Sac. Mario Marini, Celibato Ecclesiastico e Fraternità Sacerdotale

Schema di due conversazioni per l'Istituto "Sacrum Ministerium"

(della Congregazione per il Clero), lunedì 21 gennaio 2002.

 

Schema Generale.

Non è mia intenzione di presentare qui un'esposizione dottrinale sul Celibato Sacerdotale, ma più semplicemente partire da una constatazione, che cioè il Celibato Sacerdotale è una realtà largamente vissuta nella Chiesa contemporanea, così come è stata una realtà vissuta lungo i venti secoli della fede cristiana, fino da quando fu una realtà vissuta della vita stessa del Signore Gesù e dei suoi discepoli.

Potrebbe perciò risultare interessante di riflettere su come esso viene vissuto nelle sue motivazioni esistenziali - e perciò essenziali - al di là delle inevitabili deficienze proprie a tutte le realtà incarnate dagli uomini.

Testimonianza leggibile di questa realtà vissuta la si potrebbe avere almeno da due fonti :

1) il Magistero della Chiesa, che fa eco alle situazioni del tempo, alla passione vivente dei sacerdoti, alla tradizione cristiana ed all'insegnamento evangelico.

(Il Cardinale Martini, nella precisazione sui "travisamenti dei mass media" ad una sua intervista dell'otto marzo 1995, affermava infatti espressamente che le ragioni pastorali e spirituali del collegamento del legame del celibato col sacerdozio sono "di natura evangelica").

 

2) l’esperienza vitale dei sacerdoti, sia per quanto si possa riferire alle situazioni confortanti, sia per quanto si possa riferire alle situazioni di crisi:

a) circa le situazioni confortanti si potrebbero annotare vari elementi:

un aumento molto rimarchevole delle vocazioni sacerdotali in America Latina, Africa ed Asia, cioè proprio dove solo alcuni anni fa si sottolineava una situazione di stallo e regresso delle vocazioni per giustificare un ripensamento della prassi celibataria della Chiesa Latina.

 

- l’eccellente qualità umana e spirituale sia di tali vocazioni, che dei giovani sacerdoti: generalmente si tratta di una generazione nuova di preti, dal tono conciliare ed evangelico, con grandissima sensibilità alla missione ed anche dotata di umana benevolenza e cordialità, oltreché molto impegnata sia dal punto di vista della preparazione intellettuale che dal punto di vista della preparazione spirituale.

- si potrebbe aggiungere che il vistoso aumento delle vocazioni sacerdotali nel terzo mondo, è avvenuto in coincidenza con una circostanza fortemente riduttiva, che lo rende perciò più significativo.

Cioè l'area di provenienza delle vocazioni sacerdotali si è ristretta, a seguito della tacita e diffusa nuova prassi di ricevere, in seminario, solo giovani con una età almeno ultra-puberale: 17-18 anni, post- "secondaria" come studi.

Alcuni vescovi, in vari Paesi, stanno rivedendo questa prassi recente, che - oltre ad evidenti vantaggi - comporta uno svantaggio troppo grande e probabilmente inaccettabile: di escludere cioè, di fatto, dall'accesso all'Ordinazione Sacerdotale grandi aree del popolo di Dio e cioè le aree più povere, rurali ed urbane-marginali.

I giovani di tali aree, nel terzo mondo, non infrequentemente - proprio per ragioni di povertà e di emarginazione - non possono avere accesso alla formazione scolastica secondaria, e quindi di fatto non sono nelle condizioni previste per potere accedere al seminario.

Invece proprio quelle aree del popolo di Dio erano state tradizionali serbatoi di vocazioni sacerdotali nonché tradizionali portatrici della cultura di base della Chiesa.

Senza tali esclusioni massicce le vocazioni sacerdotali, oggi consistentemente in aumento, sarebbero dunque in crescita addirittura .... iperbolica.

b) Circa le situazioni di crisi dei sacerdoti ("le fragili colonne del Cielo") si potrebbe annotare che la migliore e più efficace rete protettiva e di recupero per loro è costituita indubbiamente dalla fraternità sacerdotale: da sempre essa è notoriamente il rimedio per le situazioni di crisi.

II prete solitario è infatti un prete potenzialmente perduto, mentre il prete inserito in una rete di fraternità sacerdotale è comunque in cammino di crescita.

- dovrebbe infatti essere considerato normale che anche per i sacerdoti, come per ogni altro genere di esseri umani, ci siano situazioni e momenti di crisi; anzi un'ora di crisi - nonostante tutte le precauzioni prese al momento della formazione e malgrado ogni buona volontà fa normalmente parte del cammino spirituale di un sacerdote.

- in primo luogo, a modo di esempio si potrebbe fare allusione ai casi dei preti che si trovano in difficoltà in rapporto a fatti sentimentali con una donna.

Un prete, che si trovi - magari anche senza sua colpa coinvolto in una passione per una donna, se lotta da solo, la sua lotta sarà snervante ed egli rischia di soccombere. Ciò che sembra necessario è che egli possa aprirsi pienamente ad un fratello sacerdote e che questo fratello, cosciente a sua volta della sua stessa debolezza, sia capace di accoglierlo e di donargli un appoggio rispettoso e forte.

- in secondo luogo vi potrebbe essere la crisi dovuta a situazioni di pessimismo rassegnato dovute all'impressione di una vita inutile e non produttiva neppure spiritualmente, con contorno di lamentele e scoraggiamento.

In questo genere di crisi sembrerebbe necessario - oltre che la vicinanza di un amico sacerdote o di un padre spirituale - 1' appoggio della comunità sacerdotale, che da vicino lo circonda, per sostenerlo finché egli non sarà liberato dalla sua ossessione.

Semplici esortazioni spirituali o il solo fatto si osservare puntualmente gli impegni ministeriali non saranno normalmente sufficienti in tali casi: un sostegno sacerdotale comunitario e fraterno adattato alla persona è normalmente indispensabile.

- in terzo luogo si trova quella doppia tipologia di crisi, apparentemente contrapposta, ma sostanzialmente coincidente, e vissuta senza una autocoscienza troppo espressa di crisi:

- dei sacerdoti, che si concentranlo sull' "ordinaria amministrazione", si auto-leggono come "funzionari ecclesiastici", in una visione di insieme "puntuale e di routine" di risposta "burocratica" alla domanda religiosa.

- dei sacerdoti che si tuffano in una continua moltiplicazione di attività ed iniziative, si riempiono la vita di cose da fare, di scadenze urgenti: il frenetico accavallarsi di un attivismo che finisce per rendersi fine a sé stesso.

 

Due prospettive, queste, di quantità anziché di qualità.

L'esperienza facilmente mostra che tali metodi non sono generalmente efficaci e che creano situazioni personali che progressivamente si avvicinano ad un drammatico fallimento, che avrebbe potuto essere evitato.

Questi sacerdoti, soprattutto perché scarsamente autocoscienti del loro oggettivo stato di crisi, hanno bisogno di trovare nel fraterno appoggio comunitario di altri sacerdoti la capacità di prendere coscienza del loro limite e di piegarsi ad una conversione "precauzionale": se infatti si deve amare un fratello caduto, quanto più conveniente amarlo ed aiutarlo a prevenire la sua caduta.

Ma in tali casi ed è un tipo di fraterna amicizia sacerdotale ancora più necessaria per il prete in crisi potenziale e cioè quella del Vescovo , che dovrebbe accogliere delicatamente ed efficacemente il sacerdote, donandogli tutta la sua fiducia.

Dunque anche le situazioni di crisi mostrano che la fraternità sacerdotale è l' "humus", il terreno, l'atmosfera in cui vive e dovrebbe vivere il celibato sacerdotale.

 

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Ritornando ad una lettura del "celibato vissuto", fatta dal Magistero della Chiesa ci si limiterà qui al "Magistero recente" (a partire dal Concilio Vaticano II), per sottolineare una delle novità che Esso ha introdotto nella sua riflessione sul celibato: cioè in particolare il tema della relazione umana interpersonale, profonda e paritetica, come elemento di valore per la realizzazione e la significazione del celibato sacerdotale.

Con tale riflessione il Magistero - reagendo a certa cultura contemporanea secolarista e riduttiva - ha costruito un ponte diretto con le fonti evangeliche, riproponendo 1' immagine suggestiva che la rinuncia al matrimonio viene attuata per seguire il Signore Gesù in una comunità apostolica ove regna radicalmente la fraternità e 1' amicizia e che è perciò, per tutta la Chiesa, lo specchio visibile e fecondo dell'invisibile amore trinitario. Questa visione potrebbe essere sintetizzata con la celebre e nota antichissima espressione: "apostolica vivendi forma".

Infatti, come lo affermò il Santo Padre Giovanni Paolo II nel 1981 (Discorso ai sacerdoti nell'Isola di Cebu, Filippine, 19 febbraio) "II Celibato non & affatto marginale nella vita del sacerdote: da testimonianza di un amore modellato sull'amore di Cristo".

I preti, a loro volta, sono nel cuore delle comunità cristiane, e dallo splendore della loro vita e del loro ministero dipende largamente la vivacità della Chiesa. Non è quindi un problema di secondo piano il modo in cui essi hanno intrapreso e vivono la loro sequela di Cristo, cioè il modo in cui il fuoco portato da Cristo arde ed illumina dai loro cuori.

Se la discussione sul celibato sacerdotale è oggi meno accesa di quanto non lo fosse alcuni anni fa, lo si deve molto al lungo dibattito che, apertosi con le precise affermazioni sintetiche del Concilio Vaticano II (Optatam Totius n.10, Presbyterorum Ordinis n.16, cfr. Lumen Gentium nn. 42 e 44, e cfr. Perfectae Caritatis n. 12),

si è poi protratto - attorno alle motivazioni - fino al Sinodo del 1971

(col quale da parte dell'Autorità Ecclesiastica è stata definitivamente risolta in senso positivo la questione sulla opportunità o meno di conservare il celibato sacerdotale come obbligatorio per il clero latino), passando attraverso l'Enciclica "Sacerdotalis Coelibatus" (24 giugno 1967) di Paolo VI.

 

Si potrebbe dire che proprio l’Enciclica "Sacerdotalis Coelibatus" presenta utilmente in modo sintetico le principali obiezioni al celibato sacerdotali, richiamandone sette:

- non tutti gli aspiranti al sacerdozio ne avrebbero il carisma (n.7)

- la sua obbligatorietà sarebbe causa di rarefazione delle vocazioni (n.8) - esso sarebbe causa di disordini ed infedeltà (n.9) determinerebbe una situazione innaturale, che danneggerebbe la personalità umana, instaurando un disprezzo verso l'opera della creazione (n.10),

- l'attuale preparazione sarebbe inadeguata (n.11)

 

Il Concilio

 

II 12 novembre 1964 il relatore Mons. Marty presentava al Concilio f il "Textus emendatus", dopo che il Concilio ne aveva discusso nelle Congregazioni Generali del 13, 14 e 15 ottobre precedenti, con la seguente espressione "Legem itaque caelibatus, prout in usu est, sacrosanta haec Synodus iterum comprobat".

