L’ANNUNCIO DELLA FEDE E LA "RETTA RAGIONE"
Attualità pastorale della "Fides et ratio"
Lezione del prof. Mons. Antonio Livi
Decano della facoltà di Filosofia
Pontificia Università Lateranense
L’importanza della Fides et ratio per la pastorale in senso ampio (non solo per gli studi ecclesiastici e l’insegnamento della teologia) sta nel fatto che questa enciclica espone e illustra in modo completo e ordinato i criteri fondamentali per un annuncio della fede cristiana che tenga conto delle circostanze della cultura di oggi, caratterizzata dalla crisi della "retta ragione": una crisi che da tempo provoca forti resistenze all’accettazione della verità cristiana e che oggi, a sei anni di distanza dall’intervento di Giovanni Paolo II, rappresenta un problema pastorale ancora più attuale, anzi direi ancora più drammatico. Infatti, la crisi della "retta ragione", tanto nella sua versione di esasperato razionalismo (che non ammette la possibilità di una rivelazione divina, e pertanto nemmeno di una fede nella rivelazione) quanto nella sua versione di nichilismo scettico (che ammette la fede solo come scelta irrazionale), è andata aggravandosi di pari passo con il dilagare dell’indifferentismo religioso, rendendo sempre più arduo l’impegno di evangelizzazione (già Paolo VI lo aveva avvertito nella Evangelii nuntiandi) e vanificando spesso la stessa catechesi all’interno della comunità cristiana.
Non si pensi che il tema trattato dalla Fides et ratio sia lontano dalle preoccupazioni concrete degli operatori della pastorale. L’enciclica parla molti di "filosofia", ma nel contesto di un discorso molto ampio e articolato. Giovanni Paolo II non intendeva attribuire un’importanza privilegiata a una qualche forma o espressione determinata della sapienza umana, anzi ha esplicitamente negato che una scuola filosofica possa rappresentare in modo definitivo e completo la conquista della sapienza da parte dell’uomo (si è detto che il Papa alludesse al tomismo; ma si potrebbe dire lo stesso della fenomenologia o dell’ermeneutica o di qualunque altra scuola che tenda a imporsi nell’ambiente filosofico e teologico). Ora, nel ridimensionare la filosofia nelle sue forme storiche contingenti, la filosofia come "sistema", il Papa rivaluta quella "filosofia implicita" che è patrimonio comune dell’umanità e possibilità di coscienza per ogni persona, soprattutto in rapporto al "senso della vita" (questa espressione, ricorrente nella Fides et ratio, sta a indicare il carattere sapienziale della "filosofia implicita"). Ora però occorre rilevare che quel concetto di "filosofia implicita" fa riferimento in modo esplicito a una nozione filosofica, quella di "senso comune", che è alla base di tutto il discorso, anche se il Papa evitata l’impiego di questo termine tecnico, che peraltro è sempre stato fonte di equivoci (1). Voglio qui mostrare quanto sia importante questa nozione di "senso comune" per una retta comprensione del discorso che il Magistero ha fatto in passato e fa ai nostri giorni sui rapporti tra fede e ragione (2).
1. Ruolo della filosofia nel contesto della teologia.
Ciò richiede però di mettere in chiaro quale tipo di riflessioni filosofiche si possano fare su un’enciclica qual è la Fides et ratio. Finora, essa è stata commentata con costrutto solo dai filosofi interessati ai problemi dei rapporti tra ragione e fede nella Rivelazione, a cominciare dal problema se sia possibile una vera e propria scienza teologica, per finire - in caso positivo - con il problema di quale metodo le competa. La ragione è che l’enciclica è materialmente un testo di epistemologia teologica, un discorso sullo statuto epistemologico della teologia; e questo discorso parte dal presupposto che la fede sia sostanzialamente una forma di assenso alla verità, un "prendere per vero" (fürwahrhalten) il fatto della Rivelazione e il contenuto nozionale di essa. In altri termini, l’enciclica tratta della scienza teologica – intesa questa come studio scientifico della rivelazione cristiana – riprendendo ancora una volta il discorso sul valore della fede come conoscenza, discorso che include logicamente l’analisi del rapporto intrinseco fra la conoscenza di fede (compreso il livello proprio della teologia) e gli altri tipi di conoscenza che la precedono e la rendono possibile. Dunque, solo esplicitando tali presupposti si può fare e si può recepire un discorso coerente sullo statuto epistemologico della teologia, che è poi il solo discorso nel quale ha senso il tema dei rapporti tra la scienza teologica e la filosofia.
Insomma, data la specificità epistemologica dell’Enciclica, si richiedeva al filosofo che voleva commentarla di prestare attenzione direttamente e primariamente al tema della scienza teologica: solo indirettamente e secondariamente al tema della filosofia dell’essere (la metafisica) come strumento della "fides quaerens intellectum". Hanno mostrato scarso senso critico quei filosofi che, parlando dell’ insegnamento di Giovanni Paolo II sulla filosofia, hanno operato una specie di "Einklammerung" epistemologica, mettendo "tra parentesi" proprio il suo carattere teologico (taluni hanno adottato questa errata ermeneutica per manifestare ossequio al Magistero con argomentazioni meramente retoriche, mentre altri la hanno adottato per appropriarsene indebitamente, riconducendolo alle proprie posizioni secolaristiche). In realtà, l’appassionata difesa della filosofia che leggiamo nella Fides et ratio fa parte di un discorso le cui premesse sono tutte e soltanto teologiche; in questo documento Karol Wojtyla parla della filosofia non come docente di filosofia (lo è stato per lunghi anni) né come autentico filosofo (lo è sempre stato e non può cessare di esserlo), ma come supremo Maestro della fede cristiana, come la più autorevole espressione del magistero della Chiesa. Il Papa stesso dice di rivolgersi principalmente ai vescovi di tutto il mondo – che in unione con lui sono "maestri della fede" - per impegnarli assieme a lui nella difesa e la propagazione della fede nella situazione culturale di oggi; il che significa che l’analisi epistemologica della fede svolta dall’Enciclica è realizzata dall’interno della fede stessa: è, propriamente, espressione della "autocoscienza della fede" al livello della ricerca scientifica. Ecco dunque quello che il Papa dice in proposito: "Forte della competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla verità. E per questo motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli nell'Episcopato, con i quali condivido la missione di "annunziare apertamente la verità" [2 Cor 4, 2], come pure ai teologi e ai filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui diversi aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul cammino che conduce alla vera sapienza […]. Mi spinge a questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma che i Vescovi sono ‘testimoni della divina e cattolica verità’. Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir meno al ministero che abbiamo ricevuto […].Un ulteriore motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho richiamato l'attenzione su "alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate". Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento in rapporto alla fede" (§ 6). Queste parole dell’esordio si comprendono ancora meglio alla luce della conclusione, dove il Papa dice: "A tutti chiedo di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé" (§107).
