I
riflessi della (Dichiarazione "(Dominus Iesus" sulla formazione e sulla missionarietà del ministero pastorale del presbiteroAngelo Amato, SDB
prima lezione: la "dominus lesus e l'identità cattolica"
1. La missione evangelizzatrice della Chiesa in un mondo plurireligioso
La dichiarazione si apre con il richiamo al mandato missionario di Gesù ai discepoli: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato" (Me 16,15-16); "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo" (Mt 28,18-20; cf. anche Le 24,46-48; Gv 17,18; 20,21; At 1,8).
Subito dopo viene proclamato nella sua interezza il Credo niceno-costantinopolitano, che celebra la fede cristiana nel mistero di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, e nel mistero dell'incarnazione del Figlio, come evento di salvezza per tutta l'umanità.1
La ragione di questo inizio oltremodo solenne e impegnativo - nonostante le garbate riserve, il Presidente del Consiglio delle chiese evangeliche di Germania, Manfred Kock, ha paragonato la Dominus Iesus alla Dichiarazione di Barmen,2 con la quale nel 1934 la Bekennende Kirche, ai suoi inizi, rifiutò il progetto dei cristiani tedeschi di produrre una sintesi fra ideologia nazista e cristianesimo3 - è dato sia dalla constatazione che l'impegno missionario della Chiesa, alla fine del secondo millennio cristiano, è ancora lontano dal
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CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione "Dominus Iesus" circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa (6 agosto 2000), n. 1 : d'ora in poi, sarà citata nel testo con la sigla DI.2
Nell'articolo 1 della Dichiarazione di Barmen si legge: "II fondamento inviolabile della Chiesa evangelica tedesca è il Vangelo di Gesù Cristo quale è attestato nella sacra Scrittura e riportato alla luce nelle confessioni di fede della Riforma. I pieni poteri di cui la Chiesa ha bisogno per la sua missione sono lì precisati e delimitati": cf. R. FABBRI (a cura), Confessioni di fede delle chiese cristiane, EDB, Bologna 1996, p. 1057.3
Cf. l'intervista del card. Joseph Ratzinger al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, del 22 settembre 2000: un ampio estratto \n L'Osservatore Romano dell'8 ottobre 2000, p. 4-5.
suo compimento, sia soprattutto dalla necessità di ribadire quelle verità che, nella pratica e nell'approfondimento teorico del dialogo tra la fede cristiana e le altre tradizioni religiose, devono costituire il patrimonio inalienabile della fede della Chiesa.
Infatti, l'odierna teologia delle religioni, nel tentativo di discernere il significato e il valore salvifico delle altre religioni, percorre nuove piste di ricerca, avanza proposte e suggerisce comportamenti, che necessitano di accurato discernimento: "In questa ricerca la presente Dichiarazione interviene per richiamare ai Vescovi, ai teologi e a tutti i fedeli cattolici alcuni contenuti dottrinali imprescindibili, che possano aiutare la riflessione teologica a maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee" (DI n. 3).
Insomma la Dichiarazione non intende proporre soluzioni a questioni teologiche liberamente disputate. A proposito della presenza di altre esperienze religiose e del loro significato nel piano salvifico di Dio, la teologia è invitata a esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza. È tutta da approfondire anche la varia cooperazione della creatura all'unica mediazione di Cristo (cf. Din. 14).
2. Presupposti problematici e affermazioni ambigue o erronee
Lo scopo della Dichiarazione è quello di riprendere e ribadire le verità che fanno parte del patrimonio di fede della Chiesa cattolica nei confronti di posizioni erronee o ambigue, che così vengono riassunte:
"Il perenne annuncio missionario della Chiesa viene oggi messo in pericolo da teorie di tipo relativistico, che intendono giustificare il pluralismo religioso, non solo de facto ma anche de iure (o di principio). Di conseguenza, si ritengono superate verità come, ad esempio, il carattere definitivo e completo della rivelazione di Gesù Cristo, la natura della fede cristiana rispetto alla credenza nelle altre religioni, il carattere ispirato dei libri della Sacra Scrittura, l'unità personale tra il Verbo eterno e Gesù di Nazareth, l'unità dell'economia del Verbo incarnato e dello Spirito Santo, l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Gesù Cristo, la mediazione salvifica universale della Chiesa, l'inseparabilità, pur nella distinzione, tra il Regno di Dio, Regno di Cristo e la Chiesa, la sussistenza nella Chiesa cattolica dell'unica Chiesa di Cristo" (DI n. 4).