In data 10 ottobre 1965 Paolo VI fece pervenire al Concilio una lettera, letta ai Padri l’11 ottobre dal Segretario Generale; con essa il Santo Padre si riservava la trattazione della questione:

"...essere ancora nostro proposito, per quanto è in noi, non solo di conservare questa legge antica, sacra e provvidenziale, ma anche di rafforzare l'osservanza, richiamando i sacerdoti della Chiesa latina alla coscienza delle cause e delle ragioni:

La lettura della Lettera del Papa fu accolta, come indicano le cronache ufficiali del Concilio con "Plausus magnus in Aula".

Nella Congregazione Generale del 12 ottobre successivo fu data lettura della lettera di risposta al Papa del Card. Tisserant, a nome del Concilio; il Cardinale scriveva che la lettera del Papa era stata accolta dai Padri "Repetito plausu".

L'11 ottobre 1965 fu distribuito nell'Aula del Concilio l'ultimo testo del decreto ("Schema decreti Presbyterorum ministerio et vita") e la discussione si protrasse in Aula nei giorni 14, 15, 16, 25, 26 ottobre 1965.

II Segretario Generale del Concilio, Cardinale Pericle Felici, in un suo Opuscolo del 1969 ("Il Vaticano II ed il Celibato Sacerdotale", Poliglotta Vaticana), su questo punto precisa testualmente alla pag.18 :

"Nessun emendamento e nessun modo mirava a porre in questione la legge del celibato ecclesiastico. Anzi l’ultimo testo votato dal Concilio, e poi approvato, alla parola 'comprobat' aggiungeva anche 1'altra ' confirmat' . "

Per cui la proposizione approvata dal Concilio suona così:

"Quam legislationem, ad eos qui ad presbyteratum destinantur quod attinet, Sacrosanta haec Synodus iterum comprobat et confirmat" (Presbyterorum Ordinis n.16)

Vi sono inoltre, nei già citati documenti del Concilio, oltre al fatto saliente riferito, anche accenni a motivazioni, benché il tema generale - come si è accennato - non sia stato trattato "ex professo" in quanto alle motivazioni.

Tuttavia tali accenni a motivazioni, presenti appunto già nei testi del Concilio, si trovano espressamente ripresi e sviluppati nella citata Enciclica "Sacerdotalis Coelibatus" di Paolo VI.

 

 

L’Enciclica "Sacerdotalis Coelibatus"

 

Evidentemente non è possibile in un tempo tanto breve esaminare dettagliatamente la Enciclica. Tuttavia si potrebbe forse dire che la Enciclica percorre un cammino, approfondendo sempre più il dato di partenza, cioè l'esperienza evangelica.

La presentazione iniziale

(n.20: la idea di verginità come rapporto immediato con Dio, rispetto al rapporto mediato del matrimonio; cfr. 1 Cor. 7,33-35 e cfr. cc. 8-9 Lettera agli Ebrei)

era ancora legata ad una prospettiva essenzialistica ed in certo senso astorica, che non teneva cioè presente la complessa ed articolata strutturazione della persona umana.

La rimeditazione invece dell'esperienza del Signore Gesù, ove del resto deve collocarsi la base più autentica per ogni riflessione sul celibato, ha condotto poco a poco ad una visione più complessa e più attenta della dimensione storica dell'uomo e del piano preciso che Cristo stesso manifesta di avere circa tale dimensione storica dei suoi discepoli.

La problematica dei valori umani ha innanzitutto permesso di recuperare una visione più completa del celibato, collocandolo, sul modello della situazione di vita del Signore Gesù, nel contesto di una comunità di fratelli ed amici, riuniti attorno a Lui, in atteggiamento di coagulo e fermento visibile e trasparente di una realtà più profonda (quella trinitaria).

La considerazione poi delle difficoltà pratiche, cui sopra si è accennato, ha permesso poi all'Enciclica di fare ulteriori precisazioni: il sacerdote, infatti, che voglia vivere una fedeltà al Signore Gesù nella dimensione celibataria, dovrebbe inserirsi in una comunione sacerdotale, ove vivere un'intima fraternità sacramentale.

(cfr. P.O. n. 8: "Presbyteri ... omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur". La mente della Commissione del Concilio su questo punto è la seguente:

"Unio Presbyterorum cum Episcopis et inter se, in ambitu ecclesiali utpote quae in Sacramento Ordinis fundetur est iuris divini; sed addictio alicui diocesi particulari et proinde Presbyterio diocesano est iuris ecclesiastici. Modus ergo admittitur" Schema Decreti De Presbyterorum ministerio et vita. Textus recognitus et relationes, Modus 98 - in num. 8 - pag. 62; sotto questa luce i Padri del Concilio votarono ed approvarono il n. 8 della Presbyterorum Ordinis)

A sua Volta il P. Giuseppe Rambaldi S.J., commentando questo punto annota:

"Talis est ista Fraternitas - in sacramento Ordinis fundata - quae reduci nequeat ad necessitudinem illam quantumvis alta ea sit - quae sacramentis initiationis christianae oritur ...

At qua mensura Character et gratia ordinationis, qua quis minister Christi constituitur, vitam Christianam iam Baptisma-te receptum tangit ac eam ad finem sacerdotii ministerialis ordinat et aptat, eadem mensura fraternitas sacerdotalis presbyteros atiam in tota eorum vitae et conservandi ratione ligat ac ad invicem sollicitos facit . . . Sollicitudo qua presbyteri sese adiuvant non promanat ex solo officio caritatis quam ratione Baptismatis, ones inter se tenentur fideles exercere" (Rambaldi, "Fraternitas Sacramentalis et Presbyterium" in Periodica de Re Morali Canonica Liturgica, n. 57, 1968, pag. 355).

Tale fraternità sacramentale dei presbiteri dovrebbe essere resa più concreta da una qualche forma di vita comune, in un'amicizia sincera, anche nei confronti del Vescovo.

In tale senso la considerazione della esperienza di Gesù ha messo perciò in luce come Egli non abbia disprezzato una dimensione fondamentale della condizione umana, di essere cioè intersoggettiva, con la corrispondente ricchezza di scambio interpersonale

L'Enciclica infatti osserva che pur essendovi la rinuncia ad una forma di amore umano (n.50), la relazione interumana resta tuttavia assai ricca e ne ha molte realizzazioni. Il matrimonio è una, ma altre sono possibili (n.56) ed ognuna ha le sue peculiarità, i suoi pregi ed i suoi limiti, ed una particolarmente fu vissuta dal Signore Gesù con i "suoi", che lo seguivano.

 

 

II testo del Sinodo dei Vescovi del 1971; "II Sacerdozio Ministeriale"

Ricordo assai bene la vasta consultazione, ad ogni livello ecclesiale, che precedette tale Sinodo ed io stesso partecipai a riunioni e dibattiti all'interno della mia Diocesi di origine.

Tali ampi dibattiti nel popolo di Dio erano accompagnati da una intensa discussione sui "media" ed fra gli esperti, mentre la "cultura secolarista" tendeva ad esercitare influssi e pressioni.

Non vi è dubbio che il punto più ampiamente dibattuto ed approfondito fu quello del celibato sacerdotale ed anzi si giunse al dibattito sinodale in un clima di grande consapevolezza ecclesiale e di grande attesa.

Il Sinodo in effetti ripropose il valore del celibato sacerdotale nella chiave del contesto storico-missionario della Chiesa e perciò si ispirò all’esperienza della sequela apostolica.

Appare una dimensione storico-comunitaria molto marcata, che non era molto presente nell'Enciclica "Sacerdotalis Coelibatus" di Paolo VI; il sacerdozio di Cristo è presentato come attività di riunificazione dell'umanità in Dio; in questa linea si colloca il ruolo dei presbiteri, i quali continuando l'opera degli apostoli rendono presente Cristo.

Il sacerdote, più precisamente è

- "sponsor primae Evangelii proclamationis ad Ecclesiam congregandam, quam indefessae renovationis Ecclesiae iam congregatae" (n.4)

- "in servitium comunionis" (n.6)

- "sacerdotale ministerium essentialiter communitarium est in Presbyterio et cum Episcopo" (n.6)

- "Seguendo l'esempio di Cristo, i presbiteri coltivino la fraternità col Vescovo e tra di loro, fraternità fondata sull'ordinazione e sull'unità di missione, affinché la testimonianza sacerdotale diventi maggiormente credibile" (n.6)

La seconda parte del documento, nel quarto punto della prima delle due sezioni di questa seconda parte si trova la riflessione sul celibato, che si innesta sul punto terzo precedente:

"Vocatus enim, sicut et ceteri baptizati, ut conformis sit Christo (cfr. Rm 8,29), presbyter insuper, sicut Duodecim, participet modo speciali consuetudinem cum Christo et eius missionem ut Pastoris Supremi: 'Et fecit Duodecim ut essent cum ilio, et ut mitteret eos predicare' (me.3,14)".

La prospettiva scelta è quella biblica, ed i prototipi dei presbiteri sono ravvisati nei dodici apostoli. Questi avrebbero avuto una vocazione particolare, che i presbiteri analogamente condividono; la chiamata alla sequela apostolica diviene così il punto di riferimento fondamentale per risolvere i problemi del prete: per cui anche la trattazione del celibato si rifarà esplicitamente a questa vocazione alla sequela apostolica di Cristo.

(Mentre nell'Enciclica di Paolo VI il riferimento primo era Cristo, Mediatore e Sacerdote eterno (n.21), la riflessione assume qui un taglio meno slegato dal complesso divenire storico concreto, di come il Vangelo si è diffuso per la mediazione degli Apostoli).

La propria riflessione sul celibato, proposta dal punto quarto si articola in quattro momenti: fondamento teologico, motivi concomitanti, legittimità della legge, condizioni da promuoversi, cui seguono due determinazioni legislative.

Quanto al fondamento del celibato (§a) esso è duplice; da una parte il celibato dei sacerdoti è in armonia con la vocazione alla sequela apostolica di Cristo, dall'altro alla disponibilità ad assumere un servizio pastorale, cioè sono congiunti i due aspetti: la chiamata dei dodici ("stare con Cristo") e la partecipazione alla sua missione di Pastore Supremo.

