Roma, 29 settembre – Bruno Forte - Italiano

La Cristologia oggi: gli sviluppi a partire dal Vaticano II

e le caratteristiche emergenti

Sono ormai passati vent’anni da quando, nel 1981, uscì il mio volume Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia. Saggio di una cristologia come storia, più volte ristampato e tradotto in varie lingue. Esso si situava al culmine di un decennio che era stato molto fecondo per la riflessione cristologica cattolica e aveva espresso opere magistrali come quella dell’attuale Cardinale Walter Kasper, Gesù il Cristo (uscita nel 1974 in tedesco e pubblicata in numerose lingue ed edizioni) o come l’ampia produzione del gesuita Jean Galot, professore alla Gregoriana. Gli anni Ottanta hanno ugualmente conosciuto una riflessione feconda sul Cristo, caratterizzata specialmente dall’approfondimento trinitario della cristologia, di cui sono testimonianza il volume dello stesso Kasper, Il Dio di Gesù Cristo (1982), la rilevante sintesi di Marcello Bordoni, Gesù di Nazaret. Presenza, memoria, attesa, pubblicata nel 1988 (di cui è un ideale seguito il saggio La cristologia nell’orizzonte dello Spirito, uscito nel 1995), come pure il mio libro Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano (1985). Negli stessi anni si situano diversi interventi della Commissione Teologica Internazionale sul tema: se il documento intitolato Alcune questioni riguardanti la cristologia (1979) si pone a conclusione del "decennio cristologico" della teologia cattolica postconciliare, altri testi escono negli anni Ottanta, come quello su Teologia, cristologia, antropologia (1981) e quello su La coscienza che Gesù aveva di se stesso e della sua missione (1986), mentre negli anni Novanta vengono pubblicati due documenti significativi circa il rapporto fra cristologia e destinazione universale alla salvezza, il primo dedicato ad Alcune questioni sulla teologia della Redenzione (1995), il secondo su Il Cristianesimo e le religioni (1996), teso a chiarificare la questione della singolarità di Gesù Cristo, decisiva per un corretto sviluppo del dialogo con le altre religioni. In tal senso si pone ugualmente la Dichiarazione Dominus Jesus, della Congregazione per la Dottrina della Fede, pubblicata nell’anno giubilare anche con l’intento di proporre una solenne professione di fede in Colui che è in persona la verità, che libera e salva, Gesù il Cristo.

Lo stesso magistero di Giovanni Paolo II ha presentato sin dall’inizio una marcata caratterizzazione cristologico - trinitaria: il ciclo portante è rappresentato dalle tre Encicliche Redemptor Hominis (1979), dedicata al Figlio, Dives in misericordia (1980), consacrata a Dio Padre, e Dominum et vivificantem (1986), sulla persona e l’opera dello Spirito Santo. La struttura cristologico - trinitaria ritorna significativamente nell’itinerario proposto per la preparazione al grande giubileo del 2000 nella Tertio Millennio Adveniente (1994). Su questa nota teologica di fondo si può dire che si accordi tutto il resto degli insegnamenti di questo pontificato: dalla riflessione sull’antropologia, presentata nelle tre Encicliche menzionate, oltre che nella Laborem exercens del 1981, sulla dignità del lavoro umano, e nella Lettera apostolica sulla donna Mulieris dignitatem del 1988; a quella sulla morale, proposta nella Veritatis splendor del 1993, nella Evangelium vitae del 1995, e nelle Encicliche sulla questione sociale, Sollicitudo rei socialis del 1988 e Centesimus annus del 1991; a quella sull’ecclesiologia, delineata alla luce della singolarità del Redentore e della comunione trinitaria nella Redemptoris Missio del 1991, nella Slavorum Apostoli del 1985, sull’Oriente cristiano, e nella Ut unum sint del1995 sull’ecumenismo. Un ruolo singolare riveste poi la riflessione sulla Madre del Signore, offerta nella Redemptoris Mater del 1987, dove i diversi aspetti del mistero cristiano sono colti nella densa icona di Colei, in cui tutto è rimando all’opera del Dio trinitario e alla sua gloria, al servizio della missione del Figlio eterno fatto carne nel suo seno verginale.

