L'esegesi biblica e la fede
P. ALBERT VANHOYE, S.J.
Professore del Pontificio Istituto Biblico (Roma).
Estratto da " SEMINARIUM ", A. XXXVII (1997), n.1
La questione dei rapporti tra l'esegesi biblica e la fede cristiana comprende una molteplicità di aspetti, più volte contrastanti. Anzitutto, ci sono diversi modi di fare esegesi, i quali non si trovano tutti nello stesso rapporto con la fede. D'altra parte, la fede stessa può essere più o meno illuminata e più o meno purificata. Tra l'esegesi patristica e la fede, i rapporti erano strettissimi e, in genere, molto positivi. A quei tempi, infatti, l'esegesi era tutta guidata dalla fede e destinata a nutrire la fede. Nondimeno, ci furono certe interpretazioni che fecero naufragare la fede di molti, al tempo, ad esempio, dell'arianesimo. L'esegesi scientifica moderna è molto meno legata alla fede, giacché essa viene praticata tanto da non credenti quanto da credenti e la preoccupazione di oggettività scientifica porta alcuni ad affermare che la fede non ci deve entrare. Altri però sono del parere che la fede aiuta l'esegesi scientifica a raggiungere meglio il suo scopo. Sicuramente, non ogni forma di fede è in grado di aiutare. Anzi, un certo modo di credere potrà ostacolare i progressi dell'esegesi, mentre un altro modo le sarà di grande utilità. Reciprocamente, una certa forma di esegesi potrà essere utile alla fede, mentre un'altra forma la metterà in pericolo.
Capita facilmente che la fede si senta minacciata dall'esegesi moderna, la quale adopera prevalentemente il metodo storico-critico. Essendo critico, tale metodo porta a mettere in dubbio molte cose e ha come risultato inevitabile quello di scuotere e perfino di scalzare completamente diverse convinzioni che sembravano far parte della fede. Lo studio critico del Pentateuco, ad esempio, ha dimostrato che questi cinque libri, quali li abbiamo, non sono l'opera di Mosè, ma contengono testi di diverse origini e di varie epoche. In modo analogo, lo studio critico dei vangeli ha dimostrato che essi non sono grandi racconti stesi ciascuno da un unico autore, il quale avrebbe riferito una testimonianza diretta di quanto Gesù aveva detto e fatto, ma contengono piuttosto una rassegna di piccole unità letterarie, provenienti dalla catechesi della Chiesa primitiva. Non è più possibile, quindi, fare la prova della storicità dei vangeli dicendo che sono l'opera di testimoni ben informati e perfettamente sinceri. La loro origine appare più complessa e la loro connessione con i fatti meno diretta.
Chi ha una forma di fede poco educata ritiene di conseguenza che l'esegesi rovini la fede e si sente in dovere di rifiutare le conclusioni degli studi esegetici e di gettare l'anatema sul metodo storico-critico. L'unica interpretazione accettata è allora quella " letteralista ". Non si tratta dell'interpretazione " letterale ", perché tutto lo sforzo del metodo storico-critico mira proprio a ben precisare il senso letterale dei testi, grazie a tutte le risorse della filologia, dell'analisi letteraria e della storia, tenendo conto, in particolare, dei generi letterari praticati all'epoca. Si tratta, invece, di una interpretazione " letteralista ", cioè quella che viene suggerita al lettore moderno unicamente dalla lettura del testo, senza nessuno studio metodico. Si pensa di proteggere così la fede.