La Chiesa torna dunque parla oggi di un tema "profano" – la filosofia – per motivi squisitamente "sacri", cioè teologici e pastorali; e, nel parlare della filosofia, oggi la Chiesa si trova, inopinatamente, a dover difendere la filosofia stessa. Infatti, l’epoca attuale è caratterizzata da una crisi della filosofia, e questo per due motivi: il primo è che la società nel suo insieme - dato il predominio culturale della tecnica e dell’economia - non apprezza più la filosofia come sapienza, come magistero di verità in ordine alle scelte decisive della vita; il secondo è che gli stessi filosofi, a una verità che venga dalla filosofia, oggi non credono più. Sappiamo che è stata proprio questa contingenza storica a indurre Giovanni Paolo II a scrivere un’enciclica sulla filosofia: "Facendo seguito ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch’io rivolgere lo sguardo a questa pecualiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata" (§ 5/2). L’offuscamento di cui parla qui il Papa viene esplicitamente collegato all’abbandono della metafisica, conseguenza di quella svolta immanentistica che va da Descartes a Kant e alla quale reagirono invano pensatori come Vico e Rosmini "La filosofia moderna – scrive infatti Giovanni Paolo II –, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo" (§ 5/2-3). Ecco dunque lo scopo dell’Enciclica: impegnare l’autorità del Magistero per riaffermare la necessità e la validità della filosofia come "indagine sull’essere", ossia come ricerca della verità delle cose, superando ogni forma di scetticismo: lo scetticismo, infatti, è una degenerazione del pensiero, un vicolo cieco dell’intelligenza; se per tutti gli uomini costituisce un ostacolo nella ricerca di Dio e un impedimento ad accogliere la fede, per i credenti lo scetticismo è proprio un rischio mortale, in quanto svuota di certezza e di senso la loro stessa fede, o quanto meno ne impedisce la retta comprensione. L’intelligenza cristiana lo ha sempre avvertito: sant’Agostino, autore dello scritto antiscettico Contra Academicos, diceva – e sono espressioni forti che il Papap riporta nell’enciclica - che "il credere non è altro che pensare con certezza" e che "se si toglie la certezza si toglie la fede, perché senza certezza non si crede in alcun modo" (cfr § 79).
Come in altri campi, anche in questo campo la Chiesa, fedele alla sua autentica tradizione, si trova a lottare da sola, procedendo in senso nettamente contrario a quelle che sono (o sembrano) le tendenze culturali dominanti; ma così la Chiesa recupera autentici valori di civiltà e di progresso che tutti gli uomini di buona volontà dovrebbero condividere. In ogni caso, il valore della razionalità e la necessità della filosofia – anche e soprattutto al giorno d’oggi – sono valori che il Magistero ripropone avendone autorità: perché sono valori intrinsecamente connessi - sul piano epistemologico - con la Rivelazione che la Chiesa ha il mandato di custodire e interpretare infallibilmente, così come lo sono, analogamente, i princìpi etico-politici della dottrina sociale della Chiesa, fondati sul diritto naturale, che è alla radice la legge morale così come è percepita dalla coscienza di tutti, ossia dal senso comune. Nei brani dell’Enciclica dove è spiegato questo ruolo "pro-filosofia" svolto provvidenzialmente dalla Chiesa di ieri e di oggi (cfr §§ 49-63) io ho trovato di che meravigliarmi e di che riflettere, vedendo come Dio, autore dell’ordine naturale, si è sapientemente assicurarato - nell’opera dell’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale - che esso fosse rispettato nella sua (relativa ma effettiva) autonomia: perché la natura creata ha un valore in sé, anche se la storia della salvezza rivela che dopo il peccato ha dovuto essere risanata. Occorre qui richiamare, per comprendere la logica di quanto andiamo dicendo, la dottrina di Tommaso d’Aquino: "La fede presuppone la ragione, così come la grazia presuppone la natura" (3). Si capisce allora che la "riabilitazione" della filosofia da parte di un Magistero la cui autorità è divina e la cui funzione è essenzialmente religiosa sia allo stesso tempo un servizio che la Chiesa svolge a favore di ciò che non costituisce di per sé il fine della Chiesa (la filosofia intesa come ricerca della verità con le risorse della ragione naturale) e una necessaria difesa di ciò che invece è l’oggetto proprio della missione specifica della Chiesa, ossia la fede. Perché la svalutazione della filosofia – soprattuto attraverso l’abbandono della metafisica – comporta inevitabilmente la caduta del pensiero cristiano nel fideismo, rischio mortale per la vita intellettuale all’interno della Chiesa.
Quanto il Papa dice circa la filosofia è dunque da valutarsi in rapporto con la fede cristiana e con la missione pastorale della Chiesa. Ciò toglie forse interesse alla lettura del’Enciclica da parte di un filosofo? La rende forse incomprensibile o insignificante per chi non professa la fede cristiana? Nient’affatto. Nell’odierno dibattito epistemologico, sapere quello che la fede cristiana dice di sé stessa è indispensabile, anche per i non credenti, che debbono saper distinguere la fede cristiana dalla "fede filosofica" - quella di cui parlano David Hume, poi Friedrich Jacobi, e ultimamente Karl Jaspers ed evitare critiche alla fede cristiana (penso a quelle di Emanuele Severino, per esempio, o anche a quelle di Paolo Flores d’Arcais, di Carlo Augusto Viano e di altri in Italia) che non risultano pertinenti perché attribuiscono alla fede cristiana qualcosa di diverso da ciò che essa dice di sé stessa.