La sequela dei dodici resta dunque come lo sfondo generale, cui riferirsi per dare configurazione sempre più precisa al celibato stesso:

"Si autem Caelibatus in spiritu Evangelii, in oratione et vigilantia, cum paupertate, laetitia, honorum despectu, amore fraterno vivitur, signum est quod diu latere non potest, sed efficaciter Christum hominibus etiam nostrae aetatis proclamat"

"nam verba hodie vix aestuimantur, sed vitae testimonium loro radicaliasmus evangelicum ostendens, virtutem habet trahendi".

 

Il celibato sacerdotale viene dunque presentato in una prospettiva storico-missionaria, in cui la salvezza è una realtà storica che trova nel Celibato sacerdotale un "signum" che la rivela agli uomini come imminente.

Nel §b si adducono varie motivazioni, di per sé già note, che, convergendo, confermano l’opportunità del celibato sacerdotale:

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II § d presentando le condizioni che favoriscono il celibato sacerdotale, cioè la vita interiore, annota:

"aequilibrium humanum per ordinatam insertionem in compaginem socialium relationum; fraterna cum aliis presbyteris et cum ' Episcopo consuetudo et conversatio, pastoralibus structuris ad hoc ' melius aptatis, adiuvante quoque comunitate christifidelium".

(si potrebbe notare che questa prospettiva completa quella escatologica del §b: "omnem contingentem valorem humanum superans, sacerdos caelebs Christo ut bono ultimo et absoluto speciali modo se consociat")

 

In tale schema sono dunque presenti a ben vedere tre tipi di relazioni :

1) dei dodici con Cristo (esperienza modello),

2) del sacerdote con Cristo (vocazione sacerdotale).

3) dei sacerdoti con gli altri sacerdoti e col Vescovo (condizione sacerdotale concreta).

I §c e §e, ma specialmente il §e illustrano la necessità di conservare il celibato sacerdotale nella Chiesa Latina:

"Lex caelibatus sacerdotalis in Ecclesia Latina vigens integre servari debet".

 

La singolarità inusitata, di questo Documento Pontificio-Sinodale, sta nel fatto che il Papa Paolo VI ordinò personalmente, a perpetua memoria dell'evento, che nel testo pubblicato apparissero esplicitamente indicati gli esiti delle votazioni; la precedente dichiarazione culminante di un lungo iter fu approvata infatti dai Padri del Sinodo del 1971 con la seguente votazione: "Exitus suffragationis: placet 168, non placet 10, placet iuxta modum 21, abstentiones 3".

Inoltre furono messe in votazione le seguenti due espressioni fra loro contrapposte:

"Formula A": salvo semper Summi pontificis iure, ordinatio presbyteralis virorum matrimonio iunctorum non admittitur ne in casibus quidem particularibus"

"Formula B": Solius Summi Pontificis est, in casibus particularibus, ob necessitates pastorales, attento bono universalis Ecclesiae, concedere ordinationem presbyteralem virorum matrimonio iunctorum provectioris tamen aetatis et probatae vitae".

L'esito della votazione sinodale su queste due formule fu la seguente: "Prima formula, seu A, obtinuit 107 suffragia, altera, seu B, 87. Abstentiones fuerunt 2, et 2 pariter vota nulla".

In conclusione circa il documento del Sinodo 1971 si potrebbe dire che l’istanza culturale generale più attenta alla dimensione storica dell’uomo, ha indotto il Sinodo ad un approfondimento del dato tradizionale, recuperando aspetti importanti della complessa esperienza evangelica.

II Celibato dei sacerdoti è emerso pertanto come un rapporto speciale con Cristo, caratterizzato dalla rinuncia al matrimonio e da incondizionato zelo per le anime ("il non poter essere altrimenti: eunuchi per il Regno"), ma, con non minore vigore, dall'assunzione di rapporti fraterni intensi con gli altri preti e col Vescovo, giacché sono indicati come condizioni essenziali perché il Celibato sacerdotale possa essere segno.

"Orientamenti educativi per la formazione al Celibato Sacerdotale" è il titolo del documento che la Congregazione per l’Educazione, per volontà del Papa Paolo VI pubblicò l’11 aprile del 1974. Per brevità si rimanda direttamente alla sua lettura.

 

 

Sinodo del 1990 sulla formazione sacerdotale ("De sacerdotibus formandis in hodiernis adiunctis" ed Esortazione Apostolica la "Pastores dabo vobis" del 1992 del Papa Giovanni Paolo II.

 

Il tema del celibato sacerdotale si poteva dire già definitivamente risolto con gli eventi relativi al Sinodo 1971 (ampia consultazione di base, dibattito e votazioni e decisione finale di Paolo VI), che dava forma conclusiva agli orientamenti del Concilio e della successiva Enciclica "Sacerdotalis Caelibatus".

Ed infatti, di per sé, il Sinodo 1990 avrebbe dovuto trattare della formazione sacerdotale. Tuttavia durante la previa consultazione per questo Sinodo, alcuni gruppi ecclesiali vollero risollevare la questione.

(benché non sia segno di sana deontologia interna il fatto di non accettare mai ciò che la maggioranza approva ed il Papa promulga e di volerla ricominciare sempre da capo ostinatamente fino a spuntarla ad ogni costo)

Inoltre i "media" controllati dai gruppi "laicisti", nel loro affanno di ridimensionamento e di secolarizzazione della Chiesa, avevano da tempo orchestrato campagne per l’abolizione del Celibato Sacerdotale, non risparmiando neppure argomenti scandalistici, appositamente esaltati e gonfiati a danno di tante splendide ed umili figure sacerdotali.

Il Sinodo perciò colse opportunamente la occasione per riprendere ed riaffermare il concetto: come è noto solamente un Vescovo brasiliano si espresse nel Sinodo in favore della ordinazione di uomini sposati, mentre un Cardinale brasiliano, cui un mensile aveva attribuito una espressione possibilista, volle smentire quella interpretazione di fronte a tutto il Sinodo.

 

La "Pastores dabo vobis" al n. 29 dice testualmente:

"In questa luce si possono più facilmente comprendere ed apprezzare i motivi della scelta plurisecolare che la Chiesa di Occidente ha fatto e che ha mantenuto, nonostante tutte le difficoltà e le obiezioni sollevate lungo i secoli, di conferire l’ordine presbiterale solo a uomini che diano prova di essere chiamati da Dio al dono della castità nel celibato assoluto e perpetuo. I Padri sinodali hanno espresso con chiarezza e con forza il loro pensiero con un'importante Proposizione, che merita di essere integralmente e letteralmente riferita:

'Ferma restante la disciplina delle Chiese Orientali, il Sinodo, convinto che la castità perfetta nel celibato sacerdotale è un carisma, ricorda ai presbiteri che essa costituisce un dono inestimabile di Dio per la Chiesa e rappresenta un valore profetico per il mondo attuale. Questo Sinodo nuovamente e con forza afferma quanto la Chiesa Latina e alcuni riti orientali richiedono, che cioè il sacerdozio venga conferito solo a quegli uomini che hanno ricevuto il dono della vocazione nella castità celibe (senza pregiudizio della tradizione di alcune Chiese orientali e dei casi particolari di clero uxorato proveniente da conversioni al cattolicesimo...). Il sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all'ordinazione sacerdotale nel rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale

 

A questo ultimo proposito ("presentato e spiegato") va aggiunto che la stessa "Pastores dabo vobis" sotto il titolo più generale "La natura e la missione del sacerdozio ministeriale", al n.14 presenta il Paragrafo dal titolo "Gesù affida ai Dodici la sua missione", che conclude una esposizione evangelica della sequela e della missione, con la seguente espressione:

"Segno e presupposto dell'autenticità e della fecondità di questa missione è l’unità degli apostoli con Gesù e, in Lui, tra di loro e col padre, come testimonia la preghiera sacerdotale del Signore, sintesi della sua missione (cf. Gv. 17, 20-23)".

Per ultimo ; Il "Direttorio per il Ministero e la vita dei presbiteri", della Congregazione per il Clero (Giovedì Santo 1994).

Mentre per brevità si rimanda alla lettura diretta di tale documento, occorre annotare che al n. 57 sotto il titolo "II celibato sacerdotale - Ferma volontà della Chiesa" si annota:

"Convinta delle profonde motivazioni teologiche e pastorali che sostengono il rapporto tra celibato e sacerdozio e illuminata dalla testimonianza che ne conferma anche oggi, ...... la validità spirituale ed evangelica ... la Chiesa ha ribadito nel Concilio Vaticano II e ripetutamente nel successivo Magistero Pontificio la 'ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati ali' ordinazione sacerdotale nel rito latino'. Il celibato, infatti è un dono che la Chiesa ha ricevuto e vuole custodire, convinta che esso è un bene per sé stessa e per il mondo".

 

Mentre al n. 59 si annota:

"L'esempio è il Signore stesso il quale, andando contro quella che si può considerare la cultura dominante del suo tempo, ha scelto liberamente di vivere celibe. Alla sua sequela i discepoli hanno lasciato 'tutto' per compiere la missione loro affidata (cfr. Le. 18, 28-30).

Per tale motivo la Chiesa, fin dai tempi apostolici, ha voluto conservare il dono della continenza perpetua dei chierici e si è orientata a scegliere i candidati ali' Ordine sacro tra i celibi (cf. Ts.2,15; 1 Cor. 7,5; 9,5; 1 Tim. 3,2.12; 5,9; Tt 1,6.8)".

Nel contesto del Capitolo dal titolo "Comunione Sacerdotale" (nn. 20-33), al n. 25 poi si precisa:

"In forza del sacramento dell'Ordine 'ciascun sacerdote è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità' (pastores dabo vobis 17) . Egli, infatti, è inserito nell'Ordo Presbyterorum costituendo quell'unità che può definirsi una vera famiglia nella quale i legami non vengono dalla carne o dal sangue ma dalla grazia dell'Ordine".

 

 

 

Conclusione circa il Magistero

 

La riflessione del Magistero sul Celibato ha permesso di precisarne uno statuto più storicamente determinato, sotto l’incalzare delle istanze antropologiche contemporanee, di una concezione della fede cristiana più attenta alla storia, ed infine delle difficoltà concrete emergenti.

Per "celibato sacerdotale" si intende ormai una situazione complessa, determinata da un profondo amore al Signore Gesù, dalla rinuncia all’esperienza matrimoniale, dall'assunzione di legami di fraternità e di amicizia, che vorrebbero trovare la loro realizzazione in particolare nella vita comune, e infine dall'impegno generoso per la comunità dei fedeli.

Se si volesse fare un bilancio si potrebbe dire che si è sbloccata la riflessione sul celibato sacerdotale, mediante il passaggio da una visione tendenzialmente essenzialista e riduttiva ad una visione più storicamente connotata ed evangelica.

