Il Sacerdozio Ministeriale nei documenti del Concilio di Trento
fino al Vaticano II
Al fine di comprendere il sacramento dell’ordine nel contesto del Concilio di Trento (1545-1563), è necessario cogliere la posizione dei riformatori rispetto alle otto tesi allora esistenti:
1. L’ordine non è un sacramento, bensì un determinato rito con la funzione di scegliere e costituire i ministri della parola e dei sacramenti.
2. L’ordine non è un sacramento unico, né esiste una gradualità verso l’ordine del sacerdozio.
3. Non vi è gerarchia ecclesiastica, bensì tutti i cristiani sono ugualmente sacerdoti. Affinché tale ministero sia esercitato, è necessario il consenso della comunità. Chi diventa sacerdote, può tornare ad essere laico.
4. Nella Nuova Alleanza non vi è sacerdozio visibile ed esterno, né potestà spirituale di consacrare il corpo e il sangue del Signore o di offrire il sacrificio, o di liberare dai peccati dinanzi a Dio, bensì soltanto il mandato e il ministero di predicare il Vangelo.
5. L’unzione non solo non viene richiesta per il conferimento degli ordini, ma è considerata perniciosa e spregevole, al pari di tutte le altre cerimonie. Non è attraverso l’ordinazione che si conferisce lo Spirito Santo.
6. I vescovi non sono stati istituiti in virtù di un diritto divino, né si trova il loro ordine al di sopra dei presbiteri, né hanno essi il diritto di ordinare.
Intorno alla metà del luglio del 1563, i padri conciliari ottennero il consenso sugli otto canoni del sacramento dell’ordine, ovvero:
1. Nella Nuova Alleanza vi è un sacerdozio visibile ed esterno e peculiare, cui corrisponde la potestà di consacrare il corpo e il sangue di Gesù Cristo, nonché la potestà di assolvere i peccati.
2. Oltre al sacerdozio, vi sono anche altri ordini, maggiori e minori, attraverso i quali si accede al sacerdozio.
3. L’ordinazione è un vero e proprio sacramento istituito da Cristo.
4. Attraverso l’ordinazione viene conferito lo Spirito Santo ed impresso carattere.
5. L’unzione e altre cerimonie consuete dell’ordinazione non vanno disprezzate né sono esse perniciose.
6. Nella Chiesa cattolica esiste una gerarchia, istituita per ordinazione divina e costituita da vescovi, presbiteri e ministri.
7. I vescovi sono superiori ai presbiteri; essi hanno il potere di amministrare la cresima e l’ordinazione. La loro validità non dipende dal consenso della comunità.
8. I vescovi designati dall’autorità del Papa sono vescovi legittimi ed autentici.
In sintesi, si può dire che il Concilio di Trento propose, come materia di fede, l’esistenza del ministero ecclesiastico istituito da Gesù Cristo e che, come dottrina teologica, vincolò il sacerdozio all’Eucarestia, dimostrando in base a ciò che i presbiteri sono successori degli Apostoli nel sacerdozio, essendo però diversi dai vescovi.
L’ostinata impugnazione del carattere sacramentale dell’ordine da parte dei riformatori costrinse i teologi cattolici ad interessarsi agli argomenti favorevoli e contrari a tale sacramentalità, avvalendosi a questo scopo delle fonti della fede, vale a dire la Scrittura e la tradizione.
I riformatori chiedevano che il fondamento da accettare affinché l’ordine fosse considerato un sacramento fosse il fatto che questo venisse istituito con rito esterno, con conferimento di grazia e per mandato divino. È così che Bellarmino arguisce nella sua esposizione, quando afferma che il rito esterno esiste, mediante l’imposizione delle mani. Tuttavia, non tutti i teologi cattolici erano d’accordo con tale argomentazione: per esempio, Vázquez, pur accettando la tesi generale di Bellarmino, riteneva che rispetto al diaconato e all’episcopato, essa non fosse sostenuta dai passi biblici addotti da Bellarmino.
Per il secondo elemento, il conferimento di grazia, Bellarmino sosteneva che in 1 Tm, 4,14 e 2 Tm, 1,6, vi è la testimonianza del fatto che i ministri hanno ricevuto una grazia che li accredita e conferisce loro tale ministerialità dinanzi alla comunità, senza per questo considerare detta grazia un fatto straordinario.