Ribadito (perché nient’affatto scontato) il carattere teologico dell’enciclica sulla filosofia, resta da spiegare i termini che essa impiega. A qualcuno il titolo – come anche il proemio - è sembrato maldestro, perché ha poco senso, al giorno d’oggi, distinguere tra "fede" e "ragione" come se la fede non fosse un certo tipo di esercizio della ragione, o come se la ragione dovesse necessariamente identificarsi con la pratica delle scienze o con quella della filosofia. In realtà il Papa ha dovuto adottare il linguaggio con cui il Magistero ha cominciato a parlare di rapporti tra dogma e filosofia, ossia il linguaggio della costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I (1869), cui fece seguito l’enciclica di papa Leone XIII sulla filosofia cristiana, Aeterni Patris Filius (1878) . Tale linguaggio, già allora inadeguato (ma non se ne trovava di migliori), oggi risulta del tutto incongruo, dopo centoventi anni di studi e dibattiti sull’argomento; e che sia inadeguato e incongruo lo conferma la grande confusione di idee che da esso è derivato e continua a derivare. Ma – ripeto – sia il concilio Vaticano I che l’enciclica di Giovannni Paolo II sono atti del magistero ecclesiastico, e il magistero ecclesiastico ha come unico argomento la custodia e l’interpretazione della rivelazione divina mediante la sua formulazione nei dogmi e il vaglio delle posizioni che rifiutano tale rivelazione o pretendono di interpretarla in modo eterodosso; e per tale finalità magisteriale il linguaggio adottato – con la distinzioe tra "fede" e "ragione" - è sufficientemente chiaro e univoco. Se però un filosofo vuole parlare di filosofia prendendo spunto da questi documenti, allora bisogna che il suo approccio si avvalga della giusta ermeneutica, dando ai termini usati dal Magistero il loro senso proprio in funzione della tradizione dogmatica e della dialettica storica. Non dimentichiamo – per quanto riguarda la tradizione dogmatica - che il concilio Vaticano II utilizza la dottrina di san Tommaso d’Aquino sulla conoscibilità razionale di Dio creatore e sugli altri "praeambula fidei", e che su questa base tomista vanno intese le espressioni "fides" e "ratio", dove la "ragione" fa da necessaria premessa della "fede"; e non dimentichiamo nemmeno – per quanto riguarda la dialettica storica - che il concilio di fine Ottocento tiene testa, da una parte, al razionalismo moderno, il quale fa perno sulla distinzione operata da Kant tra "ragione pura" e "ragione pratica", e di conseguenza sull’opposizione tra metafisica e morale, tra scienza e fede, tra morale e religione; dall’altra parte, il concilio tiene testa al fideismo e al tradizionalismo ottocenteschi. Detto questo, è evidente che le espressioni usate dalla Fides et ratio sono in un certo senso espressioni obbligate, dato il precedente costituito dalla costituzione dogmatica Dei Filius e dall’enciclica Aeterni Patris Filius. Esse però non possono essere intese solo come si trovano negli scritti di san Tommaso, e nemmeno solo come vengono usate da Kant e poi dagli idealisti tedeschi e dai tradizonalisti francesi. Vanno intese piutosto come le intende il magistero ecclesiastico, tenendo conto non tanto delle "connotazioni" dei termini (varie, incerte, contraddittorie talvolta) quanto del loro "denotato"(chiarissimo e sempre identico a sé); e il denotato dei termini usati dalla Chiesa è il contrario dell’opposizione polare tra fede e ragione: infatti, "fede" ("lumen fidei") è sempre per il Magistero un dono divino che rende possibile all’uomo l’accettazione libera e meritoria della Rivelazione, ossia dei misteri "soprannaturali"; e la "ragione" ("lumen naturale") è sempre intesa come facoltà conoscitiva dell’uomo che è, pur non potrendo arrivare ai misteri è però capace, anche con le sue sole risorse, di raggiungere alcune verità "naturali" che sono premesse indispensabili per comprendere e accettare il messaggio rivelato. Tali denotazioni servono a capire che solo la dottrina tomista della "ratio" come possibile premessa della "fides" è compatibile con la lettera e lo spirito dei documenti del Magistero sulla razionalità del contenuto della rivelazione divina e sulla razionalità dell’atto umano con cui essa è accolta e vissuta: non sono compatibili, invece, dottrine diverse, come quella dominante negli ambienti europei e che vengono identificate come "pensiero post-metafisico" (Jürgen Habermas) o "pensiero debole" (Gianni Vattimo) e che si rifanno alla identificazione idealistica di ragione e fede nella nuova nozione di "Vernunftglaube" o "philosophische Glaube", per poi dialettizzarla nella nuova opposizione heideggeriana tra "denken" e "glauben". Nemmeno sono compatibili dottrine come quelle dominanti negli Stati Uniti e che sfociano nella maldestra operazione diretta a evitare il relativismo in nome di un realismo meramente "pragmatico" o "interno" (Hilary Putnam), quando addirittura non finiscono nella dissoluzione scettica della filosofia (Richard Rorty). E lo stesso dicasi delle teorie razionalistiche di quanti, come Hans Albert o Emanuele Severino, non ammettono nemmeno in via di ipotesi la possibilità di una fede soprannaturale, escludendo la pensabilità di una vera e propria Trascendenza e pertanto di una Rivelazione (4). Dico questo, non per catalogare i filosofi e mettere alcuni alla destra e altri alla sinistra della dottrina cattolica, ma solo per richiamare tutti all’onestà intellettuale: se qualcuno, a proposito dell’enciclica sui rapporti tra teologia e filosofia, non accetta nemmeno i termini della questione, così come vengono posti dal suo autore, non prosegua nella discussione, dichiari apertamente di essere in totale e assoluto disaccordo; qualunque parola in più è come un’offesa alla propria dignità intelettuale, e fa pensare che si voglia utilizzare politicamente una proposta di sincero dialogo teoretico.
2. La verità della fede comporta forse la negazione di ogni verità della filosofia?
Ho ricordato che, per valutare in sede filosofica il discorso dell’enciclica di Giovanni Paolo II sulla filosofia, è indispensabile prendere in considerazione il suo dichiarato ed evidente carattere teologico, che si potrebbe meglio precisare come "teologico-fondamentale" (in quanto pertinente a quella disciplina teologica che si chiama "teologia fondamentale"). Ora possiamo cercare di individuare l’insegnamento di fondo della Fides et ratio, che non sta tanto nella materialità di ciò che viene detto (il "significato") quanto nel "senso" che hanno quegli enunciati. Tutti hanno preso atto che il Papa tocca in questo documento un tema cruciale nel pensiero contemporaneo: il rapporto tra il carattere "dogmatico" della fede in una rivelazione divina, che si autodefinisce verità garantita e assoluta, definitiva e trascendente, e il carattere "problematico" della filosofia, che non solo oggi ma sempre è stata e si è considerata una ricerca, una mai pienamente soddisfatta esigenza critica. Al di là di tante questioni secondarie, penso che molti saranno d’accordo con me nel ritenere che questa dialettica di "dogma" e "skepsis" sia l’ argomento più importante trattato nell’Enciclica: comunque, è senz’altro quello che più direttamente interessa la filosofia, e questa finisce per essere la ragione decisiva dell’interesse che tanti filosofi hanno mostrato e continuano a mostrare nei confronti della Fides et ratio.