La riflessione del Magistero ha sottolineato nella condizione del prete celibe - nella prospettiva dell'esperienza evangelica - il tema della relazione umana, profonda e paritetica, e non già o non più come accondiscendenza alla debolezza umana da sostenere, ma come elemento autentico ed intrinseco di valore, come ostensorio della comunione con Cristo e della Comunione Trinitaria.

E,' del resto, abbastanza facile convenire che coloro che seguivano Gesù nel suo ministero terreno conducevano una certa vita comune con Lui.

Il Magistero, mettendo in luce come questo determinato contesto comunitario è stato il primo alveo dell’esperienza celibataria, che il Signore Gesù ha proposto ai ministri del suo vangelo, pone tuttavia alla riflessione cristiana un compito: quello di approfondire il senso di questa connessione.

Comunque gli ulteriori elementi nuovi che il Magistero ha introdotto nel quadro del celibato sacerdotale potrebbero essere indicati come segue (cfr. Damiano Marzotto: Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Ed. PIEMME 1987):

 

1) Primo punto

la rispondenza dei nuovi orientamenti con le istanze antropologiche contemporanea. La cultura moderna ha contestato in radice il celibato sacerdotale in quanto disumano, perché negatore di una dimensione fondamentale della persona come l’intersoggetività.

Il Magistero della Chiesa ha dovuto pertanto ripensare il celibato sacerdotale, mettendone in luce anche gli elementi di intersoggetività: la relazione con il Vescovo, la fraternità sacerdotale e possibilmente la vita comune; il Magistero però non ha tralasciato di richiamare continuamente anche le altre dimensioni: di consacrazione sempre più intima al Signore Gesù e di donazione sempre più libera ai fedeli.

D'altra parte c’è il rischio opposto, quello cioè di continuare ad escludere la dimensione intersoggettiva della realizzazione del celibato sacerdotale.

Ciò può avvenire, a livello cosciente, in nome della fedeltà ad una tradizione.

Ma c’è il dubbio che ciò avvenga di fatto per una dipendenza non riflessa ad una forma culturale antecedente, tendenzialmente individualistica, o comunque ove la relazione interpersonale era stata sospettata di essere in concorrenza con quella verso Dio.

Questa possibilità è pericolosa perché, in nome di una donazione più totale al Signore ed alla Chiesa, respinge come non necessaria indulgenza alla debolezza umana, ogni relazione intersoggettiva profonda.

In realtà, nella misura in cui questa dimensione intersoggettiva è componente necessaria per la realizzazione di un’esistenza di sacerdozio celibe, la sua esclusione rischia di compromettere proprio quella più totale donazione al Signore Gesù ed alla Chiesa.

Si avrebbe così l’esito più lontano dalla volontà di chi ciò ha compiuto, e cioè la chiusura, tendenzialmente, su se stessi, e questo proprio in nome di una più grande apertura e disponibilità.

 

2) Secondo punto

la revisione, provocata dai nuovi dati, di alcune affermazioni correnti relative alla condizione del sacerdote celibe.

I risultati ai quali la riflessione di questi anni è pervenuta, permettono di chiarire il senso dell'affermazione per cui il celibato sacerdotale sarebbe "una scelta esclusiva, perenne e totale dell'unico e sommo amore di Cristo" (Orientamenti, n.34)

(a dire il vero questa espressione per la quale ci si richiama a Sac. Coel. 24-25, non vi trova un riscontro preciso. Infatti l’Enciclica, almeno nel testo latino, non parla di "esclusivo")

 

Ciò dunque non va inteso come un'esclusione di ogni altra relazione umana, anche profonda, che anzi le relazioni amicali nella comunione apostolica sono da ritenersi perfino necessarie, proprio anche "allo scopo di realizzare una partecipazione più intima della sua sorte, in una logica luminosa ed eroica di amore unico ed illimitato a Cristo Signore ed alla sua Chiesa" (ibidem) .

L'esclusività sarà allora da intendersi, come mostra "Sacerdotalis Coelibatus 25, cui qui si rimanda, nel senso che comunque il sacerdote in ogni sua scelta non farà che dare corso ad un amore che ha solo Cristo come fine ultimo, e di conseguenza il bene della Chiesa.

 

L'importanza di questa chiarificazione è evidente.

 

Richiamiamone alcuni aspetti: ritenendo di dovere ormai "escludere" ogni relazione profonda e continuativa dalla sua vita, il sacerdote rischia di non tenere sufficientemente conto del fatto che, in realtà, egli resta inserito in un contesto di relazioni umane: la famiglia, i collaboratori parrocchiali, le persone con cui divide la mensa e l’abitazione....

Se non è avvertito che ha la precisa vocazione di sviluppare in un certo modo, cui deve esercitarsi e prepararsi, certe relazioni più che non altre, rischia di subire in modo irriflesso e di divenire vittima assieme alla sua missione, dell'influenza delle relazioni che - di fatto - sono presenti nella sua vita, e che magari non dovrebbero essere le più significative o così significative, ma che in realtà finiscono col diventare determinanti, e non si preoccuperà invece di costruire e di intrattenere quelle che la sua condizione di sacerdote celibe, per suo statuto, esige.

Il Celibato sacerdotale potrebbe perciò essere definito uno stato di vita con sue proprie mediazioni umani, differenti da quelle di altro stato di vita, ma non meno rilevanti e significative ("iam vos dixi amicos" ... "vos amici mei estis").

 

3) Terzo Punto

la sollecitazione ad un ripensamento più ampio del quadro concettuale relativo al celibato sacerdotale ed in particolare al suo significato apostolico.

L'istanza della vita comune per il clero non sarebbe l’assunzione surrettizia di un'istituzione tipicamente monacale, anche se storicamente questo può essersi verificato, ma sarebbe piuttosto il risvolto necessario della scelta del celibato evangelico, in prospettiva apostolica.

Se ciò non è stato chiaro in passato, può essere avvenuto perché la coscienza che si aveva del celibato sacerdotale non si era sufficientemente confrontata con la forma iniziale della vocazione celibataria sacerdotale, ma dipendeva ancora troppo da mentalità esterne al dato cristiano:

Occorrerebbe però ricordare come nei primi secoli il ministero presbiterale era vissuto come realtà collegiale: questa collegialità era reale anche fra presbiteri allora sposati; ma tuttavia non poteva non favorire il sorgere di una vita comune, attorno al vescovo, di presbiteri non sposati (S. Agostino ed altri).

Tale collegialità venne poi sempre più disgregandosi, dando luogo a forme di vita sacerdotale completamente isolate; si comprende allora perché il celibato fu approfondito soprattutto a partire da questa nuova situazione (sottolineatura della motivazione mistica; della motivazione di servizio dei fedeli).

Oggi dunque, a partire dal Concilio Vaticano II si va riscoprendo la dimensione collegiale del presbiterio.

Ciò dovrebbe portare anche ad una riconsiderazione dello stile di vita dei preti (vita in comune) e quindi del senso del celibato, in questa dimensione più comunitaria che il Magistero ha indicato.

I sacerdoti che rinunciano ad una relazione coniugale, lo fanno per seguire il Signore Gesù ali' interno di una comunità apostolica, ove "possono realizzare quelle profonde e benefiche relazioni interpersonali" (Orientamenti 14) , che consentono loro innanzitutto di aprirsi veramente e profondamente al mistero dell'amore del Signore Gesù ed insieme di essere segno trinitario tipico di quella comunione fraterna, che Cristo vuole suscitare nel mondo e che nel rapporto appunto di Cristo col Padre ha il suo fondamento ed il suo modello.

Nello stesso tempo la partecipazione alla comunione apostolica alimenta in loro quel desiderio di donarsi sempre più al servizio dei fratelli e soprattutto educa in loro quell'atteggiamento giusto di rispetto e di comprensione, di attenzione e di condivisione, che deve caratterizzare la carità pastorale.

Emerge allora sempre più chiaramente il rapporto celibato-sacerdozio, nel senso che il celibato sacerdotale è appunto al servizio della missione apostolica; la vita di comunione fraterna, cui esso deve dare luogo, è fondamentale fermento e segno trinitario per i fedeli ed insieme è stimolo ed apprendistato alla donazione e ad una capacità di relazione profonda e personale anche nell'apostolato.

 

4) Sub-punto quarto.

(emerge anche il limite di quella posizione che valorizza il celibato del sacerdote, in quanto lo collega al ruolo di sposo, che ogni sacerdote avrebbe nei confronti della Chiesa: la comunità verrebbe a prendere il ruolo della moglie in quella dinamica dialogale io-tu, che è necessaria ali' equilibrio di ogni persona.

In effetti nel nostro tempo si vive il rilancio opportuno del tema sponsale e si ha perciò la tendenza naturale e "di moda" di predicarlo di ogni altra realtà, magari anche con fondamento.

Tuttavia le tendenze "del momento" possono avere anche una valenza deviante ed alquanto "forzata", giacché un’analogia ed un analogato sembrano tanto più opportuni quanto più realizzano in sé il segno che intendono significare.

E' innegabile che la relazione fra il sacerdote e la sua Chiesa abbia una rilevanza antropologia.

Si tratta però di una relazione che chiameremmo piuttosto di carattere discendente, e non paritetica, come la metafora sponsale sembra suggerire.

La relazione del dinamismo relazionale paritetico del sacerdote, secondo quanto siamo venuti rinvenendo nel Magistero recente, sembra piuttosto svilupparsi nel dialogo con i confratelli e col vescovo, più ancora che nel dialogo con la comunità.

Sull'enfasi di tale analogia sponsale sarebbe perciò il caso forse di non premere molto, per coloro che, come i sacerdoti celibi, nella loro vita concreta non conoscono, non realizzano e perciò non visualizzano il segno matrimoniale.)

Istituto "Sacrum Ministerium" (schema di due conversazioni)

 

II Parte

 

Celibato ecclesiastico e fraternità sacerdotale; breve riflessione biblico-teologica-esistenziale sui dati proposti dal Magistero.

 

Premessa

 

Non vorrei pormi di fronte a questo problema, né presumendo la competenza specifica del biblista, e neppure situandomi nel livello del teologo-dogmatico.

Seguendo invece il cammino della vita cristiana e della sensibilità religiosa personale, preferirei situarmi in quel livello che si potrebbe chiamare modernamente dell'esistenzialismo cristiano o, con espressione più tradizionale, della "teologia spirituale".

E' un livello interessante, perché mentre utilizza i dati biblici e teologici precedentemente acquisiti dalle rispettive scienze, li conduce ad una sintesi vitale mediante la visione ed il linguaggio più liberi del cuore ("è con l’occhio del cuore che si vede", dice il Piccolo Principe, gli occhi della carne infatti sono ciechi, come una barca che naviga nella nebbia) .

