Sant’Agostino
Non dice: senza di me potete far poco, ma dice: "non potete far nulla". Non poco o molto, ma nulla si può fare senza di lui.
1.
Gesù ha detto che egli è la vite, i suoi discepoli i tralci e il Padre l'agricoltore: su questo ci siamo già intrattenuti, come abbiamo potuto. In questa lettura, continuando a parlare di sé come vite e dei suoi tralci, cioè dei discepoli, il Signore dice: Rimanete in me e io rimarrò in voi (Gv 15, 4). Essi però sono in lui non allo stesso modo in cui egli è in loro. L'una e l'altra presenza non giova a lui, ma a loro. Sì, perché i tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite.[Chi non è in Cristo, non è cristiano.]
2. Il Signore prosegue: Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me (Gv 15, 4). Questo grande elogio della grazia, o miei fratelli, istruisce gli umili, chiude la bocca ai superbi. Replichino ora, se ne hanno il coraggio, coloro che ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non sono sottomessi alla giustizia di Dio (cf. Rm 10, 3). Replichino i presuntuosi e quanti ritengono di non aver bisogno di Dio per compiere le opere buone. Non si oppongono forse a questa verità, da uomini corrotti di mente come sono, riprovati circa la fede (cf. 2 Tim 3, 8), coloro che rispondendo a sproposito dicono: Lo dobbiamo a Dio se siamo uomini, ma lo dobbiamo a noi stessi se siamo giusti? Che dite, o illusi, voi che non siete gli assertori ma i demolitori del libero arbitrio, che, per una ridicola presunzione, dall'alto del vostro orgoglio lo precipitate nell'abisso più profondo? Voi andate dicendo che l'uomo può compiere la giustizia da se stesso: questa è la vetta del vostro orgoglio. Se non che la Verità vi smentisce, dicendo: Il tralcio non può portar frutto da se stesso, ma solo se resta nella vite. Vi arrampicate sui dirupi senza avere dove fissare il piede, e vi gonfiate con parole vuote. Queste sono ciance della vostra presunzione. Ma ascoltate ciò che vi attende e inorridite, se vi rimane un briciolo di senno. Chi si illude di poter da sé portare frutto, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo, non è cristiano. Ecco l'abisso in cui siete precipitati.
3. Ma con attenzione ancora maggiore considerate ciò che aggiunge e afferma la Verità: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l'agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio. Siccome però senza la grazia è impossibile la vita, in potere del libero arbitrio non rimane che la morte. Chi non rimane in me è buttato via, come il tralcio, e si dissecca; poi i tralci secchi li raccolgono e li buttano nel fuoco, e bruciano (Gv 15, 6). I tralci della vite infatti tanto sono preziosi se restano uniti alla vite, altrettanto sono spregevoli se vengono recisi. Come il Signore fa rilevare per bocca del profeta Ezechiele, i tralci recisi dalla vite non possono essere né utili all'agricoltore, né usati dal falegname in alcuna opera (cf. Ez 15, 5). Il tralcio deve scegliere tra una cosa e l'altra: o la vite o il fuoco: se non rimane unito alla vite sarà gettato nel fuoco. Quindi, se non vuol essere gettato nel fuoco, deve rimanere unito alla vite.
4. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto (Gv 15, 7). Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l'avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole. Di sicuro fa parte delle sue parole l'orazione che egli ci ha insegnato e nella quale diciamo: Padre nostro, che sei nei cieli (Mt 6, 9). Non allontaniamoci, nelle nostre richieste, dalle parole e dai sentimenti di questa orazione, e qualunque cosa chiederemo egli ce la concederà. Le sue parole rimangono in noi, quando facciamo quanto ci ha ordinato e desideriamo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma senza riflesso nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attinge vita dalla radice. In ordine a questa differenza vale la frase: Conservano nella memoria i suoi precetti, per osservarli (Sal 102, 18). Molti, infatti, li conservano nella memoria per disprezzarli, per deriderli e combatterli. Non si può dire che dimorano le parole di Cristo in costoro, che sono, sì, in contatto con esse, ma senza aderirvi. Esse, perciò, non recheranno loro alcun beneficio, ma renderanno invece testimonianza contro di loro. E poiché quelle parole sono in loro, ma essi non le custodiscono, le posseggono soltanto per esserne giudicati e condannati.
Tutto nasce dalla fede operante per mezzo dell'amore. Ma come potremmo amare se prima non fossimo stati amati da Dio?
[Siamo opera di Dio, creati in Cristo Gesù.]
1. Richiamando con insistenza l'attenzione dei discepoli sulla grazia che ci fa salvi, il Salvatore dice: Ciò che glorifica il Padre mio è che portiate molto frutto; e così vi dimostrerete miei discepoli (Gv 15, 8). Che si dica glorificato o clarificato, ambedue i termini derivano dal greco . Il greco
, in latino significa "gloria". Ritengo opportuna questa osservazione, perché l'Apostolo dice: Se Abramo fu giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non presso Dio (Rm, 4, 2). E' gloria presso Dio quella in cui viene glorificato, non l'uomo, ma Dio; poiché l'uomo è giustificato non per le sue opere ma per la fede; poiché è Dio che gli concede di operare bene. Infatti il tralcio, come ho già detto precedentemente, non può portar frutto da se stesso. Se dunque ciò che glorifica Dio Padre è che portiamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo, di tutto questo non possiamo gloriarcene, come se provenisse da noi. E' grazia sua; perciò sua, non nostra, è la gloria. Ecco perché, in altra circostanza, dopo aver detto ai discepoli: Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, acciocché vedano le vostre buone opere, affinché non dovessero attribuire a se stessi queste buone opere, subito aggiunge: e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli (Mt 5, 16). Ciò che glorifica, infatti, il Padre è che produciamo molto frutto e diventiamo discepoli di Cristo. E in grazia di chi lo diventiamo, se non di colui che ci ha prevenuti con la sua misericordia? Di lui infatti siamo fattura, creati in Cristo Gesù per compiere le opere buone (cf. Ef 2, 10).
2. Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi: rimanete nel mio amore (Gv 15, 9). Ecco l'origine di tutte le nostre buone opere. Quale origine potrebbero avere, infatti, se non la fede che opera mediante l'amore (cf. Gal 5, 6)? E come potremmo noi amare, se prima non fossimo amati? Lo dice molto chiaramente, nella sua lettera, questo medesimo evangelista: Amiamo Dio, perché egli ci ha amati per primo (1 Io 3, 19). L'espressione poi: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, non vuole significare che la nostra natura è uguale alla sua, così come la sua è uguale a quella del Padre, ma vuole indicare la grazia per cui l'uomo Cristo Gesù è mediatore tra Dio e gli uomini (cf. 1 Tim 2, 5). E' appunto come mediatore che egli si presenta dicendo: Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. E' certo, infatti, che il Padre ama anche noi, ma ci ama in lui; perché ciò che glorifica il Padre è che noi portiamo frutto nella vite, cioè nel Figlio, e diventiamo così suoi discepoli.
3. Rimanete nel mio amore. In che modo ci rimarremo? Ascolta ciò che segue: Se osservate i miei comandamenti - dice - rimarrete nel mio amore (Gv 15, 10). E' l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza dei comandamenti? Chi non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti. Con le parole: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, il Signore non vuole indicare l'origine dell'amore, ma la prova. Come a dire: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti: potrete rimanervi solo se li osserverete. Cioè, questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti. Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti; poiché in tanto lo amiamo in quanto osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo. Anche se dalle parole: Rimanete nel mio amore, non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente. Egli aveva detto: anch'io ho amato voi, e subito dopo ha aggiunto: Rimanete nel mio amore. Si tratta dunque dell'amore che egli nutre per noi. E allora che vuol dire: Rimanete nel mio amore, se non: rimanete nella mia grazia? E che significa: Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore, se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell'amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osserviamo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci amasse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili mentre è rimasta nascosta ai superbi.