Tale confronto dialettico tra certezza della fede e problematicità della filosofia fa pensare a un famoso saggio di Karl Löwith, Wissen, Glaube und Skepsis, pubblicato nel 1958. Ma molti identificano l’antica "skèpsis" con il moderno scetticismo, identificando la fede con quello che Kant chiamò "dogmatismo". Che pensare della riproposizone di una tale dialettica? Penso che sia stata una utile provocazione alla riflessione critica, tenuto conto anche del fatto che la tesi di Löwith (che è un pensatore di cultura luterana) è quella più diffusa oggi anche in campo cattolico, giacché si inscrive nell’orientamento ideologico denominato "fideismo"; e, siccome proprio il fideismo (atteggiamento scettico e relativistico coniugato con la scelta di aderire alla fede religiosa) è ciò che l’enciclica intende criticare, deve essere sembrato a Giovanni Paolo II che giovasse alla comprensione del problema esprimere la tesi tipica della dottrina cattolica sui rapporti tra Rivelazione e filosofia con le medesime parole con cui molti (protestanti e cattolici) esprimono le tesi contrarie.
Proprio per le forti inclinazioni al fideismo che caratterizzano il pensiero cattolico alla fine del Novecento molti pensatori cattolici hanno salutato con entusiasmo quella che è parsa loro come una autorevole conferma del carattere problematico della filosofia e della falsificabilità di tutti i suoi asserti: conferma tanto più gradita quanto più da essi considerata come un definitivo abbandono della tradizione tomista, immaginata come roccaforte del pensiero razionalistico e dogmatico (5). Al tripudio si sono uniti spontaneamente i filosofi che non sono cattolici ma hanno in comune con i cattolici fideisti l’atteggiamento scetticheggiante in filosofia: e qui troviamo sia molti "analitici" come Hilary Putnam che molti "continentali"come Leszek Kolakowski. Altri, come Paolo Flores d’Arcais ed Emanuele Severino hanno manifestato forti resistenze a condividere la (presunta) svalutazione della filosofia. Ma, sia gli uni che gli altri, che cosa si aspettano dalla Chiesa? Che autorità le riconoscono sullo statuto epistemologico della filosofia? Probabilmente nessuna, e quindi il loro atteggiamento è suggerito da motivi retorici. Ma c’è qualche filosofo che ha delle buone ragioni per riconoscere alla Chiesa un’autorità in materia?
Per risolvere la questione occorre approfondire ulteriormente l’analisi epistemologica, evitando risposte affrettate. Abbiamo visto che le indicazioni che la Chiesa fornisce riguardo alla filosofia sono pensate e comunicate da un punto di vista teologico: ora però osserviamo che questo punto di vista teologico, dato l’argomento, coincide perfettamente con un analogo punto di vista che è proprio anche della filosofia. Questo punto di vista coincidente consiste nella ricerca e dell’individuazione delle premesse o presupposti della propria pretesa di fare scienza, secondo quella figura logica che io chiamo "presupposizione" (6).
3. Il senso comune come premessa (epistemica) sia della fede che della filosofia.
Si tenga presente che ogni scienza è per sua natura una conoscenza "seconda", in quanto presuppone delle conoscenze "prime"; ogni scienza è un processo di sistemazione, di riflessione critica, di approfondimento, di giustificazione causale che presuppone l’oggetto d’indagine, dal quale proviene l’esigenza razionale di ricerca. Se poi una scienza è "scienza della totalità", come avviene appunto nel caso della filosofia e della teologia, tale conoscenza previa è quella universale e necessaria dell’esperienza comune o "senso comune"; la teologia infatti presuppone la fede nel dato rivelato, ma cerca di comprendere il dato rivelato ("fides quaerens intellectum") servendosi proprio di categorie universali e necessarie ricavate dal senso comune: qualunque altra categoria si rivela non omogenea con il dato rivelato. Quando dunque la teologia entra in dialogo con la filosofia, questo dialogo è possibile – salve restando le reciproche distanze, derivanti da radicali differenze epistemologiche – se le due scienze si incontrano in un terreno comune: e terreno comune tra due scienze non può essere che quello rappresentato da un comune dato pre-scientifico, ossia da un dato che precede e fonda sia la scienza filosofica che quella teologica. Non si vuole dire, certamente, che la filosofia debba sottomettersi a criteri estranei, né che la teologia si arroghi un compito direttivo che non le spetta: entrambe, in uno sguardo retrospettivo che è coscienza dei propri fondamenti epistemici, scorgono le certezze del senso comune – che sono giudizi di esistenza, non teoremi di spiegazione dei fatti - come punto di partenza obbligato e regola metodologica ineludibile del loro processo di ricerca. Se la teologia riafferma – come fa l’Enciclica – che la filosofia ha tali e tali caratteristiche (sapere sapienziale, legato ai problemi esistenziali e alla religione) e non può che prendere la strada della metafisica (per poter passare dal fenomeno al fondamento), tali richiami formali e metodologici non sono altro che il riconoscimento delle esigenze insite nell’oggetto, comune a entrambi, che è l’esperienza universale dell’uomo che vuole decifrare il mondo, la sua anima, il rapporto con i suoi simili e l’origine di tutto. Il richiamo della teologia va dunque inteso come l’applicazione del principio di rigore razionale che io ho denominato "principio di coerenza" e che vieta di negare come verità, nella riflessione critica, quello che è stato legittimamente affermato come verità nelle premesse dela riflessione, ossia nell’intuizione empirica.
Nozione epistemica di "senso comune" e "principio di coerenza". Qualcuno penserà che quanto vado dicendo a proposito dell’Enciclica non è altro che una maniera di riproporre le mie tesi (7). In realtà, sono considerazioni dettate soltanto dalla convinzione di fare un servizio alla verità, a cominciare dal rispetto della lettera – prima ancora che dello spirito – della Fides et ratio. Qualche riferimento testuale servirà dunque a mostrare come questa interpretazione sia l’unica valida. Si ricordi il passo nel quale il Papa scrive: "Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che s'è svolto — né poteva essere altrimenti — entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza. […] Un semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza" (§ 1). Si osservi l’andamento del discorso di Giovanni Paolo II: egli ha a cuore di ricollocare la filosofia nel suo giusto contesto antropologico, accanto a tutte le altre forme di sapienza umana (mito, religione, poesia); infatti, "molteplici sono le risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell'umanità. […] Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo. E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti culture in cui l'uomo vive" (§ 3). Si noti come il Papa parli di "proprietà nativa della ragione umana", ossia di qualcosa che non è cultura ma genera la cultura in tutte le sue diverse forme; di qualcosa che non è legato a contingenze socio-culturali ma appartiene al patrimonio comune dell’umanità; in altri temini, è proprio il senso comune.
