Unicità e universalità di Gesù Cristo
Rimane intatta, con tutta la sua forza provocatoria, l'espressione di Dostoewskij: "Il punto cruciale della questione sta in questo: se un uomo, imbevuto della civiltà moderna, un europeo, può ancora credere; credere proprio alla divinità del Figlio di Dio Gesù Cristo. In questo, infatti, sta precisamente tutta la fede. L'affermazione circa la divinità di Gesù Cristo, comporta l'accettazione della sua azione salvifica come punto culminante del mistero dell'incarnazione. Chiedersi se l'uomo di oggi è ancora disposto a credere nel Figlio di Dio, quindi, equivale a domandarsi se è disposto ad accettare che la salvezza portata da Cristo è indirizzata proprio a lui, alla sua esistenza personale che lo coinvolge direttamente in una scelta definitiva di vita.
Non si può nascondere che la problematica circa l'unicità e l'universalità dell'azione salvifica di Cristo non è di questi giorni. Da quando Gesù di Nazareth iniziò la sua predicazione pubblica, annunciando che in lui si compiva la promessa di Dio e il Regno era visibile nella sua persona, subito l'obiezione circa la sua pretesa entrò in gioco e gli scritti neotestamentari come quelli dei Padri Apologeti ne sono una prima testimonianza. Nella storia della teologia, inoltre, permane con tutta la sua carica di contrapposizione il teorema di Lessing, secondo il quale è assurdo pensare che in un soggetto storico particolare si possa esprimere e riassumere in sé l'universale e l'eterno. Ciò che caratterizza la presente stagione teologica, che riprende tra le mani la medesima problematica, è piuttosto il modificato contesto culturale che impone alla ricerca riflessioni differenziate. Un primo elemento che emerge è costituito dal problema veritativo. E' evidente che dopo il pensiero di Nietzsche, il quale porta al culmine la parabola del nichilismo, viene meno non solo il tentativo di raggiungere una verità, ma la possibilità stessa dell'unicità della verità e, quindi, della sua universalità. L'istanza metafisica si frantuma e con essa la possibilità speculativa di uno strumentario in grado di far comprendere la pretesa cristiana. Il secondo elemento è determinato dal dialogo interreligioso che ha portato progressivamente a delineare l'ambito di una "teologia del pluralismo religioso". Sorge così il tentativo di esplicitare la singolarità dell'evento cristiano con le diverse istanze presenti in altre religioni, monoteistiche e non, per tentare di comprendere la portata salvifica al di fuori del cristianesimo.
Dominus Jesus, entrando nel merito di questioni che oggi sono sottoposte da diverse istanze a interpretazioni non corrette, ha sentito il bisogno di ribadire con forza l'unicità e universalità dell'azione salvifica di Cristo. Se, da una parte, la Dichiarazione invita i teologi a "esplorare se e come" elementi di altre religioni entrano nel piano di salvezza, dall'altra, ribadisce che "la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio" (DJ 14). A partire da questo dato della fede è necessario elaborare tratti della cristologia, che permettano di cogliere il valore unico e universale della salvezza operata da Cristo, non solo nel contesto dell'attuale dialogo interreligioso, ma anche come proposta di intelligibilità rinnovata per il credente che si interroga sui contenuti della fede. Per questo, è determinante il ritrovamento di argomentazioni che evidenzino, in primo luogo, l'autoconsapevolezza di Gesù dinanzi al mistero della sua presenza nel mondo e alla missione ricevuta dal Padre. L'esistenza del Figlio di Dio, d'altronde, si concepisce all'interno di quel processo trinitario nel quale all'atto della donazione totale corrisponde la piena accettazione nella pericoresi di un consegnarsi all'altro nella pienezza dell'amore che tutto dona.
