in esso in movimento il desiderio di conoscere che cosa questa parola significhi? Quanto più dunque la parola è nota, ma senza esserlo pienamente, tanto più l’anima desidera conoscere ciò che le resta da sapere. Se infatti conoscesse solo l’esistenza di questa parola e non sapesse che essa significa qualcosa, non cercherebbe più nulla una volta percepito, con la sensazione, per quanto le era possibile, il suono sensibile. Ma poiché sa già che questa parola non è solo un suono, ma anche un segno, vuole averne la conoscenza perfetta. Ora non si conosce perfettamente alcun segno se non si sa di che cosa sia segno. Colui dunque che si dedica con ardente diligenza a quella ricerca e infiammato dallo zelo persevera nel suo sforzo, si può dire che sia senza amore? Che ama dunque? Certamente non è possibile amare una cosa se non è conosciuta. Né ama queste tre sillabe, perché già le conosce. Si dirà che ciò che ama in esse è il sapere che esse significano qualche cosa? Ma ora non si tratta di questo, non è questo che cerca di sapere, bensì in ciò che si sforza di conoscere, chiediamoci ciò che ama e che certamente non sa ancora; e precisamente ci stupisce il suo amore, perché sappiamo senza il minimo dubbio che non si può amare se non ciò che è conosciuto. Che ama egli dunque? Egli conosce ed intuisce nelle ragioni delle cose la bellezza di una scienza che racchiude la conoscenza di tutti i segni e l’utilità di un’arte che permette agli uomini uniti in società di comunicarsi tra loro i propri pensieri, perché la vita in società non sia peggiore di qualunque solitudine, come accadrebbe se gli uomini non si comunicassero vicendevolmente i loro pensieri per mezzo del linguaggio. È dunque la bellezza e l’utilità di questo ideale che l’anima vede, conosce ed ama; è essa che cerca di realizzare pienamente in sé, per quanto è possibile, chiunque cerca il significato delle parole che ignora. Infatti una cosa è vedere questo ideale nella luce della verità, altra cosa è il desiderio di realizzarlo in sé. Vede nella luce della verità quale cosa grande e buona sia comprendere e parlare tutte le lingue di tutti i popoli e il non udirne nessuna come straniera e il non essere udito come straniero. Il suo pensiero vede la bellezza di questo sapere e, avendone conoscenza, lo ama. E questa conoscenza è tale ed infiamma talmente l’ardore di coloro che si dedicano allo studio che è verso di essa che si muovono, ad essa aspirano in tutte le loro fatiche spese per rendersi capaci di giungere, alla fine, ad abbracciare nella pratica ciò che preconoscono con la ragione. E così chiunque, per il quale si avvicina la speranza di poter parlare queste lingue, arde di un amore più fervente. Infatti si dedica più ardentemente allo studio di quelle scienze, chi non dispera di acquisirle. Perché chi non ha speranza di conseguire una cosa, sebbene ne veda il valore, o la ama tiepidamente, o non la ama affatto. Così, poiché la maggior parte degli uomini dispera di giungere alla conoscenza di tutte le lingue, per questo ognuno si dedica, per conoscerla, soprattutto allo studio di quella della propria nazione; e, sebbene ci sia qualcuno che si sente incapace di acquisirne una perfetta conoscenza, nessuno tuttavia è così incurante di tale sapere da non volere, quando abbia udita una parola sconosciuta, conoscerne il senso e, se gli è possibile, non si informi e la apprenda. Durante questa ricerca è evidentemente dominato dal desiderio di apprendere e sembra amare una cosa sconosciuta, ma non è così. Infatti tocca la sua anima quell’ideale, che egli conosce e pensa, nel quale risplende la bellezza di una intesa tra le anime, per mezzo della comprensione di parole udite e pronunciate. È essa che infiamma con l’ardore colui che cerca, certo, ciò che ignora, ma che intuisce ed ama l’ideale verso il quale tende il suo sforzo. Supponiamo, per riprendere il mio primo esempio, che si dica a colui che cerca il senso della parola temetum: "Che te ne importa?". Risponderà: "Per non correre il rischio di udire qualcuno pronunciare tale parola e non comprenderlo o di leggerla in qualche parte e ignorare il pensiero dello scrittore". Chi, infine, potrà dirgli: "Rinuncia a comprendere ciò che odi, rinuncia a conoscere ciò che leggi"? Quasi tutte le anime razionali vedono manifestamente la bellezza di un’arte che permette agli uomini di comunicarsi vicendevolmente i loro pensieri, per mezzo dell’enunciazione di parole dotate di significato. A causa di questa bellezza conosciuta ed a causa di essa, amata perché conosciuta, si cerca con ardore il significato di quella parola sconosciuta. Perciò quando quest’uomo udrà e saprà che gli antichi chiamavano temetum 1 il vino, ma che questa parola è ora, nella lingua corrente, caduta in disuso, penserà che è necessario conoscerne il senso per leggere, se ne sia il caso, alcuni scritti antichi. Ma se li giudica inutili, forse penserà che non vale la pena di conservare tale parola nella memoria, perché vede che non risponde affatto a quell’ideale di conoscenza che è per il suo spirito oggetto di intuizione e di amore.