Del senso comune come "comunità di senso" il Papa continua a parlare perché gli sta a cuore relativizzare la filosofia in rapporto all’unica cosa che nell’uomo c’è di assoluto, ossia la sua specifica natura; la cultura è invece una cosa relativa – dipende dai tempi e dai luoghi, dalle forme espressive e dai mezi di comunicazione, dall’esperienza storica in continua cambiamento -, e della relatività della cultura risente necessariamente anche la filosofia: nessun sistema filosofico può ritenersi espressione unica della razionalità che cerca il senso della vita. Scrive infatti il Papa: "La forte incidenza che la filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo delle culture in Occidente non deve farci dimenticare l'influsso che essa ha esercitato anche nei modi di concepire l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in forme prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che una forma basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale" (ibidem). In definitiva, quando si parla di filosofia non bisogna dimenticare che "dietro un unico termine si nascondono significati differenti" (§ 4). La filosofia viene dunque presentanta nell’Enciclica, non come l’espressione unica o suprema della razionalità (tesi che caratterizza invece il razionalismo di ogni epoca) ma come una forma di razionalità tra le altre, e nemmeno la prima in ordine logico-genetico. Prima della filosofia come scienza c’è una "ricerca della sapienza" che non è altro che la comune tendenza al sapere, una tendenza di natura esistenziale che si riscontra in ogni uomo singolo e nella società di ogni tempo; questa comune e perenne tendenza può acquisire anche le caratteristiche della ricerca scientifica, ma il suo valore sta tutto nell’esprimere un’esigenza naturale della ragione che può trovare altre forme di espressione altrettanto valide per quanto concerne il risultato. La filosofia viene dunque esaltata e allo stesso tempo ridimensionata dalla sua collocazione gnoseologica nel più vasto àmbito del "senso comune".
A partire dal senso comune – conoscenza di primario valore epistemico, previa sia alla filosofia che alla fede nella rivelazione soprannatuale in quanto apertura al problema e al mistero – il Magistero, parlando di teologia, può dunque fare un discorso che interessa anche i filosofi, perché dal senso comune si ricava la coscienza dei presuppposti, della funzione e dei limiti della filosofia; lo stesso motivo che rende possibile e interessante per il credente il discorso teologico sulla filosofia – ossia il fatto che la fede si riconosce radicata nel senso comune e nelle varie forme di ricerca razinale che ne derivano - lo rende possibile e interessante anche al filosofo di professione, o comunque al filosofo come tale. Queste sono in proposito le parole di Giovanni Paolo II: "La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è "la via, la verità e la vita" [Gv 14, 6]. Tra i diversi servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia alla verità. Questa missione, da una parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie per raggiungere la verità; dall'altra, la obbliga a farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio" (§ 2). Il rapporto è dunque esplicitamente stabilito tra questi due termini: da una parte, lo "sforzo comune dell’umanità" (che si basa sul senso comune e all’interno del quale si trova la filosofia); dall’altra, le "certezze acquisite" mediante la rivelazione divina: il tutto in un contesto di umiltà intellettuale che esclude sia il razionalismo filosofico che quello teologico.
Ciò però non significa adottare le categorie scettiche del "pensiero debole" o "postmetafisico", e nemmeno un atteggiamento relativistico. Il Papa non rifiuta certamente l’ipotesi (e nemmeno l’evidenza storica) di sistemi filosofici validi: rifiuta di assumerne uno come garante della fede o come garantito dalla fede; scrive infatti: "La capacità speculativa, che è propria dell'intelletto umano, porta ad elaborare, mediante l'attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti culturali e in diverse epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato all'elaborazione di veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione di identificare una sola corrente con l'intero pensiero filosofico. E però evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa "superbia filosofica" che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente" (§ 2)
Il ridimensionamento della filosofia operato da Giovanni Paolo II nell’Enciclica è dunque in funzione dell’apprezzamento sincero del valore fondativo, in funzione logico-aletica, del senso comune. Infatti - aggiunge il Papa - "è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio" (§ 2). E’ chiaro che la filosofia interessa la Chiesa nella misura in cui esprime e valorizza dialetticamente le verità teoretiche e morali che costituiscono il senso comune.
3. Come interpretare la rivalutazione della metafisica.
Da un punto di vista storico, per comprendere questo delicato equilibrio tra fiducia nella ragione e consapevolezza dei suoi limiti conviene tener presente che la Fides et ratio è scritta tenendo conto del contenuto e degli esiti ecclesiali della Aeterni Patris Filius, che nel 1878 determinò la ripresa degli studi filosofici e teologici "secondo il metodo e i princìpi di san Tommaso d’Aquino" (8). Tra l’enciclica di Leone XII e quella di Giovanni Paolo II ci sono molti punti di contatto: in entrambi i documenti, infatti, si tratta espressamente della filosofia, e in entrambi si parla diffusamente di Tommaso d’Aquino, indicando la sua dottrina e il suo metodo come modello di filosofia praticata da cristiani che ragionano in piena coerenza con la loro fede. Ma le analogie finiscono qui, perché l’enciclica di Giovanni Paolo II ha un’ampiezza tematica ben maggiore, dovendo prendere posizione sugli sviluppi della teologia e della filosofia negli ultimi cento anni, sintetizzando questi sviluppi con la denuncia dell’abbandono della filosofia da parte della teologia, conseguenza dell’abbandono della metafisica da parte della filosofia .
L’Aeterni Patris Filius fu scritta da Leone XIII in un’epoca nella quale il dibattito sui rapporti tra fede cristiana e ragione filosofica si concentrava sulla risposta da dare alle sfide del razionalismo moderno (da Descart es a Hegel), dopo le fallimentari risposte tentate dal fideismo cattolico. Razionalismo e fideismo sono infatti i due opposti errori che il Magistero della Chiesa si trovò a dover sconfessare dopo la grande stagione dell’idealismo hegeliano e l’avvento dell’irrazionalismo, da Schopenhauer e Kierkegaard a Nietzsche. Il concilio ecumenico Vaticano I, sotto papa Pio IX, aveva condannato formalmente due opposti modi – entrambi contari all’ortodossia cattolica - di intendere i rapporti tra fede cristiana e ragione umana: il primo modo era appunto il razionalismo idealistico (Hegel, Schelling), che tendeva ad assorbire la fede cristiana nella ragione filosofica, identificando la teologia con la filosofia; il secondo modo era quello fideistico, che tendeva a privilegiare (falsamente) la fede, facendone un assoluto logico, privandola cioè di ogni presupposto o premessa di tipo razionale, e in definitiva anche di ogni contenuto veramente razionale (9). Sono posizioni speculari: così come la filosofia, per il razionalismo, deve "cominciare da sé stessa" e non ammettere presupposti (di fede), anche la fede, nell’ottica fideistica, deve cominciare da sé stessa e non ammettere presupposti (di ragione naturale).