II Padre Y. Congar, O.P. in un suo celebre saggio scritto in occasione del Centenario della morte di Taulero (1961) metteva bene in luce la differenza fra "Linguaggio degli Spirituali e Linguaggio dei Teologi" (Y. Congar, O.P, Situation et taches présentes de la Théologie, du Cerf, Paris 1967, "Langage des spirituels et langage des Théologiens", pp. 136-158; ed anche Aa. Vv. Teologica Contemporanea, Boria, Torino 1970, pp. 155-179) .

La Teologia Spirituale, utilizzando i dati della Dommatica e della Scrittura, come pure della Filosofia, tende finalmente a dare la lettura della relazione personale, esistenziale e reale con Dio: è la prospettiva del rapporto religioso e non della precedente ontologia.

Senza una analisi teologica ed una ermeneutica biblica, come pure senza una base filosofica, le percezioni, gli enunciati e le prospettive della teologia spirituale perderebbero la misura e la possibilità stessa di conservare ciò che essi portano di vero e di valido.

Detto questo si può però aggiungere che gli enunciati esistenziali religiosi, propri del linguaggio degli spirituali, tendono a condurre la esperienza personale nella immediatezza del senso di Dio e delle Sue cose, e per questo usano normalmente espressioni ed formulazioni, che non potrebbero essere trasferiti "indietro" come proposizioni di ontologia.

 

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Sac. Mario Marini

14 gennaio 2002

 

 

C'è, nelle formule degli "spirituali" l’enunciato di un assoluto semplice, monolitico, e preso dal punto di vista particolare e personale, praticamente esclusivo di altri punti di vista, i quali, pertanto, sono possibili e possono essere validi: l’espressione spirituale è sintetica e globale.

Sono due linguaggi - quello dei teologi e quello degli spirituali - che rispondono a due punti di vista: per cui ci si può chiedere a quali condizioni ed a che livello è vero il linguaggio degli spirituali ?

A condizione di esprimere, in fase ormai finale, un'attitudine ed una realtà spirituale, che riceve la verità dal fatto che realizza il vero rapporto dell’anima con Dio: infiniti enunciati spirituali sono espressione di un'attitudine e di una realtà spirituale mirata in modo totalitario ed esclusivo già alla relazione con Dio ed al reale assoluto della persona a Lui unita.

Ecco dunque il linguaggio degli spirituali usare di frequente le "contrapposizioni di concetti" e le "affermazioni generali ed assolute" e, poiché ci si riferisce all'Assoluto di Dio, ecco che l’uso dei "paradossi" e delle "antinomie" non è solo iperbolico, ma è in fondo più pienamente reale: rende "più visibile" la realtà, nella stessa misura in cui Michelangelo, ampliando le proporzioni, ne evidenziava e confermava la realtà.

L' "ontologia" propria del rapporto spirituale ha la sua unità e la sua certezza, ma al di là della ontologia naturale: il linguaggio degli spirituali, dopo avere utilizzato i dati delle altre scienze umane e teologiche, finalmente esprime la "ineffabilità" del rapporto con Dio e di Dio stesso: l’espressione dell'ineffabilità (linguaggio degli spirituali) è pertanto al di là della "verità teologica" e della Sua ineffabilità (linguaggio dei teologi).

Certamente, se la Rivelazione viene data in parole umane, fino all’estrema Parola dell'Incarnazione, un linguaggio di ineffabilità in parole umane non può essere blasfemo, benché espressioni di grandi spirituali lo sembrino: anzi la teologia classica ammette e giustifica tale modo di linguaggio, giacché è una maniera appropriata di esprimere la trascendenza di cui dona una appropriata analogia.

 

Concludendo circa la premessa:

le scienze umane (Filosofia) e teologiche (Dogmatica e Scrittura) cercano di dare conto scientificamente della natura dei fatti religiosi ed umani; la teologia spirituale, mediante il suo linguaggio paradossale ed incisivo, assoluto e preciso, esprime: 1) la esperienza vitale della realtà trascendente e 2) la giusta attitudine spirituale ed esistenziale di fronte ad essa.

II fine di questa lunga premessa è quello di giustificare il procedimento seguente, che sarà pertanto costituito da due punti:

  1. una ricognizione del dato evangelico del celibato e della fraternità (al seguito del linguaggio teologico-biblico).

B) la sua lettura di fondo nella intenzione esistenziale del Signore Gesù (col linguaggio spirituale, cioè reale-esistenziale).

Parte A) , in tre punti

1) i dati evangelici

 

II primo alveo dell'esperienza celibataria e fraterna che oggi la Chiesa propone ai suoi sacerdoti è la comunità di vita con il Signore Gesù: nasce pertanto l’esigenza di ritornare ai Testi del Nuovo Testamento ed ali' esperienza della comunità primitiva.

Come il Nuovo Testamento parla di tale esperienza celibataria e comunitaria con Cristo? quali motivazione se ne danno? in quale ambito viene vissuta? che significato e prospettiva riveste?

La risposta a tali domande non può essere che articolata e complessa, data l’ampiezza dei testi da valutare: ma si può dire subito che c’è convergenza oggi sul fatto che il Signore Gesù non si sia sposato.

Ha poi anche Egli fatto una proposta in tal senso ai suoi discepoli? Nei Vangeli infatti non mancano i detti che parlano di una rottura con i rapporti familiari, detti che evidentemente, come è nella generale natura dei detti evangelici, hanno vari livelli di profondità e di destinatari, benché per Mt. 19,12 la destinazione sembri più concentrata e ristretta ad una esperienza specificamente celibataria.

Gli studiosi più recenti hanno cercato di risalire al di là dello stadio attuale dei Vangeli per raggiungere il significato dei vari detti sulla sequela di Cristo nel contesto della predicazione del Signore Gesù; e, successivamente, hanno cercato di seguire anche il processo di tradizione che ha permesso alle parole del Signore Gesù di giungere fino alla redazione evangelica.

A questo riguardo gli studiosi ritengono che il tenore dei detti debba essere inteso in senso molto più letterale di quanto qualcuno potrebbe immaginarsi .

E così ecco aprirsi la possibilità di disporre e di esaminare dei detti, che si riferiscono al distacco dalla famiglia, in senso più forte di quanto suggerirebbero vari "supposti" liberali.

I detti di Gesù che si riferiscono al distacco dalla famiglia e che interessano la problematica celibataria della "sequela" di Cristo sono sostanzialmente i seguenti: Le. 14,26 e paralleli; Le. 18,29 e paralleli e Mt.19,12.

"Chi non odia suo padre e sua madre non può essere mio discepolo; ehi non odia suo figlio e sua figlia non può essere mio discepolo"

"In verità vi dico, non e' è nessuno che abbia lasciato casa, fratelli, sorelle, madre, padre, figli o campi per il regno di Dio che non riceverà il centuple quaggiù e la vita eterna .."

 

Naturalmente, data la natura di questa mia comunicazione, per la critica letteraria si deve rimandare a testi specialistici (cfr. B: Proietti, La scelta celibataria alla luce della S. Scrittura, in Aa.Vv, II Celibato per il Regno, Claretianum Milano 1977, 9-75).

Tuttavia proprio la critica letteraria attribuisce questi detti a Gesù stesso e nel senso che vanno riferiti al Suo gruppo di discepoli.

L'appello del Signore Gesù aveva infatti il carattere di assolutezza come il suo annuncio del Regno aveva una portata escatologica, che non ammetteva rinvii o tentennamenti, tanto che in Luca vi appare fra le persone da lasciare la esclusione anche della moglie.

"L'appello alla sequela, per cooperare alla missione di Gesù, ha esigito dai chiamati, e solo da essi, la rottura di tutti i legami familiari e quindi anche di quello matrimoniale" (B. Proietti, a.c., 41 s.).

Come la vita del Signore Gesù è tutta orientata all’annuncio del regno di Dio, così quella dei chiamati a seguirlo, cioè a vivere con lui in una comunione di vita, di missione e di destino, doveva essere interamente consacrata al servizio missionario del regno.

Molto speciale poi il celebre detto di Gesù riportato da Mt. 19,12 :

"Vi sono eunuchi che dal seno materno sono stati generati così, e vi sono eunuchi che sono stati resi tali dagli uomini, e vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno".

Il Signore Gesù parla dunque di una pluralità di uomini allora viventi che attraverso un atto del passato, liberamente "a motivo del regno", si sono resi incapaci di vivere matrimonialmente.

(una celebre espressione del primo Schillebechx diceva che il celibato sacerdotale consiste nel fatto che alcuni uomini avendo accettato di entrare sotto il potere del totale servizio del regno sono dunque ormai incapaci di assumere la valenza matrimoniale: "non potere - eunuchi - essere altrimenti")

Questo atto del passato potrebbe perciò coincidere con l’ingresso alla "sequela" immediata e perdurante di Gesù.

A questo proposito si potrebbe fare riferimento alla chiamata dei primi discepoli fatta dal quarto Vangelo di Giovanni: il quarto Vangelo presenta il punto di vista storico dei fatti che descrivono i primi seguaci di Gesù, precedentemente discepoli di Giovanni il Battista, chiamati nella valle del Giordano, ove il Battista - suppostamente non sposato - aveva dei discepoli conformati alle severe regole ascetiche di quei gruppi laggiù installatisi .

Gesù avrebbe perciò costituito, secondo il Vangelo di Giovanni, un primo nucleo di discepoli con alcuni di quegli uomini, votati al celibato assieme con il Battista.

A ciò si potrebbe aggiungere il grande tema evangelico della "sequela" di Cristo, con i suoi vari livelli, fra cui il livello più propriamente specifico dei discepoli del Signore Gesù, che abbandonando i legami familiari sempre andavano con Lui (Me. 3,14) e per i quali Gesù diede specifiche norme di vita e comportamento (Me. 9, 35; Le. 22, 27; Me. 9,50b; Mt . 7,3 ...)

 

Conclusione circa i dati evangelici

Attraverso l’esame di alcuni detti di Gesù ed dell'esperienza storica della Sua "sequela" si osserva che un distacco dai legami familiari, anche dalla moglie e dai figli, si determinò nei chiamati - appunto - alla "sequela" immediata e perdurante di Lui.

Da una parte la persona di Gesù, la straordinarietà dei Suoi segni, l’autorità della Sua parola, l’esperienza comunitaria intensa, agivano come elementi di fascino e di attrazione; d'altra parte e' era la intuizione che in questo nucleo, pure poco appariscente, operasse veramente l’azione escatologica di Dio.

Il motivo del "distacco" era dunque quello di mettersi insieme con Gesù, al servizio del Regno ("per stare con Lui e per mandarli a predicare" Mc. 3,14).