Nessuno ama ciò che non conosce
1. 3. Perciò ogni amore dell’anima che si dà allo studio, cioè che vuole sapere ciò che ignora, non è amore di cosa che ignora, ma di cosa che conosce e per la quale desidera sapere ciò che ignora 2. O, se è così curiosa che, non qualche causa conosciuta, ma solo l’amore di conoscere ciò che è sconosciuto la trascini, questa curiosità bisogna certo distinguerla dal vero desiderio di sapere. Ma nemmeno questa curiosità è amore di ciò che è sconosciuto, anzi si dirà più giustamente che è odio di ciò che è sconosciuto, di cui non vuole assolutamente che vi sia nulla, perché desidera conoscere tutto. Ma perché nessuno ci ponga una questione più difficile dicendo che è altrettanto impossibile che alcuno odii ciò che ignora, non mi oppongo alla verità, ma faccio notare che bisogna aver ben chiaro che non è la stessa cosa dire: "Ama sapere ciò che ignora", e: "Ama ciò che ignora". È infatti possibile che vi sia chi ama conoscere ciò che ignora, ma amare ciò che ignora gli è impossibile. La parola "sapere" non è, nella precedente espressione, superflua, perché chi ama sapere ciò che ignora, non ama ciò che ignora, ma lo stesso sapere. E se non sapesse che cosa significa sapere, non potrebbe dire con tutta sicurezza né che sa qualcosa, né che non lo sa. Non soltanto colui che dice: "So", e dice il vero, sa necessariamente che cosa sia sapere, ma anche colui che dice: "Non so", e lo dice con piena sicurezza e dice il vero, sa perfettamente che cosa sia sapere, perché anch’egli distingue colui che sa da colui che non sa, quando prendendo coscienza di se stesso secondo verità afferma: "Non so". E, se sa di dire il vero, come lo saprebbe se non sapesse che cosa sia sapere?
Esempi
2. 4. Dunque nessun uomo che si dedica allo studio, nessun uomo animato dalla curiosità ama ciò che è sconosciuto, anche quando si sforza di conoscere con insistenza e con molto ardore ciò che non conosce 3. Perché vi può essere un primo caso in cui lo spirito ha una conoscenza generica di ciò che ama ed intende averne anche una conoscenza particolareggiata in qualche singola cosa, o nelle cose singole che non conosce ancora, ma che forse ha sentito esaltare e se ne fa una rappresentazione immaginaria che eccita il suo amore. Ma come se ne fa una rappresentazione, se non a partire dalle cose che già conosceva? Ma se troverà la cosa reale, che ha sentito esaltare, non corrispondente alla forma ideale che se ne era fatta nella sua anima e che è molto familiare al suo pensiero, forse non proverà per essa alcun amore. Ma se la amerà, incomincerà ad amarla a partire dal momento in cui l’ha conosciuta. Perché, poco prima, amava un’altra cosa, l’idea che la sua anima si era formata. Se troverà la cosa, che egli aveva sentito esaltare, simile a questa idea tanto da poter dirle in tutta verità: "già ti amavo", nemmeno in questo caso amava una cosa sconosciuta, ma una cosa che conosceva in quella somiglianza. Oppure vediamo ed amiamo qualcosa nell’esemplare ideale che ci presenta l’eterna ragione - realtà che quando si trova espressa in qualche realtà temporale che ne è l’immagine e che ci elogiano coloro che la conoscono per esperienza, noi li crediamo e l’amiamo -, non amiamo qualcosa di sconosciuto, come abbiamo sufficientemente spiegato prima. O ancora amiamo qualcosa di conosciuto e questo ci spinge a cercare qualcosa di sconosciuto; in tal caso non è l’amore della cosa sconosciuta che è in noi, ma quello della cosa conosciuta, la cui conoscenza ci condurrà a quella di ciò che, ancora sconosciuto, cerchiamo. È il caso della parola sconosciuta di cui ho parlato poco fa. O, infine, è lo stesso conoscere che si ama, ciò che a nessuno che desideri conoscere qualcosa può essere sconosciuto. È per queste ragioni che sembrano amare ciò che è sconosciuto coloro che vogliono sapere qualcosa che ignorano e che pongono troppo ardore nella ricerca perché si possa dire che sono senza amore. Ma credo di aver persuaso coloro che si preoccupano di vedere con diligenza la verità, che le cose stanno in modo del tutto diverso e che non si ama mai una cosa sconosciuta. Ma, poiché gli esempi addotti si riferiscono solo a coloro che desiderano conoscere cose diverse da loro stessi, occorre vedere se, per caso, si manifesti un altro genere di conoscenza, quando lo spirito desidera conoscere se stesso 4.