Per la loro chiara contrapposizione e per la loro indole estrema, il razionalismo e il fideismo erano facilmente formulabili e criticabili ai tempi del Vaticano I; non così le posizioni che l’enciclica di Giovanni Paolo II si è trovata ad affrontare. Oggi il fideismo non è più, come nell’Ottocento, una posizione di minoranza tra i cattolici (mentre era già la posizione "normale" dei protestanti, che non hanno mai abbandonato la linea luterana di diffidenza verso la ragione e la filosofia); oggi rappresenta la posizione di maggioranza tra i cattolici, tanto che mi sento di ripetere quello che scrivevo molti anni or sono: che il pericolo per la cultura cattolica è il fideismo (10). Peraltro, anche il razionalismo è presente: in Germania lo si conosce con l’etichetta del "razionalismo critico" (Hans Albert), e da noi in Italia è rappresentato da Emanuele Severino. Ma oggi, né razionalismo né fideismo hanno quella caratterizzazione polemica che li rendeva facilmente riconoscibili nelle loro premesse teoretiche. Oggi le posizioni condannate esplicitamente dal Vaticano I si ritrovano tutte (o quasi tutte) all'interno della cultura cattolica, e molto spesso sono sostenute da pensatori che non intendono assolutamente combattere la dottrina cattolica, anzi si ritengono suoi genuini interpreti. Ciò spiega che nell’Enciclica si parli di comportamenti ecclesiali gravemente dannosi per la fede a motivo dei princìpi filosofici erronei ai quali si ispirano; il Papa li chiama con il loro nome tenico: "razionalismo" e "fideismo". Riguardo al primo scrive: "In alcune teologie contemporanee si fa nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la ricerca teologica" (§ 55/2); riguardo al secondo invece si legge: "Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio" (§ 55/3). Sui pericoli del fideismo Giovanni Paolo II ritorna più volte:quando denuncia il metodo teologico del "biblicismo, che tende a fare della letturta della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo" (ibidem), per poi precisare che "altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia classica, dalle cui nozioni sia l’intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini" (§ 55/5); o anche quando osserva che si sta diffondendo un certo "pragmatismo dogmatico", secondo cui "le verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento" (§ 97), come anche "l’etica individualistica" che ha messo in crisi la teologia morale (§ 98); o infine quando avverte che "se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di rinchiudesi in strutture di pensiero poco adatte all’intelligenza della fede" (§ 77). Riguardo poi i pericoli del razionalismo Giovanni Paolo II denuncia "la rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi l’accesso a una più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa filosofia" (§ 75).
4. Rifiuto del fideismo per salvaguardare la razionalità della fede.
Il fideismo è un problema per la teologia, prima ancora di essere un fenomeno culturale che può interessare più o meno la filosofia. Il Papa, evidentemente, non ammette lo scetticismo in filosofia perché anzitutto non ammette il fideismo in teologia. Parlando della fede, egli ribadisce infatti che si tratta di un atto della ragione, intrinsecamente connesso con gli altri atti della ragione, con i quali l’uomo riconosce l’evidenza e argomenta a partire da essa. Ciò dipende inanzitutto dal contenuto della fede (la "fides quae creditur"), che è qualcosa di sommamente razionale, proprio perché soprannaturale: "Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza" (§ 7). Di conseguenza, è razionale anche l’adesione della persona alla Rivelazione (la "fides qua creditur"): "La fede è in qualche modo ‘esercizio del pensiero’; la ragione dell’uomo non si annulla né si avvilisce dando l’assenso ai contenuti della fede; questi sono in ogni caso raggiunti con una scelta libera e consapevole" (§ 43/2). E, citando il Vaticano I, Giovanni Paolo II ricorda come fosse giunto quel concilio ecumenico a ribadire la natura razionale della fede: "La critica razionalista, che in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare" (§ 8).
Estendendo il discorso alla filosofia, il Papa la riconduce alle sue radici nella natura dell’uomo (senso comune), ribadendo che la ragione umana è fatta per affrontare i grandi problemi della metafisica (il mondo, l’uomo, Dio) e in parte è anche in grado di dare a questi problemi una soluzione certa: "La capacità speculativa, che è propria dell’intelletto umano, porta a elaborare, mediante l’attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso, e a costruire così, con la coerenza logica delle affermazioni e l’organicità dei contenuti, un sapere sistematico" (§ 4/2). Tutto ciò significa, per quanto riguarda la filosofia, che – secondo la Chiesa - il suo esercizio all’interno dell’orizzonte cristiano la rende ancora più capace di certezze ben fondate, ancora più resistente di fronte alla tentazione dell’auto-annientamento nelle varie forme di scetticismo.
Ripeto (perché non si perda di vista il senso del discorso) che la Chiesa parla sempre soltanto per motivi teologici, i quali si compendiano nella salvaguardia della fede cristiana, che è fede nella rivelazione divina; ma è proprio per questo che essa – ben conoscendo la contingenza storica nella quale viviamo alla fine del secondo millennio - ribadisce con Giovanni Paolo II la natura razionale dell’uomo; questa natura razionale – sottolinea il Papa - si esprime soprattutto nella ricerca del senso ultimo della vita, dunque nella religione, per cui la fede cristiana richiede assolutamente che essa sia riconosciuta e rettamente praticata anche al livello della riflessione filosofica. Una filosofia che pratichi l’irrazionalismo e che predichi lo scetticismo rende dificile e talvolta impossibile la comprensione e l’acoglienza della Rivelazione. "E’ necessario – si legge nel § 66/2 dell’Enciclica – che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale vera e coerente delle cose create, del mondo e dell’uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina". Non sfugga a nessuno l’esattezza dei termini: si parla di "conoscenza naturale", non di fede, e che sia "vera e coerente"; e si precisa che essa deve avere lo stesso orizzonte che ha la Rivelazione, ossia l’orizzonte dei problemi metafisici ("la creazione, il mondo, l’uomo"), nella logica della verità. La posizione contraria è appunto il fideismo, che comincia con un assunto filosofico falso (lo scetticismo) per poi relegare ogni certezza alla sola "fede" (che non è più tale, perché viene intesa come un atto arbitrario, razionalmente infondato, ossia irrazionale).
Proprio per questo il Papa lamenta la presenza nella cultura odierna di forti tendenze contrarie alla razionalità, a quella razionalità che si esprime soprattutto nella radicalità e assolutezza del problema metafisico; egli ribadisce la necessità della filosofia autentica, che è discorso sulla verità delle cose conoscibili nell’esperienza umana; ricorda che la ragione naturale possiede un nucleo di certezze fondamentali incontrovertibili (il principio di non-contraddizione, l’evidenza della causalità efficiente e finale); di conseguenza, oltre a rinnovare la condanna che la Chiesa aveva già pronuciato contro alcuni errori dottrinali, ne condanna altri più recenti, parlando esplicitamente del relativismo, dello scetticismo, del fenomenismo, dell’eclettismo (cfr § 86), del modernismo o storicismo (§ 87), dello scientismo (§ 88), del pragmatismo (§ 89), del nichilismo (§ 90), del positivismo (§ 95). In definitiva, si tratta di salvaguardare la filosofia dallo scettticismo. Ora, molti filosofi, se hanno rilevato con soddisfazione come il Papa abbia ridimensionato e relativizzato la filosofia, prendendo esplicitamente le distanze da ogni sistema, non hanno però accolto con pari soddisfazione la proposta (ancora più esplicita) di un "pensiero forte", di tipo metafisico, che escluda atteggiamenti scettici. Evidentemente non hanno saputo leggere l’Enciclica con quei giusti criteri ermeneutici che ho qui di nuovo ricordato.