4. Ma cosa vogliono dire le parole che il Signore subito aggiunge: Come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore (Gv 15, 10)? Certamente anche qui vuole che ci rendiamo conto dell'amore che il Padre ha per lui. Aveva infatti cominciato col dire Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi; e a queste parole aveva fatto seguire le altre: Rimanete nel mio amore, cioè, senza dubbio, nell'amore che io ho per voi. Così ora, parlando del Padre, dice: Rimango nel suo amore, cioè nell'amore che egli ha per me. Diremo però che questo amore con cui il Padre ama il Figlio è grazia, come è grazia l'amore con cui il Figlio ama noi; e ciò nonostante che noi siamo figli per grazia non per natura, mentre l'Unigenito è Figlio per natura non per grazia? Ovvero dobbiamo intendere queste parole come dette in relazione all'umanità assunta dal Figlio? E' proprio così che dobbiamo intenderle. Infatti, dicendo: Come il Padre ha amato me così anch'io ho amato voi, egli ha voluto mettere in risalto la sua grazia di mediatore. E Gesù Cristo è mediatore tra Dio e gli uomini non in quanto è Dio, ma in quanto uomo. E' così che di Gesù in quanto uomo si legge: Gesù cresceva in sapienza e statura e grazia, presso Dio e gli uomini (Lc 2, 52). Dunque possiamo ben dire che, siccome la natura umana non rientra nella natura divina, se appartiene alla persona dell'unigenito Figlio di Dio lo è per grazia e per una tale grazia di cui non è concepibile una maggiore e neppure uguale. Nessun merito ha preceduto l'incarnazione, e tutti hanno origine da essa. Il Figlio rimane nell'amore con cui il Padre lo ha amato, e perciò osserva i suoi comandamenti. A che cosa deve la sua grandezza umana se non al fatto che Dio l'ha assunta (cf. Sal 3, 4)? Il Verbo infatti era Dio, era l'Unigenito coeterno al Padre; ma affinché noi avessimo un mediatore, per grazia ineffabile il Verbo si è fatto carne e abitò fra noi (Gv 1, 14).
In che consiste la gioia di Cristo in noi, se non nel fatto che Cristo si degna trovare in noi la sua gioia? E in che consiste la nostra gioia che egli dice di voler rendere piena, se non nella comunione con lui?
1.
Avete sentito, carissimi, il Signore che dice ai suoi discepoli: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta (Gv 15, 11). In che consiste la gioia di Cristo in noi, se non nel fatto che egli si degna godere di noi? E in che consiste la nostra gioia perfetta, se non nell'essere in comunione con lui? Per questo aveva detto a san Pietro: Se non ti laverò, non avrai parte con me (Gv 13, 8). La sua gioia in noi, quindi, è la grazia che egli ci ha accordato; e questa grazia è la nostra gioia. Ma di questa gioia egli gode dall'eternità, fin da quando ci elesse, prima della creazione del mondo (cf. Ef 1, 4). E davvero non possiamo dire che allora la sua gioia non fosse perfetta, poiché non c'è stato mai un momento in cui Dio abbia goduto in modo imperfetto. Ma quella gioia non era allora in noi, perché nessuno di noi esisteva per poterla avere in sé, né abbiamo cominciato ad averla appena venuti all'esistenza. Ma da sempre era in lui, che, nella infallibile realtà della sua prescienza, godeva per noi che saremmo stati suoi. Quando posava su di noi il suo sguardo e ci predestinava, la gioia che egli provava per noi era perfetta; in quella gioia, infatti, non v'era alcun timore che il suo disegno potesse non compiersi. Né quando questo suo disegno cominciò a realizzarsi, crebbe la sua gioia che lo rende beato; altrimenti si dovrebbe dire che egli divenne più beato per averci creato. Questo, fratelli, non può essere: la felicità di Dio, che non era minore senza di noi, non diventò maggiore per noi. Quindi la sua gioia per la nostra salvezza, che era in lui fin da quando egli posò su di noi il suo sguardo e ci predestinò, cominciò ad essere in noi quando ci chiamò; e giustamente diciamo nostra questa gioia, che ci renderà beati in eterno. Questa nostra gioia cresce e progredisce ogni giorno, e, mediante la perseveranza, tende verso la sua perfezione. Essa comincia nella fede di coloro che rinascono, e raggiungerà il suo compimento nel premio di coloro che risorgeranno. Credo che questo sia il senso delle parole: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta: la mia gioia sia in voi; la vostra gioia sia perfetta: La mia gioia, infatti, è sempre stata perfetta, anche prima che voi foste chiamati, quando io già sapevo che vi avrei chiamati: e questa gioia si accende in voi quando in voi comincia a realizzarsi il mio disegno. La vostra gioia sarà perfetta allorché sarete beati; non lo siete ancora, così come un tempo, voi che non esistevate, siete stati creati.2. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato (Gv 15, 12). Si dica precetto, si dica comandamento, il significato è lo stesso, anche perché ambedue i termini sono la traduzione del greco . Il Signore aveva già fatto prima questa esortazione, sulla quale ricorderete che vi ho intrattenuti meglio che ho potuto. Allora egli si espresse così: Vi do un comandamento nuovo: di amarvi gli uni gli altri; come io ho amato voi, così voi pure amatevi a vicenda (Gv 13, 34). La ripetizione che fa di questo comandamento, ne sottolinea l'importanza: con la sola differenza che mentre prima aveva detto: Vi do un comandamento nuovo, ora dice: Questo è il mio comandamento. Prima si era espresso come se quel comandamento non esistesse già prima di lui; qui si esprime quasi non esista altro suo comandamento. Ma in realtà la prima volta dice nuovo, perché non dovessimo rimanere legati all'uomo vecchio, mentre qui dice mio, perché lo tenessimo in gran conto.
[Dove è l'amore, non possono mancare la fede e la speranza.]
3. Ora siccome qui dice: Questo è il mio comandamento, come se non ce ne fosse altro, dovremmo pensare, o fratelli miei, che di lui esiste solo questo comandamento dell'amore, con cui dobbiamo amarci a vicenda? Non esiste forse l'altro più grande, di amare Dio? Ovvero Dio ci ha comandato soltanto l'amore fraterno, sicché non dobbiamo preoccuparci d'altro? E' certo che l'Apostolo raccomanda tre cose, quando dice: Ora rimangono bensì la fede, la speranza, la carità, queste tre cose; ma la più grande di esse è la carità (1 Cor 13, 13). E quantunque nella carità, cioè nell'amore, siano racchiusi quei due precetti, tuttavia ci dice che essa è la più grande, non la sola. Quante raccomandazioni ci vengono fatte, sia riguardo alla fede che riguardo alla speranza! Chi può metterle insieme? Chi può contarle? Ma badiamo a ciò che dice il medesimo Apostolo: La pienezza della legge è la carità (Rm 13, 10). Laddove dunque è la carità, che cosa potrà mancare? E dove non è, che cosa potrà giovare? Il diavolo crede (cf. Gc 2, 19), ma non ama; e tuttavia non si può amare se non si crede. Sia pure invano, tuttavia anche chi non ama può conservare la speranza del perdono, ma non può perderla nessuno che ama. Dunque, laddove c'è l'amore, c'è necessariamente la fede e c'è la speranza; e dove c'è l'amore del prossimo, c'è necessariamente anche l'amore di Dio. Chi infatti non ama Dio, come potrà amare il prossimo come se stesso, dal momento che non ama neppure se stesso? Egli è un empio e un uomo iniquo; e chi ama l'iniquità, non solo non ama ma odia la sua anima (cf. Sal 10, 6). Manteniamoci dunque fedeli a questo comandamento del Signore, di amarci gli uni gli altri, e osserveremo tutti gli altri suoi comandamenti, perché tutti gli altri comandamenti sono compresi in questo. Certo, questo amore si distingue da quell'amore con cui reciprocamente si amano gli uomini in quanto uomini; ed è per distinguerlo da esso che il Signore aggiunge: come io ho amato voi. E perché ci ama Cristo, se non perché possiamo regnare con lui? A questo fine dunque noi dobbiamo amarci, in modo che il nostro amore si distingua da quello degli altri, che non si amano a questo fine perché neppure si amano. Coloro che invece si amano al fine di possedere Dio, si amano davvero: per amarsi, quindi, amano Dio. Questo amore non esiste in tutti gli uomini: sono pochi, anzi, quelli che si amano affinché Dio sia tutto in tutti (cf. 1 Cor 15, 28).