Lo spirito, quando si cerca, già si conosce
3. 5. Che cosa ama dunque lo spirito quando, ignorando se stesso, cerca con ardore di conoscersi? Ecco infatti che lo spirito cerca di conoscersi e si infiamma in questa ricerca 5. Ama dunque: ma che cosa ama? Se ama se stesso come può farlo, non conoscendosi ancora e non potendo nessuno amare ciò che non conosce? È forse per sentito dire che acquisisce una conoscenza di sé, come accade nelle cose assenti che siamo soliti conoscere per averne sentito parlare? Può darsi allora che non ami se stesso, ma l’idea che si fa di se stesso, forse molto differente da ciò che esso è. Ma supponendo che si faccia di sé una rappresentazione simile a sé, quando esso ama questa rappresentazione si ama prima di conoscersi, perché intuisce qualcosa che è simile a sé; esso conosce dunque altri spiriti, a partire dai quali si fa un’idea di sé e si conosce per mezzo dell’idea generica di spirito. Ma perché allora, conoscendo gli altri spiriti, non conosce se stesso poiché nulla può essergli più presente di se stesso? E se gli accade come agli occhi del corpo che conoscono meglio gli altri che se stessi, allora cessi di cercarsi, perché non si troverà mai 6. Mai infatti gli occhi si vedranno, se non in uno specchio: ma non si deve ritenere che anche nelle cose spirituali si faccia uso di tali mezzi, cosicché lo spirito si possa conoscere in una specie di specchio 7. Sarà forse nella ragione della verità eterna che lo spirito vede quanto è bello conoscersi, ama ciò che vede e si sforza di realizzarlo in sé in quanto, sebbene non conosca se stesso, conosce almeno quanto è bello che si conosca? Ma è certamente ben strano che esso non si conosca ancora e conosca quanto sia bello che si conosca. Vede forse un fine eccelso, cioè la sua salvezza e beatitudine, grazie ad una segreta memoria, che non l’ha abbandonato nel suo lontano esilio ed è persuaso di non poter giungere a questo fine, senza conoscersi 8? Così, mentre ama quello, cerca questo. Amando quello che conosce, cerca quello che ignora. Ma perché ha potuto sussistere il ricordo della sua beatitudine e non ha potuto nello stesso tempo perdurare il ricordo di se stesso, in modo che conosca se stesso che vuole raggiungere il fine altrettanto bene che il fine che vuole raggiungere? O forse, quando ama conoscersi 9, non ama se stesso che non conosce ancora, ma ama lo stesso conoscere, e sopporterebbe a malincuore di sfuggire alla propria conoscenza, con la quale vuole conoscere tutto? Esso sa che cosa sia conoscere e, amando di conoscere, desidera conoscere anche se stesso. Ma dove conosce esso la sua conoscenza, se non si conosce 10? Sa di conoscere altre cose 11, ma non conoscerebbe se stesso? Ma è in sé che conosce che cosa sia conoscere. In che modo dunque si conoscerebbe come conoscente qualcosa, esso che ignora se stesso? Infatti non è un altro spirito che conosce come conoscente, ma se stesso. Conosce dunque se stesso. Quando poi cerca di conoscersi, esso si conosce già nell’atto di cercare. Esso si conosce già, dunque. Perciò non può affatto ignorare se stesso lo spirito che, anche quando si conosce come non conoscente se stesso, per questo stesso fatto si conosce. Se ignorerà che si ignora, non si cercherà per conoscersi. Per questo il fatto stesso che esso si cerca è la prova che esso è a se stesso più noto che sconosciuto. Infatti si conosce come cercante e non conoscente se stesso, quando cerca di conoscersi.
Lo spirito si conosce tutto
4. 6. Che diremo, dunque 12? Che in parte si conosce, e in parte si ignora 13? Ma è assurdo affermare che non è tutto lo spirito a conoscere ciò che sa. Non dico: "conosce tutto", ma "ciò che sa è tutto lo spirito a saperlo". Quando dunque conosce qualcosa di sé, poiché non può che essere tutto intero soggetto della sua conoscenza, è tutto intero a conoscere se stesso. Ora esso si conosce come conoscente qualcosa e ciò non è possibile a meno che non sia tutto lo spirito a conoscere. Viene dunque da sé conosciuto tutto intero. Inoltre che cosa vi è di esso che gli sia tanto noto, come il sapere che esso vive? Non è possibile che lo spirito esista e non viva, quando esso ha inoltre anche la capacità di comprendere; le anime delle bestie vivono anch’esse, ma non hanno l’intelligenza. Dunque, allo stesso modo che tutto lo spirito è spirito, così tutto lo spirito vive. Ora esso conosce di vivere. Dunque si conosce tutto intero. Infine quando lo spirito cerca di conoscersi 14, sa già che è spirito, altrimenti ignorerebbe se cerca se stesso e cercherebbe forse una cosa in luogo di un’altra. Potrebbe darsi che esso non sia spirito ed allora, quando cercasse di conoscere lo spirito, non cercherebbe se stesso. Perciò, dato che lo spirito, quando cerca che cosa è lo spirito, sa che cerca se stesso, sa di certo che esso è spirito. Inoltre, se esso conosce intuitivamente che è spirito e che è tutto intero spirito, si conosce tutto intero. Ma supponiamo che non sappia di essere spirito e quando si cerca sappia solo che si cerca. Corre ancora il rischio di cercare una cosa per un’altra, se ignora che è spirito; per non cercare una cosa per un’altra ha senza dubbio da conoscere ciò che cerca. Ma se conosce ciò che cerca e cerca se stesso, conosce di certo se stesso. Perché dunque cerca ancora? Se in parte si conosce ed in parte si ignora 15, non cerca allora se stesso, ma una parte di sé. Perché quando si parla dello spirito, si parla di tutto lo spirito. D’altra parte se lo spirito sa di non essersi trovato tutto intero, conosce qual è la sua totalità. E così cerca ciò che manca alla sua conoscenza, come siamo soliti fare ritornare nello spirito ciò che è caduto in dimenticanza, ma non del tutto, perché si può riconoscere, quando ce se ne ricorda, che era proprio quello che si cercava. Ma come può venire lo spirito nello spirito, come se potesse non essere nello spirito? Aggiungiamo a questo che se, trovatosi parzialmente, non si cerca tutto intero, tuttavia è tutto intero a cercare se stesso. Esso è dunque tutto intero presente a se stesso e non c’è altro che si debba cercare; manca infatti ciò che viene cercato, non esso che cerca. Quando dunque è tutto intero a cercare se stesso, niente di sé gli manca. O se non è tutto intero a cercarsi, ma è la parte di esso, che si è trovata, che cerca la parte che non si è ancora trovata, allora lo spirito non cerca se stesso, perché nessuna parte di esso e oggetto della sua propria ricerca. Infatti la parte che è stata trovata non si cerca e la parte che non si è ancora trovata nemmeno essa si cerca, perché è cercata dalla parte che è stata trovata. Dunque, poiché non è né lo spirito tutto intero che cerca se stesso, né alcuna parte di esso che cerca se stessa, ne consegue che lo spirito non si cerca affatto.