La Dichiarazione presenta i presupposti filosofico-teologici di tali affermazioni:
"Le radici di queste affermazioni sono da ricercarsi in alcuni presupposti, di natura sia filosofica, sia teologica, che ostacolano l'intelligenza e l'accoglienza della verità rivelata. Se ne possono segnalare alcuni: la convinzione della inafferrabilità e inesprimibilità della verità divina, nemmeno da parte della rivelazione cristiana; l'atteggiamento relativistico nei confronti della verità, per cui ciò che è vero per alcuni non lo sarebbe per altri; la contrapposizione radicale che si pone tra mentalità logica occidentale e mentalità simbolica orientale; il soggettivismo di chi, considerando la ragione come unica fonte di conoscenza, diventa "incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere"; la difficoltà a comprendere e ad accogliere la presenza di eventi definitivi ed escatologici nella storia; lo svuotamento metafisico dell'evento dell'incarnazione storica del Logos eterno, ridotto a mero apparire di Dio nella storia; l'eclettismo di chi, nella ricerca teologica, assume idee derivate da differenti contesti filosofici e religiosi, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica, né alla loro compatibilità con la verità cristiana; la tendenza, infine, a leggere e interpretare la Sacra Scrittura fuori dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa".
In base a tali presupposti, che si presentano con sfumature diverse, talvolta come affermazioni e talvolta come ipotesi, vengono elaborate alcune proposte teologiche, in cui la rivelazione cristiana e il mistero di Gesù Cristo e della Chiesa perdono il loro carattere di verità assoluta e di universalità salvifica, o almeno si getta su di essi un'ombra di dubbio e di insicurezza" (DI n. 4).
3. La riflessione filosofica sulla verità
Che questo panorama non sia solo una impressione della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma corrisponda alla realtà concreta viene confermato, tra l'altro, dalla critica avvertita di non pochi filosofi contemporanei, che reagiscono fondatamente alla considerazione relativistica della verità cristiana.
Cito, ad esempio, l'opera del fenomenologo francese, Michel Henry, C'est moi la Vérité. Pour une philosophie du christianisme, Seuil, Paris 1996.4 È una riflessione attenta sulla verità cristiana che si manifesta nel Logos incarnato e che si autogiustifica: "Questa Verità che da sola ha il potere di rivelare se stessa, è quella stessa di Dio [...]. Solo colui che è entrato in possesso di questa verità assoluta può, illuminato da essa, comprendere quanto viene detto nel vangelo e che non è nient'altro che questa verità assoluta che, rivelandosi a se stessa, si rivela anche a lui".5
È di qualche mese fa un'ampia riflessione filosofico-teologica di Andrea Milano sullo stesso argomento: Quale Verità. Per una critica della ragione teologica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999. L'opera contiene una disamina stringata sul tema della verità "compresa in una franca e determinante prospettiva cristocentrica" (p. 8). La quaestio de ventate, cara alla tradizione teologica, viene rivisitata in un orizzonte, qual è quello odierno, oltremodo bisognoso di radicarsi sulla verità. Il sottotitolo avverte che si tratta di una sorta di "critica della ragione teologica", dal momento che la teologia, riflettendo sul suo intellectus fìdei, trova la sua prima e ultima condizione di possibilità nel mistero dell'incarnazione del Verbo, riscoperto e riaffermato come "verità della verità".
Con schiettezza l'Autore così descrive un certo indirizzo metodologico contemporaneo:
"La teologia dei cristiani si svolge troppo spesso sulla base di presupposti ritenuti razionali e, quindi, stimati di per sé costitutivamente validi. Non ci si rende conto che, in realtà, questi presupposti sono e restano fondamentalmente pre-cristiani: in ogni caso non sono per nulla cristologicamente vagliati. I grandi decisivi concetti di essere, uno, bene, ma anche quelli di infinito, spirito, trascendentale, valore, storia, liberazione e persine lo stesso concetto di verità vengono di volta in volta prelevati e messi in cantiere dai teologi, senza che siano sottoposti a un metodico processo di verifica determinato essenzialmente dalla rivelazione che è Gesù Cristo.
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Cf. traduzione italiana: M. HENRY, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo, Queriniana, Brescia 1997.5
Le nostre citazioni sono dall'edizione francese: p. 17.6
A. MILANO, Quale Verità. Per una critica della ragione teologica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1999, p. 8.