Quanti ci accostiamo alla mensa del Signore, dove riceviamo il corpo e il sangue di colui che ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi dare la vita per i fratelli.
1.
Il Signore, fratelli carissimi, ha definito l'apice dell'amore, con cui dobbiamo amarci a vicenda, affermando: Nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici (Gv 15, 13). A quanto aveva detto prima: Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi (Gv 15, 12), aggiunge quanto avete appena ascoltato: Nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici. Ne consegue ciò che questo medesimo evangelista espone nella sua lettera: Allo stesso modo che Cristo diede per noi la sua vita, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli (1 Io 3, 16), precisamente amandoci a vicenda come ci amò Cristo che diede la sua vita per noi. E' quanto appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Se ti siedi a mangiare con un potente, guarda e renditi conto di ciò che ti vien messo davanti, e, mentre stendi la mano, pensa che anche tu dovrai preparare qualcosa di simile (Prv 23, 1-2). Quale è la mensa del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la sua vita per noi? Che significa sedere a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? E che significa guardare e rendersi conto di ciò che vien presentato, se non prendere coscienza del dono che si riceve? E che vuol dire stendere la mano pensando che anche tu dovrai preparare qualcosa di simile, se non quel che ho detto sopra e cioè: come Cristo diede la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo esser pronti a dare la nostra vita per i fratelli? E' quello che dice anche l'apostolo Pietro: Cristo soffrì per noi, lasciandoci l'esempio, affinché seguiamo le sue orme (1 Pt 2, 21). Ecco cosa significa preparare altrettanto. E' questo che hanno fatto i martiri con ardente amore; e se noi non vogliamo celebrare invano la loro memoria, e non vogliamo accostarci invano alla mensa del Signore, alla quale anch'essi sono stati saziati, è necessario che anche noi, come loro, ci prepariamo a ricambiare il dono ricevuto. Alla mensa del Signore, perciò, non commemoriamo i martiri nello stesso modo che commemoriamo quelli che riposano in pace; come se dovessimo pregare per loro, quando siamo noi che abbiamo bisogno delle loro preghiere onde poter seguire le loro orme, in quanto essi hanno realizzato quella carità, che il Signore definì la maggiore possibile. Essi infatti hanno dato ai loro fratelli la medesima testimonianza di amore che essi stessi avevano ricevuto alla mensa del Signore.[Imitiamo Cristo con devota obbedienza.]
2. Dicendo così non pensiamo di poter essere pari a Cristo Signore, qualora giungessimo a versare il sangue per lui col martirio. Egli aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla di nuovo (cf. Gv 10, 18); noi, invece, non possiamo vivere quanto vogliamo, e moriamo anche se non vogliamo; egli, morendo, ha ucciso subito in sé la morte, noi veniamo liberati dalla morte mediante la sua morte. La sua carne non ha conosciuto la corruzione (cf. At 2, 31), mentre la nostra rivestirà l'incorruttibilità per mezzo di lui alla fine del mondo, solo dopo aver conosciuto la corruzione; egli non ha avuto bisogno di noi per salvarci, mentre noi senza di lui non possiamo far nulla. Egli si è offerto come vite a noi che siamo i tralci, a noi che senza di lui non abbiamo la vita. Infine, anche se i fratelli arrivano a morire per i fratelli, tuttavia, non può essere versato il sangue di nessun martire per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli fece per noi; offrendoci con questo non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati. Ogniqualvolta i martiri versano il loro sangue per i fratelli, ricambiano il dono da essi ricevuto alla mensa del Signore. Per questo, e per ogni altro motivo che si potrebbe ricordare, il martire è di gran lunga inferiore a Cristo. Ebbene se qualcuno osa confrontarsi, non dico con la potenza, ma con l'innocenza di Cristo, e non in quanto crede di poter guarire i peccati degli altri, ma ritenendo di esserne esente, anche così il suo desiderio è sproporzionato alle sue possibilità di salvezza: è troppo per lui che non è da tanto. Viene a proposito l'ammonimento dei Proverbi che segue: Non essere troppo avido e non bramare il cibo della sua tavola; perché è meglio che tu non prenda niente anziché prendere più del conveniente. Queste cose, infatti, sono un cibo ingannevole (Prv 23, 3-4), cioè falso. Se tu dici di essere senza peccato, non dimostri di essere giusto, ma falso. Ecco in che senso sono un cibo ingannevole. C'è uno solo che ha potuto rivestire la carne umana, e insieme essere senza peccato. Ciò che segue costituisce per noi un precetto, in quanto il libro dei Proverbi tiene conto dell'umana debolezza, alla quale vien detto: Non voler competere con chi è ricco, tu che sei povero. E' ricco chi è senza debiti, propri o ereditati: è Cristo, il giusto che rende giusti gli altri. Non voler competere con lui, tu che sei tanto povero che ogni giorno, pregando, implori il perdono dei tuoi peccati. Guardati da un simile atteggiamento, che è sbagliato, e che soltanto la tua presunzione può suggerirti. Egli, che non è soltanto uomo ma è anche Dio, non può essere in alcun modo colpevole. Se tenterai di fissare il tuo sguardo su di lui, non riuscirai a vederlo. Se rivolgerai a lui il tuo occhio - cioè il tuo occhio umano col quale puoi vedere solo cose umane - non apparirà mai al tuo sguardo, perché non può essere visto da te nel modo che a te è consentito di vedere; perché si fa delle ali e come l'aquila s'invola alla dimora del suo Signore (Prv 23, 5): è di lassù che è venuto a noi, e qui non ha trovato nessuno di noi uguale a sé. Amiamoci dunque a vicenda, come il Cristo ci ha amato e ha offerto se stesso per noi (cf. Gal 2, 20). Sì, perché nessuno può avere amore più grande che dare la vita per i suoi amici. Imitiamolo dunque con devota obbedienza, senza avere la presunzione irriverente di confrontarci con lui.
E' una grande degnazione da parte del Signore, chiamare suoi amici quelli che sono suoi servi. E' dunque possibile essere servi e amici.
1.
Il Signore Gesù, dopo averci raccomandato l'amore che egli poi ci manifestò morendo per noi, e dopo aver detto: Nessuno può avere un amore più grande che dare la vita per i suoi amici, dice: Voi siete i miei amici, se farete ciò che vi comando (Gv 15, 13-14). Mirabile condiscendenza! Poiché la condizione per essere un buon servo è quella di eseguire gli ordini del padrone, vuole che i suoi amici siano considerati tali in base al criterio con cui si considerano buoni i servi. Ma, come dicevo, è una grande condiscendenza che il Signore dimostra, degnandosi chiamare amici quelli che sono suoi servi. Per convincervi che è dovere dei servi eseguire gli ordini del padrone, ricordate il rimprovero che in altra circostanza egli rivolge a chi si diceva suo servo: Perché mi chiamate Signore, Signore, e non fate ciò che vi dico? (Lc 6, 46). Se dite: Signore, dimostrate ciò che dite eseguendo i suoi ordini. Non dirà forse al servo obbediente: Bravo, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto: entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25, 21)? Il servo buono, dunque, può essere ad un tempo servo ed amico.2. Ma badiamo a quel che segue: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Come potremo allora intendere che il servo buono è servo ed amico, se dice: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Gv 15, 15)? Gli dà il nome di amico, togliendogli quello di servo; non lascia tutti e due i nomi alla medesima persona, ma sostituisce uno con l'altro. Che significa ciò? Che non siamo più servi quando osserviamo i comandamenti del Signore? E che non siamo servi quando siamo servi buoni? Ma chi può smentire la Verità che dice: Non vi chiamo più servi? Spiega il motivo della sua affermazione: perché il servo non sa quello che fa il suo padrone. Forse che al servo buono e fedele il padrone non confida anche i suoi segreti? Che significa dunque la frase: Il servo non sa quello che fa il suo padrone? Ma anche ammesso che il servo non conosca i segreti del suo padrone, forse non conoscerà nemmeno i suoi ordini? Se ignora anche questi, come fa a servirlo? E se non lo serve, che servo è? E tuttavia il Signore dice: Voi siete miei amici se farete ciò che vi comando. Non vi chiamo più servi. O meraviglia! Noi non possiamo essere servi del Signore se non osservando i comandamenti del Signore: e allora come possiamo non essere suoi servi quando li osserviamo? Se osservando i comandamenti non sono servo, e se non potrò servirlo se non osservando i comandamenti, vuol dire che se lo servirò non sarò più servo.
