P. Lech Rynkiewicz S.I.

 

Primato della vita interiore nel sacerdote.

La chiamata alla santità specifica.

Ripetere una cosa elementare, che non si dà la vita cristiana senza vita spirituale, può sembrare scontato. La pratica di vita d'ogni giorno insegna però che scontato non è, nemmeno tra le file dei sacerdoti. Senza vita spirituale, poi, non c’è santità. La vita spirituale e la santità! Bisogna spiegare questi due termini, per non cadere in equivoco o per non ripetere luoghi comuni.

E’ un mandato della Chiesa di introdurre i fedeli (prima d'essere sacerdoti siamo anche noi fedeli) ad un’esperienza di Dio, ad una vita di relazione con Dio. Si deve ripetere questo perché viviamo in un tempo in cui la vita ecclesiale, dominata dall’ansia pastorale, ha assunto l’idea che l’esperienza di fede corrisponda all’impegno nel mondo, alla morale, piuttosto che all’accesso ad una relazione personale con Dio vissuta in una situazione comunitaria, radicata nell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture, plasmata dall’Eucaristia e articolata in una vita di fede, di speranza e di carità. Questa riduzione dell’esperienza cristiana a morale è la via più diretta per la vanificazione della fede. Oggi assistiamo ad un affievolimento di vita cristiana a tutti i livelli dovuto in gran parte al fatto che abbiamo avuto, negli ultimi decenni, se non per secoli, un modello di vita cristiana come morale e non come fede. La fede ci porta a fare un’esperienza reale di Dio, vale a dire c'immette nella vita spirituale, che è la vita guidata dallo Spirito santo. La morale viene come frutto della fede: senza fede essa si riduce all’obbedienza alla legge intesa per lo più com'etica naturale.

Santità

Passiamo a spiegare il concetto di santità. Nel Nuovo Testamento colpisce la consapevolezza dichiarata da parte della prima comunità cristiana d’essere composta di santi. Quest'aggettivo è trattato quasi come un sostantivo dagli autori delle Scritture che lo sottraggono a quell'istintiva valutazione che vorrebbe riferirlo solo a persone d’alta statura morale.

Anania, timoroso di accogliere il convertito Saulo, dice al Signore: "Ho sentito parlare da molti di quest’uomo e di quanto male abbia fatto ai tuoi santi in Gerusalemme" (At 9,13). Ai fedeli di Corinto, lo stesso Paolo spiega che il primo giorno della settimana ognuno deve metter da parte quello che può per preparare una raccolta d'elemosine, "per i santi", cioè per i poveri fratelli di Gerusalemme (1 Cor 16, 1-2). Questa espressione la troviamo anche in diversi altri passi degli Atti degli Apostoli e nelle lettere pastorali. Essa è usata non come valutazione dogmatica, bensì come testo di passaggio, d'indirizzo o di conclusione, che suppone un modo ormai comune di parlare e di autodefinirsi. Che non si tratta della superba ostentazione di una moralità personale si vede dal modo disinvolto con cui Paolo denuncia contemporaneamente i peccati, le debolezze e i tradimenti che si vedono in ogni comunità (vedi 1 Cor, 1).

Ciò che permette ai cristiani questa libera appropriazione del termine santo non è un’autoanalisi di tipo etico, anche se non viene per nulla sottaciuto il problema di una santità morale espressa da una vita fruttuosa di opere buone. Ma all’origine c’è solo la persuasione d’essere stati semplicemente chiamati ad un'oggettiva situazione di santità.

Scrivendo ai Romani, Paolo si rivolge loro così: "...voi, chiamati da Gesù Cristo, santi per vocazione". Anche i Corinzi sono stati "chiamati per essere santi" (1,2). L’Apostolo Pietro è molto incisivo nel sottolineare la chiamata alla santità: "Siccome Colui che vi ha chiamati è Santo, voi pure dovete essere santi in tutta la vostra condotta, come sta scritto: siate santi, perché io sono santo" (1 Pt, 1, 15). Ma tale chiamata non è rivolta soltanto ad un’élite, per entrare in un luogo privilegiato, dove entrano soltanto i migliori, separati dal mondo; non è neppure la netta separazione veterotestamentaria di un popolo santo tra altri popoli impuri: è una vocazione universale.

Sant’Agostino così definirà questa vocazione:"non chiamati perché santi, se pure potenzialmente, ma santi perché chiamati". Santi quindi secondo l’estensione inclusa gratuitamente nella chiamata stessa. Si tratta cioè di una santità che scaturisce perché Dio ha aperto misericordiosamente una "casa di santità", dove tutti possono essere ospitati. E’ pura gratuità di Dio. E di più, questa chiamata non è una voce difficilmente percepibile. E’ una vocazione eterna: "Prescelti in Lui prima della fondazione del mondo ad essere santi e senza macchia al cospetto suo, nel suo amore" (Ef 1, -5). E’ una voce che s’è fatta carne, che è risuonata sulla bocca stessa del Verbo di Dio e perciò è stata fissata nelle Scritture.

Tutto ciò fa capire che per i primi cristiani chiamarsi santi voleva dire offrire al mondo l’annuncio gioioso che tutti senza distinzioni, "quanti ne chiamerà il Signore" (At 2, 30), potevano – nonostante le loro miserie – essere ospitati misericordiosamente nel tempio santo di Dio, anzi divenire essi stessi "templi dello Spirito Santo" (1 Cor 6, 11.20; cfr. 3, 16).

La santità è quindi un dono-avvenimento. E' data gratuitamente all’uomo e lo modifica in sostanza. Ciò avviene nel battesimo. La Parola scritta di Dio descrive ciò come "nuova creazione" (2 Cor 3, 17; Gai 6, 3; Ef 2, 10; 4, 24); "rigenerazione" (Tit 3, 3; Gc 1, 18; 1 Pt 1, 3.23); "vita nuova" (Rom 3, 4); "nuova nascita" (Gv 1, 13; Gv 2, 29; 3, 9; 4, 7; 3, 14.18); " inseminazione divina " (cf. 1 Gv 3, 1); "adozione" (Ef 1, 4-5); "filiazione" (1 Cor 13, 49); "abitazione dello Spirito Santo" (Rom 8, 9 ss.); "mozione da parte dello Spirito Santo" (Rom 8, 14); "unzione dal Santo" (1 Gv 2, 10); "vita eterna" (Mc 10, 17; Mt 19, 16-29; Rm 2, 7; 5, 21).

La tradizione ha riunito quasi tutto in un celebre frammento di Giovanni Crisostomo, citato da S. Agostino: " Ecco che hanno una serena libertà coloro che (= i neo-battezzati) fino a poco fa erano ancora prigionieri, e sono divenuti cittadini della Chiesa coloro che erano nello smarrimento del vagabondaggio, e si trovano nel benessere della giustizia coloro che erano nella confusione del peccato. Infatti essi non sono soltanto liberi, ma anche santi; non soltanto santi ma anche giusti; non soltanto giusti ma anche figli; non soltanto figli ma anche eredi; non soltanto eredi ma anche membra; non soltanto membra ma anche tempio e organi dello Spirito. Vedi quanti sono i doni del battesimo! E alcuni pensano che la grazia celeste consista solo nella remissione dei peccati! Noi invece abbiamo enumerato dieci privilegi. È per questo che battezziamo anche i bambini, benché non abbiano commesso peccati: affinché a loro sia data la santità, la giustizia, l’adozione, l’eredità, la fraternità di Cristo: perché siano sue membra " (cf.. Contra Julianum 1, 5, 21).

Forse l’eresia più grave e ricorrente nella storia della Chiesa è stata questa: che, quando si parla di santità e del necessario impegno morale dell’uomo per rispondere alla grazia di Dio, per "operare bene", inavvertitamente ma tenacemente l’uomo tende a dimenticare l’essenzialità del dono preesistente, di ciò che Dio ha già fatto e tende di conseguenza a ridurre Cristo ad un modello da imitare. Già Sant’Agostino rinfacciava ai pelagiani la loro eresia, che chiamava "l’orrendo e occulto virus", di pretendere di far consistere la grazia di Cristo nel suo esempio e non nel suo dono" (Contra Julianum).

In certe epoche questa perdita di memoria storica cristiana, la dimenticanza di Cristo-dono e la sua riduzione a modello esprime un'ottimistica e orgogliosa fiducia nelle forze umane e si esprime in un esasperato attivismo, in altre invece sfocia in un'apatia e sfiducia.

L’opposto di tale atteggiamento, la sottolineatura unilaterale del dono con il conseguente deprezzamento delle opere, com'è avvenuto nel protestantesimo, non ha risolto il problema. Ne ha aggiunto un altro. Il protestantesimo ha errato non perché ha affermato la salvezza per la "sola fede", ma perché ha trascurato d’affermare con pari vigore che con la fede ci si abbandona a Cristo in modo da produrre necessariamente ancor più opere buone che se si confidasse nella propria stessa operosità. Adrianne von Speyer diceva che "la santità non consiste nel fatto che l’uomo dà tutto, ma nel fatto che Dio prende tutto".

E con questo siamo entrati nel discorso della santità come compito. Ogni dono affida un compito. La tradizione ha espresso ciò in un impressionante adagio: "Diventa quello che sei".