Non si è neppure sfiorati dal dubbio che la pretesa di verità incondizionata avanzata da lui sia tale da sconvolgere e disintegrare tutti i concetti che prescindano da lui e non siano sottomessi alla sua signoria. La conseguenza è, nel migliore dei casi, un difetto di transu-stanziazione dell'intelligenza e, nel peggiore, un eccesso di soggezione della fede al sapere ritenuto in quel momento vittorioso ed egemone".
Se la teologia - avverte Milano - deve qualificarsi come cristiana, essa nel suo discorso non può rinunciare all'analogia Christi e a Cristo come persona verìtatis. Luterò aveva colto nel segno quando, non senza una certa esasperazione, affermava: "Extra Jesum quaerere deum est diabolus".8
Vengono, quindi, messi in discussione metodi teologici troppo sbilanciati verso il soggetto, con la conseguente trascuratezza dell'oggetto - e cioè dell'automanifestazione e dell'autodedizione di Dio fatta carne "in" Gesù Cristo -, dando così vita a un fare teologia "juxta aliena principia".
L'Autore quindi ribadisce la concentrazione cristologica, e cioè la reductio theologiae in Christum: se Gesù Cristo è all'inizio, al centro e alla fine della creazione, della storia salvifica e della trasfigurazione finale di tutte le cose, ciò significa che ogni tema e ogni capitolo della teologia deve partire da Cristo e condurre a lui e al suo mistero pasquale, chiave universale del disvelamento veritativo di ogni cosa.
La concentrazione cristologica della verità è quindi un imprescindibile dato di fede e un compito teologico inoppugnabile; l'analogia Christi è inoltre l'adeguata possibilità del discorso su Dio; la Chiesa è l'orizzonte della comprensione pneumatica della verità nella storia.
La concentrazione cristologica della verità non è quindi un intralcio ingombrante al dialogo interreligioso, ma il suo punto di partenza. Cristo è la verità in persona e la verità della verità, la verità che si disvela e si dispiega come agape.
4. La sfida del pluralismo religioso
La considerazione debole della verità, vista non nella sua pienezza e assolutezza cristologica, ma nella relatività della comprensione umana, costituisce uno dei tanti elementi della considerazione pluralistica della fede cristiana. Antesignani nel recente passato della considerazione relativistica del cristianesimo sono considerati John Hick e Paul Knitter,
che parlano rispettivamente del "mito del Dio incarnato" o del "mito dell'unicità cristiana".™
Si tratta di due dei più tipici rappresentanti della teologia pluralistica delle religioni, seguiti con più o meno acume critico da una schiera innumerevole di discepoli.11 Per essi
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Ib.p. 13.8
WA 30/3, 213, 34-39.9
Cf. J. HICK, The Myth of God Incarnate, SCM Press, London 1977. Più recentemente, ma con gli stessi risultati, lo stesso autore parla della "metafora" del Dio incarnato.10
Cf. J. HICK - P. KNITTER (ed.), The Myth of Christian Uniqueness. Toward a Pluralistic Theology qf Religioni, Orbis Books, Maryknoll 1987.11
Una ponderata risposta critica alla posizione pluralistica di John Hick proviene da un suo discepolo cattolico: Gavin D'COSTA, Christian Uniqueness Reconsidered. The Myth of a Pluralistic Theology ofRe-ligions, Orbis Books, Maryknoll 1990.