Perché viene comandato all’anima di conoscere se stessa. Altro è conoscere, altro pensare
5. 7. Perché allora gli è stato comandato di conoscere sé? È, ritengo, affinché pensi a sé e viva secondo la sua natura, cioè desideri di essere ordinato secondo la sua natura, ossia al di sotto di colui al quale deve sottomettersi, al di sopra di quelle cose sulle quali deve dominare; al di sotto di colui dal quale deve essere governato, al di sopra di quelle cose sulle quali deve governare. Infatti molte volte esso, come dimentico di sé, agisce sotto l’impulso di desideri cattivi. Vede alcune cose intrinsecamente belle, in una natura più nobile, in Dio. E, mentre dovrebbe fermarsi nella fruizione di quei beni, pretende di attribuirli a se stesso, rifiutando di essere simile a Dio per opera di Dio, ma volendo per se stesso essere ciò che è Dio, così si allontana da lui, si lascia trascinare e cade di male in peggio, mentre crede di passare di bene in meglio, perché esso non basta più a se stesso, né gli basta più alcun bene, quando si allontana da Colui che solo basta 16. Perciò la sua povertà e difficoltà lo rendono troppo attento alle sue azioni e ai piaceri pieni d’inquietudine che ne raccoglie. E così per desiderio di acquisire conoscenze delle cose esterne - cose che ama grazie alla conoscenza generica che ne ha, e sente che gli possono sfuggire, se non le trattiene a forza di un grande impegno - perde la sicurezza e pensa tanto meno a se stesso quanto è più sicuro di non poter perdere se stesso. Così, essendo due cose diverse non conoscersi e non pensarsi (di un uomo che conosce molte scienze non diciamo che ignora la grammatica quando non vi pensa, perché in quel momento il suo pensiero è occupato dalla medicina); poiché, ripeto, sono due cose diverse non conoscersi e non pensarsi, la forza dell’amore è tale che quelle cose alle quali lo spirito ha pensato a lungo, compiacendosene, ed alle quali si è legato con il glutine della sollecitudine, esso le trasporta con sé anche quando rientra in sé, in qualche modo, per pensarsi. E poiché quelle cose che per mezzo dei sensi della carne ha amato all’esterno sono corpi, e si è mescolato ad essi per una specie di lunga familiarità, né può portare i corpi con sé nel suo interno, in ciò che è come la regione della natura spirituale, esso rigira in sé le loro immagini e trascina queste immagini fatte in se stesso di se stesso. Esso infatti dà ad esse nel formarle qualcosa della sua propria sostanza, però conserva la facoltà di giudicare liberamente tali immagini; questa facoltà è propriamente lo spirito, cioè l’intelligenza razionale, che resta come principio di giudizio. Infatti quelle parti dell’anima che sono informate dalle immagini dei corpi, sentiamo che ci sono comuni con gli animali.
6. 8. Lo spirito però erra quando si unisce a queste immagini con un amore così grande da credersi della loro stessa natura. Esso infatti si assimila a queste immagini non con il suo essere, ma con il pensiero; non perché si ritenga un’immagine, ma perché ritiene di essere proprio ciò di cui ha l’immagine in sé. Perché in esso sussiste la facoltà di giudicare con cui discerne il corpo, che ha lasciato all’esterno, dall’immagine che ne porta con sé; a meno che queste immagini, quando vengono espresse, non vengano sentite come un qualcosa che esiste all’esterno, invece di essere considerate rappresentazioni interiori, come suole accadere nel sonno, nella follia, o in qualche estasi.