In questo vasto apporto offerto alla cristologia dalla riflessione teologica e dal magistero della Chiesa dal Vaticano II ad oggi è possibile discernere alcune linee portanti, che mostrano come il superamento del manuale scolastico preconciliare "De Verbo Incarnato" si sia pienamente compiuto a favore del recupero del fondamento biblico dell’intelligenza della fede, della rilevanza soteriologica del messaggio sul Cristo e della sua centralità per l’esatta comprensione di tutti gli altri aspetti della teologia e della prassi cristiana. Sono tre le linee in cui si potrebbero riassumere le caratteristiche degli sviluppi della cristologia in questi decenni: si tratta di una cristologia a) più propriamente trinitaria, b) più marcatamente storica, e c) decisamente pasquale, proiettata a confessare la singolarità del Crocifisso - Risorto per la salvezza del mondo.

a) Una cristologia trinitaria: la rivelazione di Dio in Gesù Cristo

Nella vicenda terrena di Gesù di Nazaret può essere riconosciuta la rivelazione della storia del Dio con noi, al tempo stesso in cui la sua resurrezione ci manifesta Lui come Dio della storia, redentore di tutto l’uomo in ogni uomo. Ogni atto della sua esistenza terrena, in quanto storia del Figlio che ha posto le sue tende in mezzo a noi, coinvolge l’intera vita trinitaria, implica cioè una relazione al Padre nello Spirito Santo. La resurrezione attesta che i due soggetti della "storia" divina che non si sono incarnati, il Padre e il Paraclito, non sono rimasti spettatori estranei delle opere e dei giorni del Verbo nella carne: essi li vivono con Lui, ciascuno secondo la specifica relazione, che lo caratterizza come quella persona e non un’altra. Perciò, a partire da Pasqua si può dire che tutta la storia di Gesù è rivelazione della storia trinitaria di Dio, trasparenza mondana del porsi e proporsi dei Tre nelle varie relazioni che li uniscono e hanno col mondo. In Gesù si rivela contemporaneamente il volto trinitario di Dio e il rapporto del mondo al Padre, mentre è manifestato e donato lo Spirito della comunione trinitaria e della riconciliazione fra Dio e gli uomini. Si comprende allora come una teologia, che trascuri il legame permanente di ogni asserzione cristologica al mistero trinitario, secondo un divorzio di orizzonti purtroppo frequente nella manualistica preconciliare, si risolva da un lato in una cristologia astratta, arida e concettuale, dall’altro in una dottrina trinitaria speculativa, poco aderente al concreto rivelarsi del Dio trinitario nell’economia della salvezza. Recuperare la dimensione trinitaria della storia di Gesù è la via offerta alla conoscenza della fede per aprirsi alle profondità di Dio, e farsi di Lui un’idea autenticamente cristiana e non intellettualistica, aliena dal confronto con lo scandalo della Croce e con la luce di Pasqua.

L'approfondimento trinitario dell’incarnazione del Verbo mostra come la Parola incarnata rimandi al Silenzio dell'origine, alla profondità da cui eternamente proviene e presso cui è eternamente: il Dio fattosi visibile al Dio invisibile, il Figlio al Padre. Come afferma Ignazio di Antiochia il Padre "si è rivelato attraverso il suo Figlio Gesù Cristo, che è il suo Verbo procedente dal Silenzio" (Ad Magn. 8,2). La parola di rivelazione, che è il Cristo, richiede allora di essere "trascesa", non nel senso che possa essere eliminata o messa in parentesi, perché questo precluderebbe semplicemente ogni accesso alle profondità divine, ma nel senso che essa è verità e vita proprio in quanto è via (cf. Gv 14,6), soglia che schiude sul Mistero eterno, porta per la quale è necessario passare per entrare nell'ovile delle pecore (cf. Gv 10,7), luce venuta nelle tenebre per essere la luce, in cui vedremo la luce (cf. Gv 1,9 e Sal 36,10). Grazie alla dialettica trinitaria di Parola e Silenzio, di apertura e di nascondimento, nell'evento di rivelazione la trascendenza divina non è consegnata all'immanenza del mondo e la forma storica dell’auto-comunicazione divina rinvia all’inesauribile eccedenza del mistero santo.