Dal punto di vista della "santità" offerta come dono, non c’e alcuna differenza tra un bambino appena battezzato e un grande mistico immerso nell’unione con Dio. La differenza consiste soltanto in questo: che il bambino possiede il dono della santità come possiede quello della vita: è intero, ma deve crescere, mostrarsi, compiersi, mentre il vecchio asceta, per dare un esempio, ha compiuto la sua vita e responsabilmente ha accolto il dono.

La santità cristiana, anche se ha un volto comune che è "la gloria del Signore nostro Gesù Cristo" (2 Tes 2, 13-14) e l’avere gli stessi sentimenti che ebbe Gesù Cristo (Fil 5, 5), si riflette sui tanti volti dei credenti in modo personale. Non si può imitare dei santi, sarebbe uno scimmiottare degli atteggiamenti e delle situazioni irrepetibili per diventare una caricatura. Sì, occorre "vivere come si conviene ai santi" (Ef 5, 3), occorre mostrare d’essersi "spogliati dell’uomo vecchio e delle sue azioni (cf. Col 3, 5-9) e rivestire l’uomo nuovo, di sentimenti di misericordia, di bontà, d'umiltà, di dolcezza, di pazienza, sopportandoci a vicenda e perdonandoci scambievolmente. Ma questo rivestimento deve portare la firma personale nostra e dello Spirito Santo. San Cipriano non esiterà a dire: "Christianus alter Christus" – il cristiano è altro Cristo.

Non si può barare con la santità. Se questo dono è accolto riproduce infallibilmente nell’uomo il volto di Cristo, al di là e nonostante il peccato che continua a travagliare ogni creatura. Il santo è uno che ha consapevolezza del proprio peccato, ma anche della misericordia di Dio. Il giusto pecca sette volte al giorno, cioè sempre (Cf Pr 24,16). Il malvagio lo stesso, sette volte al giorno. Quale, allora, è la differenza tra di loro? Il giusto si percuote il petto chiedendo il perdono e si rialza.. Il malvagio dice: "Non è successo niente".

Fede – struttura dell'atto

Una volta chiarito di che cosa parliamo quando usiamo il termine santità facciamo un passo avanti per domandare come vi si arriva. E la risposta è implicita: per la fede. Però, anche qui si apre un vasto campo d'equivoci. Il termine fede non è univoco, almeno oggi e almeno in un uso comune. Può nascondere almeno due realtà: la prima, fede come convinzioni su Dio, la seconda, fede in senso biblico come risposta esistenziale e personale dell’uomo alla chiamata di Dio, percepita come tale.

Questa distinzione tra convinzioni su Dio e la fede sopranaturale di risposta è molto importante.

Fede naturale

Tentiamo di analizzare un atto di fede. L’uomo è un essere sociale, ciò significa che, tra l’altro, lo sviluppo di tutte le possibilità e capacità personali di un uomo è possibile soltanto attraverso un contatto con gli altri. In questo contatto il ruolo principale lo svolge la parola., anche se gesti, segni e simboli svolgono anch’essi un ruolo importante Quando parliamo di comunicazione supponiamo che la persona che comunica abbia la capacità di rendere palese e comprensibile lo stato dei suoi sentimenti e i contenuti della vita interna, e la persona, che invece riceve la comunicazione, sia capace di capire il messaggio. L’accettazione di tale comunicazione suppone una cosa fondamentale, la convinzione che la persona che trasmette un messaggio trasmette la verità ed è credibile, cioè costituisce per noi un’autorità. Tale fede possiamo chiamarla fede naturale. Essa costituisce il tessuto della vita sociale. Nella maggioranza dei casi nella vita quotidiana noi crediamo agli altri sulla parola. Il problema è che possiamo essere vittime della bugia e del raggiro. Il peccato ha larga dimensione sociale. E’ facile essere ingannati. Contano su questo molti organizzatori di propaganda, inventori di pubblicità. Non è che tutti mentiscano: in tal caso la vita sociale diventerebbe impossibile. Ma non di rado qualcuno cessa di essere per noi un’autorità dopo aver mentito, barato o mostrato cattivi sentimenti nei nostri riguardi. Può anche capitare che non siamo disposti a credere neppure a qualcuno che meriterebbe autorità e fiducia, perché si rivolge a noi con una comunicazione esigente e perciò scomoda per noi.

La fede, nella sua essenza, è un rapporto con qualcuno al quale crediamo. Tutta la nostra conoscenza della vita quotidiana, tutto lo sviluppo fisico, psichico e sociale degli uomini si basano su rapporti di fede, chiamiamola fede naturale. La fede soprannaturale si pone sulla scia di questa fede naturale. Nel suo piano di salvezza il Signore si è rivelato agli uomini attraverso gli altri, usando la lingua umana, compiendo dei segni comprensibili. Il Figlio di Dio, rivestito della nostra natura umana parla agli uomini con il linguaggio terrestre. "Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo " (Eb 1,1). L’uomo si incontra, allora, con la Rivelazione Divina attraverso una parola umana. Ciò è inseparabilmente collegato con la fede naturale, perché trasmessa da uomini, che deve però superarsi, se vuole essere accoglienza della Parola di Dio. In questa dialettica interna c’è una misteriosa prova alla quale è esposto l’uomo, poiché lo minaccia un doppio pericolo: di accettare la Parola di Dio unicamente come parola d'uomini e dall’altra parte, al contrario, di rischiare di riconoscere come Parola di Dio una parola umana. Il fatto che la fede nasca da quello che sentiamo, il fatto che la parola di Cristo sia annunciata dagli uomini (Cf. Rm 10,17), fa sì che diventi importante per la nostra vita religiosa il motivo della fede. Andiamo a due testi del Nuovo Testamento attinenti al problema.

Fede sopranaturale

Nella lettera ai Tessalonicesi, Paolo così descrive l’accoglienza che essi hanno fatto loro alla Parola di Dio: "Noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l’avete accolta non quale parola d'uomini, ma, com'è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete" (1Ts 2, 13).

Totalmente diversa è l’accoglienza della fede da parte dei Corinzi. Nei primi quattro capitoli della I Lettera, San Paolo indica il danno che subisce la comunità dei credenti, quando la fede si fonda soltanto sull’autorità umana dell’annunciatore. "Mi è stato segnalato... che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo, Io invece sono d'Apollo, E io di Cefa, E io di Cristo! Cristo è stato forse diviso?...Sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché no ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra di voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana? Quando uno dice: Io sono di Paolo, e un altro: Io sono d'Apollo, non vi dimostrate semplicemente uomini?" (1 Cor 1,11-13; 3,1-4).

Esiste quindi un’essenziale differenza tra l’atteggiamento dei Corinzi e quello dei Tessalonicesi nei riguardi di chi predica la fede, e di conseguenza nei riguardi della stessa Verità. La differenza la possiamo riportare al diverso motivo della fede. Tutti e due, Tessalonicesi e Corinzi, erano cristiani. Hanno accolto la fede in Gesù Cristo nella stessa dimensione, cioè credevano nelle stesse verità. Nella stessa fede hanno ricevuto il battesimo. Tutti e due erano convinti di credere. Però Paolo scorge la differenza: i Corinzi hanno creduto all’autorità umana dell’annunciatore della fede, i Tessalonicesi invece sono andati oltre il maestro, arrivando a Dio stesso, il quale agisce nella persona dell’apostolo. Hanno creduto allora a Dio, basandosi sulla sua azione e sulla sua autorità.

La fede religiosa dei Corinzi assomiglia a quella naturale. Quale è la differenza tra la fede naturale e quella soprannaturale? Innanzitutto quello che sentiamo dagli uomini e accogliamo con la fede naturale non esige da noi il cambiamento della vita. Può al massimo costituire un invito ad un comportamento dettato dal buon senso. Per esempio, l’informazione che piove induce o a rimanere a casa oppure a prendere l’ombrello con sè. Niente di più. Invece Dio rivelandosi all’uomo offre nello stesso tempo la promessa: "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono..." (Eb 11,1). La fede soprannaturale è definita dalla speranza di ricevere la promessa. La promessa, però, è sigillata da una condizione: "Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" – dice il Signore (Mt 19,17). "Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3). La conquista della promessa è legata al cambiamento della vita, che nel linguaggio biblico si chiama conversione. Tutti i profeti chiamavano alla conversione. Lo stesso Giovanni Battista. E Gesù Cristo comincia la sua missione con la stessa esortazione: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). La conversione, per gli uomini toccati dal peccato originale è impossibile senza la grazia di Dio. La grazia è data, però l’uomo è libero di rifiutarla, cioè di non cambiare la vita. E qui che si decide la qualità della fede, nella motivazione soprannaturale. Qui si decide se la fede rimane naturale, cioè a livello delle convinzioni su Dio, o diventa soprannaturale, in grado di muovere l’uomo, cambiarne la natura e portarlo per le strade che vuole il Signore. Perché credo? Quale è il motivo della mia speranza? Questa è la domanda che si dà (e ne esige la risposta) l’uomo della fede."Avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, non cesso di rendere grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere, perché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprende a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti..." (Ef 1, 15-20). Paolo descrive la sua fede nella lettera ai Galati: ""Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me" (2,20).