Errori dei filosofi sulla natura dello spirito
7. 9. Quando dunque si identifica con tali oggetti, esso ritiene di essere un corpo. E, poiché è pienamente conscio della sua signoria con cui regge il corpo, è accaduto, di conseguenza, che alcuni abbiano cercato 17 che cosa nel corpo ha più valore, ed abbiano pensato che ciò fosse lo spirito o addirittura l’anima tutta intera 18. Per gli uni fu il sangue, per alcuni il cervello, per altri il cuore. Non il cuore inteso nel senso in cui la Scrittura dice: Ti loderò, Signore, con tutto il mio cuore 19, e: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore 20. In questi passi è in senso derivato o metaforico che si applica all’anima una parola che si dice del corpo, ma questi filosofi affermarono trattarsi proprio di quella piccola parte del corpo che vediamo quando vengono messi a nudo i visceri. Altri ritennero che essa fosse formata dal concorso e dalla coesione di corpuscoli infinitamente piccoli e distinti, che chiamano atomi 21. Altri hanno detto che la sostanza dello spirito era l’aria, altri il fuoco. Altri hanno negato che fosse una sostanza, non potendo pensare che ci fosse sostanza se non corporea, e d’altra parte vedevano che essa non era corpo. Essi ritennero che essa fosse l’equilibrio stesso del nostro corpo o l’unione degli elementi primordiali di cui il nostro corpo è in qualche modo l’unione. E tutti costoro hanno pensato che essa fosse mortale perché, essendo corpo o un composto corporeo, è impossibile che rimanga immortale 22. Coloro che hanno pensato che la sostanza dell’anima era una vita senza nulla di corporeo, avendo scoperto che la vita anima e vivifica ogni corpo vivente, si sono sforzati conseguentemente di provare, ciascuno come ha potuto, che era immortale, perché la vita non può essere senza vita 23. Non credo che sia il caso di discutere qui a lungo sopra non so quale quinto elemento di cui alcuni, aggiungendolo ai quattro classici elementi di questo mondo, affermano che costituisce l’anima 24. Infatti o chiamano corpo ciò che noi chiamiamo corpo un oggetto esteso la parte del quale è minore del tutto, e allora debbono essere posti nel numero di coloro che ritennero lo spirito una cosa materiale; ovvero se chiamano corpo ogni sostanza od ogni sostanza mutevole, pur sapendo che non ogni sostanza è limitata nello spazio da una lunghezza, una larghezza ed una altezza, non è il caso di impegnarsi in una discussione su una questione di parole.
L’errore procede da questo: lo spirito pensando se stesso aggiunge a sé qualcosa di estraneo
7. 10. In questa varietà di opinioni, ognuno vede che lo spirito per sua natura è sostanza, e non è corporea, cioè non occupa nello spazio un luogo minore con una parte minore di sé, né un luogo maggiore con una parte maggiore; deve comprendere ugualmente che coloro che ritengono che lo spirito è corporeo sbagliano non perché siano privi di conoscenza su di esso, ma perché aggiungono degli elementi senza i quali non possono pensare nessuna natura. Tutto ciò che siano spinti a pensare facendo astrazione da ogni rappresentazione corporea, lo reputano assolutamente inesistente. Perciò lo spirito non si cerchi, come se fosse assente a se stesso. Che c’è infatti di così presente alla conoscenza come ciò che è presente allo spirito e che cosa vi è di così presente allo spirito come lo spirito stesso? Così la parola "invenzione" (inventio), se noi ricorriamo alla sua origine etimologica, che altro significa se non "venire in" (in venire) ciò che si cerca? Perciò le cose che vengono quasi spontaneamente nello spirito, non diciamo di solito che sono trovate (inventa), sebbene si possono dire conosciute, perché non tendevamo ad esse con la ricerca per venire in esse, cioè per trovarle (invenire). Dunque allo stesso modo in cui ciò che cercano gli occhi o gli altri sensi del corpo è lo spirito che lo cerca - perché è esso che dirige l’attenzione del senso della carne ed è esso che trova (invenit) quando il senso giunge sugli oggetti cercati -, così per le realtà che lo spirito deve conoscere di per se stesso, senza l’intervento dei sensi corporei, esso le trova (invenit), quando giunge in esse (in venit), si tratti della sostanza trascendente, cioè di Dio, o delle altre parti dell’anima (anima), come quando giudica delle immagini corporee; esso infatti le trova all’interno dell’anima (anima) dove sono state impresse attraverso i sensi del corpo.
Per conoscersi lo spirito deve separarsi dal sensibile
8. 11. È dunque una strana questione l’indagare come lo spirito si cerchi e si trovi, verso che cosa tenda per cercarsi, o dove venga (veniat) per trovarsi (inveniat). Che c’è infatti che sia altrettanto nello spirito quanto lo spirito? Ma, poiché esso è nelle cose che pensa con amore - le cose sensibili, cioè le cose corporee - con le quali con l’amore si è familiarizzato, esso non è più capace di essere in se stesso senza le immagini dei corpi. L’origine del suo errore umiliante è nella sua impotenza di separarsi dalle immagini delle cose sentite per vedersi solo. Quelle infatti si sono unite ad esso in modo straordinario con il legame dell’amore ed è questa la loro impurità, perché quando si sforza di pensare sé solo, si identifica con ciò senza cui non può pensarsi. Quando dunque gli si comanda di conoscersi, non si cerchi come se fosse sottratto a se stesso, ma sottragga ciò che gli si è aggiunto 25. Esso infatti è più interiore a se stesso non soltanto di questi oggetti sensibili che sono manifestamente al di fuori, ma anche delle loro immagini che sono in quella parte dell’anima (anima) che hanno anche le bestie, sebbene manchino dell’intelligenza, che è propria allo spirito. Pur essendo dunque lo spirito interiore a se stesso esce in qualche modo da se stesso, gettando le affezioni del suo amore su queste immagini che sono come le vestigia dei suoi molteplici atti d’attenzione. Queste vestigia si imprimono, per così dire, nella memoria, quando vengono percepite tali cose corporee che sono al di fuori, di modo che, anche quando queste cose sono assenti, le loro immagini sono presenti a coloro che vi pensano. Lo spirito dunque conosca se stesso 26; non si cerchi come assente, ma fissi su se stesso l’attenzione della volontà che errava alla ventura sulle altre cose e si pensi. Esso vedrà allora che non ha mai cessato di amarsi, mai cessato di conoscersi, solo che, amando con sé altre cose, da esso diverse, si è con esse confuso e ha preso con esse consistenza in qualche modo; e così abbracciando tutta questa diversità in un solo tutto, ha immaginato che vi sia una sola realtà là dove ve ne sono molte.