Ma il motivo stesso del distacco ci conduce ad osservare che il legame con Gesù era concretamente vissuto nella realtà di una piccola comunità fraterna ed amicale unita intorno a Lui e partecipante della Sua vicenda e della Sua prospettiva.

La rinuncia ai legami familiari portava dunque alla convivenza ed amicizia con Gesù di Nazaret e ad incontrare altri discepoli con cui convivere ed intrattenere relazioni profonde e costanti.

Anzi il servizio stesso del regno si configura esso stesso storicamente come un servizio condotto "insieme"; addirittura c'è la consapevolezza che il "gruppo" in quanto tale, con la sua esistenzialità e la sua vita, costituisce la profezia, lo specchio, la immagine, il segno del Regno, del Mistero invisibile, reso cosi visibile, cioè dell’Amore del Padre e del Figlio. (Lc. 10,1 ss, Mc.6,7, Lc.10,17 ...)

Non appare perciò una rinuncia ai legami familiari dovuta a disistima o sfiducia nei confronti delle relazioni umane ed a favore invece di una relazione solo con Dio: la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere, mira infatti esplicitamente ad assumere un'altra relazione interpersonale: quella con lo stesso Signore Gesù, ed anche altre relazioni interpersonali,

quelle coi compagni della piccola comunità apostolica innanzitutto, e poi più in generale con i destinatari del Vangelo.

Colpisce proprio questo - dalla lettura dei testi evangelici - che la rinuncia alle relazioni familiari non volesse significare una condanna delle relazioni umane anche profonde e continuate in quanto tali.

Anzi il Signore Gesù ha puntato fin dall'inizio alla costituzione di una comunità di discepoli, vincolati intimamente da una relazione interpersonale profonda e specifica, denominandoli anzi Egli stesso in base alla realtà di tale relazione: "iam non dicam vos servos, sed amicos", "vos amici mei estis", infatti "non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici"; questa dunque era la analogia, la categoria, la realtà, la relazione interpersonale. L’immagine speculare visibile dell'invisibile Amore di Dio.

 

2) La tradizione post-pasguale dei detti del Signore Gesù

 

I detti del Signore Gesù, nel periodo intercorso fra la Sua Ascensione e la redazione dei Vangeli, furono trasmessi oralmente da quei testimoni che li avevano ascoltati, vissuti e conservati; e furono soprattutto trasmessi esistenzialmente nella loro vita reale giacché essi parlavano ciò che vivevano e vivevano "i costumi del Signore" (Didaché 11,8) .

C'è testimonianza esplicita che nella prima comunità palestinese (la cosiddetta Fonte Quelle) le regole del discorso sulla missione (Mt.10) vennero a costituire una specie di codice, in cui i detti della "sequela", che si riferiscono ad un'esistenza sradicata, ad una rottura con la famiglia, ai pericoli per la propria vita, ricevettero un'interpretazione letterale.

Di questa interpretazione radicale dei detti del Signore Gesù sulla "sequela" sarebbe testimone, in certo modo, anche la comunità di Corinto, almeno circa le proposizioni celibatario, come risulterebbe dal cap. 7 della 1 Corinti.

Cioè la corrente rigorista presente a Corinto ("è cosa buona per l’uomo non toccare donna") , sarebbe infatti lo sviluppo estremista e radicalizzato della vera tradizione palestinese che riportava i detti del Signore Gesù: e pertanto come corrente estremista e radicalizzata venne corretta da San Paolo con la 1 Corinti 7 .

Il testo sul celibato di 1 Corinti 7 va valutato nel contesto rigorista cui San Paolo deve rispondere, a partire dal primato di Cristo nella nostra vita e della nostra appartenenza a Lui: evidenziare perciò la difficoltà pratica di conciliare il legame coniugale con il servizio del Signore, non autorizza la conclusione che chi non è sposato non deve vivere nessun'altra relazione profonda, se non quella con il Signore.

Non solo non si può inserire un elemento in più nel ragionamento di San Paolo, ma occorre - come sempre in casi simili - riferirsi alla situazione di vita dello stesso San Paolo.

Egli oltre all’affetto profondo (Fil. 2,1) che lo lega ai fedeli delle varie chiese, intrattiene relazioni personali di profonda amicizia con persone determinate e soprattutto con i suoi diretti collaboratori: Timoteo per primo e poi Tito, Silvano, Luca ... (H. Rondet, Les amitiés de S. Paul, N.R.T. 77, 1955, 1050-1066).

Anzi si può dire che San Paolo ha quasi sempre agito in "compagnia", con solidarietà molto strette, con collaboratori molto legati, come lo mostrano anche le intestazioni delle sue lettere.

Distante perciò da San Paolo, uomo non sposato, la figura del "filosofo Stoico"

(figura gravemente ambigua, questa del "filosofo stoico", che una certa tradizione "stoicista-disincarnata-spiritualista" ha cercato nei secoli, qua e là, di accreditare equivocamente nella Chiesa, tentando di oscurare la reale immagine di Cristo, mediante la pericolosa sovrapposizione a Lui di questo ascetico paradigma irreale:

gravi danni ne sono venuti non di rado, e non solo alla corretta lettura del Sacramento dell'Ordine Sacro, ma anche e di più alla lettura del parallelo Sacramento del Matrimonio),

 

che fugge la vacuità di questo mondo e la fugacità degli affetti umani per concentrarsi nell'unica verità eterna; per San Paolo il "non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gai. 2,20), non solo non impedisce, ma anzi promuove in lui i legami di amicizia più profondi sopra ricordati.

Anche dagli Atti degli Apostoli si può desumere che nel periodo post-pasquale la cerchia dei discepoli ha mantenuto e proseguito lo stile di vita proprio di Gesù ed in questo ambiente vitale si sono conservati i detti di Gesù fino alla loro redazione definitiva.

Gli Atti documentano ampiamente questo fenomeno dandoci diverse tipologie: spostamenti itineranti di gruppi, di coppie di discepoli, di singoli, ed anche permanenze prolungate di gruppi (per esempio ad Antiochia i cinque - Barnaba, Simeone Niger, Lucio Cireneo, Menahem e Paolo sarebbero il collegio delle autorità religiose, cfr. Atti 13,1-2); per gli esempi molteplici si rimanda perciò ad una lettura anche solo spirituale di Atti.

 

Conclusione circa la tradizione post-pasquale dei detti di Gesù

 

Le parole di Gesù ed il suo esempio hanno determinato, dopo la Sua Pasqua, il fiorire ed il consolidarsi di scelte radicali di rinuncia alla famiglia per Lui e per il Vangelo: l’appello pre-pasquale di Gesù continua ad avere vigore; ora si ha ancora l’abbandono di un contesto familiare per intraprendere una forma di vita in cui il Maestro non è immediatamente visibile, ma a parte tale mutamento (del resto significativo) , non sembrano darsi altri sostanziali mutamenti.

Così, come esperienza fondamentale, vediamo continuare la vita di gruppo, di comunità missionaria, di coppia evangelizzatrice ("Li mandò a due a due" in ogni città o luogo ove egli doveva andare - Lc. 10,1 - come Paolo ad esempio e ...), che si muove all’interno di una fraternità più vasta, la quale anzi a sua volta - come fraternità - è generata "come da fermento" dalla fraternità più ristretta e significativa dei discepoli.

Dopo la Pasqua rinunciare agli affetti familiari e ad una relazione coniugale per seguire l'appello del Signore Gesù non significa rinunciare a qualsiasi relazione umana per consacrarsi a Dio solo, o a Gesù solo, e a un ministero ecclesiastico (a una funzione); ma significa normalmente che l’impegno di fede col Signore Gesù, anziché spingere nel ghetto di un ascetismo spersonalizzato stocista, conduce invece a quella che fu poi chiamata sempre nei secoli con grande onore e venerazione la "apostolica vivendi forma" .

 

3) la redazione dei Vangeli circa i detti sulla "sequela"

Già varie annotazioni sono state precedentemente fatte e - per brevità - non verranno ripetute.

Tuttavia alcuni studiosi del Vangelo (ad es. Damiano Marzotto, Celibato Sacerdotale e Celibato di Gesù, Piemme 1987, pag. 93) sviluppano il tema di Mt. 19,12 nel contesto più vasto dei capitoli 19-20 di Matteo, per mostrare:

- da un altro lato, come gli evangelisti non potessero non pensare a coloro che tra i 'discepoli' sono diventati nel loro tempo gli associati o i continuatori della missione apostolica: "vi sono eunuchi che si sono resi tali essi stessi per il regno dei cieli" (Mt. 19,20)

Nel rimandare ai testi specialistici per l’esegesi corrispondente, parrebbe utile qui di riprendere le conclusioni di una buona esegesi del testo: cioè l’Evangelista Matteo, redigendo il suo Vangelo, nel contesto di una illustrazione più vasta sul carattere impegnativo della vita cristiana, presenta la figura dei celibi "per il regno dei Cieli".

Si tratta di persone, che, nel contesto del fatto storico del ministero del Signore Gesù, hanno rinunciato alla prospettiva matrimoniale :

- a motivo dell'incontro con gli inizi del regno nella piccola comunità di cui il Signore Gesù è il centro;

- nella prospettiva futura del regno, alla sequela di Gesù, mettendosi al servizio del regno e del suo annuncio.

La rinuncia ad una relazione coniugale ("non potere essere altrimenti" = "eunuchi" cioè), non significa però rinuncia ad una relazione umana anche profonda :

a parte la relazione centrale con il Signore Gesù, uomo Lui stesso descritto "in relazione" fra gli uomini, anche la relazione con gli altri "celibi per il regno" non solo non è un fatto accidentale, ma addirittura determina tale decisione cerei (della rinuncia alla relazione coniugale), in quanto è la realtà nuova di questa fraternità che ha indotto la rinuncia alla prospettiva coniugale.

Effettivamente si tratta della "nuova famiglia" del Signore Gesù nel suo complesso, e quindi anche nelle sue prospettive future ed apostoliche: emerge dunque una affinità fra celibato ed annuncio del regno.

D'altra parte i "Dodici", la cui esperienza sembra da vedersi in analogia con quella degli "eunuchi per il regno", furono invitati a lasciare tutto, per divenire "pescatori di uomini", cioè per essere associati al ministero escatologico del Signore.

Anche se queste scene hanno dei livelli paradigmatici per ogni vocazione, non si può nascondere il loro valore immediatamente oggettivo e pregnate, di livello pieno per coloro che avrebbero lasciato tutto realmente, per seguire Gesù nella prospettiva del regno :

 

Conclusione generale della parte A), circa i tre punti relativi alla ricognizione del dato evangelico.