Questa struttura dialettica della rivelazione è segnalata nella stessa parola latina "revelatio", considerata nel suo significato etimologico (come si potrebbe dire analogamente della parola greca "apokalupsis"): il prefisso "re-" ha tanto il senso della ripetizione dell'identico (come in "re-sumo"), quanto quello del passaggio alla condizione opposta (come in "re-probo"). "Re-velare" viene pertanto a dire l'atto del passaggio dal velato allo scoperto, lo svelamento del precedentemente nascosto, ma non esclude mai del tutto un permanere del velo, anzi perfino un suo infittirsi. Questo gioco dialettico è perduto nel tedesco "Offenbarung, offenbaren", dove ciò che viene all'idea è solo l'atto dell'aprirsi, e perciò la condizione dell'aperto e manifesto: in tal senso l'interpretazione hegeliana della rivelazione come totalmente espressiva e costitutiva del Dio che si manifesta risulta coerente con l'etimologia della parola tedesca. Solo una cristologia costruita sulla "re-velatio Dei" - dialetticamente intesa - rispetta l’originario carattere trinitario della rivelazione: occorre allora orientarsi con decisione verso una cristologia sempre più "teologica", e dunque sempre più "trinitaria", tale da educare ad ascoltare nella Parola il Silenzio da cui proviene ed a cui schiude, e perciò nel Verbo incarnato la rivelazione del Padre e dello Spirito Santo.

Afferma San Giovanni della Croce: "Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima" (Sentenze. Spunti di amore, n. 21). Accogliere la Parola ascoltando in essa il divino Silenzio è permanere nel santuario dell'adorazione, lasciandosi amare dal Dio silenzioso ed attrarre a Lui attraverso l'insostituibile e necessaria mediazione del Verbo: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14,6). Qui si comprende come una cristologia nell'orizzonte della fede sia profondamente radicata nell’esperienza credente del Dio vivente della rivelazione biblica, e perciò nella spiritualità dell'ascolto, nutrita di preghiera. In questa luce, separare cristologia e spiritualità vuol dire privarsi dell'orizzonte necessario per obbedire veramente alla parola rivelata ascoltando in essa il Silenzio fontale, da cui essa viene ed a cui apre. Ritrovare l'unità di pensiero cristologico e di vissuto credente, al di là delle secche introdotte anche nella teologia dal razionalismo della modernità, vuol dire ritornare alla condizione ermeneutica originaria e costitutiva del pensiero della fede.

Parimenti, si coglie qui l'urgenza che la riflessione cristologica si situi all'interno della vivente trasmissione ecclesiale della Parola, che di testimone in testimone e di obbedienza in obbedienza fa giungere fino a noi l'acqua della vita. Una cristologia che si separasse dalla tradizione viva della fede della Chiesa - specialmente da quella custodita entro la "soglia", che è la definizione dommatica - muoverebbe verso avventure improprie, dubbie e inconsistenti. Ciò non ha nulla a che vedere con una teologia bloccata dalla definizione dommatica (una "Denzinger-Theologie", come si dice!), è anzi condizione di vitalità del pensiero credente, chiamato a render ragione della speranza fondata sulla verità della fede: lungi dall'essere meccanica ripetizione di ciò che è morto, la tradizione è vita che trasmette la vita. La rivelazione di Dio in Cristo suscita il popolo dei pellegrini della fede chiamato a trasmettere a tutte le generazioni la memoria dell'Eterno, legata al testo della Scrittura ispirata, ma anche al contesto dell'annuncio e della prassi credente, in cui lo Spirito opera per condurre la Chiesa verso la pienezza della verità divina. Una cristologia nell'orizzonte della fede è pertanto non solo biblicamente fondata e nutrita di vissuto spirituale, ma anche ecclesialmente responsabile e attenta a superare le avventure della soggettività nell'oggettività della "fides Ecclesiae", ricevuta e trasmessa.

b) Una cristologia storica: la circolarità fra il Gesù della storia e il Cristo della fede