Lo spirito si conosce appena intende il precetto di conoscersi
9. 12. Lo spirito dunque non cerchi di attingersi come assente, ma procuri di discernere sé come presente, né si conosca come se fosse a sé sconosciuto, ma si distingua da ciò che esso conosce come diverso da sé 27. Questo stesso comando che ode: Conosci te stesso 28, come si prenderà cura di metterlo in pratica, se non sa che cosa significhino conosci o te stesso? Ma se conosce tutte due queste cose, conosce anche se stesso, perché non si dice allo spirito conosci te stesso, come gli si dice: "conosci i Cherubini e i Serafini"; infatti essi sono assenti e sono per noi oggetto di fede, la quale ci insegna che sono delle potestà celesti. Né gli si dice di conoscersi come gli si dice: "Conosci la volontà di quell’uomo", perché quella volontà non ci è presente per poterla percepire o comprendere se non grazie alla manifestazione di segni corporei e l’apporto di questi segni è tale che più che comprenderla vi crediamo 29. Non gli si dicono queste parole nemmeno come si dice ad un uomo: "Guarda la tua faccia", cosa che non può avvenire se non mediante uno specchio. Infatti la nostra stessa faccia sfugge alla nostra vista, perché essa non si trova là dove si può dirigere il nostro sguardo. Ma quando si dice allo spirito: Conosci te stesso 30, nello stesso istante in cui comprende le parole te stesso, esso si conosce e questo per la sola ragione che è presente a se stesso. Se al contrario non comprende ciò che gli si dice, non lo fa di certo. Dunque gli si comanda di fare ciò che fa, mentre comprende il comando.
Ogni spirito sa di sé, con certezza, di comprendere, di esistere e di vivere
10. 13. Lo spirito dunque non aggiunga nulla al fatto che conosce se stesso, quando ode il comando di conoscere se stesso. Esso infatti sa con certezza che questo comando è rivolto a sé, a sé che esiste, che vive, che comprende. Ma esiste anche il cadavere, anche gli animali vivono: ma né il cadavere né gli animali comprendono. Sa dunque di esistere e di vivere nel modo stesso in cui esiste e vive l’intelligenza. Quando perciò, ad esempio, lo spirito ritiene di essere aria, ritiene che l’aria comprenda, ma esso sa di comprendere; però di essere aria esso non lo sa, se lo immagina. Respinga ciò che si immagina e consideri ciò che sa; si tenga a quella certezza che non hanno mai messo in dubbio nemmeno coloro che hanno opinato che lo spirito fosse questo o quel corpo 31. Infatti non ogni spirito pensa di essere aria, ma alcuni pensano di essere fuoco, altri cervello, ed altri un corpo, altri un altro, come ho ricordato sopra. Tuttavia tutti sanno di comprendere, di esistere e di vivere, ma essi rapportano il comprendere all’oggetto che comprendono 32, ma l’esistere ed il vivere a se stessi. E nessuno dubita che per comprendere bisogna vivere, che per vivere bisogna essere. Di conseguenza ciò che comprende esiste e vive, ma il suo essere non è come quello del cadavere che non vive, né la sua vita come quella dell’anima (anima) che non comprende, bensì esiste e vive in un modo che gli è proprio e più nobile. Così sanno di volere e sanno ugualmente che per volere bisogna esistere e vivere; ma allo stesso modo rapportano la volontà ad un oggetto che vogliono mediante la volontà. Sanno anche di ricordarsi e nello stesso tempo sanno che nessuno ricorderebbe, se non esistesse e vivesse; ma rapportiamo anche la memoria a qualcosa che per mezzo di essa ricordiamo. Dunque di queste tre potenze ve ne sono due, la memoria e l’intelligenza, che contengono in sé la conoscenza e la scienza di molte cose; la volontà c’è invece per fruire di esse e farne uso. Fruiamo infatti di quelle cose conosciute nelle quali la volontà, provandone diletto per quello che sono in sé, si riposa; facciamo invece uso di quelle che noi rapportiamo come mezzi ad un’altra cosa che deve costituire oggetto di fruizione. E la sola cosa che rende cattiva e colpevole la vita umana è il cattivo uso e la cattiva fruizione. Ma non è qui il luogo per parlare di questo.
Chi dubita, vive
10. 14. Ma poiché si tratta della natura dello spirito, rimuoviamo dalla nostra considerazione tutte le conoscenze che ci provengono dall’esterno per mezzo dei sensi del corpo e consideriamo con più diligenza ciò che abbiamo stabilito, cioè che tutti gli spiriti conoscono se stessi con certezza. Gli uomini hanno dubitato se attribuire la facoltà di vivere, ricordare, comprendere, volere, pensare, sapere, giudicare all’aria o al fuoco o al cervello o al sangue o agli atomi o ad un quinto ignoto elemento corporeo al di fuori dei quattro elementi conosciuti, oppure se tutte quelle operazioni le possa compiere la struttura e l’armonia del nostro corpo; chi si è sforzato di sostenere un’opinione, chi un’altra. Di vivere, tuttavia, di ricordare, di comprendere, di volere, di pensare, di sapere e giudicare, chi potrebbe dubitare? Poiché, anche se dubita, vive; se dubita, ricorda donde provenga il suo dubbio; se dubita, comprende di dubitare; se dubita, vuole arrivare alla certezza; se dubita, pensa; se dubita, sa di non sapere; se dubita, giudica che non deve dare il suo consenso alla leggera. Perciò chiunque dubita di altre cose, non deve dubitare di tutte queste, perché, se non esistessero, non potrebbe dubitare di nessuna cosa.