Di per sé, la preoccupazione di proteggere la fede merita ogni lode. La fede, infatti, è il tesoro del credente, " ben più prezioso dell'oro " (1 Pt 1,7), o meglio ancora, essa è la fonte dalla quale sgorga tutta la vita spirituale. Proteggerla è quindi una necessità assoluta, un dovere irrinunciabile. Occorre, però, evitare di confondere fede e credenze secondarie. E' inevitabile che alla fede in Cristo siano associate diverse credenze, perché la mente umana è fatta in modo tale da provare sempre il bisogno di completare le sue conoscenze, forzatamente parziali, con opinioni più o meno congetturali. Queste opinioni diventano facilmente credenze, alle quali la mente attribuisce spontaneamente una certezza che non hanno. Non è poi tanto facile fare la distinzione tra queste credenze e la pura verità. Nel dominio delle conoscenze naturali, la sperimentazione scientifica serve proprio ad eliminare progressivamente le opinioni congetturali e a stabilire certezze ben fondate. Nel dominio della religione, la distinzione è meno facile, perché non si possono fare esperienze scientifiche in materia di fede, per il duplice motivo che la fede cristiana è anzitutto una relazione personale con Dio e che essa è nel contempo d'indole soprannaturale. Le relazioni tra le persone non si possono verificare scientificamente, ancora meno se si tratta di una relazione nell'ordine soprannaturale della grazia divina.
Nondimeno è necessario che la fede cristiana venga progressivamente distinta dalle credenze che l'accompagnano. Tale necessità si avvera nell'esistenza di ogni credente, che deve passare da una fede infantile a una fede adulta (cf. 1 Cor 3,1-2; Ef 4,13-14; Eb 5,12-14). La stessa necessità si è avverata nella vita della Chiesa attraverso i secoli.
La fede nella verità delle Scritture ispirate tende naturalmente alla loro interpretazione letteralistica. Se la Bibbia è Parola di Dio stesso, allora si pensa che ogni dettaglio del testo abbia un valore assoluto e indiscutibile. E' ritenuto blasfemo ogni tentativo di relativizzare qualsiasi affermazione del testo sacro. Se la Bibbia dice che Dio creò l'universo in sei giorni, il fedele ha il dovere di crederlo e quindi di rifiutare fermamente le teorie scientifiche che esprimono vedute diverse.
In realtà, la Bibbia stessa ci educa in molti modi a non dare un valore assoluto a tutte le sue affermazioni. Ricordiamo un esempio significativo: la differenza tra una dichiarazione divina semplice e una con giuramento. Nella sua fede, Filone di Alessandria attribuiva lo stesso valore assoluto a tutte le parole di Dio, che fossero accompagnate o meno da un giuramento. Scriveva: " Dio, quando parla, è sempre degno di fede, di modo che anche le sue semplici parole non differiscono per niente dai giuramenti, per quanto riguarda la fermezza " (De Sacrif., 93). " Tutte le parole di Dio sono dei giuramenti " (Leg. All. III, 4). Questo modo di pensare sembra, a prima vista, molto valido. Corrisponde alla convinzione dei fondamentalisti, secondo la quale è doveroso prendere sempre alla lettera tutto quanto sta scritto nella Bibbia.
La Bibbia stessa, però, insegna il contrario. L'Epistola agli Ebrei, in particolare, attira la nostra attenzione sulla grande differenza che esiste tra una parola divina non giurata e una giurata. Il giuramento conferisce a certe parole di Dio un valore " immutabile ", che le altre non possiedono (Ebr 6,13-18). Essendo stato appoggiato da un giuramento divino (Sal 110 [109], 4), il sacerdozio di Cristo è stabilito "per l'eternità", il che non era il caso per il sacerdozio levitico (Ebr 7,20-24), stabilito senza giuramento e quindi votato a un cambiamento (Ebr 7,11-12).