Come argomentazione del terzo elemento, vale a dire il carattere divino del sacramento, Bellarmino sostiene che in Act. 13,2; 20,28 e in Ef 4,11, si afferma che sia lo Spirito Santo, o Cristo glorificato, colui che istituisce i capi ecclesiastici nei loro mandati. Chemnitz obiettava dicendo che non esisteva il mandato di ordinare ministri né un rito particolare a questo scopo, così come Cristo aveva detto nell’ultima cena: "Fate questo in memoria di me", poiché non veniva prescritto un rito esterno in quanto tale. A ciò opponeva Bellarmino che, sebbene Cristo non comandi di istituire un rito esterno come tale, in definitiva non è il gesto esteriore ciò che conferisce la grazia, bensì il volere di Cristo che comanda che si perpetui in questo modo la sua presenza.
Il 7 dicembre 1965 veniva approvato il decreto Presbyterorum ordinis, sul ministero e la vita dei presbiteri, ma per comprenderlo è necessario situarlo nel contesto della Lumen gentium, approvata il 21 novembre 1964.
Tale costituzione rappresentò una rivoluzione nella concezione ecclesiologica, in quanto passava dal concetto del corpo mistico a quello del popolo di Dio, operando immediatamente una revisione del concetto di sacerdozio, in quanto comprendeva la riscoperta del sacerdozio comune dei credenti, nonché il riconoscimento della dimensione carismatica di tutta la Chiesa, la qual cosa implicava, a sua volta, l’estensione della missio Christi alla Chiesa tutta, nonché l’affermazione del ministerium sulla potestas.
Se Trento aveva stabilito la dottrina del ministero ordinato rispetto alla nozione di "sacerdozio", determinando una corrispondenza fra il sacrificio visibile dell’Eucarestia ed il sacerdozio visibile conferito mediante il sacramento dell’ordine, la Lumen gentium fece ritorno alla fonte biblica del sacerdozio comune di tutto il popolo di Dio, utilizzando la nozione di sacerdozio come categoria cristiana fondamentale, applicabile a tutti i membri del popolo di Dio, che in virtù dei sacramenti d’iniziazione cristiana partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo; e quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro (Cfr. LG II, 10). Di conseguenza, la terminologia è stata reimpostata ed è per questo che si parla di "ministero ordinato", o di "ministero sacerdotale".
La differenza sostanziale del sacerdozio comune rispetto a quello ministeriale sembra dunque fondarsi sul fatto che quest’ultimo, in virtù del suo carattere carismatico, è specificato come servizio per l’edificazione della comunità con l’autorità che proviene dal Cristo stesso e che, in nessun modo, è una derivazione o una delega del sacerdozio comune. Al contrario, il sacerdozio comune dei fedeli non è una metafora, né la derivazione del sacerdozio ministeriale gerarchico: non si tratta di un analogatum princeps del sacerdozio comune dei credenti, in quanto ha origine nel battesimo ed il suo modello è l’unico sacerdozio di Cristo sacerdote, profeta e re.
D’altro canto, il n. 28 del capitolo III della LG si colloca alla luce degli studi storici ed esegetici del NT, nonché della dottrina della Chiesa antica. In tal modo, si vedono riassunta l’antica ecclesiologia di comunione e recuperata la prospettiva missionaria come elemento fondamentale per comprendere la ragione del ministero ordinato, il cui punto di partenza non è il presbiterio, bensì l’episcopato. Tale è la prospettiva dei numeri 19 e 20 della LG III, in cui ci vengono presentati i vescovi come i successori degli apostoli, i quali, a loro volta, sono i continuatori della missione che Gesù affidò loro. La categoria di "sacerdozio" come elemento indicativo dell’identità del ministero ordinato accentua precisamente l’unica mediazione di Cristo, in modo particolare nella celebrazione dei sacramenti. Dunque, la categoria di "missione" rimuove quella di sacerdozio per diventare la categoria di intellezione del ministero ordinato.
Nell’affrontare il tema del sacerdozio, Trento era partito da una prospettiva strettamente sacramentale-sacrificale, vale a dire, dall’eucarestia all’ordine, mentre oggi il Vaticano II rilegge il Concilio in un contesto più ampio, ecclesiologico e missionario, reimpostando la visione dalla missione della Chiesa all’ordine.