I Corinzi fondarono la loro fede sull’autorità umana del maestro. Avevano ricevuto la stessa predicazione, ma la loro motivazione era umana. Una fede, basata su tale fondamento, non era in grado di non suscitare divisioni e liti. Una situazione simile a quella dei Corinzi la sperimentarono pure i Galati. "Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n’è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Orbene, anche se noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema! " (Gal 1, 6-8). "Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne?" (Gal 3,3). Paolo ha usato in queste frasi, come anche nella lettera ai Corinzi la parola carnalità, che descrive la motivazione immatura della fede, un regresso nella fede che ha portato i Galati ad appoggiarsi sull’autorità umana di Mosè, e di conseguenza ad accettare le verità diverse da quelle del Vangelo, credere ad un altro Vangelo. Nelle discussioni con gli ebrei, che non credevano a Gesù, il Signore si scontrava con la stessa immatura motivazione della fede, appoggiata sull’autorità umana. Al cieco guarito i farisei dicono: "Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!" (Gv 9,28). Gesù Cristo fa presente agli ebrei che in fondo non credono neanche a Mosé, perché pongono speranza in lui come autorità umana, e non capiscono di chi lui scriveva:"Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre, c’è già chi vi accusa, Mosé, nel quale avete riposto la vostra speranza. Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me; perché di me egli ha scritto" (Gv5, 45-46).

Il Signore indica il pericolo che viene dalla fede, quando è accolta soltanto sull’autorità umana. Diventa allora possibile passare accanto al Dio che si rivela senza incontrarlo:" Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste" (Gv 5,43). Predicare la fede nel proprio nome può essere cercare la propria gloria: "Chi parla da se stesso, cerco la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che l’ha mandato è veritiero, e in lui non c’è ingiustizia " (Gv 7, 18). "E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?" (Gv 5, 44).

Da quello che abbiamo detto si può riassumere che esistano tre gradi della fede: 1. Fede naturale appoggiata sull’autorità del maestro o educatore e che riguarda la scienza sull’uomo e sul mondo. 2. Fede religiosa per quanto riguarda il contenuto, accettata però su autorità umana, ugualmente come accettiamo le altre verità culturali nel processo di apprendimento. Questa fede può essere tranquillamente chiamata convinzioni su Dio. 3. Fede religiosa matura, fondata su un motivo soprannaturale, sull’autorità divina che il maestro indica come testimone di fede. Tale fede, da una parte è dono della grazia, dall’altra è frutto di un processo di sviluppo nella motivazione della stessa, cioè delle successive conversioni, sulla base dell’esperienza di Dio.

La storia di Abramo indica il modello di tale fede. San Paolo nel suo commento alla storia del Patriarca (Rm 4,1-25) sottolinea che Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia. La fede di Abramo consisteva nell’obbedienza alla parola sentita: Esci dalla tua terra e va verso il paese che io ti indicherò (Cf. Gn 12,1), e credere nella promessa ricevuta di avere la discendenza, anche quando era disposto sacrificare l’unico figlio Isacco. Abramo si è lasciato condurre sulle strade sconosciute credendo contro ogni speranza, contro l’incredulità dei più vicini e nonostante la sua imperfezione morale. Alla fine è diventato amico di Dio. E’ stato giustificato ancora prima delle opere della sua fede.

Alla luce di ciò che abbiamo detto la fede religiosa naturale si presenta piuttosto come convinzioni, nozioni su Dio, senza forza vincolante nel comportamento morale. San Giacomo dice che se la fede non ha le opere è morta... anche i demoni credono e tremano (Cf. 2,17.19). La fede naturale è appresa come altri tesori della cultura e della scienza ed è vissuta come istinto religioso di paura e di interesse verso Dio. "Quanto meglio sto, tanto meno mi serve", anche se soggettivamente uno può sentirsi credente e proclamarsi tale. Ha detto qualcuno che la più pericolosa forma di laicizzazione è una situazione in cui l’uomo è convinto di credere, ma la sua vita non si distingue da quella dei non credenti. In tale situazione la fede diventa un'ideologia e non una forza esistenziale con la speranza di vita eterna.

Ciascuno di noi ha cominciato il suo cammino verso il Signore dalla fede naturale, perché un bambino crede sull’autorità dei genitori o educatori. Quando nella famiglia lo sviluppo del bambino è felice, senza scossoni, con un buon rapporto con i genitori, in un'iniziazione alla fede, il passaggio alla fede adulta può essere armonioso. Quando manca uno degli elementi indicati, e oggi capita assai spesso, la crisi arriva inevitabilmente. I genitori non sono più un’autorità; appaiono nella vita altre autorità e spesso la persona stessa si crede oracolo per se stesso. Le crisi morali aggiungono ulteriore motivo per allontanarsi dalle verità ricevute e dalla vita sacramentale. Oggi la generazione degli adulti diventa sempre meno credibile per i giovani che sempre più mettono in dubbio i valori e il modo di affrontare la vita, offerti loro dai grandi. Il bambino è oggi trattato come una cosa ingombrante, inutile, talvolta minacciosa per la comodità della vita. A causa delle opinioni, pubblicamente proclamate e pubblicizzate sul diritto della madre a rifiutare la maternità ed abortire, al bambino è tolta la sicurezza. Le generazioni dei bambini oggi sentono sindrome di superstiti, e aggiungiamo, a buon ragione. Nel mondo occidentale il 50% delle gravidanze sono interrotte. In questo clima di radicale sfiducia verso il mondo degli adulti è messa in dubbio anche la loro offerta religiosa. Alle giovani generazioni non sono sconosciuti degli ideali, anche religiosi, certe pratiche (pellegrinaggi, partecipazioni ai raduni dei coetanei), ma il modello religioso si limita alla dichiarazione: "sono credente", con il contemporaneo allontanamento dalla chiesa e dalla vita morale da essa indicata. Magari più tardi, dopo dolorose esperienze della vita ritornerà il desiderio di cercare, di tornare all’amore perduto.

Mi sono soffermato un po’ sulla struttura dell’atto della fede perché ci interessa da vicino il problema della crisi di fede che influisce sulla qualità dei candidati al sacerdozio e influisce anche su di noi, già dentro. Quando un candidato si presenta al seminario non è scontato che abbia la fede. Sicuramente ha buona volontà, qualche ideale religioso, qualche bagaglio di devozione, ma proviene da un mondo, da una famiglia, dove non esiste più la fede, dove il modello antropologico è anticristiano, e non a parole, ma vissuto in un clima anticristiano giorno e notte (ideali esistenziali svuotati dalla dimensione sopranaturale, libri, cinema, televisione, divertimento, ambiente di scuola, mondo politico). In tale situazione, il seminario è in grado di formare alla fede? O offre soltanto convinzioni religiose, mettendo un po’ a posto la testa con la teologia e la disciplina? Secondo me queste non sono domande retoriche. Oso dire, vorrei essere smentito, che la nostra formazione al sacerdozio è in crisi, e non per cattiva volontà dei superiori e educatori. Non ci sono più strumenti adatti per la formazione, specialmente quando si tratta di aiutare alla scelta libera, adulta e gioiosa del Signore e del suo sacerdozio. Tenterò di provare questa affermazione parlando dei contenuti della fede adulta cristiana.

Fede – contenuti

Volendo definire il contenuto della fede cristiana bisogna precisare all’inizio che non si tratta di un'adesione intellettuale, e della volontà, alle verità rivelate. Si tratta invece della fiducia data al Signore. Credere alla sua promessa e alla sua opera, accogliere l’invito di mettere in discussione se stesso, pentirsi dei propri peccati ed aprirsi al dono di diventare uomo nato dall’alto. La descrizione di questo uomo nuovo la troveremo nella descrizione delle beatitudini evangeliche, la carta magna dell’opera di Dio. Se domandiamo chi è credente nel senso evangelico, la risposta è: colui che accetta queste condizioni del Regno di Dio e in cui si vede un cambiamento in tal senso.

Ascoltando questo testo si ha impressione che Gesù metta tutto sotto sopra: per lui la felicità è legata ai poveri, tristi, umili, perseguitati (Mt 5,3-12); dice di venire per dare compimento alla Legge (Mt 5,17), ma ordina di fare cose, che sembrano impossibili (Mt 5,22.48): mai irritarsi con gli altri (Mt 5,22), mai offendere il fratello, non partecipare alla Messa, se qualcuno ce l'ha con te, ma prima riconciliarsi con lui (Mt 23-24), non guardare una donna con desiderio di possederla (Mt 5,28), mai giurare (Mt 5,34), mai dire le bugie e dire soltanto la verità (Mt 5,37), non resistere al malvagio e se percuotesse la guancia destra, porgergli anche l'altra (Mt 5,39), a chi vuole togliere la giacca, dargli anche la camicia (Mt 5,40), amare nemici (Mt 5, 44), perdonare sempre (Mt 6,12), non fare mai niente per essere visti dagli altri (Mt 6,1), avere una tale fiducia in Dio da rendere superflua perfino la preghiera (Mt 5,8), non accumulare soldi (Mt 6,19), fare la scelta tra Dio e i soldi (Mt 6,24), non preoccuparsi del mangiare, bere, vestirsi e vivere libero come un uccello (Mt 6,25-31), non giudicare mai nessuno ((Mt 7,1-2), essere perfetti come il Padre Celeste (Mt 5,48). Altrove aggiungerà altre parole: gli ultimi saranno primi (Mt 10,31); il più piccolo è il più grande (Lc 9,48); per essere il più grande bisogna essere servo di tutti (Mt 23, 11); bisogna perdere la vita, per riaverla, ma perde la vita chi la conserva (Mt 16,25); i peccatori e le prostitute precederanno in cielo i giusti farisei (Mt 21,31).