[Due timori e due servitù.]
3. Sforziamoci di comprendere, o fratelli. Il Signore, da parte sua, ci conceda di comprendere, e anche di attuare ciò che saremo riusciti a comprendere. Se sappiamo questo, sapremo anche ciò che fa il Signore, perché solo il Signore può creare in noi le condizioni che ci consentono di partecipare alla sua amicizia. Come infatti vi sono due timori che creano due categorie di timorosi, così vi sono due modi di servire che creano due categorie di servi. C'è il timore che viene eliminato dalla carità perfetta (cf. 1 Io 4, 18), e ce n'è un altro, quello casto, che permane in eterno (cf. Sal 18, 10). A quel timore, che non può coesistere con l'amore, si riferiva l'Apostolo quando diceva: Voi non avete ricevuto uno spirito di servitù, per ricadere nel timore (Rm 8, 15). Mentre invece si riferiva al timore casto quando diceva: Non levarti in superbia, ma piuttosto temi (Rm 11, 20). In quel timore che la carità bandisce, c'è anche della servitù che occorre bandire; servitù che l'Apostolo vede strettamente connessa con il timore: Voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore. E' a questo servo dominato dallo spirito di servitù che il Signore si riferiva dicendo: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone (Gv 15, 15). Non si riferisce certo al servo animato dal timore casto, al quale verrà detto: Bravo, servo buono, entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25, 21). Egli ha in vista unicamente il servo dominato dal timore che dev'essere bandito dalla carità, e del quale sta scritto: Il servo non rimane nella casa per sempre; il figlio, invece, vi resta per sempre (Gv 8, 35). Poiché ci ha dato il potere di diventare figli di Dio (cf. Gv 1, 12), non dobbiamo essere servi, ma figli; e così potremo, in modo mirabile e ineffabile e tuttavia vero, servirlo senza essere servi. Sì, servi quanto al timore casto, che deve guidare il servo destinato ad entrare nella gioia del suo padrone; senza essere servi quanto al timore che deve essere bandito, dal quale è dominato il servo che non resta in casa per sempre. E per essere servi non servi, dobbiamo sapere che questo è grazia del Signore. Ecco ciò che ignora il servo che non sa quello che fa il suo padrone. Quando egli compie qualcosa di buono, se ne vanta come se l'avesse compiuto lui, non il suo Signore; e se ne gloria e non rende gloria al Signore. Illuso, perché si gloria come se non avesse ricevuto ciò che ha (cf. 1 Cor 4, 7). Noi, invece, o carissimi, se vogliamo essere amici del Signore, dobbiamo sapere ciò che il nostro Signore fa. Non siamo noi infatti, ma è lui che ci fa essere non soltanto uomini, ma anche giusti. E chi può farci conoscere tutto ciò, se non lui stesso? Infatti noi abbiamo ricevuto non lo spirito di questo mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere i doni che egli ci ha elargito (1 Cor 2, 12). Tutto ciò che è buono, è dono suo. E siccome anche questa scienza è un bene, da lui ci viene elargito affinché si sappia che è lui la sorgente di ogni bene, e affinché chi si gloria di qualsiasi cosa buona, si glori nel Signore (cf. 1 Cor 1, 31). Quello che il Signore dice subito dopo, e cioè: Io vi ho chiamato, invece, amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15), è tanto profondo che non è proprio il caso di commentarlo ora, ma bisogna rimandarlo al prossimo discorso.
Non meritavamo di essere scelti, e soltanto per grazia di chi ci ha scelti siamo diventati accetti a lui.
1.
Giustamente si domanda in che senso bisogna prendere questa affermazione del Signore: Io vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio io l'ho fatto conoscere a voi (Gv 15, 15). Chi infatti oserà affermare o credere che un uomo possa sapere tutto ciò che il Figlio unigenito ha appreso dal Padre, dato che nessuno può riuscire neppure a capire in qual modo il Figlio possa udire qualcosa dal Padre, essendo egli il Verbo unico del Padre? Non solo: un po' più avanti, in questo medesimo discorso che egli tenne ai discepoli dopo la cena e prima della passione, il Signore dichiara: Ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non siete in condizione di portarle (Gv 16, 12). In che senso dunque dobbiamo intendere che egli ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, se rinuncia a dire molte altre cose appunto perché sa che essi non sono in condizione di portarle? Gli è che asserisce come fatte le cose che vuol fare, egli che ha fatto le cose che saranno (cf. Is 45, 11). Allo stesso modo infatti che dice per bocca del profeta: Mi hanno trafitto mani e piedi (Sal 21, 18), e non dice: "mi trafiggeranno" perché predice cose future parlandone come se già fossero avvenute; così anche qui dice di aver fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che si propone di far conoscere in quel modo pieno e perfetto di cui parla l'Apostolo quando dice: Allorché sarà venuto ciò che è perfetto, quello che è parziale verrà abolito, e così continua: Ora conosco parzialmente, allora conoscerò anch'io come sono conosciuto; al presente vediamo mediante specchio, in maniera enigmatica; allora invece faccia a faccia (1 Cor 13, 10 12). Lo stesso Apostolo che ci dice che siamo stati salvati mediante il lavacro di rigenerazione (cf. Tt 3, 5), ci dice anche: Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, la speranza che si vede non è più speranza: difatti una cosa che qualcuno vede, come potrebbe ancora sperarla? Se pertanto noi speriamo ciò che non vediamo, l'attendiamo mediante la pazienza (Rm 8, 24-25). E' in questo senso che il suo collega Pietro dice: Ora voi credete in colui che non vedete; ma quando lo vedrete, esulterete d'una gioia ineffabile e gloriosa, ricevendo così il premio della fede: la salvezza delle vostre anime (1 Pt 1, 8-9). Se ora dunque è il tempo della fede, e frutto della fede è la salvezza, chi potrà dubitare che bisogna trascorrere la vita nella fede, che opera mediante l'amore (cf. Gal 5, 6), e che al termine si potrà conseguire il fine della fede, che consiste non solo nella redenzione del nostro corpo di cui ci parla l'apostolo Paolo (cf. Rm 8, 23), ma anche nella salvezza della nostra anima di cui ci parla Pietro? Questa felicità del corpo e dell'anima, nel tempo presente e in questa vita mortale, si ha piuttosto nella speranza che nella realtà; con questa differenza che, mentre l'uomo esteriore, cioè il corpo, va corrompendosi, quello interiore, cioè l'anima, si rinnova di giorno in giorno (cf. 2 Cor 4, 16). Pertanto, come aspettiamo l'immortalità della carne e la salvezza dell'anima nel futuro, sebbene l'Apostolo dica che a motivo del pegno già ricevuto siamo stati salvati, così dobbiamo sperare di sapere un giorno tutto ciò che l'Unigenito ha udito dal Padre, sebbene Cristo affermi che questo si è già ottenuto.[Se è grazia, non c'è alcun merito.]
2. Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi (Gv 15, 16). E' questa una grazia davvero ineffabile. Che cosa eravamo noi, infatti, quando ancora non avevamo scelto Cristo, e perciò non lo amavamo? Poiché, come può amarlo chi non lo ha scelto? Forse in noi c'erano quei sentimenti che vengono espressi nel salmo: Ho preferito rimanere alla soglia della casa di Dio, anziché abitare nei padiglioni dell'iniquo (Sal 83, 11)? Certamente no. Che cosa eravamo dunque, se non iniqui e perduti? Non credevamo ancora in lui, per meritare che egli ci scegliesse; infatti, se egli scegliesse chi già crede in lui, sceglierebbe chi ha già scelto lui. Perché allora dice: Non siete voi che avete scelto me (Gv 15, 16), se non perché la sua misericordia ci ha prevenuti? Di qui si vede quanto sia vana l'argomentazione di coloro che difendono la prescienza di Dio contro la grazia di Dio, sostenendo che noi siamo stati eletti prima della fondazione del mondo (cf. Ef 1, 4), perché Dio preconobbe che noi saremmo stati buoni, non che lui ci avrebbe fatti diventare buoni. Non è di questo parere colui che dice: Non siete voi che avete scelto me. Se infatti ci avesse scelti perché aveva preconosciuto che saremmo diventati buoni, si sarebbe dovuto insieme accorgere che eravamo stati noi i primi a scegliere lui. Non avremmo potuto infatti in altro modo essere buoni, dal momento che non si può chiamare buono se non chi ha scelto il bene. Che cosa ha scelto dunque nei non buoni? Essi infatti non sono stati scelti perché erano buoni, dato che non sarebbero buoni se non fossero stati scelti. Se sosteniamo che la grazia è stata preceduta dal merito, non è più grazia. E' invece effetto della grazia questa elezione, di cui l'Apostolo dice: Anche oggi alcuni si salvano per elezione della grazia. E soggiunge: E se lo è per grazia non lo è dunque per le opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11, 5-6). Ascolta, ingrato, ascolta: Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi. Non puoi dire: sono stato scelto perché credevo. Se già credevi in lui, vuol dire che sei stato tu a scegliere lui. Ma ascolta bene: Non siete stati voi a scegliere me. Non è il caso che tu dica: io già prima di credere operavo bene, e per questo sono stato scelto. Che opera buona ci può essere prima di aver la fede, se l'Apostolo dice: Tutto ciò che non viene dalla fede è peccato (Rm 14, 23)? Che diremo dunque ascoltando le parole: Non siete voi che avete scelto me, se non che eravamo cattivi, e siamo stati scelti affinché fossimo buoni per grazia di chi ci ha scelti? Non sarebbe grazia, se essa fosse stata preceduta dai meriti; invece è grazia! Essa non presuppone dei meriti, ma ne è l'origine.
3. Ecco la prova, o carissimi, che egli non sceglie i buoni, ma fa diventare buoni quelli che ha scelto. Io vi ho scelto e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole (Gv 15, 16). Non è forse questo il frutto di cui già aveva detto: Senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5)? Egli ci ha scelti e ci ha costituiti affinché andiamo e portiamo frutto; non avevamo quindi alcun frutto per cui potessimo essere scelti. Affinché andiate - dice - e portiate frutto. Andiamo per portare frutto: egli stesso è la via per la quale andiamo, la via nella quale ci ha posti affinché andiamo. In ogni modo, quindi, la sua misericordia ci ha prevenuti. E il vostro frutto sia durevole; affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome (Gv 15, 16). Rimanga dunque l'amore: questo è il nostro frutto. Questo amore consiste ora nel desiderio, non essendo ancora stato saziato. E tutto ciò che, mossi da questo desiderio, noi chiediamo nel nome del Figlio unigenito, il Padre ce lo concede. Non illudiamoci però di chiedere nel nome del Salvatore ciò che non giova alla nostra salvezza; noi chiediamo nel nome del Salvatore, solo se chiediamo ciò che conduce alla salvezza.
Uno può amare il prossimo come se stesso, soltanto se ama Dio; poiché se non ama Dio, non ama se stesso.
[E' buono soltanto chi lo diventa amando.]
1. Nella precedente lettura del Vangelo il Signore aveva detto: Non siete voi che avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti affinché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole; affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome (Gv 15, 16). Su queste parole ricordate che noi, con l'aiuto del Signore, ci siamo soffermati sufficientemente. Ora, in questa pagina che adesso avete sentito leggere, il Signore prosegue: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Gv 15, 17). E' precisamente questo il frutto che egli intendeva quando diceva: Io vi ho scelti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto sia durevole. E quanto a ciò che ha aggiunto: affinché il Padre vi dia ciò che chiederete nel mio nome, vuol dire che egli manterrà la sua promessa, se noi ci ameremo a vicenda. Poiché egli stesso ci ha dato questo amore vicendevole, lui che ci ha scelti quando eravamo infruttuosi non avendo ancora scelto lui. Egli ci ha scelto e ci ha costituiti affinché portiamo frutto, cioè affinché ci amiamo a vicenda: senza di lui non potremmo portare questo frutto, così come i tralci non possono produrre alcunché senza la vite. Il nostro frutto è dunque la carità che, secondo l'Apostolo, nasce da un cuore puro e da una coscienza buona e da una fede sincera (1 Tim 1, 5). E' questa carità che ci consente di amarci a vicenda e di amare Dio: l'amore vicendevole non sarebbe autentico senza l'amore di Dio. Uno infatti ama il prossimo suo come se stesso, se ama Dio; perché se non ama Dio, non ama neppure se stesso. In questi due precetti della carità si riassumono infatti tutta la legge e i profeti (cf. Mt 22, 40): questo il nostro frutto. E a proposito di tale frutto ecco il suo comando: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri. Per cui l'apostolo Paolo, volendo contrapporre alle opere della carne il frutto dello spirito, pone come base la carità: Frutto dello spirito è la carità; e ci presenta tutti gli altri frutti come derivanti dalla carità e ad essa strettamente legati, e cioè: la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la fedeltà, la mitezza, la temperanza (Gal 5, 22). E in verità come ci può essere gioia ben ordinata se ciò di cui si gode non è bene? Come si può essere veramente in pace se non con chi sinceramente si ama? Chi può essere longanime, rimanendo perseverante nel bene, se non chi ama fervidamente? Come può dirsi benigno uno che non ama colui che soccorre? Chi è buono se non chi lo diventa amando? Chi può essere credente in modo salutare, se non per quella fede che opera mediante la carità? Che utilità essere mansueto, se la mansuetudine non è ispirata dall'amore? E come potrà uno essere continente in ciò che lo contamina, se non ama ciò che lo nobilita? Con ragione, dunque, il Maestro buono insiste tanto sull'amore ritenendo sufficiente questo solo precetto. Senza l'amore tutto il resto non serve a niente, mentre l'amore non è concepibile senza le altre buone qualità grazie alle quali l'uomo diventa buono.
[Tutto il mondo è Chiesa.]
2. In nome di questo amore, però, dobbiamo sopportare pazientemente l'odio del mondo. E' inevitabile che il mondo ci odi, se vede che noi non amiamo ciò che esso ama. Ma il Signore ci offre, nella sua stessa persona, un grande motivo di consolazione. Dopo aver detto: Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri, soggiunge: Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi (Gv 15, 18). Perché un membro pretende di essere al di sopra del capo? Rinunci a far parte del corpo, se non vuoi sopportare insieme al capo l'odio del mondo. Se voi foste del mondo - continua il Signore - il mondo amerebbe ciò che è suo (Gv 15, 19). Queste parole sono rivolte alla Chiesa universale, la quale anch'essa talvolta è chiamata mondo, come fa l'Apostolo che dice: Dio era in Cristo, per riconciliare il mondo a sé (2 Cor 5, 19). Anche l'evangelista dice: Non è venuto il Figlio dell'uomo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvo per mezzo di lui (Gv 3, 16). E nella sua lettera Giovanni dice: Abbiamo, come avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Egli è il propiziatore per i nostri peccati e non per i nostri soltanto, ma anche per quelli di tutto il mondo (1 Io 2, 1-2). La Chiesa è, dunque, tutto il mondo, e tutto il mondo odia la Chiesa. Il mondo odia il mondo, il mondo ostile odia il mondo riconciliato, il mondo condannato odia il mondo che è stato salvato, il mondo contaminato odia il mondo che è stato purificato.