Peraltro è logico che il Magistero, dovendo dialogare con i filosofi sulla filosofia, non si limiti alla critica e alla condanna – in questo caso, la condanna dello scetticismo - ma offra anche, per via di connessione logica, indicazioni positive e costruttive. Il dogma ha infatti dei presupposti logici che ne fanno parte in modo essenziale: nel difendere il dogma nei suoi enunciati espliciti, il Magistero – con l’aiuto della teologia – ha sempre dovuto e voluto difendere anche i suoi presupposti impliciti, quelli che san Tommaso d’Aquino chiamavai "praeambula fidei", tra i quali c’è la funzione che la ragione svolge nella vita umana in rapporto con la morale e con la religione. Come dice l’Enciclica, "la Chiesa […]vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l'esistenza dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono" (§ 5).
Ma quale filosofia? La risposta è chiara, anche alla luce di quel "ridimensionamento" della filosofia di cui prima parlavo; scrive infatti il Papa che, "più che di singole tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono occupati della necessità della conoscenza razionale – e, dunque, ultimamente filosofica – per l’intelligenza della fede" (§ 53/1). Il Vaticano I aveva messo ben in evidenza quanto siano inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione; ribadendo la verità fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale dell'esistenza di Dio come principio e fine di ogni cosa – la certezza conclusiva del senso comune - , il Vaticano I concludeva con l'affermazione che ha suggerito a Giovanni II l’incipit dell’Enciclica: "Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto" (11). Rifacendosi ai tempi del Vaticano I Giovanni Paolo II osserva che già allora la Chiesa era preoccupata degli opposti errori del razionalismo e del fideismo: "Bisognava affermare, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi, anche l'apporto positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede" (§ 53). Non occorre sottolineare come il discorso sulla "unità della verità" escluda alla radice ogni posizione scettica (implicata dal fideismo), senza però richiedere l’accettazione del metodo e dei presupposti tipici del razionalismo, che modernamente ha avuto da Kant il nome di "dogmatismo", nome che non fa riferimento al dogma rivelato (cioè alla fede), e filosoficamente designa molto di più della mera ammissione di verità incontrovertibili (12).
5. Il senso comune, nucleo veritativo del pensiero, come argine allo scetticismo.
La ragione di questo ambiguo comportamento sta in un equivoco epistemologico. Vi è infatti un aspetto della dottrina della Chiesa sui rapporti tra Rivelazione e ragione naturale che viene lasciato sempre in ombra, ed è la necessaria distinzione tra esercizio spontaneo (universale e necessario) della ragione umana ed esercizio scientifico, riflesso e sistematico della ragione stessa. Ora, nel primo caso l’epistemologia moderna, dopo Vico, ha messo in luce, nell’àmbito dell’esercizio naturale della ragione, alcune certezze primarie, comuni a tutti gli uomini, che nessuna riflessione può svalutare e che stanno alla base di ogni processo razionale e di ogni tipo di comunicazione; nel secondo caso, al contrario, si tende oggi a considerare il sapere scientifico come particolare, storico, contingente, ipotetico, fallibile. Se per "metafisica" si intendesse principalmente e soltanto ciò che la ragione umana elabora sistematicamente e metodicamente, con un determinato linguaggio tecnico e con determinati procedimenti dialettici (dimostrativi, dialogici), se insomma si prendesse il termine "metafisica" solo come sapere scientifico, allora la dottrina tradizionale della Chiesa e anche quest’enciclica non sarebbero facilmente comprese e accettate. In realtà la Fides et ratio non parla solamente né principalmente della metafisica come scienza, perché questo equivarrebbe a vincolare la fede cristiana alla contingenza storica e alle particolarità culturali; l’Enciclica parla anzitutto del "senso comune", e poi anche della filosofia come scienza, ma in quanto ancorata, nei suoi fondamenti, alle certezze indubitabili e comuni dell’esperienza di base, ossia al senso comune.
Il termine "senso comune" – mi si dirà - non compare nel documento di Giovanni Paolo II; la cosa, di per sé, non sorprende, perché pochi usano questo termine (anche se nessuno ne ha trovato uno migliore per dire la stessa cosa). Penso che la formazione filosofica di questo Papa risenta molto del lessico filosofico tedesco – il linguaggio della fenomenologia di Husserl e di Scheler, i primi autori da lui studiati -, e in tedesco, dopo Kant, il termine corrispondente a "senso comune" (Gemeinsinn) non ha più avuto un uso filosofico riconosciuto; in ogni caso, il Papa usa termini esattamente equivalenti, a cominciare da quello classico greco ("orthòs lògos") e dal suo corrispettivo latino ("recta ratio"). All’inizio dell’Enciclica si legge: "Ogni sistema filosofico […] deve riconoscere la priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma coerente" (§ 4/2). E’ un modo di riferisi al senso comune, che non è formalmente filosofia, ma è il presupposto logico della filosofia stessa, in quanto ne costituisce la materia. Poi, per accennare ai contenuti del senso comune (i giudizi di esistenza originari e i primi princìpi a essi collegati), l’Enciclica aggiunge: "In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo per esempio, ai princìpi di contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise" (§ 4/3); l’elenco, volutamente incompleto e disordinato, rispecchia però sostanzialmente la teorizzazione sistematica che io stesso a suo tempo ho fatto del senso comune, individuando cinque certezze fondamentali di tipo esistenziale, alle quali si collegano i primi princìpi speculativi e pratici (13). Che poi si tratti del senso comune in quanto costituisce, nei suoi contenuti, le premesse razionali della fede nella Rivelazione (i "praeambula fidei"), risulta chiaro da quanto il Papa dice in due altri passi (e sempre in riferimento al Vaticano I): in primo luogo quando scrive: Il Concilio partiva dall’esigenza fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale dell’esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa" (§ 53/1); in secondo luogo quando ribadisce che "esistono verità conoscibili naturalmente,e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio" (§ 67/1). Si sarà notato che in entrambi i passi si parla di "presupposti" naturali della conoscenza di fede, che è di carattere soprannaturale: ed è proprio ciò che Tommaso intendeva dire con l’espressione "praeambula fidei", oggi così mal interpretata da chi non conosce direttamente Tommaso. Ma il modo di esprimersi del Papa ha richiamato sui "praeambula fidei" l’attenzione di molti filosofi, anche non tomisti; Enrico Berti, ad esempio, ha notato che "l’enciclica usa ripetutamente un concetto che, se non erro, non era altrettanto diffuso nei precedenti documenti del magistero, cioè quello di ‘apertura’. […] Questo concetto di apertura anzitutto allude a una priorità, almeno dal punto di vista logico, della filosofia, come sapere naturale, rispetto alla fede, che ha per oggetto il soprannaturale: priorità accennata anche nel richiamo alla tesi di Tommaso secondo cui la fede suppone e perfeziona la ragione [§ 43] e nell’affermazione che la filosofia è una via realmente propedeurica alla fede [§ 67]" (14); a sua volta Robert Spaemann ritrova nella distinzione e reciproca dipendenza di ragione naturale e fede soprannaturale la necessità logica del "circolo ermeneutico" (15).