Sulla stessa lunghezza d’onda è necessario cercare di comprendere il motivo della salvezza e l’unicità di questo atto. L’apostolo Paolo viene incontro alla nostra richiesta là dove attesta: "Lui che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi, non ci darà forse ogni cosa insieme con lui?" (Rm 8,32). Il versetto si pone verso la conclusione del capitolo ottavo della Lettera ai Romani. Paolo, che fino a questo momento aveva espresso anche nel linguaggio un tono dottrinale, sembra volerlo abbandonare per esprimere il mistero di cui intende parlare, attraverso il linguaggio proprio dell'inno. La domanda retorica posta al versetto precedente immette immediatamente nel cuore della diatriba: "Che diremo, dunque, dopo tutte queste cose? Se Dio è per noi chi sarà contro di noi?" (v. 31). Cosa si nasconde nel "dopo tutte queste cose"? Certamente, l'apostolo ritorna a quanto ha espresso in precedenza nella lettera, vale a dire l'opera salvifica compiuta da Dio in noi mediante Cristo nello Spirito dato ai credenti. Per Paolo, l'uomo si trova sempre dinanzi a Dio e proprio in questo stato è chiamato a dare una risposta soprattutto quando sperimenta la sofferenza e l'incomprensione. Si comprende, in questo contesto, il secondo interrogativo retorico che precede il nostro versetto: Se Dio è per noi chi sarà contro di noi?" (v. 31). La risposta che interessa l'apostolo non verte tanto sul "chi" o sul "nessuno" che il contesto vorrebbe come logica conseguenza della domanda, ma riporta al cuore della sua argomentazione: Dio per noi ha dato il proprio Figlio. La donazione che il Padre fa dell'Unigenito ha un valore assoluto; ha il senso della "consegna" (παρέδωκεν) che θ "per tutti", "a vantaggio di tutti noi", come viene espressamente rilevato. Nella consegna del Figlio da parte del Padre, "tutto viene" dato; il Figlio, insomma, è il "tutto" del Padre. In lui è rinchiusa ogni salvezza, come compimento della promessa e come anticipo di un'eredità che sarà totale nell'evento escatologico (cfr GS 40). Il Padre che "ha dato" il Figlio in lui e per mezzo di lui "donerà ogni cosa" (χαρίζεσθαι), dove il verbo significa "concedere per grazia". Ciς che il Padre ha dato e donerà nell'evento ultimo è solo frutto del suo amore e della sua grazia (χάρις); non c'θ altro motivo e altra spiegazione al di fuori di questa ragione che è rivelazione del mistero della trascendenza e libertà di Dio che si esprime come amore immotivato.
E' la rivelazione che presenta la kenosi come forma ultima dell'amore di Dio nell'atto di salvare l'umanità. Questa permane come il paradosso insostituibile della rivelazione cristiana contro cui ogni pensiero va a scontrarsi se non accoglie in sé la logica dell'amore. La kenosi permane come il vero mistero di Dio nell'atto in cui entra nella storia e la redime. La croce, infatti, come evento ultimo non fa che rendere evidente le conseguenze dell'incarnazione con la quale il Figlio di Dio si fa uomo nel grembo della Vergine. Con ragione von Balthasar scrive che: "L'evento della croce può essere considerato solo sullo sfondo trinitario e solo nella fede può essere interpretato" (Teodrammatica, vol IV: L'Azione, Milano 1982, 297). In quell'uomo innocente inchiodato sulla croce, che grida a Dio il perché del suo abbandono in quell'ora, viene rivelata "tutta la distanza del Figlio dal Padre" (Ibidem, 297). In quell'atto, infatti, il Figlio porta su di sé il peccato e l'alienazione da Dio e sembra agli occhi degli uomini aver perduto il Padre che lo abbandona nelle mani del mondo e nell'oscurità della morte. La fede, tuttavia, può comprendere il mistero che qui si nasconde perché sa che la vita stessa nel Dio Trino (Trinità immanente) è vissuta come un eterno e assoluto autodonarsi, dove l'abbandono di sé è solo in vista della generazione del Figlio. Il Padre è padre proprio perché non trattiene nulla per se stesso, ma tutto di sé dona al Figlio. In questo atto egli non si autodistrugge, perché per essenza è autodonazione d'amore. Alla stessa stregua, il Figlio è figlio perché possiede la divinità come un accoglimento pieno e totale di tutto ciò che gli viene offerto. Insieme spirano l'Amore come Terza Persona perché, per dirla con le parole di Bonaventura, Dio "non ha dato ancora tutto in tutti i modi in cui può dare". La spirazione dello Spirito Santo, quindi, non comporta che il Padre non abbia dato tutto generando il Figlio, ma ancora non ha dato tutto insieme con il Figlio.
L'azione dell'amore come un "tutto dare", come si vede, non annulla la divinità, ma rivela e rende manifesta la pienezza del dare come un partecipare pienamente e totalmente con la persona a cui tutto è stato dato. Qui si comprende la parola di Gesù: "Tutto ciò che è tuo è mio" (Gv 17,10); essa esprime l'autoconsapevolezza del Figlio nella piena partecipazione della divinità. Dio, insomma, non può essere pensato, alla maniera ariana, come esistente prima di questa autoespropriazione e autodonazione al Figlio, come se volesse trattenere per sé qualcosa per sussistere come Padre nei confronti del Figlio: "Nell'amore del Padre si trova una rinuncia assoluta ad essere Dio solo per se stesso" (Ibidem, 301). Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono Amore di totale autodonazione come positiva forma dell'amore che nella libertà accoglie senza pretendere di voler essere l'altro (Teodrammatica II: Le persone del dramma. L'uomo in Dio, Milano 1978, 248). Qui sorge la forma dell'obbedienza filiale come essenza d'amore. In quanto questo amore è "infondato", cioè senza motivo, e solo frutto di sé nella libertà della donazione, esso possiede il suo senso plausibile e la sua credibilità piena.