Gesù sarebbe uno dei tanti salvatori religiosi, per cui tutte le religioni sarebbero ugualmente valide. Afferma, ad esempio, Paul Knitter: "Più concretamente e scomodamente, può darsi che il buddismo e l'induismo siano tanto importanti per la storia della salvezza quanto lo è il cristianesimo, oppure che altri rivelatori e salvatori siano tanto importanti quanto Gesù di Nazaret".12
Si abbandona cioè il mistero della Pentecoste e ci si ispira al mito di Babele. 13 Nell'introduzione alla sua opera in collaborazione, Paul Knitter spiega il significato da lui chiamato "mitico" dell'unicità cristiana: unicità senza alcuna pretesa di assolutezza o di
superiorità nei confronti delle altre religioni. 14 Per questo si dovrebbe superare sia la posizione esclusivista - come quella di Karl Barth che considera le altre religioni come ido-latriche15 - sia quella inclusivista - come la posizione del Concilio Vaticano II e della Redemptoris Missio di Giovanni Paolo II - e spostarsi invece verso un modello pluralistico. Questo spostamento (paradigm shiff) rappresenterebbe il passaggio di un "Rubicone teologico"16, Questo passaggio, e cioè il portarsi dalle rive dell'esclusivismo e dell'inclusivismo verso la riva del pluralismo assoluto, implica il superamento di tre "ponti teologici"; 1) l'accettazione piena del relativismo, come constatazione della inesistenza di una verità assoluta; 2) l'ammissione del pluralismo, come unica possibilità per esprimere il mistero ineffabile di Dio; 3) l'urgenza di promuovere la giustizia mediante un movimento di liberazione mondiale in cui Cristo, Budda, Krishna o Maometto non competono, ma si completano a vicenda.17
La prospettiva di questo modello pluralistico non è né ecclesiocentrica, né cristocentrica, né trinitaria ma genericamente "teocentrica", con un riferimento più o meno diretto a un assoluto sacrale. La salvezza, cioè, verrebbe da "Dio", non dal Dio rivelato dal cristianesimo, ma da un Dio ineffabile o da un "mistero santo", presente in modi diversi in ogni religione. Gesù Cristo scompare dall'orizzonte come salvatore universale: sarebbe semplicemente un mediatore relativo o addirittura facoltativo di salvezza.
In questa linea si colloca, ad esempio, S.J. Samartha, primo direttore del "Dialogue Program" del Consiglio Mondiale delle Chiese a Ginevra, il quale propone per l'India e per l'Asia una profonda revisione della cristologia cristiana: "Che Gesù sia il Cristo di Dio è confessione di fede della comunità cristiana. Ciò rimane veramente normativo per i cristiani dovunque; ma farne un evento "assolutamente singolare" e ritenere che il significato del Mistero sia rivelato solo in una particolare persona, in un posto particolare e in nessun altro luogo, significa ignorare i vicini di altre confessioni, che hanno altri punti di riferimento. Fare affermazioni esclusive sulla nostra tradizione particolare non è il modo migliore di amare i nostri vicini come noi stessi".!" Questa cristologia "rivista" dovrebbe
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P. KNITTER, La teologia cattolica delle religioni a un crocevia, in "Concilum" 22 (1986) p. 137.13
Cf. L. SWIDLER (ed.), Toward Universa! Theology of Religioni, Orbis Books, Maryknoll 1987.15
Cf. K. BARTH, KD, 1/2.16
Cf. HICK- KNITTER, The Myth of Christian Uniqueness, p. Vili. Knitter riconosce anche che ci furono delle defezioni a questo progetto pluralistico: John B. Cobb Jr, Schubert Ogden, David Tracy.17
Ib. p. IX-XII.18
S.J. SAMARTHA, One Christ - Many Religions. Toward a Revised Christology, Orbis Books, Maryknoll 1991, p. 84.
accantonare l'universalità dell'evento Cristo, considerata infondata. L'originalità del cristianesimo non risiederebbe nell'affermare che Gesù Cristo è Dio: "Elevare Gesù allo stato di Dio o limitare Cristo a Gesù di Nazaret sono entrambe tentazioni da evitare. La prima corre il rischio di una "Gesuologia" impoverita, e la seconda di diventare uno stretto "Cristomonismo". Una cristologia teocentrica evita questi pericoli e aiuta maggiormente a stabilire nuove relazioni con vicini di altre fedi".19
Anche per M. Thomas Thangaraj, la pretesa dell'assolutezza salvifica di Gesù sarebbe inappropriata se intesa in modo universale. Sarebbe accettabile solo se si precisasse che "Cristo è unico e assoluto solo per i cristiani".20 Per questo, applicando a Gesù il titolo di guru (maestro), egli rileva che "Gesù dovrà essere considerato come uno dei tanti guru e non come l'unico e il solo guru".21 In questi e in altri autori il presupposto è la convinzione che le varie tradizioni religiose non cristiane nella loro ricca pluriformità sarebbero paritetiche e complementari e farebbero tutte ugualmente parte del disegno salvifico di Dio nei confronti dell'umanità. In tal modo si vuole superare l'affermazione dell'esclusiva unicità salvifica dell'evento Cristo, che appare come una mancanza di rispetto nei confronti dell'esperienza dei devoti di altre religioni, che vivono venerando altri salvatori.