Tornando poi all’aspetto formale del senso comune, l’Enciclica conclude: "Questi ed altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell’umanità. E’ come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi princìpi, anche se in forma generica e non riflessa" (ibidem). La "forma generica e non riflessa" di cui parla il Papa è appunto l’aspetto formale del senso comune, ciò che lo distingue dalla filosofia vera e propria – la filosofia come scienza -, senza però che questa sia da concepirsi (gnosticamente) come "superiore" al senso comune, perché proprio sul senso comune la filosofia si fonda e su di esso deve misurarsi, come il Papa riconosce: "Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche" (Ibidem).
Ciò consente alla fede di non dipendere sostanzialmente da qualche sistema filosofico in particolare, né dalla filosofia in generale se considerata nei suoi aspetti formalmente scientifici . Già Pio XII, in un passo che Giovanni Paolo II cita per intero (cfr § 96, nota 112), aveva insegnato che "la Chiesa non può essere legata a un qualunque sistema filosofico effimero; ma quelle nozioni e quei termini che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dotttori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco: poggiano invece su princìpi e nozioni dettati da una vera conoscenza del creato" (16).
Ciò significa che il discorso sui rapporti tra fede e filosofia presuppone che la certezza delle verità rivelate (la "vera conoscenza" dei misteri della fede) abbia un nesso intrinseco con la certezza delle verità naturali (la "vera conoscenza del creato"). Ma la certezza delle verità naturali non sta tanto nelle ipotesi e nei sistemi "costruiti" dalla filosofia, quanto nelle evidenze primarie che la flosofia non costruisce ma solo ri-conosce e utilizza come materia delle sue costruzioni. Solo riportando il termine "filosofia" al fondamento aletico costituito dal senso comune si può intendere il discorso dell’Enciclica sulla filosofia, quando si dice che essa "ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero", e dunque "deve recuperare con forza la sua vocazione originaria" (§ 6/3); vocazione originaria che la Chiesa ritiene di conoscere bene, perché a quel livello – al livello del senso comune – essa appartiene alla logica delle premesse necessarie dellla fede: "Riaffermando la verità della fede, possiamo ridare all’uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e sviluppare la sua piena dignità" (§ 6/2).
Antonio Livi
(note)
(4) Cfr, per quanto riguarda Albert, le osservazioni di Antonio Livi, Senso comune, filosofia e cristianesimo: sulle contraddizioni del "razionalismo critico" nella critica della metafisica, in AA.VV., Ragione filosofica e fede cristiana, a cura di Lorenzo Leuzzi, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 1996, pp. 49-64; cfr anche, per quanto riguarda Severino, la discussione con Piero Coda, La verità e il nulla: il rischio della libertà, Ed. San Paolo, Cinisello B. 2000.
(5) Mi riferisco soprattutto a Dario Antiseri, sostenitore di un "fideismo razionalistico" (è lui stesso a denominarlo così) coerentemente esposto in tutte le sue opere, tra le quali cfr: Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede (Ed. Queriniana, Brescia 1980); Gloria o miseria della metafisica cattolica italiana? (Ed. Armando,Roma 1987); Le ragioni del pensiero debole (Ed. Borla, Roma 1993); Teoria della razionalità e ragioni della fede (Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1994); Relativista perché cristiano, cristiano perché relativista (Ed. Rubbettino, Soveria Mandelli 2003).
(6) Cfr Antonio Livi, Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica), Ed. Mursia, Milano 2000.
(7) Cfr Antonio Livi, Filosofia del senso comune (Logica della scienza e della fede), Ed.Ares, Milano 1990, cap. VI; Idem, Il principio di coerenza (Senso comune e logica epistemica), Ed. Armando, Roma 1997.
(8) Sull’enciclica di Leone XIII si veda: Antonio Livi, Il ritorno allo studio di san Tommaso prima e dopo l’"Aeterni Patris", in "Scripta theologica", 1979, pp. 599-618; AA.VV., Le ragioni del tomismo (A cento anni dalla "Aeterni Patris"), Ed. Ares, Milano 1979.
(9) Cfr Theses a Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptae, 8 settembre 1840 (DS, nn. 2751-2756); Theses a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum subscriptae, 26 aprile 1844 (DS, nn. 2765-2769); S. Congregazione dell’Indice, decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty , 11 giugno 1855 (DS, nn. 2811-2814).
(10) Cfr Antonio Livi, Il pericolo è il fideismo, in "Studi cattolici", 1980, pp. 779-784; Idem, Razionalità della fede nella rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2002. Molti commentatori concordano con me nell’osservare come la Fides et ratio sia mossa principalmente dalla preoccupazione di arginare la deriva fideistica; cfr ad esempio Lorenzo Cappelletti, "Fides et ratio", rinnovata condanna del fideismo, in "30Giorni", ottobre 1998, pp. 28-31.
(11) Conc. Ecum. Vaticano I, cost. cit., IV (DS, n. 3015); cfr Conc. Ecum. Vaticano I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II (DS, n. 3004); e can. 2, 1 (DS, n. 3026); Concilio Ecum. Vaticano II, cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, § 59.
(12) Vedi Antonio Livi, Dogma, dogmatismo, in Dizionario storico della filosofia, cit.
(13) Cfr Antonio Livi, Filosofia del senso comune, cit., cap. III.
(14) Enrico Berti, L’uomo è naturalmente filosofo, in AA.VV., L’enciclica "Fides et ratio" ("Per la filosofia", n. 45), Ed. Massimo, Milano 1999, p. 12.
(15) Cfr Robert Spaemann, Il circolo ermeneutico, in "L’Osservatore romano", 13 gennaio 1999, p. 7.
(16) Pio XII, enc. Humani generis, 12 agosto 1950; la sottolineatura è mia.