La fede vede in questa kenosi, prima e originaria, il fondamento e il culmine del mistero a cui si abbandona; è da qui, infatti, che prende avvio la possibilità e la realtà della storia della salvezza. In quel "tutto dare", in quanto Padre, e in quel "tutto ricevere", in quanto Figlio, si fonda la donazione di Dio all'uomo e, quindi, viene attestata l'origine dell'invio al mondo del Figlio come forma di "separazione" dal Padre per riversare il suo amore sull'umanità salvandola. Sono questi elementi dell'amore, come assoluto, incondizionato e libero, che permettono di riconoscerlo nel mondo come un amore che può essere unico e proprio di Dio. Se così non fosse, il Logos dovrebbe abbandonare la pretesa di singolarità che avanza e porsi allo stesso livello dei logoi di altre religioni, filosofie o sapienze ataviche.
Se, però, questo amore divino trinitario si offre all'uomo e nella sua storia, così come si attua nella vita intratrinitaria, allora è posto nel mondo il criterio ultimo per riconoscere l'amore e aderire ad esso. Il Figlio interpreta il Padre nello Spirito Santo come l'amore che dà tutto se stesso, per questo la sua pretesa di autorità somma e ultima si coniuga con la richiesta dell'obbedienza della fede in lui; anche questa obbedienza, infatti, manifesta ed esprime l'amore. Questo amore che non può essere misurato da niente e nessuno se non dall'amore del Padre è "l'intima essenza di Dio" (Teologica II, 118); è amore di libertà che chiama alla condivisione piena come forma di salvezza. Bonaventura aveva intravisto in maniera netta questa condizione quando scriveva nel suo Itinerarium mentis in Deum che: "Ad Deum nemo recte intrat nisi per Crucifixum".
Il volto della salvezza, come si vede, risplende nella bellezza del Crocifisso. Ne deriva una ulteriore considerazione teologica: solo il Figlio può rivelare l'amore di Dio e, pertanto, solo in e per Gesù Cristo si attua la salvezza. La passione e la morte di Gesù, infatti, in quanto espressione dell'assoluto abbandono richiedono la forma dell'assoluta vicinanza e intimità. La donazione piena di sé può avvenire solo da parte di colui che possiede se stesso nella sua intima natura divina; solo in questo modo, Dio permane nella sua immutabilità e libertà suprema. Gesù Cristo esprime in maniera unica questa dimensione e per questo si pone come criterio di salvezza per l'intera umanità di tutti i tempi. Se tutto si fermasse alla morte in croce, avremmo certo raggiunto uno stadio altissimo della speculazione. Con ragione l'evangelista Marco pone sulle labbra del centurione, quindi del non credente, l'attestazione di fede: "Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio" (Mc 15,39), perché aveva visto Gesù morire "in quel modo", dando cioè tutto se stesso. La morte di Cristo cambia il significato della morte dell'uomo e indica una nuova strada percorribile. E' sempre l'apostolo Paolo che attesta: "La morte è stata ingoiata per la vittoria" (1 Cor 15,54). Il non senso della morte viene, dunque, superato dalla morte per amore di Cristo, il quale libera la morte dalla "corruzione" per renderla un "passaggio" che conduce alla vera vita. E questa vita che è salvezza non è rimandata oltre nel tempo come attesa incerta e confusa, ma è resa presente nell'oggi di chi si converte. Significativo in proposito è certamente il breve dialogo sul Golgota tra Gesù e il ladro che si pente: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). L'azione salvifica di Cristo, pertanto, si incontra nella storia personale come luogo di risposta alla contraddizione della sofferenza e della morte che tocca l'uomo nel suo presente storico. L'efficacia della salvezza, insomma, coinvolge l'uomo in un processo di fede che richiede la conversione per approdare a un nuovo senso della morte.
Se parliamo in termini così radicali dell'evento della croce è perché siamo certi della risurrezione. Il mistero non si lascia frammentare, ma permane nella sua unità inscindibile, fonte di unicità e singolarità. La morte non ha bisogno di fede; essa appare nella sua drammaticità e violenza; ma la risurrezione, richiede una certezza che proviene solo dalla fede. E' questa fede che inserisce nell'ambito della salvezza e fa comprendere che come uno "è morto per tutti" (2Cor 5,14), così quanti sono "completamente uniti a lui con una morte simile alla sua", lo saranno anche nella risurrezione (Rm 6,5). Senza la gloria della risurrezione il Golgota rimarrebbe all'oscuro e le tenebre continuerebbero ad avvolgere la terra (cfr. Lc 23,44). Cristo Risorto consente che la vita offerta dalla croce possa straripare per raggiungere quanti non erano presso quel monte. La vita si diffonde dovunque e l'aurora sembra non conoscere il tramonto. L'evento salvifico di Cristo trova qui il suo unto culminante perché il Padre non permette che il Figlio veda la "corruzione del sepolcro" (Sl 16,10). Con ragione, dunque, Gaudium et spes può affermare: "Il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne per operare, Lui l?uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale. Il Signore è il fine della storia umana, "il punto focale dei desideri della storia e della civiltà", il centro del genere umano, la gioia di ogni cuore, la pienezza delle loro aspirazioni" (GS 45).
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Rino Fisichella