5. La risposta "dimenticata" della "Redemptoris missio" (1990)
Una risposta tempestiva a queste problematiche, già sostanzialmente presenti negli anni '80 nella riflessione teologica soprattutto in lingua inglese, fu data nel 1990 dall'enciclica - fondamentalmente cristologica e dogmatica, oltre che missionaria - Redemptoris missio di Giovanni Paolo II. In essa ci sono tre importanti affermazioni cristologiche: 1. Gesù Cristo è l'unico salvatore dell'umanità (RMi n. 4-11); 2. esiste una indissolubile unità personale tra il Verbo eterno e il Gesù storico (RMi n. 6); 3. il regno di Dio si identifica con la persona stessa di Gesù Cristo (RMi n. 12-20).
Per motivare la fede in Gesù Cristo "Unico Salvatore" dell'intera umanità (cf. RMi n. 4-11), il Papa ripropone la prima predicazione apostolica di Pietro (cf. At 4,12) e di Paolo (cf. I Cor 8,5-6; I Tm 2,5-6). Citando anche l'apostolo Giovanni (Gv 3,16-17), così conclude: "Gli uomini, quindi, non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito. Questa sua mediazione unica e universale, lungi dall'essere di ostacolo al cammino verso Dio, è la via stabilita da Dio stesso, e di ciò Cristo ha piena coscienza. Se non sono escluse mediazioni partecipate di vario tipo e ordine, esse tuttavia attingono significato e valore unicamente da quella di Cristo e non possono essere intese come parallele e complementari" (RMi n. 5).
Questo importante pronunciamento magisteriale è stato disatteso nelle sue affermazioni dottrinali probabilmente per due motivi: per la sua tempestività, dal momento che nella teologia occidentale non si riuscì subito a cogliere la portata deleteria delle tesi pluralistiche;
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Ib., p.86.20
M.T. THANGARAJ, The Crucifled Guru. An Experiment in Cross-Cultural Christology, Nashville, Abingdon Press 1994.21
Ib. p. 124: "Therefore, Jesus will bave to be seen as one of thè gurus and not as the one and only guru".
per la sua indole missionaria, per cui l'enciclica fu accolta, letta e interpretata nei suoi risvolti propriamente missiologici, pastorali e spirituali più che dottrinali.
Anche il documento della Commissione Teologica Internazionale "II Cristianesimo e le religioni" (1997), che, riprendendo l'insegnamento pontificio, offriva un ampio e corretto quadro di riferimento per chiarire il rapporto salvifico del mistero di Cristo e della Chiesa nei confronti delle altre religioni non ha avuto maggior fortuna. La conseguenza è stata un diffondersi a tutti i livelli, dottrinali e pastorali, di teorie e di atteggiamenti decisamente relativistici e pluralistici.
Aggiungiamo anche che, tenendo conto della particolare situazione teologica dell'Asia, a novembre del 1999, nella esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Asia, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha posto un enfasi particolare proprio sull'unicità e sull'universalità salvifica del mistero di Cristo, affermando:
"Dal primo istante del tempo sino all'ultimo, Gesù è il solo Mediatore universale. Anche per quanti non professano esplicitamente la fede in lui quale Salvatore, la salvezza giunge da lui come grazia, mediante la comunicazione dello Spirito Santo. Noi crediamo che Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, è l'unico Salvatore, poiché soltanto lui - il Figlio - ha portato a compimento il piano universale della salvezza" (n. 14).
6. La dottrina cristologica: Gesù Cristo salvatore unico e universale
È questo l'ampio e spesso confuso orizzonte in cui inserire la Dichiarazione, che, da un punto di vista cristologico, intende ribadire tre elementi dottrinali importanti della fede cristiana:
1. la pienezza e la definitività della rivelazione di Gesù (n. 5-8);
2. l'unità dell'economia salvifica del Verbo incarnato e dello Spirito Santo (n. 9-12);
3. l'unicità e l'universalità del mistero salvifico di Gesù Cristo (n. 13-16).
1. La riaffermazione della pienezza e della definitività della rivelazione cristiana intende opporsi alla tesi circa il carattere limitato, incompleto e imperfetto della rivelazione di Gesù Cristo, considerata come complementare a quella presente nelle altre religioni. Il fondamento di questa asserzione erronea sarebbe il fatto che la piena e completa verità su Dio non potrebbe essere monopolio di nessuna religione storica. Nemmeno il Cristianesimo, quindi, potrebbe adeguatamente esprimere tutto intero il mistero di Dio.