E' notevole la differenza tra una minaccia di castigo accompagnata da un giuramento e una che non lo è. Giona, ad esempio, riceve l'ordine di proclamare da parte di Dio: " Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta" (Giona 3,1-4). A giudicare dal tenore della frase, si tratta di una decisione divina ormai fissata. Nondimeno, i cittadini di Ninive intravedono una possibilità di far cambiare questa decisione, facendo penitenza. E il racconto dà ragione a loro, con grande dispiacere del profeta: "Dio cambiò parere" (Giona 3,10). Invece, la minaccia contro gli Ebrei riferita in Num 14,28-30 non poté essere scartata; si realizzò inesorabilmente, perché era stata appoggiata da un giuramento divino. A causa della loro grave mancanza di fede e di docilità, Dio aveva giurato che non sarebbero potuti entrare nella terra promessa. Cambiando atteggiamento, essi fecero un coraggioso tentativo (Num 14,40); invano, però. Dio non cambiò parere. Ciò che vale per le minacce, vale anche per le promesse e i doni. A Saul era stata data la dignità regale: " Ecco, gli aveva detto Samuele, il Signore ti ha unto capo sopra Israele suo popolo " (1 Sam 10,1). Ma non c'era stato un giuramento. Quando Saul si mostrò indocile, Samuele gli dichiarò: " II tuo regno non durerà " (1 Sam 13,14). Effettivamente, il regno di Saul terminò con la sua morte in una battaglia perduta (1 Sam 31) e la sua discendenza non poté conservare il potere. Il regno passò a Davide (2 Sam 5,1-5). Nel caso di questo re, Dio promise con giuramento di " stabilire per sempre la sua dinastia " (Salmo 89 [88], 4-5; cf. Salmo 132 [131], 11). Per questa ragione, la speranza nel regno del " Figlio di Davide " si mantenne sempre e Pietro, nel suo discorso di Pentecoste, riferendosi al giuramento divino, ne poté proclamare la realizzazione nella persona di Gesù risorto (Atti 2,30-36).
La Bibbia stessa, quindi, insegna al credente a non dare un valore assoluto ancor meno a tutte le affermazioni umane che essa contiene, ispirate che siano dallo Spirito Santo. Infatti, come ha dichiarato Giovanni Paolo II, " il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto ciò che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. [...]. Lungi dall'annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (Cf. 1 Cor 12,18.24.28). Quando si esprime in un linguaggio umano, egli non da ad ogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni ". Il Papa aggiungeva: "E' questo che rende il compito degli esegeti così complesso, così necessario... " (ibid.). Necessario proprio per l'approfondimento della fede. Per essere viva e autentica, la fede infatti deve rinunciare a una certa rigidità, che può avere l'apparenza della saldezza nella fede, ma che, in realtà, manifesta piuttosto una mancanza di fede, perché corrisponde a una ricerca di sicurezze materiali. II carattere storico della rivelazione cristiana fa sì che una certa flessibilità mentale è necessaria per accoglierla adeguatamente. Non c'è quindi incompatibilità tra fede e metodo storico critico. Al contrario, l'uso di questo metodo è richiesto dalla fede stessa, quando la cultura contemporanea ha raggiunto il livello corrispondente. Infatti, la fede di una persona è in pericolo, se le sue conoscenze in materia religiosa sono rimaste al livello della sua fanciullezza, mentre in altri campi si sono considerevolmente sviluppate. Si produce uno squilibrio, che può provocare gravi crisi. Essendo insufficientemente inculturata, la fede si trova come isolata in un angolo della mente e non è in grado di esercitare la sua azione illuminante e vivificante sull'insieme del pensiero e della vita. L'esegesi ben condotta aiuta la fede ad accogliere con più realismo la rivelazione di Dio nella storia e, in particolare, il profondo mistero dell'Incarnazione.