10. 15. Coloro che ritengono che lo spirito è o un corpo o la coesione e l’equilibrio di un corpo vogliono che tutti questi atti dello spirito siano degli accidenti la cui sostanza sarebbe l’aria, il fuoco o qualche altro corpo che essi identificano con lo spirito. L’intelligenza si troverebbe dunque nel corpo come un suo attributo; il corpo sarebbe il soggetto, questa un accidente del soggetto. Il soggetto cioè sarebbe lo spirito, che essi ritengono sia un corpo, l’intelligenza sarebbe un accidente del soggetto; così come tutte le altre cose di cui abbiamo certezza, come abbiamo ricordato. Vicina a questa è l’opinione di coloro che ritengono che lo spirito non sia un corpo, ma lo considerano la coesione e l’armonia del corpo. La differenza consiste nel fatto che i primi dicono che lo spirito è una sostanza come soggetto, nel quale l’intelligenza si radica quale accidente, mentre gli altri affermano che lo spirito stesso si radica quale accidente in un soggetto, cioè nel corpo di cui è la coesione e l’armonia. Di conseguenza possono pensare l’intelligenza diversamente che come un accidente radicato nello stesso soggetto, cioè nel corpo?
Lo spirito, conoscendo se stesso, conosce la sua sostanza
10. 16. Tutti costoro non avvertono che lo spirito si conosce anche quando si cerca, come abbiamo già mostrato. Ora è del tutto illogico affermare che si conosce una cosa di cui si ignora la sostanza. Perciò mentre lo spirito si conosce, conosce la sua sostanza e, se si conosce con certezza, conosce con certezza la sua sostanza. Ora esso si conosce con certezza, come lo provano le cose che abbiamo detto prima. Ma al contrario non ha alcuna certezza di essere aria, fuoco, corpo o qualche cosa di corporeo. Dunque non è nessuna di queste cose, ed il comando di conoscersi si riconduce a questo: che esso sia certo di non essere alcuna delle cose di cui non è certo e che sia certo solo di essere ciò che esso è certo di essere. Così esso pensa il fuoco o l’aria e pensa a qualsiasi altra realtà corporea. E a ciò che esso è non potrebbe affatto pensare nella medesima maniera in cui pensa a ciò che esso non è. È mediante rappresentazioni immaginarie che esso pensa tutte queste cose: il fuoco, l’aria, questo e quest’altro corpo, tale parte o coesione ed armonia del corpo; però non si dice, certo, che lo spirito è tutte queste cose insieme, ma una di esse. Ora, se fosse una di queste cose, esso penserebbe questa cosa in modo diverso da tutte le altre, cioè non per mezzo di una rappresentazione immaginaria, come vengono pensate le cose assenti, che sono state in contatto con i sensi del corpo, sia che si tratti di questi oggetti stessi, o di altri dello stesso genere, ma con una presenza interiore reale, non simulata per mezzo dell’immaginazione (perché non c’è nulla di più presente allo spirito dello spirito stesso), nella maniera in cui pensa di vivere, di ricordare, di comprendere, di volere se stesso. Esso conosce infatti queste cose in sé, non se le rappresenta per mezzo dell’immaginazione come se esso le attingesse al di fuori di sé, con i sensi, alla maniera in cui attinge tutti gli oggetti corporei. Se esso non si assimila falsamente a nessuno di questi corpi, che si rappresenta, al punto di credersi qualcuna di queste cose, ciò che di sé gli resta, questo solo esso è.
Memoria, intelligenza e volontà
11. 17. Lasciando per il momento da parte le altre cose che lo spirito riconosce in sé con certezza, consideriamo in modo del tutto particolare queste tre: la memoria, l’intelligenza, la volontà 33. È da questo triplice punto di vista infatti che si è soliti esaminare le doti naturali dei fanciulli per farsi un’idea del loro temperamento. Quanto più un fanciullo ha la memoria tenace e facile, quanto più la sua intelligenza è penetrante ed il suo gusto al lavoro ardente, tanto più ci si dovrà felicitare delle sue doti naturali. Quando invece si tratta del sapere di un uomo, non si esamina con quanta tenacia e facilità ricordi, con quanto acume comprenda, ma che cosa ricordi e che cosa comprenda. E poiché l’uomo non è solo da lodarsi in base al suo sapere, ma anche alla sua bontà, si deve tener conto non soltanto di ciò che ricorda e di ciò che comprende, ma anche di che cosa vuole; non dell’ardore con cui lo vuole, ma anzitutto dell’oggetto e poi dell’energia del volere. Infatti l’anima che ama con ardore è degna di lode quando ciò che ama deve essere amato con ardore. Nella prima dunque di queste tre cose: capacità, dottrina, uso 34, si considera di che cosa sia capace ciascuno con la sua memoria, intelligenza, volontà. Nella seconda, la dottrina, si considera che cosa ciascuno abbia raccolto nella memoria e nell’intelligenza lavorando con amorosa volontà. La terza cosa, l’uso, è proprio della volontà e consiste nel servirsi delle cose contenute dentro la memoria e l’intelligenza, sia per riferirle come mezzi ad altre cose, sia per compiacersi e riposarsi in esse come in un fine raggiunto. Infatti far uso di una cosa è porla a disposizione della volontà, fruirne invece è usarne con la gioia non già della speranza, ma del possesso 35. Perciò chiunque fruisce di una cosa, ne fa uso, ne dispone infatti ad arbitrio della volontà, tenendo per fine il diletto. Invece non sempre chi fa uso di una cosa ne fruisce, se la cosa che pone a libera disposizione della sua volontà non la desidera per se stessa, ma per un altro fine.