Siamo tanto abituati a queste parole che non facciamo più caso alla minaccia che esse costituiscono alla nostra sicurezza basata sui valori costruiti da noi stessi. Quante volte abbiamo sentito queste parole? E quanti, pochissimi, che le prendono sul serio? Si ha l’impressione che veramente queste parole non abbiano importanza. Manteniamo le parole di Gesù come si conservano i cannoni e le sciabole nei musei: sono adatti da essere guardati, ma non costituiscono ormai nessun pericolo - non sparano e non feriscono più. Sono stati neutralizzati. Lo stesso accade con la croce. Si trova in tante case, dove si pratica la giustizia, ma anche nei luoghi dove si compie iniquità. Costituisce parte di un insieme, come un dolce dopo il pranzo, perché lo impone l’abitudine. Ormai non facciamo più caso che si tratta dell'Uomo torturato e ingiustamente ucciso sotto la veste della legge. Parimenti le parole delle Beatitudini riposano belle incorniciate ed ovattate. La Parola di Dio, la spada a doppio taglio (Eb 4,12) non taglia più! Non disturba più la nostra coscienza.

Sorge anche la domanda; "E' possibile seguire i comandamenti del Discorso della Montagna?" Da sempre i cristiani si sono posti questa domanda e si sono dati anche le risposte. Esse sono andate verso tre direzioni: 1. Il Discorso della Montagna è per un piccolo gruppo, per un èlite, non può obbligare tutti, è impossibile da compiere su vasta scala. Sono chiamati a tale vita i religiosi, qualche vescovo o prete, pochissimi laici, hobbisti della religione.. 2. Il Discorso deve essere interpretato come qualsiasi legge. Gesù era dottore della Legge ed è venuto per codificare in un nuovo modo la Legge Divina. Lui stesso ha detto: "Non sono venuto ad abolire la legge, ma per dare compimento" (Mt 5,17). Perciò il Discorso è una legge e così deve essere interpretata. Inutile dire che è troppo difficile. Davanti al tribunale di Dio non c'è nessuna giustificazione. Tale interpretazione ha portato al legalismo e alla casistica per rimanere nella lettera della legge, per difendersi davanti a Dio giudice impietoso. 3.Il Discorso ha l’intento di condurre la gente alla penitenza. Questa soluzione ha dato Lutero. Stanco di osservare il Discorso come una legge, nella disperazione è arrivato alla convinzione che nessun uomo in questa terra sia capace di compierla. Ma, dato che il Cristo non è venuto in questo mondo per condannarci, la risposta deve essere altra. Con queste parole il Signore ha voluto mostrarci che siamo peccatori, incapaci con le nostre forze di osservare la legge divina. Cristo ha presentato un ideale che dovrebbe essere, ma al quale nessuno di noi si avvicinerà. Questa consapevolezza deve umiliarci davanti a Dio e portarci nelle sue braccia misericordiose dicendo con il pubblicano: "O Dio, abbi pietà di me peccatore" (Lc 18,13). L'uomo deve aspettarsi la propria salvezza soltanto da Dio e non dai propri sforzi: Dio l’ha promessa e dato che è fedele la porterà gratuitamente, senza nostri meriti, che non hanno nessun potere d'acquisto.

Non è facile capire il senso del Discorso della Montagna senza guardare la vita di Gesù. Essa lo illumina, esplica le parole sconcertanti, anche se la vita stessa del Signore è avvolta in un mistero. Ciò che si è manifestato sulla terra nella persona di Cristo non entrava in testa della gente dell'epoca e neanche entra nella nostra. Non abbiamo nessuna possibilità di capire chi fosse Gesù e quale fosse il senso delle sue parole utilizzando soltanto i pensieri che nascono dentro di noi. Presentiamo soltanto i nostri convincimenti. Prima di Gesù Dio non è diventato mai così umile, vicino, umano, nascosto nella vita. Cristo era una così grande novità che soltanto vivendo con lui, toccandolo, la gente poteva capire qualcosa, chi fosse e quale senso potesse avere il Discorso della Montagna.

Amore che trasforma

Con la venuta di Gesù qualcosa è cambiato tra gli uomini. E' venuto il padrone: scaccia l'usurpatore (Lc 11,22), spazza la casa (Lc 11,25) pulisce la terra (Mt 3,12). La famiglia umana riacquista la serenità: i ciechi cominciano a vedere, gli zoppi a camminare, i lebbrosi sono purificati e i sordi sentono (Mt 11,15), la gioia e il sorriso riappaiono sulle facce dei poveri (Lc 6,20-21), gli emarginati - prostitute, peccatori - sono riammessi nella comunità umana (Mc2,16; Lc 7,36-50), le malattie sono curate (Mt 8,16-17; Mc6,56), la natura cessa di minacciare (Mt 8,23-27) e serve all'uomo ((Lc 5,4-7), la fame viene sconfitta (Mc 6,30-44) e gli affamati sono saziati (Lc 6,21), i morti risuscitano e sparisce la tristezza del lutto (Lc 7,11-17; Mc5, 41-43), i peccati sono denunciati (Mt 23.13-31, Gv 16,8-9), come anche i peccatori (Mc 2,5; Lc 7,48), i deboli sono accolti senza condanna (Gv8,1-11), la giustizia si conferma (Mt 5,10-20;6,33), è predicata la sincerità (Mt 6, 1-6; Mc 7,17-23), cadono gli ostacoli e la gente si unisce, la vita è avvolta da un soffio d'amore (Gv 13,34-35; Mt11,28-30) e fa sì che risuscitino le ossa inaridite (Cf Es 37,1-14).

Luce che svergogna e fa reagire

Insieme con il bene e l’amore si fanno sentire l'odio e male. La venuta di Gesù divide gli uomini (Gv 7,43; 10,19).Tutti sentono che la voce di Cristo è arrivata e tutti ad essa reagiscono. Nessuno rimane neutrale (Lc 11,23) . La sua apparizione costituisce un giudizio (Gv 3,19-21): tutti coloro che amano la verità e non si chiudono nelle egoistiche intenzioni si dichiarano dalla parte di lui e in lui riconoscono la voce di Dio (Gv 8,32; 18,37; Mt 11,25). Però in coloro che non amano la verità – la voce di Cristo incontra resistenza (Gv 8,43-44), è soffocata (Cf Gv 11,57), emarginata (Cf Gv 9,22), e alla fine soppressa nel sangue dell'assassinio, confermata ufficialmente dalla legge (Gv 9,17). Di fronte a Gesù la gente si scopre. Lui non fa niente per suscitare opposizione: è soltanto umile presenza piena d'amore e verità (Gc 8,39-40) e fa brillare la luce sopra i nascondigli, dove si è rintanata la gente. Svela tutte le debolezze e gli errori smascherando soprattutto la mancanza di verità e di sincerità (Gv 8, 45-47; 3,19-21; 12,46-50). Risveglia nelle persone la voce della coscienza, assopita da tante leggi umane. Chi ha paura della propria coscienza insorge e tenta di soffocare la voce di Cristo. Chi è sincero, accetta il giudizio di Cristo e si associa a lui (Gv.3,21; 6,68). E così il mondo si purifica attraverso la netta divisione tra i buoni e cattivi. Questo processo sta perdurando (Lc 22,51; Mt 10,35). Nonostante la resistenza contro Gesù, lui non è colpito né vinto dai suoi avversari che lo conducono alla morte. E' libero (Cf Gv 10,18).

Richiesta del radicale cambiamento di vita

Gesù suscita reazioni perché non chiede permesso per agire e parlare. Agisce e parla con libertà che disorienta. Appare davanti a noi come padrone della situazione. Viene con esigenze che nessun uomo ha avuto il coraggio di mettere davanti ad un altro uomo. Mette se stesso come norma, criterio e meta di qualsiasi attività umana. Soltanto lui possiede una chiave che conduce alla felicità. Non soltanto la possiede, ma vuole essere lui stesso questa chiave. "Io sono la porta" (Gv 10,9), fuori di lui ci sono soltanto le tenebre. "Io sona la vita" (Gv 14,6), non c’é nessun altro modo di evitare la morte (Gv 11,25-26). "Io sono la via" (Gv 14,6), senza di lui l'uomo si perde (Lc 11,23). "Io sono il pane della vita" (Gv 6,35), senza di lui l'uomo soffre fame (Gv 6,35). Lui è fonte d'acqua (Gv 7,37-38), senza di lui l'uomo non è in grado di saziarsi (Gv 4, 12-14). Per amore di lui la gente dovrebbe rinunciare a tutto (Lc 14,35), perché altrimenti non si può essere suoi discepoli. Per amore di lui uno dovrebbe sacrificare la sua vita (Mc 8,35), altrimenti non la avrà. Chi lo segue deve portare la sua croce ogni giorno (Lc 9,23). Annuncia la necessità di essere liberi dagli affetti famigliari e non permette che ciascuno preferisca la famiglia invece di lui (Lc 14,26). Dice di sapere soltanto lui qualcosa su Dio (Mt 11,27) e che nessuno può venire a Dio senza essere passato attraverso di lui (Gv 14,6). Il più grande peccato sarebbe non credere alle sue parole (Gv 16,9). Ponendo queste esigenze, Gesù non si spiega, non si giustifica. Quando gli chiedono spiegazioni non risponde (Mc 8,11-12). Parla con autorità (Mc 1,27), senza essere autoritario, perché sempre è "mite e umile di cuore "(Mt 11,29).