L'esegesi ben condotta, abbiamo detto. Infatti, non ogni tipo di esegesi aiuta la fede. L'esegesi razionalista, ad esempio, si oppone alla fede. II difetto, però, non proviene dal metodo scientifico adoperato, ma dai presupposti che gli sono uniti, dalla " precomprensione " con la quale vengono letti i testi. E' inevitabile che ogni esegeta si accosti ai testi biblici con una sua precomprensione personale. E' persino necessario Infatti, per poter capire un testo, bisogna avere qualche idea della materia trattata. Un cieco nato non è in grado di seguire un discorso che analizza le bellezze di un dipinto. Può darsi, tuttavia, che la pre-comprensione avuta non si accordi bene al messaggio contenuto nel testo In tal caso, di due cose, una o l'esegeta rinuncia a certi suoi presupposti per accogliere il testo o l'esegeta costringe il testo a corrispondere ai propri presupposti. Per l'esegeta razionalista, non possono prodursi miracoli. La Bibbia, invece, e il Nuovo Testamento con particolare insistenza affermano che Dio ha operato grandi miracoli. L'analisi scientifica dei testi conduce a riconoscere che contengono queste affermazioni. L'esegeta razionalista cerca tutti i mezzi per eliminare questi dati. Non vuole che Gesù sia stato concepito verginalmente, perché ritiene a priori che tale concepimento sia impossibile. Non vuole che Gesù sia risorto dai morti, perché ritiene impossibile una risurrezione. In questi casi e in tanti altri, è evidente che la prima preoccupazione non sia la docilità al testo, ma il mantenimento delle proprie idee.
Ci sono, naturalmente, molti casi più sfumati. Ciò che rende la situazione difficile è il fatto che, più volte, i metodi siano stati profondamente permeati, all'inizio da preconcetti estranei ai messaggi della Bibbia. Tale è stato, ad esempio, il caso del metodo chiamato in tedesco della " Formgeschichte " ossia della ricerca delle diverse forme letterarie (racconto paradigmatico, aneddoto, leggenda, controversie ecc.) e della loro evoluzione. In una conferenza celebre, tenuta a New York nel 1988 e pubblicata poi in diverse lingue , il Cardinale Ratzinger ha analizzato e criticato i presupposti di M. Dibelius e R. Bultman, pionieri della " Formgeschichte ": " priorità della predicazione rispetto all'evento " (p. 104), presupposto che scalza la realtà della storia della salvezza, " assioma " della " discontinuità ", che si oppone all'unità del Nuovo e Antico Testamento, nonché all'unità tra Nuovo e Antico Testamento (p. 105), " convinzione che solo ciò che è semplice è primitivo ", la quale traspone " il modello evoluzionista della scienza alla storia dello spirito " (p. 106) Diventa quindi manifesto che le conclusioni esegetiche di un Bultmann " non sono il risultato di constatazioni storiche, ma provengono da un insieme strutturato di presupposti sistematici" (p. 111). A chi adopera poi il metodo della " Formgeschichte " s'impone la necessità di liberare questo metodo da tali presupposti. Compito non facile!
Perché l'esegesi possa essere utile alla fede, bisogna che sia praticata nella fede. Questa esigenza può sembrare, a prima vista, incompatibile con il carattere scientifico del lavoro esegetico, che richiederebbe una oggettività assoluta. Ma non è così. Come abbiamo detto, l’interpretazione di un testo non si può fare senza una pre-comprensione di un genere o di un altro. L'ideale di oggettività delle scienze naturali non è applicabile alle scienze dello spirito, perché in queste ultime, ciò che è di primaria importanza, non è un oggetto, bensì il soggetto pensante e libero. Orbene, la Bibbia non è un testo razionalista o positivista, ma un insieme di testi che esprimono la fede nell'intervento di Dio nella nostra storia. Ne risulta che la pre-comprensione più adatta per l'interpretazione di questi testi è una pre-comprensione di fede, più precisamente la pre-comprensione di fede che si situa nella tradizione che ha dato origine a questi testi e non ha mai smesso di nutrirsene. Lungi dall'essere di ostacolo alla giusta interpretazione dei testi biblici, la fede è di grande aiuto per una comprensione più esatta e più completa. Mette l'esegeta " in continuità con il dinamismo ermeneutico che si manifesta all'interno stesso della Bibbia e che si prolunga poi nella vita della Chiesa. Corrisponde all'esigenza di affinità vitale tra l'interprete e il suo oggetto, affinità che costituisce una delle condizioni di possibilità del lavoro esegetico " .