 

Nel Nuovo Testamento non sarebbe possibile di parlare di una condizione di celibato a sé stante, cioè determinabile indipendentemente da una situazione esistenziale più complessa (la "sequela") e da una rete di relazioni, in cui le tali persone non sposate di fatto si trovano.

Inoltre si può osservare come l’accento non cada tanto sulla rinuncia, che si deve fare o meglio che si impone (dalla relazione coniugale), o su un certo distacco affettivo (dai legami familiari) , ma piuttosto sui motivi positivi che hanno indotto a tale scelta.

Nel Nuovo Testamento non appare il procedimento (molto stoico) della riflessione su principi teorici generali, per dedurne l’impostazione di una vocazione particolare: viene piuttosto presentata una situazione vissuta concretamente, con le sue ineludibili esigenze esistenziali assunte spontaneamente, per il Regno, in Gesù Cristo.

Quando nel Nuovo Testamento si parla di persone che hanno rinunciato al matrimonio per il regno, se ne parla in un contesto più ampio di relazioni, o comunque queste persone sono inserite in un contesto più ampio di relazioni che costituiscono i punti di riferimento veramente significativi per la determinazione di questa condizione di vita.

Un dato emergente dall'esperienza storica di Gesù e dalla relazione che ne da San Matteo, configura l’esperienza del celibato come una rinuncia che alcuni avrebbero fatto per mettersi col Signore Gesù al servizio del Vangelo, in vista del Regno.

Un secondo dato emerge dall'esame della tradizione dei detti e della loro trascrizione (per es. in S. Matteo), e configura l’esperienza del celibato come una rinuncia di alcuni al matrimonio, per continuare, sia pure sotto diverse forme, l’esperienza della cerchia del Signore Gesù, sempre al servizio del Vangelo, per amore del Signore ed in attesa del Suo ritorno.

Cioè sostanzialmente si riscontra una continuità fra l’esperienza dei tempi di Gesù e quella successiva, in essa:

- dominante è l’istanza escatologica del Regno, come realtà più grande di ogni altro valore e che assorbe a tempo pieno;

- inoltre questo appello del Regno, e quindi del Signore Gesù che ne è il centro, se da un lato relativizza la condizione matrimoniale, non solo non isola la persona, né la rinchiude nell'individualismo, ma la inserisce in una rete di nuove relazioni profonde ("apostoliche"), che "insieme" sono specchio visibile (perciò annuncio vitale) e fermento (cioè seme costitutivo del Regno) dell'amore invisibile di Dio.

(potrebbe essere utile per una più precisa lettura: J. Galot, Lo stato di vita degli Apostoli, Civiltà Cattolica, 1989, pp.327-340)

 

Parte B);

 

un approccio ad una lettura di fondo, nella intenzione esistenziale del Signore - in chiave "spirituale" - dei dati biblico-teologici.

San Giovanni, "il Teologo", "lo Spirituale" e "l’Amico", è quello che ci aiuta maggiormente a fare questa lettura "spirituale", che, forse, potrebbe essere annotare anche così :

II Mistero nascosto da prima dei secoli in Dio è l’Amore del Padre e del Figlio, che chiamiamo lo Spirito Santo: questo Mistero, che è la Gloria di Dio, è di fatto il fine di ogni intenzione di Cristo ed il Fine di Dio stesso, se così ci si può esprimere.

Tutti gli altri fini, sono subordinati a questo, e, rispetto a questo, per quanto nobili, sono secondari e ad esso finalizzati.

II Signore Gesù ha convocato una rete ristretta di discepoli, di amici suoi, di associati intimamente a Lui; li ha educati e poi formalmente "costituiti":

- perché nella radicale intimità (cfr. la "intima fraternitas sacramentalis", P.O. 8) di Lui con loro e fra di loro fosse reso visibile "come in uno specchio" l’amore invisibile e totale del Padre e del Figlio, e perché questo amore fosse ripetuto ad infinito, sempre originalmente nuovo, affinché la immagine (... "fotografia vivente", Bergman film "come in uno specchio") del suo amore ripetuta, e ripetuta, e ripetuta . . . ovunque e in ogni tempo, possa così fare da fermento e da coagulo di quella più grande immagine della Trinità che è la Chiesa.

("vuole infatti ogni amante che la immagine del proprio amore si ripeta e moltiplichi senza fine", S. Agostino, De Trinitate)

"come tu stesso, o Padre, sei in me ed io in te, e così essi pure siano in noi; onde il mondo creda che tu mi hai mandato.

Quanto a me ho dato ad essi la gloria che mi hai dato, affinché siano uno, come noi siamo uno.

Io in essi e tu in me, affinché siano consumati nell'unità, onde il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati, come hai amato me . . .

Come tu hai mandato me nel mondo, così io ho mandato loro : nel mondo ....

 

L'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio Glorifichi te, poiché tu gli hai dato potere sopra tutti gli uomini, affinché dia la vita eterna a quanti gli hai affidati.

Ora la vita eterna è che conoscano te, solo vero Dio e colui che tu hai mandato Gesù Cristo"

(Giovanni 17)

 

 

II 25 ottobre 1993 è stata difesa alla Pontificia Università Gregoriana una interessante Tesi (541 pagine) di Teologia Spirituale, dal titolo "La Fraternità sacramentale dei presbiteri"

(ne è autore il sac. Carlo Bertola, mentre ne è stato moderatore il P. Francis A. Sullivan S.J.; la tesi è attualmente in via di pubblicazione, ma ne era già stata edita una anticipazione dal titolo "Fraternità Sacerdotale", Città Nuova, Roma,199O, ed un breve estratto nello stesso 1994, con l’ampia ed utile Bibliografia).

 

Alle pagine 101-103, della Tesi del P. Bertola, viene presentato il tema "dalla comunione trinitaria alla comunione apostolica e presbiterale", mentre alle pagine 103-105 si trova il capitolo "la fraternità sacerdotale 'specchio' della comunione trinitaria"; seguono poi alle pagine seguenti i capitoli "i presbiteri, icone di Dio-Comunione"; "ultima Cena, culmine di intimità e di fraternità"; "L’ordinamento apostolico della comunione presbiterale"; "dalla Trinità alla fraternità sacramentale dei presbiteri"; "Ecclesiae Primitivae forma"; .....

 

"Nell'amore vero, reale e fraterno dei presbiteri essi fanno conoscenza e prendono coscienza dell'amore trinitario del Padre, del Figlio e di quello Spirito che è l’amore stesso che si scambiano e si donano reciprocamente sia il Figlio che il Padre e che è stato donato pure a loro.

Così è possibile riconoscere e 'vedere', nella fraternità reciproca ali' interno della comunione presbiterale, lo Spirito di quell'amore che è del Padre e del Figlio, che poi è donato anche per mezzo loro a tutti i credenti" (pag. 103)

"Se nei primi secoli dell'era cristiana il vedere come si amavano i cristiani (cfr. At 2,47) era già la 'parola' più efficace per attirare nuove persone alla verità ed alla fede in Cristo, tanto più il 'vedere' la reciprocità dell'amore nella comunione presbiterale 'parlerà' della comunine trinitaria ed attirerà ad entrarvi, più di ogni parola."

"Questa è la Buona Notizia, che, amandosi tra loro, comunichino agli altri la chiamata alla comunione nella Trinità."

"Per aprire le anime all’inabilitazione della SS. Trinità i presbiteri devono assumere e comprendere il senso pieno del loro sacerdozio, come compagnia, come fraternità, come amicizia, come speculum visibile invisibilis Dei" (pagg.103-104)

"... appare evidente che i grandi temi trinitari ... semplificano e chiariscono il tema stesso del sacerdozio, che si rivela così con un più chiaro riferimento al Vangelo,

(come fa il Concilio Vaticano II, ove i vari temi sono a stati primariamente polarizzati e successivamente messi in " relazione)"

"Dal Vangelo traspare non solo l'intenzione primigenia di Cristo: rivelare Dio ali' uomo, ma anche il mezzo per attuarla: la comunione apostolica. E il gruppo dei discepoli e lo stesso sacerdozio appare nella mente di Cristo come l’immagine visibile che egli è venuto a manifestarci, a donarci, a mostrarci, a rivelarci ("io in loro e tu in me"; perché vedendo credano ...)" (pag. 104)

"Si potrebbe aggiungere che il sacerdozio come 'ordo', come 'corpus', e, come tale, riferito alla comunità apostolica di Gesù con i suoi, non è solamente uno 'specchio visibile del Dio invisibile', ma come una reinvenzione - se così ci si può esprimere - originale e continua, in forma per così dire 'ossessiva' (come è proprio dell'amore), dello stesso debordante amore di Dio, che è la SS. Trinità; Dio 'come che' ricrea e tende continuamente a reinventare la intimità trinitaria" (pag.105)

"... il senso della nostra vita sacerdotale è racchiuso in questo augustissimo mistero, primariamente per noi presbiteri la nostra progressiva conversione cristiana (metanoia) significa imparare, nello Spirito di Cristo, a diventare persone capace di donarsi (kenosis), di servire gli altri (diakonia) per la pienezza di vita nella comunione trinitaria (koinonia), avendo sempre davanti agli occhi, ma soprattutto nel cuore, quel supremo modello trascendente che è la beatissima Trinità" (pag.105)

".... il popolo di Dio risulta infatti convocato alla comunione trinitaria da un fermento primigenio che è proprio la comunione presbiterale, la comunione dei discepoli di Gesù. E' difficile non osservare che nella mente di nostro Signore, nel 'vedere' la comunione dei 'suoi, i dispersi ed isolati uomini sono potentemente ed efficacemente attratti a quel 'corpo' che si chiama Chiesa".

"Il precetto dell'amore, testamento di Cristo, è il segno definitivo dei suoi discepoli per i tempi nuovi, segno inequivocabile di fedeltà a lui e del modo come egli ama...; anzi la ragione del comandamento, il 'vedere l’amore vicendevole del Padre e del Figlio, che è lo Spirito Santo e di partecipare e ripresentare questa loro intimità di amore, e più importante del comandamento stesso"

"... è vero che tutti i credenti in Cristo sono poi chiamati ad essere suoi fedeli. Ma certamente in primo luogo il comandamento è per coloro che sono chiamati ad essere 'suoi', 'discepoli con lui', gli 'intimi', il primo 'fermento' della massa (cfr. Mt. 13, 33; Le. 13, 20-21). Di conseguenza poi l’invito è per tutti i cristiani.... Se i discepoli rimangono nell'amore di Cristo, amando come egli ama - solo se c'è amore si compie ciò che è gradito ali' amato - il Padre è glorificato nel Figlio ed i frutti diretti sulla comunità cristiana non mancheranno (Gv. 15, 8-9)"

"Se il Padre ha scelto la sua perfetta immagine o icona, che è il Figlio suo Gesù Cristo . . . alla comunità cristiana è offerto di sperimentare la 'gloria' di Dio, nella perfetta immagine trasformante di Gesù Cristo, attraverso icone viventi di Lui. Queste icone viventi di amore apostolico e fraterno, sono il mezzo attraverso il quale Dio modella la comunità cristiana orientandola alla fede, alla speranza ed all’azione.