Chi volesse spiegare il Discorso della Montagna al di fuori della vita di Gesù non capirebbe niente. Con Gesù è arrivata una novità radicale, sconosciuta all'Antico Testamento. Gesù la chiama Regno di Dio. "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete alla Buona Novella" (Mc1,15). Questa Buona Novella non consiste soltanto in buone parole, per quanto bellissime: la Buona Novella è Lui stesso. In Lui si trova il Regno di Dio. In Lui si manifesta ciò che succede quando l'uomo si apre a Dio. E allora tutto cambia radicalmente, in meglio. In Gesù si è visto che l'uomo può essere pienamente uomo, quando permette a Dio di essere il Dio della sua vita. Soltanto Dio sa che cosa ci sia nell'uomo e soltanto Lui è in grado di fare sì che l'uomo sviluppi le sue maggiori possibilità. L'ha fatto attraverso Gesù Cristo

Il Discorso della Montagna è un'espressione della novità che inizia ad esistere quando una persona si apre a Dio. E' un concreto segno della conversione, che si compie nell'uomo quando aderisce a Gesù Cristo. E' questa luce che svergogna e stimola, perché confronta gli uomini con la loro coscienza e permette d’indovinare dove si trovi la causa del male. Perciò suscita anche le più svariate e contrastanti opinioni. Succede così, perchè continua a vivere in noi, anche in maniera anonima, la giustizia dell'antica Alleanza, "la giustizia degli scribi e dei farisei", cioè della gente con la "propria giustizia". Non si può capire il Discorso della Montagna senza il coraggio di mettere in questione radicalmente se stesso, se stesso e non gli altri. Siamo gente che si scusa sempre. Vogliamo la nostra giustizia: "Signore, ti ringrazio, perché non sono come gli altri" (Lc 18,11). Critichiamo molte cose in noi, ma non noi stessi. E le nostre critiche nei confronti degli altri non sono che il modo con cui affermiamo noi stessi, acriticamente, secondo tutte le dimensioni del nostro essere concreto. Quando mai abbiamo messo in conto seriamente la possibilità non solo di sbagliare in questa o in quell'opinione particolare, ma anche di essere immersi, fino in fondo, nella falsità? Nella falsità della mancanza di amore, della superbia, dell'ostinatezza? Siamo noi nella verità, all'interno della quale l'uomo si apre al mistero incomprensibile ed ineffabile? Ci riteniamo persone ragionevoli, tutto sommato giudiziose ed equilibrate, tipi a posto, onesti, zelanti, caritatevoli, sui quali nessuno potrebbe avere seriamente da ridire. Tutto ciò può anche darsi. Però questo non basta per comprendere l'assurda esigenza postaci dal Discorso della Montagna. Deve aggiungersi la capacità di mettere in discussione, in modo radicale, quello che siamo e senza cui pensiamo di non poter neppure esistere: la capitolazione di noi stessi che sola rende liberi.

Nessuno può compiere con le proprie forze le esigenze del Discorso, così come nessuno è in grado di entrare in contatto con Dio con i suoi sforzi. Quando però Dio entra nella vita di una persona si scopre che l’impossibile può diventare realtà, che nell'uomo si trova una marcia di più di cui nessuno sospettava l’esistenza. Si crea un altro clima di vita, un nuovo ambiente. Chi vive fuori di quest'ambiente non ne capisce nulla.

E' assurdo pretendere il compimento del Discorso della Montagna dalla persona che non sa chi sia Gesù Cristo, che non vede la differenza tra Gesù Cristo e San Gennaro, che vive la propria fede come religione naturale, piena di timore di fronte a Dio e spinta dall’interesse del proprio benessere materiale, psichico e quello ultimo, dopo la morte, che si possono comprare dall'Altissimo. Può incarnare le parole di Cristo chi ha esperienza della sua presenza e azione, chi ha una vera fede, tesa alla ricerca della volontà divina. E' un progetto per la vita, che diventa sempre più chiaro e delineato, proporzionalmente alla grazia ricevuta.

In questa situazione il Discorso della Montagna non può essere una legge morale. Non si conclude niente studiando e interpretando il suo contenuto, perché è impossibile realizzare con un progetto educativo la nascita dall'alto. Siamo cristiani non perchè imitiamo Cristo, ma perchè scopriamo che Lui vive in noi.

Le parole di Gesù non sono neanche date per gettarci nella disperazione, per portarci poi nelle braccia misericordiose di Dio, come intendeva Lutero, anche se è vero che ci danno la consapevolezza della nostra impossibilità e limitatezza. Vedendo però tutta la vita del Signore, il cristiano incontra attraverso il Discorso l'amore e amicizia di Gesù, e scopre che aderendo a lui sarà in grado di compiere i Suoi precetti. Dio non si comporta come quel padrone che manda i suoi servi per una strada impervia e quando tornano in dietro, bloccati dalle asperità, sporchi di fango, regala loro una fuori strada per portarli comodamente al posto.

Il Discorso della Montagna non è per un’ élite, per i religiosi e per qualche più zelante prete o laico. Gesù non ha parlato soltanto agli Apostoli. Ha parlato alle "folle" (Cf Mt 5,1.2). Non credo che il Signore pensasse di creare una religione d'élite. Man mano la gente esce dall'Antico Testamento e cresce nella conoscenza di Gesù Cristo varca le soglie del Discorso. Il problema è soltanto: quanti sono in grado di farlo? Non è una soluzione accontentarci di lasciare la gente nell'osservanza dei dieci comandamenti. Non ne abbiamo diritto né potere. Bisogna piuttosto impegnarci a condurre tutti quanti verso il Discorso della Montagna. In questo senso tutti quanti siamo ancora con una gamba nel Vecchio Testamento, tentando di entrare nel Nuovo, con diversi risultati, peggiori e migliori, per dare possibilità a questa nuova pianta di crescere. La sua natura nessuno la capisce, perché viene da Dio. Possiamo soltanto scoprirla per benedire l'Autore del dono.

Il Discorso della Montagna fa un giudizio sulla vita umana. E' un'indicazione come dovrebbe essere una vita ben vissuta. E' una meta. Il resoconto che farà il Signore con noi sarà non la meta conquistata, ma il fatto se sono andato fedelmente verso la direzione che il Signore ha indicato. Questa dinamica non ci permetterà mai di rimanere nel legalismo. Ci costringe nelle scelte quotidiane ad uscire dal nostro egoismo, dalla nostra comodità, dall'essere installati, borghesi, chiusi di fronte ai bisogni di chi ci sta accanto, di liberarsi dall'essere asserviti ai nostri idoli , dai quali ci aspettiamo la vita, specialmente il danaro. In una parola, ci costringe alla conversione quotidiana.

Nella chiesa apostolica e poi fino alla fine dei tempi delle persecuzioni esisteva soltanto una spiritualità, quella delle beatitudini evangeliche. La sua massima espressione si trovava nel martirio. Le cose cambiarono radicalmente con l'editto di Costantino. Quando a un mondo in cui i cristiani come tali erano come separati, proscritti, succede un mondo in cui i cristiani saranno tenuti in grande onore, ma senza che il loro spirito sia cambiato, istintivamente i migliori fra loro sceglieranno liberamente uno stato di proscrizione: in un mondo che non li tratta più da nemici, loro si sentono obbligati a vivere come nemici del mondo. Essi avvertono troppo bene che, in mancanca di questo finirebbero presto per diventarne gli schiavi. E così sorge, in modo spontaneo e molto naturale, il monachesimo con il cammino nel deserto, che d'altra parte era già conosciuto ai cristiani delle ultime persecuzioni. Il deserto dava ai cristiani fedeli nel tempo della persecuzione una esistenza libera, anche se precaria. Il nuovo mondo, troppo accogliente nei confronti dei cristiani, ma senza esser molto cambiato nei suoi costumi e nel suo spirito li ha costretti a riprendere il cammino nel deserto, per ritrovarvi, con l'auterità, il distacco e il fervore che essi avevano conosciuto, e che non potevano più conoscere in una vita diventata improvvisamente troppo facile. La reazione è stata così naturale e spontanea che appare sempre più come la stessa in diversi luoghi contemporaneamente: Egitto, Siria, Palestina. Il monaco anacoreta di ambedue i sessi è un laico, un uomo comune. Vive da povero, lavorando da artigiano o contadino per mantenersi e avere qualcosa per elemosina. Non è un professionista della vita monacale. Non fa nessun voto. Vive la vita cristiana radicalmente per la propria salvezza, ma senza chiudersi ai bisogni spirituali e materiali degli altri. Conduce una vita austera, ma realistica. Soffre, ma è indenne da ogni "apologia del dolore". La sua fatica serve a morire a se stesso, al suo "uomo vecchio", perché emerga in lui "l'uomo nuovo", che è il Cristo stesso. Il monachesimo organizzato, per dire professionale, con voti comincerà dai padri cappadoci con Basilio, cento anni dopo l'esperienza di Antonio, padre degli anacoreti. E comincerà così una nuova tappa per la vita della chiesa. Torneremo a questo problema più avanti.