La Lumen gentium volle adottare, come punto di partenza, non tanto l’istituzione gerarchica, bensì la realtà del popolo di Dio, inteso come il cuore del ministero della Chiesa. Dunque, la Chiesa prende coscienza del fatto che essa è nel ministero di Dio: un intero popolo convocato e inviato insieme a servizio del regno. Per tanto, il ministero si colloca nella comunità e può essere compreso unicamente in relazione a tutto il popolo di Dio. Dunque, nella Chiesa esistono unità di missione e pluralità di ministero (Cfr. AA 2).
Passiamo, per tanto, al documento stesso, dedicato alla vita e al ministero dei presbiteri. Presbyterorum ordinis sarà dunque contrassegnato da questa svolta ecclesiologica, come lo sarà la sua visione dell’episcopato come origine della missione presbiterale. In questo modo e secondo questa logica, collocherà la figura del ministro nella prospettiva della missione (PO 2), applicando lo schema dei tre munera (PO 4-6), recuperando il tema del presbiterio, nonché sottolineando l’aspetto collegiale del ministero presbiterale. Assumerà la nozione di carità pastorale come principio unificante della vita dei presbiteri (PO 14) e raccoglierà la comune vocazione cristiana alla santità, esplicitata nel caso del ministro ordinato mediante la realizzazione di tale vocazione, nell’esercizio del ministero pastorale.
Il passaggio da una visione sacrale e cristomonista ad una ecclesiale e missionaria si potrebbe concretizzare nell’affermazione che un ministero ecclesiale non è una semplice attività umana, né l’esercizio di una mera funzione, e che nel caso del presbitero, la sua collocazione nel vasto contesto della missione ecclesiale vivifica ed illumina tanto il ministero quanto la vita stessa del presbitero. Così recita PO 2, supponendone la derivazione dall’ordine episcopale e la previa partecipazione ai sacramenti d’iniziazione cristiana; tuttavia, "i presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo, Capo della Chiesa".
L’asse strutturale e unificante è quello della rappresentazione sacramentale che si articola in quattro dimensioni:
1ª. Il presbitero, collaboratore dell’ordine episcopale, riceve il suo ministero specifico da un sacramento particolare (l’Ordine)
2ª. Rimanda a un Altro, di cui è segno
3ª. E al contempo lo rende presente e
4ª. Il suo ministero s’iscrive nella comunione della Chiesa, con la precisazione che tale rappresentazione non viene esercitata in ragione dell’"essere", o della persona del ministro, bensì della "funzione ecclesiale". Di qui si passerà a enumerare le funzioni presbiterali, iniziando da quella dell’Evangelizzazione.
Il ministero dei presbiteri sarà esercitato su tre fronti: quello della Parola, quello dei sacramenti, in particolare l’Eucarestia, e quello dell’essere Pastore, in molteplici relazioni: con Cristo, il vescovo, il presbitero, i laici e l’umanità intera. Potremmo riassumere il nucleo del decreto in questo modo: Il sacerdote, in virtù dell’ordinazione sacramentale che ha ricevuto, partecipa del sacerdozio di Cristo e, attraverso la missione apostolica che gli è stata conferita, è investito della triplice potestà che lo mette in condizioni di collaborare con il vescovo nell’edificazione della Chiesa.
Con alcuni commentatori del decreto, si potrebbe affermare che nella figura teologica del presbitero si riscontrano per la prima volta le seguenti caratteristiche:
In base alle tendenze interpretative del documento secondo una linea puramente ecclesiomonista, che non considera necessario un ministero ordinato per rappresentare Cristo, capo e pastore, ma ritiene sufficiente una delega della comunità e del suo sacerdozio comune, nonché alle tendenze cristomoniste che vollero venire in soccorso di una crisi di identità, si vorrebbe sottolineare il carattere sacrale e cristocentrico, rifiutando per tanto una comprensione ecclesiale del ministero. Onde superare tale ambivalenza e raggiungere un’adeguata integrazione, proponiamo di reimpostare, nella loro unità, i due poli dialettici, quello cristologico e quello ecclesiologico, quello ontologico e quello funzionale, sottolineando che queste due dimensioni vanno mantenute unite e nella loro duplice rappresentazione.