Memoria, intelligenza e volontà sono una sola essenza, tre secondo la relazione
11. 18. Queste tre cose dunque: memoria, intelligenza, volontà, non sono tre vite, ma una vita sola; né tre spiriti, ma un solo spirito; di conseguenza esse non sono tre sostanze, ma una sostanza sola 36. La memoria, in quanto si dice vita, spirito, sostanza, si dice in senso assoluto; ma come memoria si dice in senso relativo. Lo stesso si può affermare per l’intelligenza e la volontà perché anche l’intelligenza e la volontà si dicono in senso relativo. Ma considerata in sé ognuna è vita, spirito ed essenza. E queste tre cose sono una cosa sola 37, per la stessa ragione per la quale sono una sola vita, un solo spirito, una sola essenza. Ed ogni altra cosa che si dice di ciascuna di esse in senso assoluto, anche di tutte insieme la si predica non al plurale ma al singolare. Invece esse sono tre cose per la stessa ragione per cui sono in reciproca relazione tra loro. E se non fossero uguali, non solo ciascuna a ciascuna, ma anche ciascuna a tutte, esse non si includerebbero a vicenda. Infatti non soltanto ciascuna è contenuta in ciascuna, ma anche tutte sono contenute in ciascuna. Infatti ho memoria di aver memoria, intelligenza e volontà. Ho intelligenza di intendere, volere e ricordare. Ho volontà di volere, di ricordare, di intendere 38. Con la mia memoria abbraccio insieme tutta la mia memoria, intelligenza e volontà. Infatti ciò che della mia memoria non ricordo, non è nella mia memoria. Ma niente è tanto nella memoria, come la memoria stessa. Dunque me la ricordo tutta intera. Così tutto ciò che intendo so di intenderlo e so di volere tutto ciò che voglio, ora tutto ciò che so, lo ricordo. Dunque mi ricordo di tutta la mia intelligenza, di tutta la mia volontà. Allo stesso modo quando intendo queste tre cose, le intendo tutte intere insieme. Non c’è infatti cosa intelligibile che io non intenda, se non ciò che ignoro. Ma ciò che ignoro nemmeno lo ricordo, neppure lo voglio. Tutto ciò che di intelligibile invece ricordo e voglio, per questo fatto stesso lo intendo. Anche la mia volontà contiene la mia intelligenza tutta intera, e la mia memoria tutta intera quando faccio uso di tutto ciò che intendo e ricordo. In conclusione quando queste tre cose si contengono reciprocamente, e tutte in ciascuna e tutte interamente, ciascuna nella sua totalità è uguale a ciascuna delle altre nella sua totalità e ciascuna di esse nella sua totalità è uguale a tutte considerate insieme e nella loro totalità: tutte e tre costituiscono una sola cosa 39, una sola vita, un solo spirito, una sola essenza.
Lo spirito immagine della Trinità nella memoria, intelligenza e amore di sé
12. 19. Dobbiamo noi, dunque, da questo momento con tutta la forza dell’attenzione, qualunque essa sia, elevarci a quell’essenza suprema ed altissima di cui lo spirito umano è un’immagine imperfetta, ma tuttavia sempre immagine? O dobbiamo studiare ancora più chiaramente queste tre potenze dell’anima ricorrendo agli oggetti che si percepiscono all’esterno con i sensi del corpo, dove in maniera transitoria si imprime la conoscenza delle cose corporee? Lo spirito ci è apparso, nella memoria, nell’intelligenza, e nella volontà che ha di sé, tale che, intendendo noi che non cessa di conoscersi, che non cessa di volersi, intendessimo nello stesso tempo che non cessa di ricordarsi di sé, che non cessa di intendersi e di amarsi sebbene non sempre si pensi distinto da quelle cose che non sono ciò che esso è; ma è questo che rende difficile distinguere in esso la memoria di sé e l’intelligenza di sé. Che esse non siano quasi due cose, ma una sola espressa con due nomi differenti, è ciò che sembra quando sono molto congiunte tra loro e l’una non precede temporalmente l’altra; l’esistenza dell’amore stesso non è così percettibile, dato che non lo svela l’indigenza, perché ciò che si ama è sempre presente. Perciò queste cose possono diventare chiare anche ai più tardi d’ingegno quando si tratta delle cose che all’anima sopraggiungono nel tempo ed accadono nel tempo, quando ricorda un oggetto che prima non ricordava e quando vede un oggetto che prima non vedeva, e quando ama un oggetto che prima non amava. Ma questa trattazione esige che si inizi un nuovo libro, a causa delle dimensioni di questo.