Adesso vorrei fermarmi ancora un po' sull'impatto che produce il Discorso della Montagna sugli uomini non cristiani. Interessante è come lo vede un uomo non credente come il filosofo Massimo Cacciari. In un intervista fatta due anni fa sul ruolo del monachesimo nella costruzione dell'Europa tra il V-IX sec., alla domanda che cos'è per lui il Vangelo ha risposto: "La lettura più straordinaria che si possa fare. E la più dura. Non conosco una parola di amore più aspra di quella. Qualcosa di inaudito, ma proprio di straordinariamente "durus": chiama a essere "perfetti" come il Padre celeste. Il monaco avanza la inaudita pretesa di mostrare già in questo mondo come sia possibile corrispondere a una tale chiamata. Perciò la grande tentazione che il monaco subisce è quella della superbia". Lei è credente? "No, non sono credente. Ma in un senso preciso, che credo sia anche l´unico corretto. Per un cristiano credere dovrebbe significare credere che quest´uomo Gesù sia il Cristo, non solo il Cristo atteso dai Giudei, ma il Figlio di Dio, Dio egli stesso. E' questo il contenuto della fede. E questo io non credo. Ma ciò nulla toglie all'esigenza di "venire ai ferri corti" con questa tradizione, e comprendere come neppure sia concepibile l’Europa fuori di essa. (La Stampa, 5 gennaio 2002). Ci vuole una grande oggettività filosofica e onestà intellettuale per dire queste parole da non credente. Ma ciò significa che c'è un fascino nel Vangelo, che talvolta i cosìddetti credenti non sentono più.

Cammino verso la fede

Abbiamo parlato a lungo della fede: dei suoi mecchanismi, contenuti e frutti. In conclusione possiamo dire che l'uomo della fede, cioè santo, si trova fotografato nel Discorso della Montagna. Quando poniamo la domanda: dov'e è il cristiano? la risposta è lì. Abbiamo anche detto che essere credente è un frutto dell'opera dello Spirito santo. Ma come ci si arriva? La risposta è: dal perseverante, vitale contatto con la Parola di Dio, che è seme dello Spirito. Questo contatto si chiama nella tradizione ecclesiale lectio divina. Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose, così presenta questa tradizione ("Le parole della spiritualità", Rizzoli, pp. 91-95).

"La lectio divina è l’arte - debitrice nei confronti della tradizione ebraica di lettura della Bibbia ed erede della grande tradizione ermeneutica patristica - che cerca di attuare il passaggio dal testo biblico alla vita e si presenta così come un prezioso strumento che può aiutare a superare il fossato spesso constatabile nelle nostre chiese tra fede e vita, tra spiritualità e quotidianità. Essa appare come un’ermeneutica esistenziale della Scrittura che, portando l’uomo a volgere innanzitutto lo sguardo a Cristo, a cercare Lui attraverso la pagina biblica, lo guida poi a porre in dialogo la propria esistenza con il volto di Cristo rivelato, per arrivare a veder illuminata di luce nuova la propria quotidianità. I quattro gradini della lectio divina – lectio, meditatio, oratio, contemplatio - rappresentano un approfondimento progressivo del testo biblico in cui l’atto della lettura è chiamato a divenire incontro con il Signore vivente, dialogo con lui, esposizione della propria vita alla luce del Cristo che ordina la resistenza del credente.

Il processo messo in atto dalla lectio divina è l’umanissimo itinerario che dall’ascolto conduce alla conoscenza e da qui all’amore. Si tratta, nella lectio, di fare lo sforzo di uscita da sé per superare l’alterità e la distanza cronologica e culturale del testo, dell’"altro" nella relazione; quindi, nella meditatio, di approfondire la conoscenza, di cercare il messaggio centrale del testo, di far emergere il volto di Cristo dalla pagina biblica; poi, nell'oratio, di applicare il messaggio emerso alla propria vita e la propria vita al messaggio biblico: l'oratio si configurerà così come risposta alla Parola in forma di preghiera, ma anche come assunzione di responsabilità della stessa Parola ascoltata"...

"La lettura richiesta dalla lectio divina non è tanto intellettuale, quanto sapienziale, e obbedisce al principio esposto dal beato Francesco da Siena: "Non l’erudizione ma l’unzione, non la scienza ma la coscienza, non la carta ma la carità". È una lettura che esige capacità di interiorizzazione, affinchè la Parola si depositi e si radichi nel cuore umano; richiede perseveranza, cioè quotidiano rinnovamento dell’attitudine di ascolto, capacità di durare, di rimanere nel tempo, perché la fede non è l’esperienza di un momento o di un’ora della vita, ma abbraccia l’interezza dell’esistenza; richiede lotta spirituale, cioè capacità di restare attaccati alla Parola ascoltata e di custodirla come bene prezioso senza svenderla preferendole quei beni illusori ma seducenti che sono gli idoli"...

"La Scrittura esige di essere vissuta per essere veramente compresa, ed esige di essere vissuta in uno spazio comunitario, insieme e accanto ad altri: "Molte cose nella sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (...). Mi sono reso conto che l’intelligenza mi era concessa per merito loro" (Gregorio Magno)".

Allora due cose garantiscono l’accesso alla fede – la lectio divina e per di più nella dimensione comunitaria, cose ampiamente dimenticate da secoli nella chiesa cattolica. Dopo il Concilio Vaticano II siamo tornati alla Scrittura e ai Padri. La luce verde del magistero si è accesa per i volonterosi e coraggiosi, ma la prassi rimane ancora poco praticata. Non so in quanti seminari e conventi venga praticata la lectio divina. Forse soltanto nei seminari "Redemptoris Mater" dei neocatecumenali. Altrove? Forse qualche separata iniziativa dei monaci più consapevoli della loro cristiana missione? Oppure qualche religioso o sacerdote più sensibile al richiamo dello Spirito. Sulla formazione in questione dei nostri laici, invece, si può dire ben poco.

Tutto quello che abbiamo detto fin qui, come si ha nei confronti della vita del sacerdote secolare? Sant'Agostino diceva ai suoi fedeli: "Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano" Un riflesso, queste sue parole, di una situazione che stava scomparendo, ma quale ancora esisteva nella mente e nella pratica dei più illuminati dalla Spirito. Il cristianesimo è unico per tutti quanti i battezzati. Esistono soltano diversi carismi e diversi ministeri. Per lunghi secoli, fino al Concilio Vaticano II, si è creata la situazione di un cristianesimo a due velocità, di due categorie: il cristianesimo dei dieci comandamenti e quello dei così detti consigli evangelici, il cristianesimo dei laici e quello dei religiosi. Al sacerdote diocesano rimaneva una spiritualità di surrogato, di più dei comandamenti, una formazione ascetica (il celibato, particolare disciplina di vita, assenza dai luoghi del divertimento mondano, abito proprio, tonsura), ma non certo i consigli evangelici in edizione dei religiosi. Per di più il sacerdote diocesano era sempre destinato, almeno virtualmente, alla "carriera" gerarchica con benefici economici legati alla sua funzione. Non è strano che nella storia sacerdoti diocesani come Giovanni Vianney non furono molti. Più spesso si poteva incontrare al massimo un onesto prete, fedele ai suoi doveri, ma non distaccato per questo dal suo tornaconto. Onesto prete, ma non di spirito. L'aneddoto sui cappellani e parroci...

Cambiamento conciliare

Il Concilio ha portato una revisione radicale di molte cose, tra l'altro anche dell'ecclesiologia. Altro discorso è se questo, oggi, a 36 anni dalla sua chiusura abbia portato molti frutti pratici. Ma questo è un altro problema.

Il Concilio ha affrontato la contrapposizione: gerarchia – laici e religiosi – non religiosi, anche se non l'ha approfondita. Nella teologia postconciliare si preferisce adesso far ricorso ad un altro binomio comunità - carismi e ministeri. Così viene superata la medievale divisione tra due stati: clericale e laicale e viene posto l’accento sulla comunità battesimale-eucaristica, vivificata dallo Spirito che la fa tutta intera corpo di Cristo nella varietà delle membra. Al suo interno i ministeri si situano come servizi in vista di ciò che la comunità stessa deve essere e fare. In tal modo risulta più chiaro come il rapporto fra i ministeri, ordinati o non, gerarchici o laicali, non sia un rapporto di superiorità degli uni sugli altri, ma di complementarietà. La chiesa appare tutta ministeriale, tutta in stato di servizio. Contemporaneamente si delinea il compito urgente di riscoprire il valore delle forme ministeriali, diverse dal ministero ordinario, fondate sulla consacrazione battesimale e sulla libera e varia iniziativa dello Spirito. Quest'operazione non è una cosa intellettuale, con spostamento di accenti nella teologia, o un gioco verbale. Essa riflette al contrario una svolta radicale da operare nella concezione e nella prassi della chiesa. Si tratta di passare da un'ecclesiologia piramidale, gerarcologica, dove da Cristo si perviene ai battezzati per la visibile mediazione gerarchica, ad un'ecclesiologia di comunione, dove l'opera dello Spirito viene posta in primo piano e vista come azione sulla comunità, per farne il corpo di Cristo con la molteplicità dei carismi.