Questa posizione viene respinta come contraria alla fede della Chiesa. Gesù, in quanto Verbo del Padre, è "la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). Ed è lui a rivelare la pienezza del mistero di Dio: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,18). Giustamente la Dichiarazione rileva che la fonte della pienezza, della completezza e della universalità della rivelazione cristiana è la persona divina del Verbo incarnato: "La verità su Dio non viene abolita o ridotta perché è detta in linguaggio umano. Essa, invece, resta unica, piena e completa perché chi parla e agisce è il Figlio di Dio incarnato" (n. 6). Di conseguenza la rivelazione cristiana compie ogni altra rivelazione salvifica di Dio all'umanità.
In questo contesto, la Dichiarazione propone due chiarimenti. Anzitutto la distinzione tra la fede teologale e la credenza. Alla verità della rivelazione cristiana si risponde con l'obbedienza della fede, virtù teologale che implica un assenso libero e personale a tutta la verità che Dio ha rivelato. Se la fede è accoglienza della verità rivelata da Dio Uno e Trino, la credenza è invece esperienza religiosa ancora alla ricerca della verità assoluta e quindi priva dell'assenso a Dio che si rivela (n. 7).
Un secondo chiarimento riguarda l'ipotesi circa il valore ispirato dei testi sacri di altre religioni. A questo proposito si ribadisce che la tradizione della Chiesa riserva la qualifica di testi ispirati solo ai libri canonici dell'Antico e del Nuovo Testamento, in quanto ispirati dallo Spirito Santo (n. 8). La Chiesa, comunque, riconosce e apprezza le ricchezze spirituali dei popoli, pur unite a lacune, insufficienze ed errori. Di conseguenza "i libri sacri di altre religioni, che di fatto alimentano e guidano l'esistenza dei loro seguaci, ricevono dal mistero di Cristo quegli elementi di bontà e di grazia in essi presenti" (n. 8). Del resto, anche le opere classiche della teologia e della spiritualità cristiana, pur contenendo straordinari raggi di verità e di sapienza divina, non per questo vengono chiamati ispirati. A tale proposito, un richiamo implicito della Dichiarazione potrebbe essere quello di riscoprire, stimolati dalla conoscenza dei libri sacri delle altre religioni, le incomparabili ricchezze della letteratura cristiana orientale e occidentale e le sue molteplici e meravigliose attuazioni liturgiche e spirituali.
2. Per quanto riguarda l'unità dell'economia salvifica del Verbo la Dichiarazione intende contrastare tre tesi che, per fondare teologicamente il pluralismo religioso, cercano di relativizzare e sminuire l'originalità del mistero di Cristo.
Una prima considera Gesù di Nazaret, come una delle tante incarnazioni storico-salvifiche del Verbo eterno, rivelatrice del divino in misura non esclusiva, ma complementare ad altre figure storielle. Contro tale tesi, si ribadisce l'unità tra il Verbo eterno e Gesù di Nazaret. Solo Gesù è il Figlio e il Verbo del Padre. È quindi contrario alla fede cristiana introdurre una qualsiasi separazione tra il Verbo e Gesù Cristo: Gesù è il Verbo incarnato, persona una e indivisibile, fattosi uomo per la salvezza di tutti (n. 10).
Una seconda tesi erronea, derivata dalla prima, pone una distinzione all'interno dell'economia del mistero del Verbo. Per cui si avrebbe una duplice economia salvifica, quella del Verbo eterno distinta da quella del Verbo incarnato: "La prima avrebbe un plusvalore di universalità rispetto alla seconda, limitata ai soli cristiani, anche se in essa la presenza di Dio sarebbe più piena" (n. 9). La Dichiarazione rifiuta questa distinzione e riafferma la fede della Chiesa nell'unicità dell'economia salvifica voluta da Dio Uno e Trino, "alla cui fonte e al cui centro c'è il mistero dell'incarnazione del Verbo, mediatore della grazia divina sul piano della creazione e della redenzione" (n. 11). Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è l'unico mediatore e redentore di tutta l'umanità: se ci sono elementi di salvezza e di grazia fuori del cristianesimo, essi trovano la loro fonte e il loro centro nel mistero dell'incarnazione del Verbo.