La seconda caratteristica che presenta lo sviluppo della riflessione cristologica a partire dal Vaticano II è di essere una cristologia storica: il ritorno alle fonti sancito dal Concilio ha significato per la riflessione su Cristo una rinnovata attenzione alla storia concreta del Nazareno, narrata dai Vangeli, e quindi ai cosiddetti "misteri" della sua vita, accostati con un solido metodo storico-critico. Nella sua vera e piena umanità Gesù Cristo è rivelazione di Dio: qui si fonda l’esigenza di raggiungere attraverso i tratti del Gesù storico la profondità del mistero che in essi si offre. Non si tratta di narrare un’ennesima storia di Gesù, in cui proiettare più o meno ampiamente gli interrogativi e la sensibilità del presente, né, tanto meno, di tentare un’analisi psicologica della personalità del Nazareno, che sarebbe del tutto arbitraria, dati gli elementi a nostra disposizione. Si tratta di investigare nei "mysteria vitae Jesu" le dimensioni dell’umano, che in essi si manifestano, e attraverso cui passa la rivelazione del Dio vivente, leggendo nella storia il "kerygma" e nel "kerygma" la storia, cogliendo cioè in pienezza la feconda circolarità attestata nel Nuovo Testamento fra il Gesù storico e il Cristo pasquale. Si tratta di ricostruire la storia della coscienza e della libertà dell’uomo Gesù, come l’esperienza della sua finitudine, vissuta conoscendo di persona il dolore e la morte, nella convinzione fondata nella luce di Pasqua che tutto ciò che viene alla vera e piena umanità del Salvatore, viene tolto alla rivelazione della sua divinità.

In Gesù di Nazaret si offre il volto umano di Dio: ogni suo gesto, ogni aspetto della sua condizione umana, ogni istante della sua vicenda terrena è apparizione di Dio tra gli uomini e va perciò valorizzato dalla fede e dalla riflessione cristiana. L’amore tenerissimo di tanti santi all’umanità del Salvatore, l’attenzione al "Dominus humanissimus" che è parsa troppo spesso estranea alla teologia degli ultimi secoli (è da Suarez in poi che si abbandona la trattazione dei "mysteria vitae Jesu" nell’articolazione del "De Verbo incarnato") e familiare alla sola pietà cristiana, coglie un aspetto profondo del paradosso cristiano. Dio non fa concorrenza all’uomo in Gesù di Nazaret: al contrario, l’umano è pienamente assunto e valorizzato nella storia del Figlio dell’uomo, come veicolo efficace, "sacramento" del Figlio eterno entrato in questo mondo. Si comprende perciò quanto siano poco cristiane quella teologia e quella pietà che trascurino la concreta vicenda storica del Salvatore, in tutto il realismo e perfino lo scandalo che la caratterizza. In tal senso, appare preziosa la dottrina tradizionale della causalità strumentale dell’umanità di Cristo, in forza della quale Tommaso ha dedicato alla concreta vicenda del Nazareno un’attenzione teologica di singolare ricchezza: "Tutte le cose che furono compiute nella carne di Cristo furono salutari per noi in virtù della divinità ad essa unita" (Compendium Theologiae 239). L’agire di Gesù è come una parabola vivente dell’azione di Dio!

La maggiore attenzione all’umanità del Redentore comporta anche una rinnovata sensibilità della teologia verso le esigenze della sequela: narrare criticamente la vita del Gesù storico significa lasciarsi coinvolgere nella "imitazione" di Lui, della Sua opzione fondamentale per il Regno di Dio, delle sue scelte di libertà a favore degli ultimi, del Suo amore al Padre spinto fino all’oblio di sé. La sequela non è semplice riproduzione di un modello: se così fosse, resterebbe inaccessibile alle nostre forze. Essa può compiersi e si compie solo nello Spirito Santo: lo Spirito è rispetto alla Parola come il silenzio dell'accoglienza attualizzante, da cui scaturisce l'eloquenza spesso silenziosa della testimonianza (cf. Gv 15,26s): "Chi possiede realmente la parola di Gesù, - afferma Sant’Ignazio di Antiochia - può percepire anche il suo silenzio, affinché sia perfetto, affinché operi attraverso le cose di cui parla e, attraverso quelle di cui tace, sia riconosciuto" (Ad Eph. 15,1-2). L'azione dello Spirito nella storia, riconosciuta ed accolta mediante il discernimento della fede, viene ad esprimersi soprattutto nella carità, in quella forza dell'amore veniente da Dio per la quale la comunità cristiana raccoglie la sfida dei segni del tempo, si fa solidale con il prossimo concreto e lo serve nella causa della sua promozione più piena e perciò della liberazione da tutto quanto offende la dignità dei figli di Dio. Su questa via si schiude agli occhi della fede la misteriosa presenza del Signore nella più grande varietà delle situazioni umane: Cristo si nasconde nei poveri, negli affamati, negli assetati, negli emarginati e sofferenti, nei bambini sfruttati, nelle donne calpestate, negli ultimi (cf. Mt 25,31ss). Chi alla fame e sete di tutti costoro risponde con amore libero e liberante, diviene vangelo vivente, Parola scritta dallo Spirito non più su tavole di pietra, ma nella carne dei nostri cuori (cf. 2 Cor 3,3).