Questa è la vita esaltante, rischiosa e sublime alla quale i presbiteri - 'le fragili colonne del cielo' - sono condotti: essere cioè la 'gloriosa' trasparenza della essenza di Dio, della sua natura e modo di essere, delle sue prospettive di vita, essere 'specchi' del gloriosissimo Dio uno e trino, essere la luce stessa nella quale si intravede il volto del Signore: 'sacerdos enim alter Christus" (pag.107).

Come lo ricorda "il Teologo", "lo Spirituale" e "l'Amico" Giovanni, con quelle straordinarie parole, pur vere per ogni cristiano, ma specifiche per i discepoli:

"Io sono la vite e voi i tralci. Chi rimane in me ed io in lui fa molto frutto... In questo è glorificato il Padre mio; che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Come il Padre ha amato me. così anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore, come io osservo i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.

Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento; che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati...

Voi siete miei amici ...non vi chiamo più servi... ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre 1' ho fatto conoscere a voi.

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti, perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga . . . questo vi comando; amatevi gli uni gli altri" (Giovanni 15)

 

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(se si volesse avere un quadro della comunità presbiterale e della esperienza del celibato sacerdotale: cfr. C. Cochini, Origines Apostoliques du célibat sacerdotal, Paris 1981: vale forse la pena di annotare che il Cochini, nella sua poderosa opera di ricerca storica, segnala che i padri della Chiesa sono unanimi del dichiarare che coloro tra gli apostoli, che potessero essere stati sposati, hanno poi cessato la vita coniugale e praticato il celibato. Ed inoltre Egli indica che il sentimento comune dei Padri su questo punto costituisce un'ermeneutica autorizzata dei testi biblici in cui si fa allusione al distacco praticato dai discepoli di Cristo. Entrando sotto il potere totalizzante evocato dalle parole di San Giovanni essi, i discepoli, non potevano essere altrimenti che: votati a quell'amore apostolico radicale)

 

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Conclusione

Giovanni Paolo II in data 14 maggio 1995 ha ordinato 41 nuovi sacerdoti per la Diocesi di Roma. Ali' omelia Egli, citando San Giovanni, ha detto:

"'Vi do un comandamento nuovo; che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, cosi amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri' (gv. 13, 34-35) ...II sacerdote è, infatti, un uomo che ha la profonda consapevolezza di essere amato da Dio. E' un amore che egli stesso sperimenta in prima persona ... Se compito del sacerdote è l' 'opus gloriae', questo può essere adempiuto soltanto mediante l' 'opus caritatis'.. . Consapevole di quanto sia stato amato egli stesso da Dio, il presbitero deve a sua volta diventare ministro dell'amore divino fra gli uomini ...E' necessario diventare sempre più ministri di questo amore! Ministri, innanzitutto, dell'amore vicendevole tra gli stessi sacerdoti, in una singolare fratellanza tipica della vocazione e del ministero presbiterale....." (L'Osservatore Romano. 15-16 maggio 1995, pag. 5)

II Santo Padre Giovanni Paolo II, nel corso degli anni del Suo Pontificato, è ritornato più volte sul tema del Celibato e della Fraternità Sacerdotale; a modo di esempio si possono qui ricordare i due Discorsi da Lui fatti:

- agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo di Roma, cfr. L'Osservatore Romano del 16.9.1990; edizione spagnola del 21 ottobre 1990.

- ai seminaristi e novizi di Budapest, il 19 agosto 1991, cfr. L'Osservatore Romano del 20.8.91; edizione spagnola del 6 settembre 1991.

 

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Corollario primo

Circa il problema dell'esistenza di preti sposati presso certi riti orientali e circa 1' accoglienza nel rito latino di pastori anglicani (o di altre denominazioni protestanti) sposati e la loro successiva ordinazione sacerdotale.

Questa questione potrebbe essere affrontata in due differenti maniere :

- una maniera pratica: dal punto di vista dei vantaggi e degli svantaggi

- ed una maniera teorica: o evangelica.

 

1) Vivendo da 19 anni in una casa "maronita" - i maroniti hanno preti sposati - direi che la maniera pratica di valutare la questione spesso non conduce da nessuna parte; mentre anzi a volte si spegne nel consueto pettegolezzo circa i preti sposati o circa i preti celibi.

Ma comunque si può osservare praticamente che la ordinazione sacerdotale di uomini sposati non è in alcun modo una maniera di sopperire alla mancanza di vocazioni.

Infatti, sia presso gli anglicani e protestanti, come presso gli ortodossi ed orientali, la immagine del pastore sposato o del prete sposato, anziché favorire, sembra rallentare e ridurre la fonte delle vocazioni ed in certo senso anche la loro utilizzabilità; come si può desumere dalla considerazione di quelle esperienze plurisecolari ed anche bimillenarie; mentre invece, anche presso gli orientali la immagine del prete celibe è spesso più facilmente attrattiva ed anche "utilizzabile".

2) S.E. Mons. Alfred Ancel ,fondatore e superiore del "Prado" e Vescovo Ausiliare di Lione, fu invitato il 30 settembre 1965 dai Vescovi Brasiliani, presso la "Domus Mariae", per loro e per Vescovi di altri Paesi, nel contesto dei lavori del Concilio Vaticano II a presentare la conferenza:

"Le Célibat sacerdotal" (pubblicata poi in "La Documentation Catholique, Avril 1967, col. 727-750)

Egli annota "In Libano ed in Siria ho incontrato dei preti sposati" e si chiede "conviene (in occidente) stabilire un doppio clero come esiste in oriente: clero celibe e clero sposato?" ed aggiunge: "Ecco alcuni fatti che potranno aiutare la nostra riflessione:

"1) Episcopato e celibato. Tutti i Vescovi, in Oriente, sono tenuti alla legge del celibato: non è forse questo un segno che e' è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale ...?"

"2) D'altra parte, voi lo sapete, non si può parlare di matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di matrimonio di preti in Oriente, non si parla di preti che si sposano, ma di uomini sposati che sono ordinati preti. in Oriente come in Occidente non è mai permesso a un prete di sposarsi. Voi sapete anche che in Oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi.

Questa legislazione sembra ben provare, essa stessa, che esiste un certo legame fra sacerdozio e celibato."

"Io conosco due seminari in Oriente, quello di Sant'Anna di Gerusalemme e quello dei Gesuiti di Beyrouth. I seminaristi possono, seguendo il diritto orientale, sposarsi prima del diaconato e ricevere successivamente il sacerdozio. Ma di fatto, da molti anni e senza esservi tenuti da alcuna legge, i seminaristi orientali hanno ricevuto il diaconato ed il sacerdozio senza essere sposati: per ciò stesso essi si impegnano per sempre nel celibato".

".... Ecco dunque gli argomenti che ho inteso a favore o contro il clero sposato in Oriente .... converrebbe dunque trasferire in Occidente la situazione che c’è in Oriente ??? .... Personalmente io non sono favorevole all’estensione della situazione orientale al clero di rito latino, questa preferenza . . . ha il suo fondamento nel Vangelo ed essa si impone in qualche modo al mio giudizio perché mi pare che sia nel senso della storia".

In questa luce, la presenza di preti sposati presso gli orientali parrebbe avere un significato analogo a quello limitato che ha, presso la Chiesa Latina, la presenza di preti sposati provenienti dall'anglicanesimo o da altre confessioni protestanti.

 

Corollario secondo

Circa la necessità di chiarezza sulla intenzione della Chiesa, in materia di celibato sacerdotale, per i numerosi seminaristi e novizi sparsi nel mondo.

Nel 1993, c’erano nel mondo 120.050 seminaristi minori, 102.000 seminaristi maggiori, 9.602 novizi, mentre nel 1992 ci furono 6.401 nuove ordinazioni di preti diocesani e 2.568 di religiosi.

Inoltre prendendo in considerazione il periodo 1978-1993 si registra un aumento del numero complessivo di seminaristi maggiori (comprendendo gli studenti di filosofia e teologia tanto degli istituti diocesani quanto religiosi) del 62,8%, con punte massime (oltre il raddoppio) in Africa ed Asia.

L'aumento del numero delle ordinazioni sacerdotali, del clero diocesano e religioso complessivamente, è stato poi del 33,8%.

(va tenuto conto tuttavia che, data la scarsità di ordinazioni sacerdotali negli anni precedenti il 1978, la mortalità annuale nel clero ha poi ridotto - durante qualche anno - il numero globale dei sacerdoti nonostante 1'aumento crescente delle ordinazioni sacerdotali di anno in anno fin dal 1978).

E' facile vedere, perciò, che, di fronte ad un numero così elevato di giovani, che impegnano tutta la loro vita nel sacerdozio, la Chiesa senta il dovere di essere assolutamente chiara in merito alla sua intenzione circa la connessione fra celibato e sacerdozio nei preti di rito latini: non si deve e non si può, infatti, giocare con la vita delle persone ed un giovane che entra nel sacerdozio ha diritto di conoscere, con assoluta precisione, ciò a cui egli si impegna per sempre.

A) certa stampa secolarista moderna, soprattutto quella maneggiata dalle centrali dei poteri "laici",

B) ed anche certi gruppi ecclesiali minoritari-radicali, poco inclini a visioni di insieme e poco rispettosi delle decisioni delle maggioranze e della autorità nella Chiesa,

vorrebbero mantenere - negli anni - uno stato di perpetua incertezza e di continua ridiscussione su tale questione del Celibato Sacerdotale e ripropongono perciò a ripetizione, a getto continuo, le stesse obiezioni già note e già decadute, nella intenzione di aprire un varco, per poi giungere a ribaltare la situazione.

E' troppo chiaro che, proprio per riguardo alle tante vocazioni sacerdotali, la Chiesa non può e non deve accettare la perpetua dialettica dell'incertezza e del dubbio, ma deve - per obbligo morale verso tutti coloro che vengono ordinati sacerdoti - parlare la parola della chiarezza precisa e definita.

Per questa ragione il Sinodo dei Vescovi del 1990 e la Esortazione Apostolica "Pastores dabo vobis" (n.29) del Papa Giovanni Paolo II dicono testualmente:

"II Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino".

 

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sac. Mario Marini

14 gennaio 2002