La fede è utile all'esegesi in molti modi. Anzitutto, insegna all'esegeta un profondo rispetto per i testi ispirati. L'esegeta credente non avrà mai la pretesa di sostituire il testo biblico con una sua ricostruzione di un testo più primitivo o con un racconto proprio, ritenuto più esatto storicamente. Si metterà sempre, invece, al servizio del testo biblico, punto di partenza delle sue ricerche, punto di arrivo delle sue spiegazioni; cercherà di aiutare i lettori a capirlo meglio, a coglierne le sfumature e a gustarne la profondità.
La fede, inoltre, insegna una interna docilità ai testi della S. Scrittura e accetta quindi di essere illuminata e purificata. In questo, la fede si distingue dal dogmatismo, che si accosta ai testi con opinioni già fissate su tutti i punti e rifiuta di modificarle. La fede autentica sa di aver ancora molto da imparare dalla S. Scrittura, la quale le offre una ricchezza inesauribile. Accetta l'aiuto della ricerca scientifica per liberarsi da opinioni mal fondate e acquisire nuove conoscenze.
La fede, d'altra parte, si mostra esigente per gli studi biblici. Non accetta che si fermino a metà strada, accontentandosi di ricerche filologiche, letterarie e storiche sul piano umano. Richiede dall'esegeta un'apertura più larga, non soltanto intellettuale, ma anche spirituale, un'apertura alla Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha espresso chiaramente questa esigenza. Dopo aver affermato la necessità di studiare metodicamente gli aspetti umani dei testi biblici, tenedo conto, in particolare, dei generi letterari, la Costituzione Dei Verbum ha dichiarato che " la Sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta " (Dei Verbum, n. 12). La tentazione di chi usa il metodo storico-critico consiste nel voler rinchiudere il testo biblico in un significato troppo ristretto, determinato esclusivamente dalle circostanze della sua produzione. La fede mette in guardia contro questa tentazione, che impoverisce molto l'interpretazione. Un testo scritto ha sempre diverse potenzialità di senso, le quali si manifestano, quando viene trasferito in nuovi contesti esistenziali. Questo è ancora più vero della S. Scrittura, che è stata consegnata per iscritto al Popolo di Dio per illuminare il suo cammino attraverso le circostanze più diverse. Quindi, " per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi ", non basta " che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo intese esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura ", egli deve inoltre " badare con non minore diligenza al contenuto e alla unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede " (Dei Verbum n. 12). Il compito dell'esegesi cattolica è quello di scoprire sempre meglio, con maggiore esattezza e maggiore pienezza, il contenuto ricchissimo della Parola di Dio scritta. " A tal fine, è evidentemente necessario che lo stesso esegeta percepisca nei testi la parola divina, e questo non gli è possibile se non nel caso in cui il suo lavoro intellettuale venga sostenuto da uno slancio di vita spirituale ".
I rapporti tra l'esegesi e la fede sono dunque complessi. Può capitare che siano di forte tensione, anzi di contrapposizione mutua, se l'esegesi parte da presupposti contrari alla fede o se la fede, rimasta infantile, non è in grado di integrare le conclusioni di una sana esegesi. Ma in linea di massima, i rapporti dovrebbero essere armonici, unendo tuttavia all'aspetto dell'aiuto reciproco quello dell'esigenza reciproca. A dire il vero, anche l'esigenza è un modo di aiutare, più utile di molti altri. La fede aiuta l'esegesi a interpretare correttamente la Scrittura ispirata, senza lasciarsi " sballottare dalle onde e portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina " (Ef 4,14). D'altra parte, la fede esige dall'esegesi uno studio in profondità del messaggio principale dei testi biblici, che è un messaggio religioso. Dal canto suo, l'esegesi aiuta la fede a raggiungere meglio la realtà dell'intervento di Dio nella storia ed esige che la fede progredisca e si purifichi, liberandosi dalle opinioni mal fondate. L'aiuto reciproco e l'esigenza reciproca assicurano alla fede e all'esegesi un dinamismo vitale, senza il quale la fede rischierebbe di diventare languida e l'esegesi vuota.