La presenza di Cristo all'oggi di dolore e di lacrime si fa così riconoscibile in chi ama in suo nome: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Nell'amore del prossimo si rivela l'amore di Dio: "Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1 Gv 4,20). In questo amore Cristo si fa presente nel Suo Spirito e dice le Sue parole di vita eterna. L'altro è nello Spirito un sacramento dell'incontro col Signore Gesù: luogo dell'avvento, appuntamento di salvezza (cf. Mt 25,31ss). Una cristologia che non si misuri sulle urgenze della carità e della giustizia e non offra ragioni per vivere l'esodo da sé nella sequela del Figlio nella carne, si snatura in esercizio della ragione esposto a tutti i possibili rischi della cattura ideologica. Le "cristologie della prassi" (cristologie della liberazione, cristologie politiche, cristologie della speranza e dell'"éschaton") mostrano qui sia i loro rischi, che il loro potenziale positivo, tanto più recepito e sviluppato quanto più interpretato e vissuto alla luce dell'azione dello Spirito nella comunione della Chiesa. Una cristologia più "militante" - soprattutto sul piano della carità e dell'impegno per la giustizia per tutti e il rispetto del creato voluto da Dio - sembra dunque richiesta dallo stesso sforzo di situare correttamente la riflessione sulla sequela del Nazareno all'interno della missione dello Spirito.

c) Una cristologia pasquale: la singolarità di Gesù Cristo e la salvezza del mondo

La terza caratteristica che emerge dagli sviluppi della cristologia nel post-concilio è quella legata al dialogo e al confronto con le religioni: si tratta di una cristologia pasquale, chiamata a testimoniare la singolarità di Gesù Cristo rispetto a tutte le possibili vie di accesso al mistero della divinità e alla salvezza eterna degli uomini. La fede neotestamentaria non esita ad indicare nell’"evento Cristo" il luogo dove è possibile incontrare in pienezza l’auto-comunicazione divina: Gesù non solo parla le parole di Dio, ma è la Parola di Dio, il Verbo eterno divenuto carne, che comunica se stesso e apre l’accesso all’esperienza vivificante delle profondità divine nel dono dello Spirito. Su questa convinzione si fonda la coscienza del cristianesimo di essere portatore di un messaggio universale, rivolto a tutto l’uomo in ogni uomo. Ed è nella luce di essa che per i discepoli di Cristo si precisano le condizioni di possibilità e i criteri di discernimento dell’eventuale presenza dell’auto-comunicazione divina nelle altre religioni e del dialogo con esse.

Afferma l’Enciclica Redemptoris Missio (1990): "Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo, volendo loro comunicare la pienezza della sua rivelazione e del suo amore; né manca di rendersi presente in tanti modi non solo ai singoli individui, ma anche ai popoli mediante le loro ricchezze spirituali, di cui le religioni sono precipua ed essenziale espressione, pur contenendo lacune, insufficienze ed errori" (55). Le religioni si offrono, dunque, non soltanto come espressioni dell’auto-trascendenza dell’uomo verso il Mistero santo, ma anche come possibili luoghi dell’auto-comunicazione divina: è ancora l’Enciclica ad affermare che per coloro che "non hanno la possibilità di conoscere o di accettare la rivelazione del Vangelo e di entrare nella Chiesa", perché "vivono in condizioni socio-culturali che non lo permettono, e spesso sono stati educati in altre tradizioni religiose", la salvezza di Cristo "è accessibile in virtù di una grazia che, pur avendo una misteriosa relazione con la Chiesa, non li introduce formalmente in essa, ma li illumina in modo adeguato alla loro situazione interiore e ambientale. Questa grazia proviene da Cristo, è frutto del suo sacrificio ed è comunicata dallo Spirito Santo: essa permette a ciascuno di giungere alla salvezza con la sua libera collaborazione" (10). L’Enciclica precisa che "la presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni... È lo Spirito che sparge i "semi del Verbo", presenti nei riti e nelle culture, e li prepara a maturare in Cristo" (28).