3. Ma questo mondo che Dio riconcilia a sé nella persona di Cristo, che per mezzo di Cristo viene salvato e al quale per mezzo di Cristo viene rimesso ogni peccato, è stato scelto dal mondo ostile, condannato, contaminato. Dalla medesima massa che tutta si è perduta in Adamo, vengono formati i vasi di misericordia di cui è composto il mondo destinato alla riconciliazione. Questo mondo è odiato dal mondo che pur nella stessa massa, è però composto dai vasi dell'ira, destinati alla perdizione (cf. Rm 9, 21-23). Così, dopo aver detto: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo, immediatamente aggiunge: invece, siccome non siete del mondo ma io vi ho scelti dal mondo, perciò il mondo vi odia (Gv 15, 19). Anch'essi dunque erano del mondo, e dal mondo furono scelti perché non ne facessero più parte. Furono scelti non per meriti derivanti da opere buone precedenti, perché non ne avevano; non per la loro natura, perché essa, a causa del libero arbitrio, era stata tutta viziata nella sua stessa radice; ma furono scelti gratuitamente, cioè per una vera grazia. Colui infatti che scelse il mondo dal mondo, non trovò ma formò ciò che voleva scegliere, perché un resto è stato salvato mediante l'elezione della grazia. E se è stato eletto per grazia, non lo è dunque per le opere, altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11, 5-6).
4. Se ci si domanda, poi, come il mondo della perdizione che odia il mondo della redenzione, riesca ad amare se stesso, possiamo rispondere che è vero, sì, che esso ama se stesso, ma di un amore falso, non vero. Il suo amore falso è un vero odio. Infatti chi ama l'iniquità, odia la propria vita (Sal 10, 6). Tuttavia si usa dire che ama se stesso, perché ama l'iniquità che lo rende iniquo; e, insieme, si dice che odia se stesso perché ama ciò che lo rovina. Odia quindi in sé la sua natura, e ama ciò che vizia la natura; odia ciò che è stato creato per bontà di Dio, ama ciò che è diventato per sua propria volontà. Ecco perché, se ce ne rendiamo conto, ci vien comandato e insieme proibito di amare il mondo; ci è proibito di amarlo quando ci vien detto: Non amate il mondo (1 Io 2, 15); ci è comandato invece di amarlo quando ci vien detto: Amate i vostri nemici (Lc 6, 27). I nostri nemici sono appunto il mondo che ci odia. Ci vien proibito quindi di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo ama, e ci viene comandato di amare nel mondo ciò che in se stesso il mondo odia, cioè l'opera di Dio e le innumerevoli consolazioni della sua bontà. Sebbene il mondo ami ciò che in sé vizia la natura e odi la natura, noi non dobbiamo amare in esso il vizio e dobbiamo amare, invece, la natura. Così facendo noi lo ameremo e lo odieremo nel modo giusto, mentre esso si ama e si odia in modo sbagliato.
Il che vuol dire che nei suoi discepoli è Cristo che viene perseguitato, è la sua parola che non viene osservata.
1.
Il Signore, esortando i suoi servi a sopportare pazientemente l'odio del mondo, non poteva proporre loro un esempio maggiore e migliore del suo, poiché, come dice l'apostolo Pietro: Cristo patì per noi, lasciandoci l'esempio, affinché ne seguiamo le orme (1 Pt 2, 21). E' certo, però, che non è possibile seguire il suo esempio senza il suo aiuto, tenendo conto appunto del suo avvertimento: Senza di me non potete far nulla. Insomma, ai discepoli ai quali prima aveva detto: Se il mondo vi odia sappiate che ha odiato me prima di voi, dice ora, come avete udito nella lettura del Vangelo: Ricordatevi della parola che vi dissi: Non c'è servo più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, anche la vostra osserveranno (Gv 15, 17 18 20). Dicendo: non c'è servo più grande del suo padrone, evidentemente ha voluto mostrare come dobbiamo intendere ciò che aveva detto in precedenza: Non vi chiamo più servi (Gv 15, 5 18 15). Ecco infatti che ora li chiama di nuovo servi. E' questo, e non altro, il significato della frase: Non c'è servo più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi. E' chiaro che quando diceva: Non vi chiamo più servi, si riferiva a quel servo che non rimane per sempre nella casa (cf. Gv 8, 35), dominato com'è dal timore che solo la carità può bandire (cf. 1 Io 4, 18). Mentre, ora che dice: Non c'è servo più grande del suo padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi, si riferisce a quel servo che è guidato dal timore casto, che rimane in eterno (cf. Sal 18, 10). E' questo il servo che si sentirà dire: Bravo, servo buono, entra nella gioia del tuo padrone (Mt 25, 21).2. Ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Gv 15, 21). Che cosa precisamente faranno? Tutto ciò di cui ha parlato: li odieranno, li perseguiteranno, disprezzeranno la loro parola. Perché, se si fossero limitati a non osservare la loro parola, senza odiarli e senza perseguitarli, oppure anche odiandoli, ma tuttavia senza perseguitarli, non avrebbero fatto loro tutto il male possibile. Dicendo, invece: Faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, non vuol dire altro che questo: in voi odieranno me, in voi perseguiteranno me, e non osserveranno la vostra parola perché è la mia. Faranno tutto questo contro di voi, infatti, a causa del mio nome; non a causa del nome vostro, ma del mio. Quanto più miserabili dunque sono quelli che fanno ciò a causa di questo nome, tanto più beati sono quelli che soffrono tutto ciò a causa di questo nome, secondo quanto egli stesso dice altrove: Beati quelli che soffrono persecuzione a causa della giustizia (Mt 5, 10). E soffrire a causa della giustizia è soffrire a causa sua, a causa del suo nome, poiché, come insegna l'Apostolo: Cristo è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, affinché, come è scritto, chi si vanta si vanti nel Signore (1 Cor 1, 30-31). Può accadere, è vero, che malvagi facciano soffrire dei malvagi, ma non a causa della giustizia: sono allora miserabili gli uni e gli altri, sia coloro che fanno soffrire sia coloro che soffrono. E anche i buoni talvolta fanno soffrire i malvagi: in tal caso, anche se i buoni lo fanno per la giustizia, i cattivi tuttavia non soffrono per la giustizia.
[A causa della giustizia, o dell'iniquità?]
3. Ma si dirà: Se, quando i cattivi perseguitano i buoni a causa del nome di Cristo, è per la giustizia che i buoni soffrono, dunque è per la giustizia che i cattivi li fanno soffrire; e se è così, quando i buoni perseguitano i cattivi per la giustizia, anche i cattivi, allora, soffrono per la giustizia. Se infatti i cattivi possono perseguitare i buoni a causa del nome di Cristo, perché non possono anche i cattivi soffrire persecuzione da parte dei buoni a causa del nome di Cristo, che è quanto dire per la giustizia? Perché, se i cattivi non soffrono per la medesima causa per cui i buoni agiscono, - i buoni agiscono per amore della giustizia, mentre i cattivi soffrono a causa della loro iniquità -, neppure i cattivi possono agire per il medesimo motivo per cui i buoni soffrono, perché i cattivi agiscono spinti dall'iniquità mentre i buoni soffrono a motivo della giustizia. Come potrà allora essere vero che faranno tutto questo contro di voi a causa del mio amore, dal momento che essi non agiscono per la causa del nome di Cristo, cioè per la giustizia, ma spinti dalla loro iniquità? Questa difficoltà si risolve facilmente, se queste parole: faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, si intendono riferite totalmente ai giusti; come a dire: Patirete tutto ciò da parte loro a causa del mio nome; sicché: faranno contro di voi, vuol dire: patirete da parte loro. E se la frase: a causa del mio nome si prende nel senso: a causa del mio nome che in voi odiano, si può prendere anche in quest'altro senso, e cioè: a causa della giustizia che in voi odiano. In questo caso si può dire con verità che quando per questa causa i buoni perseguitano i cattivi, lo fanno per la giustizia, per amore della quale li perseguitano, e per l'iniquità, che odiano in loro. E così si può dire che anche i cattivi soffrono per l'iniquità che in essi viene punita, e per la giustizia che attraverso la loro punizione viene esercitata.