Nello stesso tempo la prassi postconciliare si caratterizza per un ritorno, parziale ancora, ma ritorno, alla spiritualità cristiana battesimale per tutti i cristiani. Ciò ha cambiato anche il gioco delle forze nel campo dei religiosi consacrati. Con il secolarismo e laicizzazione molti cristiani si allontanano dalla chiesa. Diminuisce il numero delle vocazioni religiose. Ma nello stesso tempo molti laici partecipano attivamente alle diverse esperienze di approfondimento ed iniziazione cristiana. Diminusice il numero dei religiosi. Cresce il numero dei laici impegnati. Non è escluso che sia innescato a lunga scadenza un processo di unificazione della spiritualità cristiana e un graduale superamento di un altro binomio religiosi- non religiosi, o comunque venga attivata la creazione di una comune piattaforma spirituale con successivo rilancio di diversi ministeri e carismi.

In questa prospettiva anche la spiritualità di un cristiano non ordinato e di un altro ordinato sarebbe la stessa. Diversi rimarebbero soltanto i ministeri.

Missione specifica del sacerdote

Il Concilio Vaticano II ribadisce che i sacerdoti, partecipi del ministero dei vescovi, "sono consacrati per predicare il vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino" (LG 28). Nel Nuovo Testamento i presbiteri vengono istituiti non come sacerdoti del culto delle comunità ecclesiali, ma esplicitamente come loro custodi e pastori. E questo compito pastorale non si fonda su motivazioni generiche di carattere sociologico (come dire che ogni gruppo umano deve avere un capo), ma su un'esigenza precisa, quella di garantire alle chiese la continuità del messaggio apostolico e di fondarle sulla radice apostolica, facendo in modo che si conservino fedeli alla parola di cui non hanno il possesso, ma da cui devono essere posseduti. Lo stesso dono dello Spirito, di cui l'imposizione delle mani è il segno, non è in alcuna maniera una specie di potere sulla parola, ma piuttosto un particolare potere della parola sui pastori della chiesa, per cui essi diventano gli strumenti della costruzione della chiesa. Paolo ai presibiteri di Efeso dice:"Ed ora io vi affido a Dio e alla sua parola di grazia, la quale ha il potere di costruire l'edificio e di assicurare l'eredità a tutti i santificati " (At 20,32). Ciò che rende del tutto peculiare e indispensabile alla chiesa la parola dei ministri ordinati è l'esigenza di una parola che non solo esprima la chiesa, ma che la generi, dalla quale la chiesa non si senta solamente espressa, ma anche originata. La chiesa non può portare avanti la formulazione della sua confessione di fede senza fare riferimento alla predicazione del ministero.

Verifica della vocazione

Ci siamo fermati a lungo sulla fede come fondamento della vita cristiana. Tenendo come sfondo questo tema, possiamo affrontare il discorso della specifica vocazione sacerdotale. Giovanni Paolo II nell'introduzione alla sua biografia ("Dono e mistero", p.9) dice che la vocazione, nella sua profondità, sia un grande mistero e dono che supera ogni uomo e di fronte al quale sentiamo quanto manchiamo. Ciascuno di noi è in grado di dire come è nata la vocazione, quale sia stata la sua conspevole motivazione, talvolta anche quella inconscia, anche se con i motivi inconsci abbiamo sempre dei problemi. Pur conoscendo però la genesi della nostra vocazione non sapremo mai "perché proprio io". "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perchè andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15,16). ""Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne" (Hb 5,4). "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso" (Ger 20,7).

Il Signore chiama chi vuole e da situazioni soltanto a Lui conosciute. Può anche chiamare un uomo dal fango. Lui vede l'uomo non come è, ma come sarà. La vocazione non può essere estorta a Dio, perché piace a qualcuno. "Ti seguirò dovunque tu vada. Gesù gli rispose: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo" (Lc 9,57-58). Ciò vuol dire: "Non sai a che cosa ti decidi. Non è il tuo posto."

Come riconoscere una vocazione? E' un problema secolare. Prima di tutto bisogna volerlo, anche se la sola voglia non basta. Dietro un volere può nascondersi la vocazione della mamma o di una zia. "Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio... Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi" (1G 4,7.12-13). Traducendo queste parole in linguaggio della psicologia si può dire che il segno della vocazione è il motivo altruista: quando il mio ultimo, inconscio motivo della vocazione è essere strumento, servire agli altri, anche quando costi, anche quando non ne valga la pena. Il motivo inconscio, perché consapevolmente l'altruismo si può razionalizzare, è in fondo cercare se stesso, la propria gloria e i propri comodi. A lunga scadenza non si può fingere la vocazione.

Verifica della propria coscienza e quella istituzionale

E qui entriamo in un vasto campo, quello della verifica della vocazione e della fedeltà. Forza e debolezza della chiesa. La vocazione deve essere verificata doppiamente. Dalla coscienza personale, e in questo senso è soltanto una cosa personale e del Signore, e istituzionalmente dalla Chiesa, perché è al servizio di essa. E’ nella struttura gerarchica che avviene la verifica. E' compito dei vescovi, dei padri spirituali, dei superiori, che dovrebbero avere il carisma del discernimento. Diciamo dovrebbero, anche se può capitare altrimenti. Però una cosa è certa, che il Signore rivendicherà quello che è suo. La vera vocazione non si perderà. Al contrario, può ricevere il benestare una vocazione fasulla, per dramma della persona interessata e per il torto della chiesa. La verifica istituzionale è necessaria ed inevitabile, ma a lunga scadenza non basterà, non risolverà i problemi della vita, se dovesse mancare la verifica interna, personale, questo costante maturare alla missione che ci sovrasta, se mancasse l’umile contemplazione del mistero dell'elezione divina, che all’uomo debole e peccatore dà il potere sul suo corpo e la potenza di rimettere i peccati.

Si parla spesso della crisi delle vocazioni, della mancanza di preti. E io oserei dire che ce ne sono ancora troppi, troppi ordinati che si occupano delle cose che non appartengono alla missione ricevuta.

Giovanni Paolo II, nella sua autobiografia, ripete con san Paolo che il sacerdote deve essere prima di tutto amministratore dei misteri di Dio. "Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele" (1 Cor 4,1-2). "Amministratore non è il proprietario – scrive avanti Giovanni Paolo II -, ma colui al quale il proprietario affida i suoi beni, affinché li gestisca con giustizia e responsabilità. Proprio così, il sacerdote riceve da Cristo i beni della salvezza, per distribuirli nel modo dovuto tra le persone alle quali viene inviato. Si tratta dei beni della fede. Il sacerdote, pertanto, è uomo della parola di Dio, uomo del sacramento, uomo del "mistero della fede". Attraverso la fede egli accede ai beni invisibili che costituiscono l'eredità della Redenzione del mondo operata dal Figlio di Dio. Nessuno può ritenersi "proprietario" di questi beni. Tutti ne siamo destinatari. In forza, però, di ciò che Cristo ha stabilito, il sacerdote ha il compito di amministrarli" (pp.83-84): così Giovanni Paolo II.

Quando dico che ci sono troppi preti, non è che sia fautore degli abbandoni di massa. Sicuramente sarebbe meglio se nei seminari, negli istituti di studio, negli ordini religiosi ci fosse una selezione più severa. Sarebbe meglio che i sacerdoti che ci sono si occupassero di funzioni di "amministratori dei beni della fede"e dopo, a tempo libero, di amministrazione di beni materiale, di costruzione dei muri, di arte e poesia, di scienze naturali, di mass-media e anche di teologia, sì, anche di teologia. Non devono fare le stesse cose che ugualmente bene, o meglio, possono fare i laici. So che, oggi come oggi, chiedo troppo, forse una cosa impossibile, ma il problema, e grave, persiste. A Roma ci sono alcune migliaia di sacerdoti e nelle periferie della capitale non c'è nessuno che voglia confessare i fedeli. Questo è un solo esempio.

Come si arriva a tale situazione? La Chiesa spesso dopo Costantino si è assunta funzioni sociali vicarie: si trascrivevano antichi codici, si costruivano ponti, si arava la terra, s’insegnava il catechismo ai bambini in sostituzione dei genitori, si fondavano scuole per educare i barbari, si sedeva nei parlamenti per difendere privilegi materiali e politici della chiesa, s’indicevano crociate, si costruivano splendide chiese, monumenti dell'orgoglio umano, ecc.. E spesso le funzioni vicarie diventevano poi primarie e la tradizione le pietrificava e talvolta le sacralizzava. E oggi? A tutto questo si aggiunge il caos del nostro mondo impazzito, dove anormale diventa norma, dove il secolarismo chiude il cielo all' uomo e i superstiti cristiani non sanno che cosa sia il cristianesimo. Ciò non rimane senza influenza sui futuri sacerdoti.

La società non è più cristiana, anche se girano per il mondo i cristiani. La famiglia non trasmette più la fede: la famiglia lavora tutto il giorno per guadagnare i soldi e la sera passa quattro ore davanti al televisore (media europea). E dalla televisione si beve tutto quanto, ma non spirito evangelico. E poi al seminario o al noviziato arriva una ragazzo e una ragazza di buona volontà, ma senza fede. Quanto buon senso, capacità di discernere e conoscenza di ciò succede intorno ci vuole, per non esser indotti nell’ inganno che sia venuto in seminario un cristiano! Il problema della formazione viene complicato ancora dalla crisi dell'identità sacerdotale. Quale sacerdote vogliamo formare e con quali mezzi? Come convincere il cuore di un seminarista, e poi quello di un sacerdote, che le beatitudini evangeliche sono beate, che il Signore, liberamente da noi scelto, non è un peso, che Gesù Cristo non è venuto per tormentare l’uomo, ma per dargli gioia e libertà? Come vedere Gesù Cristo come colui che illumina la vita, che affascina? Come vivere la Chiesa come avvenimento, comunità di fratelli e non istituzione trincerata dietro le leggi? Come credere che il celibato non è una castrazione, ma libertà per poter amare, cordialmente, in modo umano e secondo Dio, tutti, uomini e donne?