In questa luce, è legittimo ritenere che le religioni non cristiane contengano elementi autentici dell’auto-comunicazione divina, il cui discernimento è possibile per i discepoli di Cristo alla luce del criterio che è la rivelazione compiutasi in Lui: si comprende perciò come non possa essere condivisa una valutazione puramente negativa dei mondi religiosi non cristiani e dei loro testi sacri, legata ad un preteso ’"esclusivismo" fondato sull’identificazione assoluta fra Chiesa e Regno (come è ad esempio nella posizione di Karl Barth). Né si può - in direzione opposta - accettare il pluralismo indiscriminato di alcune teologie delle religioni, che vanificano l’assolutezza del cristianesimo e ignorano le lacune e resistenze delle altre esperienze religiose, con l’intento di prender le distanze dall’insistenza sulla superiorità o definitività di Cristo per muoversi verso il riconoscimento dell’indipendente validità di altre vie (com’è nella concezione di teologi quali John Hick e Paul F. Knitter). Fra questi orientamenti contrapposti occorre perseguire il discernimento che - senza rinunciare a proclamare la grazia e lo scandalo singolari della buona novella - riconosca l’azione dello Spirito orientata alla luce del Verbo dovunque essa si renda presente: "Quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica e non può non avere riferimento a Cristo, Verbo fatto carne per l’azione dello Spirito" (Redemptoris Missio, 29).

Un simile riconoscimento non vanifica in alcun modo il dovere missionario del discepolo di Cristo, lo motiva anzi ancora di più, perché senza il criterio costituito dalla singolarità del Signore Gesù e del Suo Vangelo non sarebbe neanche possibile per il cristiano discernere e apprezzare i valori contenuti nelle altre religioni e nei loro libri sacri e lo stesso valore dell’esperienza religiosa in essi offerta. "Anche se la Chiesa riconosce volentieri quanto c’è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del buddismo, dell’induismo e dell’islam - riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini -, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo, che è "la via, la verità e la vita"" (Redemptoris missio, 55). Perciò, il dialogo con le altre religioni "deve essere condotto e attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza" (ib.). Né questo dialogo - in quanto congiunto al dovere della proclamazione della verità evangelica - è da ritenersi strumentale, poiché coniuga la fedeltà irrinunciabile all’identità del discepolo di Cristo al riconoscimento dei "semina Verbi" ovunque presenti, che proprio da quella fedeltà è reso possibile.

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Una cristologia più teologica; una cristologia più storica; una cristologia più capace di coniugare queste due dimensioni nella confessione della singolarità di Gesù Cristo, che fonda al contempo l’urgenza della proclamazione della buona novella e la necessità del dialogo con l’altro, chiunque sia e da qualunque parte venga. È questa la triplice istanza che sembra emergere dagli sviluppi della riflessione cristologica postconciliare: un’istanza che fa eco alla permanente esigenza della fede in Cristo di confessare in Lui l’unione dell’umano e del divino senza confusione o mescolanza, senza divisione o separazione (cf. il Concilio di Calcedonia del 451). Si tratta di sviluppare una riflessione di fede che unisca la fedeltà alla terra e la fedeltà al cielo, la fedeltà al mondo presente e quella al mondo che deve venire, come è avvenuto una volta per sempre in Colui che è l’Alleanza in persona. A Lui si rivolge perciò l’invocazione del teologo - unita a quella di tutta la Chiesa - perché il "logos" della fede pensosa si unisca all’"hymnos" della fede adorante, che ascolta, celebra, proclama e vive il Mistero rivelato in Lui, il Verbo venuto fra noi, sulla cui sequela abbiamo giocato tutta la nostra vita.