4. Nel caso poi che i cattivi perseguitino i cattivi - come accade quando re e magistrati empi, intenti a perseguitare i fedeli, puniscono anche gli omicidi e gli adulteri, nonché ogni specie di malfattori e sovvertitori dell'ordine pubblico - in che senso sono da intendere le parole del Signore: Se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo (Gv 15, 19)? Di fatto il mondo, che solitamente punisce le colpe elencate sopra, non ama quelli che punisce solo perché ad esso appartengono sia coloro che puniscono tali colpe, sia coloro che tali colpe amano. Questo mondo, che si identifica con i malvagi e con gli empi, odia ciò che è suo in quanto colpisce i malfattori, ama ciò che è suo in quanto favorisce i malviventi. Dunque le parole: Faranno tutto ciò contro di voi a causa del mio nome, si possono intendere nel senso che è a causa del mio nome che voi soffrite tali persecuzioni; oppure nel senso che è a causa del mio nome che essi ve le faranno subire, perché è il mio nome che essi odiano in voi perseguitandovi. E il Signore aggiunge: perché non conoscono colui che mi ha mandato. Queste parole sono dette in ordine a quella conoscenza, a proposito della quale altrove sta scritto: Conoscere te, è sapienza consumata (Sap 6, 16). Coloro che hanno questa conoscenza del Padre, dal quale Cristo è stato inviato, assolutamente non possono perseguitare coloro che Cristo raccoglie; perché anch'essi insieme con loro vengono da Cristo raccolti.
Salutare per i credenti, la sua venuta è causa di perdizione per chi non crede in lui.
[Il peccato che li comprende tutti.]
1. Il Signore aveva detto ai suoi discepoli: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Gv 15, 20-21). Se ora cerchiamo di sapere a chi si riferiscono queste parole, vediamo che il Signore ha parlato così dopo aver detto: Se il mondo vi odia, sappiate che ha odiato me prima di voi (Gv 15, 18). Ciò che adesso aggiunge: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa (Gv 15, 22), si riferisce in modo più esplicito ai Giudei. Ai Giudei alludeva anche prima, come lo indica tutto il contesto del discorso, quando diceva: Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, anche la vostra osserveranno; ma faranno tutto questo contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. A tali parole aggiunge quest'altre: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa. Come il Vangelo ampiamente documenta, i Giudei hanno perseguitato Cristo; Cristo ha parlato ai Giudei, non ad altri popoli; in essi quindi ha personificato il mondo che odia Cristo e i suoi discepoli; non ha inteso dire che solo essi sono quel mondo, ma ha voluto mostrare che essi a quel mondo appartengono. Che significa allora: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa? Forse che i Giudei erano senza peccato prima che Cristo venisse a loro nella carne? Chi è tanto stolto da affermare una simile cosa? Con un termine generico vuole riferirsi ad un particolare peccato grave, non ad ogni e qualsiasi peccato. E infatti, questo è un peccato che impedisce la remissione di tutti gli altri, e senza del quale tutti gli altri possono essere perdonati. Esso consiste nel fatto che non hanno creduto in Cristo, che era venuto appunto perché gli uomini credessero in lui. Questo peccato i Giudei certamente non l'avrebbero, se egli non fosse venuto. Sicché la sua venuta quanto è stata salutare ai credenti, altrettanto è stata funesta a quanti in lui non hanno creduto. Di lui, che è il capo e il principe degli Apostoli, si può dire quanto gli Apostoli hanno detto di se stessi, che per certuni è un profumo che dalla vita conduce alla vita, e per certi altri è invece un profumo che dalla morte conduce alla morte (2 Cor 2, 16).
2. Però la frase che subito dopo aggiunge: Ma adesso non hanno scusa per il loro peccato (Gv 15, 22), può far sorgere una domanda: coloro ai quali Cristo non si è mostrato e ai quali non ha parlato, sono scusati per il loro peccato? Se non hanno scusa, perché qui il Signore dice dei Giudei che non hanno scusa appunto perché egli è venuto ed ha parlato loro? E se gli altri popoli sono scusati, lo sono al punto da evitare la pena o soltanto una pena severa? A questa domanda, con l'aiuto del Signore e secondo la mia capacità, rispondo dicendo che questi popoli sono scusati del peccato di incredulità nei confronti di Cristo, in quanto Cristo non si è presentato e non ha parlato loro, ma non sono scusati per tutti i peccati. Ma non fanno parte di questi, quei popoli che Cristo ha raggiunto nella persona dei discepoli, e ai quali per mezzo dei discepoli ha parlato. E' quanto egli fa al presente: per mezzo della sua Chiesa, infatti, raggiunge i popoli, e ad essi per mezzo della sua Chiesa rivolge la sua parola. E' in questo senso che ha detto: Chi accoglie voi accoglie me (Mt 10, 40); chi disprezza voi disprezza me (Lc 10, 16). Ecco perché l'apostolo Paolo può dire ai Corinti: Volete forse una prova del Cristo che parla in me? (2 Cor 13, 3).
3. Ci rimane da sapere se possono avere questa scusa coloro che sono morti o muoiono prima che Cristo per mezzo della Chiesa sia venuto a loro, e prima di aver udito il messaggio evangelico. Certamente sono scusati, ma non per questo possono sfuggire alla condanna. Quanti infatti hanno peccato senza la legge, senza la legge pure periranno; quanti invece hanno peccato avendo la legge, per mezzo della legge saranno giudicati (Rm 2, 12). Questa parola dell'Apostolo: periranno, suona più terribilmente dell'altra: saranno giudicati. Essa quindi sembra mostrare che questa scusa non solo non giova, ma aggrava la situazione. Coloro infatti che invocheranno la scusa di non aver udito, periranno senza la legge.
4. E' il caso di chiederci se coloro che hanno disprezzato o fatto resistenza a quanto hanno udito, e, non contenti di ciò, hanno anche perseguitato accanitamente quelli che hanno loro parlato, sono da annoverare tra coloro per i quali un po' meno severa è risuonata l'affermazione: per mezzo della legge saranno giudicati. Infatti, se una cosa è perire senza la legge e un'altra essere giudicati per mezzo della legge, ed una cosa è più grave e l'altra più leggera, è evidente che non sono da collocare tra quelli che subiranno una pena più lieve coloro che non solamente hanno peccato senza la legge, ma a nessun costo hanno voluto accogliere la legge di Cristo, e che anzi, per quanto è dipeso da loro, hanno cercato di distruggerla. Peccano invece nella legge coloro che hanno la legge, coloro cioè che l'accolgono e la riconoscono santa e riconoscono santi, giusti e buoni i comandamenti (cf. Rm 7, 12) ma che per debolezza non adempiono i precetti, della cui giustizia non possono assolutamente dubitare. Si potrebbe forse distinguere la loro sorte da quella di coloro che sono senza legge, se si potesse intendere l'affermazione dell'Apostolo: per mezzo della legge saranno giudicati, non nel senso che costoro non periranno; ma questa interpretazione sarebbe strana. Infatti qui l'Apostolo non parla di infedeli e di fedeli, ma di Gentili e di Giudei: gli uni e gli altri, se non saranno salvati dal Salvatore che è venuto a cercare ciò che era perduto (cf. Lc 19, 10), certamente andranno perduti. Si può tuttavia ritenere che alcuni periranno più gravemente degli altri, cioè subiranno pene più gravi. Perire, agli occhi di Dio, significa essere privato, in seguito alla condanna, della beatitudine che Dio concede ai suoi santi: e la diversità delle pene corrisponde alla diversità dei peccati. Tale diversità, comunque, è riservata all'insondabile giudizio della sapienza divina, e sfugge all'indagine e al giudizio dell'uomo. Certamente, coloro ai quali il Signore si è recato e ai quali ha rivolto la sua parola, non hanno scusa per il loro grande peccato d'incredulità, e non possono dire: Non l'abbiamo visto, non l'abbiamo sentito. Sia che tale scusante fosse stata accettata o respinta da colui i cui giudizi sono imperscrutabili, certamente, anche se non avrebbero evitato ogni condanna, avrebbero tuttavia subìto una condanna un po' più lieve.