Quando manca il metodo e la fortuna di tale formazione, come è facile allora ridursi al programma del minimo richiesto: dare a Dio una candela, chiudersi nelle dimensioni "di ciò che mi ordinano di fare", assumere la tuta mimetica e costruire un giardino della vita privata, non toccabile da nessuno, forse non tanto peccaminosa e tremenda, ma su due binari. Vita di un impiegato, professionista che fa il prete per 6-8 ore al giorno e poi una vita privata trincerata dietro la propria comodità o un hobby. E forse l’unica cosa che può smuovere l'interessato è l’aspirazione di aggiungere qualche pezzo viola alla veste talare….

Non sempre uno ha la fortuna di scoprire il volto paterno di Dio, incontrarsi con la Sua misericordia, sentirla nel profondo del suo cuore e parlare con lui senza paura, anche dei suoi peccati, scoprendo che malgrado le sue deboli forze qualcosa, grazie al Signore, si realizza, che sta uscendo da un bozzolo di egoismo, portato dalla promessa che si sta compiendo. Non sempre si è predisposti alla gratitudine, a non scandalizzarsi, a distribuire gioia, calore umano e senso dell'essere.

Dove si scopre tale dimensione del Signore? Già abbiamo detto e ripetiamo: nel contatto con la Parola di Dio, meditato e predicato nella comunità cristiana intesa come comunità del cammino di fede. Tale è la sfida per tutta la Chiesa: ritornare a una cosa che in un certo senso finì con Costantino. Ciò suona oggi come una cosa astratta, senza connotati pratici, un postulato della buona volontà pastorale. In molti settori della chiesa forse ancora non è possibile. Ma sta avanzando il nuovo. La vecchia crosta sta screpolandosi. Si sta preparando il terreno per la nuova semina. Se uno ha occhi aperti e cuore buono può vedere già oggi l'opera dello Spirito Santo.

Ruolo delle crisi vocazionali

Quando si parla della verifica della vocazione non ci si può dimenticare di una cosa importantissima: della tentazione, della crisi sul senso della strada intrapresa. Viviamo in una tradizione moralistica e volontaristica nella chiesa, nella quale ogni crisi viene vista come qualcosa degno di vergogna, che macchia moralmente e disprezza l'uomo. Tale clima è causato dal fatto che l'uomo comincia a indossare la maschera degli eroi, "duri spiritualmente", specialmente di fronte ai confratelli sacerdoti e superiori. Talvolta è più facile essere se stessi davanti ai laici che capiranno meglio il mal capitato. Così in parte funziona ancora oggi nella Chiesa, mentre non si può avere una vera vocazione se essa non passa attraverso il deserto; anche qundo un giorno abbiamo fatto la scelta definitiva per tutta la vita, ogni giorno dobbiamo scegliere di nuovo. Perciò non ci si deve spaventare della tentazione, del dubbio, della sensazione di non essere all'altezza, della voglia di fuggire. Uno si dovrebbe preoccupare se non avesse sperimentato nella sua vita una tale prova. Sarebbe segno di una grande superficialità. Soltanto dopo aver superato il deserto si incontra il Signore, si scopre la profondità del nostro cuore, l’idolatria delle cose create e la misericordia di Dio. Beata è la croce, la sofferenza e la tentazione: fanno guarire dal fariseismo e dal moralismo, atteggiamenti che attribuiscono a se stessi la capacità di compiere la legge. Si cominciano a capire le debolezze altrui, passa la voglia di giudicare gli altri. Soltanto nella croce ci si può aspettare l'incontro con il vero Dio, con il Cristo risorto. Soltanto lì si può capire che tutto è grazia.

Celibato

E per concludere si dovrebbe dire ancora qualcosa sul celibato - tema per una distinta conferenza. Soltanto alcune osservazioni. Fino al Concilio Vat. II nella chiesa il celibato essenzialmente non era contestato, magari non sempre conservato, ma accettato come una cosa ovvia. Con la società permissiva e con la crisi di fede si è cominciato a contestare anche il celibato. Sul celibato si può parlare in due modi: negativamente, sulla difensiva, mettendo in guardia i diretti interessati, facendo uno sforzo per aiutarli ad essere fedeli al voto, aiutandoli a superare eventuali difficoltà., oppure positivamente vedendolo come una possibilità per "l'amore più grande". E’ chiaro che il celibato non è legato intrinsecamente al sacerdozio. Nella storia della chiesa entrò tardi come prassi comune. Può esistere o non esistere. Lasciamo alle future generazioni e ai futuri papi, speriamo con l’aiuto dello Spirito santo, di decidere cosa servirà meglio per la Chiesa del futuro. Oggi sicuramente per la Chiesa latina il celibato dei sacerdoti secolari serve. E non si può negare anche che il celibato per il Regno dei Cieli proviene dalla esplicita chiamata di Gesù e rimarrà sempre attuale per quelli che si sentiranno chiamati. Oggi come oggi, se esiste ancora un segno di fede tra i sacerdoti che convince della loro fede nella vita eterna, questo è il celibato fedelmente praticato.

Teniamo, però, presente che il celibato non è una privazione. Nel nostro corpo rimaniamo sempre esseri sessuali e questo è un dono di Dio. Non tentiamo di correggerlo. Per il celibato uno deve essere educato, specialmente nella sua affettività. Aiuta moltissimo, ancora prima della decisione di essere o non essere celibi, sviluppare ampiamente la nostra tenerezza, un buon, amichevole rapporto con il mondo del creato: con le piante, animali, uomini, donne e bambini. La migliore scuola per sviluppare la tenerezza è una famiglia tra fratelli e sorelle. Poi una scuola coeducativa e contatti dei coetanei fuori della scuola. Non possiamo alzare i baluardi intorno a noi, anche se alcune tradizioni ascetiche lo propongono. Non si può, perché sarebbe ridicolo e non secondo il piano divino. La Chiesa non è un club per soli uomini o sole donne. La Chiesa è una comunità mista, anche se spesso le donne costituiscono in essa una maggioranza e ne sono più dedite. Sicuramente c'è molta strada da fare per noi sacerdoti per essere capaci di avere con le donne un contatto sereno, cordiale, libero e nello stesso tempo autenticamente casto nella fedeltà al celibato per il Regno. Vedere in esse sorelle, non mogli, però senza paura della loro femminilità, della loro amicizia. Sperimentare che anche la donna può esser un aiuto per essere migliori, anche come sacerdoti. Le donne non devono essere necessariamente soltanto una tentazione. L'esempio di un detto di un mio professore a proposito delle amicizie tra le persone consacrate: "Carissimo, se vuoi mescolare la terra santa con l'acqua benedetta, sempre uscirà un fango".

Questo detto è esempio di una visione pessimistica che non crede in un diverso contatto tra i celibatari che non la divisione. E' vero, il problema è delicato, però non bisogna fuggirne. La storia della Chiesa è piena di esempi di amicizie tra uomini e donne che non ha impedito loro di essere autenticamente santi. Diamo qualche nome di quelli con l'etichetta "DOC", tralasciando altri esempi: Francesco d'Assisi e Chiara, Salesio e Joanna de Chantal, Giordano di Sassonia e Diana d'Andò, Bernardo di Clairvaux e Ermenegarda di Bretagna. Questo non significa che uno debba a tutti i costi cercarsi una amica, però un atteggiamento di apertura, di trattare un’altra persona come amica, bisogna averlo. Di tale amicizia non tutti sono capaci, è vero. In tale peculiare rapporto bisogna avere una libertà interna e non una puritana sottomissione del sesso. Deve esitere la possibilità di un dialogo che abbia carattere etico, spirituale e religioso. Ad un livello più basso difficilmente si può avere un dialogo così: quasi automaticamente subentrerà il sesso e diventerà "unica materia di scambio".

Il nemico del celibato non è soltanto la troppa vicinanza di una donna vista nel suo corpo. Lo stesso tradimento può presentare la fedeltà fisica e dei pensieri, ma con il cuore chiuso agli altri. Il celibato di un iceberg, di un funzionario, che lavora ad ore e poi si chiude nelle sue comodità impedisce di vedere, tanto più di condividere i bisogni e i pericoli nei quali vivono i fratelli nel mondo, spesso aspettando una solidarietà, un’indicazione di una strada verso il Signore, di un luogo dove trovare il Regno dei Cieli.

Da quello che ho tentato di dire si può riassumere che il sacerdote è un fratello come gli altri cristiani, chiamato a scoprire ed incarnare il dono della nuova natura battesimale. A questo volto di Cristo incarnato nella vita dei cristiani ha da aggiungere la misericordia di Cristo nel sacramento della riconciliazione, nell'Eucaristia e nel servizio alla Parola. Non si sarà mai efficaci in questa missione se non sarà data la pazienza per i peccati altrui. Meglio non andare in confessionale e al pulpito se non abbiamo la compassione delle persone, se crediamo che il mondo sia cattivo, che bisogna punirlo. Si sarà credibili soltanto se per primi si sperimenterà la misericordia del Signore e si parlerà di Lui partendo dall'esperienza della Parola masticata e applicata alla nostra stessa vita.