5. Chi odia me odia anche mio Padre (Gv 15, 23). Qui forse ci si dirà: Come si fa a odiare uno che non si conosce? Difatti, prima di dire: Se io non fossi venuto e non avessi parlato ad essi, non avrebbero colpa, aveva detto ai suoi discepoli: faranno tutto ciò contro di voi, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Come possono dunque non conoscerlo e odiarlo? Se infatti credono che egli sia non ciò che è, ma un'altra cosa, si trovano a odiare, non lui, ma l'idea sbagliata che di lui si sono fatta. E tuttavia, se gli uomini non fossero capaci di tutt'e due le cose: ignorare e odiare il Padre suo, la Verità non avrebbe detto che essi non conoscono suo Padre e insieme lo odiano. Ammesso che sia possibile dimostrare come ciò avvenga, non è possibile farlo ora, perché questo discorso deve avere termine.
Non potevano cambiare la verità: avrebbero dovuto cambiare se stessi, e così avrebbero evitato di essere da essa condannati.
1.
Avete ascoltato il Signore che dice: Chi odia me odia anche il Padre mio (Gv 15, 23), mentre poco prima aveva detto: Vi faranno tutto questo, perché non conoscono colui che mi ha mandato (Gv 15, 21). E così nasce un problema che non possiamo trascurare: come si può odiare uno che non si conosce. Se infatti Dio non è ciò che essi si immaginano, non è Dio che odiano, ma l'idolo che hanno concepito nella loro fantasia menzognera e nella loro vana credulità; se invece si sono fatti di Dio un'idea giusta, perché il Signore dice che non lo conoscono? Trattandosi di uomini, accade spesso che noi amiamo uno che non abbiamo mai visto; così come accade il contrario: che noi odiamo uno che non abbiamo mai visto. Stando alle voci che in bene o in male corrono su qualche oratore, accade che noi amiamo oppure odiamo uno sconosciuto. Ma se la voce corrisponde a verità, come si può dire ignoto uno di cui possediamo informazioni sicure? Solo perché non abbiamo visto la sua faccia? Ma neppure lui può vedere la propria faccia, e tuttavia a nessuno è così noto come a se stesso. Non possiamo far dipendere la conoscenza di una persona dalla sua faccia, ma possiamo dire di conoscerla quando conosciamo la sua vita e i suoi costumi. Altrimenti uno non potrebbe conoscere neppure se stesso, se fosse necessario vedere la propria faccia. Al contrario, uno si conosce meglio di chicchessia, quanto più sicuramente con lo sguardo interiore riesce a vedere ciò che pensa, ciò che desidera, ciò che forma la sua vita; e quando anche noi veniamo a conoscere tutto questo, allora quell'uomo non è più per noi uno sconosciuto. E siccome il più delle volte è la fama o i libri che ci fanno conoscere gli assenti o i morti, accade spesso che noi amiamo oppure odiamo degli uomini che mai abbiamo visto in faccia, ma che non per questo ci sono sconosciuti.[Il segreto delle coscienze.]
2. Ma per lo più noi ci inganniamo sul conto delle persone conosciute in questo modo. Perché talvolta la storia, e ancor più le voci, mentiscono. Ora, siccome non possiamo indagare nella coscienza degli uomini, spetta a noi, se non vogliamo formarci delle opinioni errate, procurarci una conoscenza esatta e sicura delle cose. Cioè, anche se non riusciamo a sapere se uno è casto o impudico, possiamo tuttavia amare la castità e detestare l'impudicizia; e se non riusciamo a sapere se il tale è giusto o ingiusto, possiamo tuttavia amare la giustizia e odiare l'iniquità. Così facendo, non amiamo o odiamo delle false idee che ci siamo fatte noi, ma come ci si presentano nella verità di Dio, meritevoli di amore o di odio. Quando cerchiamo di evitare ciò che si deve evitare e desideriamo ciò che si deve desiderare, ci potrà essere perdonato, se, qualche volta, anzi quotidianamente, ci formiamo delle opinioni errate intorno agli uomini. Ciò fa parte, credo, della debolezza umana e che non ci può essere risparmiata nella vita presente, per cui l'Apostolo dice: Nessuna tentazione vi sorprenda, che non sia proporzionata all'uomo (1 Cor 10, 13). Cosa c'è infatti di più umano del non poter guardare dentro il cuore dell'uomo, e non poterne scrutare i segreti, farsi, anzi, un'idea generalmente diversa di ciò che realmente lì dentro si agita? Dal momento che in queste tenebre che avvolgono le cose umane, cioè i pensieri altrui, non possiamo, poiché siamo uomini, andare oltre le congetture, dobbiamo astenerci da qualsiasi giudizio ed evitare qualsiasi sentenza definitiva e perentoria, e non giudicare nessuno prima del tempo; cioè prima che venga il Signore, il quale illuminerà i segreti delle tenebre e svelerà i disegni dei cuori: allora ciascuno avrà da Dio la lode che si merita (cf. 1 Cor 4, 5). E' dunque una tentazione umana e perdonabile sbagliare quando si tratta di uomini; l'importante è non sbagliare circa le cose in sé, onde possedere una valutazione esatta dei vizi e delle virtù.
3. A causa di queste tenebre che avvolgono il cuore dell'uomo, si può verificare un fatto tanto sorprendente quanto increscioso. Può accadere che noi evitiamo, avversiamo, allontaniamo e rifiutiamo ogni contatto e relazione con uno che noi riteniamo colpevole, mentre invece non lo è e noi, senza saperlo, amiamo in lui la giustizia. Anzi, ritenendolo necessario, sia per impedirgli di nuocere agli altri sia per la sua correzione, lo trattiamo con salutare severità e facciamo soffrire quindi, come se fosse colpevole, quest'uomo buono che noi amiamo senza rendercene conto. Ciò accade, ad esempio, quando riteniamo impudico uno che è casto. Senza dubbio, se io amo un uomo casto, senza saperlo amo anche quest'uomo. E se odio l'impudico, vuol dire che io non odio lui, che non è ciò che odio; e tuttavia, senza saperlo, io commetto ingiustizia nei confronti del mio amico, con il quale tuttavia sono intimamente unito dal medesimo amore per la castità. Commetto questa ingiustizia, non perché sbaglio nel distinguere la virtù dal vizio, ma a causa delle tenebre che avvolgono il cuore umano. Sicché, come accade che una persona buona odi, senza saperlo, un'altra persona buona, o per meglio dire, la ami senza saperlo (infatti la ama amando il bene, perché questa persona è ciò che egli ama) e, quando la odia, non odia proprio questa persona, ma quella che giudica tale; così accade che un ingiusto odi un giusto e che, quando crede di amare un ingiusto come lui, senza saperlo ami il giusto, anche se, ritenendolo ingiusto, non ama lui ma ciò che ritiene sia lui. E quanto dico dell'uomo può applicarsi anche a Dio. Se infatti chiedessimo ai Giudei se amano Dio, certamente risponderebbero che lo amano senza per questo mentire, ma tuttavia sbagliando sul suo conto per una falsa idea che di lui si son fatta. Come possono infatti amare il Padre della verità se odiano la verità? Essi non desiderano certo che le loro azioni siano condannate, mentre la verità non può non condannarle. Essi dunque odiano la verità non meno delle pene che la verità deve infliggere alle loro azioni: non sanno che quella è la verità che condanna uomini come loro; e perciò odiano la verità che non conoscono, e, odiando la verità, non possono non odiare colui dal quale essa è nata. Ignorando che la verità, che con il suo giudizio li condanna, è nata da Dio Padre, non possono conoscere neppure il Padre, e tuttavia lo odiano. O miserabili uomini, che volendo essere cattivi, non vogliono che esista la verità che condanna i cattivi! Essi non vogliono che essa sia ciò che è, mentre dovrebbero piuttosto cercare di non essere ciò che sono, affinché, mutando loro e rimanendo essa immutabile, non debbano essere condannati dal suo giudizio.