Una terza tesi erronea separa invece l'economia dello Spirito Santo da quella del Verbo incarnato: la prima avrebbe un carattere più universale della seconda. La Dichiarazione rifiuta anche questa ipotesi come contraria alla fede cattolica. L'incarnazione del Verbo è infatti un evento salvifico trinitario: "il mistero di Gesù, Verbo incarnato, costituisce il luogo della presenza dello Spirito Santo e il principio della sua effusione all'umanità non solo nei tempi messianici, ma anche in quelli antecedenti alla sua venuta nella storia" (n. 12). Il mistero di Cristo è intimamente connesso con quello dello Spirito Santo, per cui l'azione salvifica di Gesù Cristo, con e per il suo Spirito, si estende oltre i confini visibili della Chiesa a tutta l'umanità. C'è un'unica economia divina trinitaria che si estende all'umanità intera,
per cui "gli uomini non possono entrare in comunione con Dio se non per mezzo di Cristo, sotto l'azione dello Spirito" (n. 12).
3. Infine, contro la tesi che nega l'unicità e l'universalità salvifica del mistero di Cristo, la Dichiarazione ribadisce che "deve essere fermamente creduta, come dato perenne della fede della Chiesa, la verità di Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore e unico salvatore, che nel suo evento di incarnazione morte e risurrezione ha portato a compimento la storia della salvezza, che ha in lui la sua pienezza e il suo centro" (n. 13). Raccogliendo i numerosi dati biblici e magisteriali, si dichiara che "la volontà salvifica universale di Dio Uno e Trino è offerta e compiuta una volta per sempre nel mistero dell'incarnazione, morte e risurrezione del Figlio di Dio" (n. 14).
In questo contesto, alle proposte di evitare in teologia termini come unicità, universalità e assolutezza, che porrebbero un'enfasi eccessiva sul significato e sul valore dell'evento salvifico di Gesù, la Dichiarazione risponde precisando che tale linguaggio intende rimanere fedele al dato rivelato. L'uso di questi termini è assertivo. La Chiesa, cioè, fin dall'inizio ha creduto in Gesù Cristo, Figlio unigenito del Padre, che con la sua incarnazione ha donato all'umanità la verità della rivelazione e la sua vita divina (n. 15).
7. La dottrina ecclesiologica: l'esistenza dell'unica Chiesa
In continuazione con le affermazioni cristologiche e in stretta connessione con esse, la Dichiarazione dedica altri tre capitoli alla enunciazione della dottrina ecclesiologica, ribadendo tre aspetti essenziali del mistero della Chiesa:
1. la sua unicità e unità (n. 16-17);
2. la sua relazione stretta con il mistero del Regno (n. 18-19);
3. il suo rapporto con le altre religioni in relazione alla salvezza (n. 20-22).
1. In corrispondenza con l'unicità e l'universalità del mistero salvifico di Cristo, viene affermata anzitutto l'esistenza di un'unica Chiesa: "deve essere fermamente creduta come verità di fede cattolica l'unicità della Chiesa da lui fondata. Così come c'è un solo Cristo, esiste un solo suo corpo, una sola sua Sposa: una sola Chiesa cattolica e apostolica" (n. 16).
Riprendendo una famosa affermazione conciliare (cf. Lumen gentium n. 8), la Dichiarazione precisa subito che i fedeli sono tenuti a professare che l'unica Chiesa di Cristo "sussiste [subsistit in] nella Chiesa Cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui" (n. 16). C'è quindi continuità storica, radicata nella successione apostolica, tra la Chiesa fondata da Gesù e la Chiesa Cattolica. Il "subsistit in" indica una duplice realtà: anzitutto la permanenza nella storia, nonostante le divisioni, dell'unica Chiesa di Cristo in tutta la sua pienezza nella Chiesa Cattolica; in secondo luogo, tale pienezza non esclude l'esistenza, al di fuori di essa, di elementi di santificazione e di verità, il cui valore deriva dalla pienezza di grazia e di verità propria della Chiesa Cattolica.
In questo contesto si fanno due precisazioni. La prima riguarda quelle Chiese, divise dalla Chiesa Cattolica, ma che restano ad essa unite per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia: queste Chiese - ad esempio quelle ortodosse - sono vere Chiese particolari. Anche in queste Chiese è presente e operante la Chiesa di Cristo, pur mancando in esse la piena comunione con la Chiesa Cattolica, dal momento che non accettano la dottrina cattolica del Primato del Vescovo di Roma.
La seconda precisazione riguarda quelle comunità ecclesiali che non hanno conservato l'episcopato valido e l'eucaristia. Tali comunità non possono considerarsi chiese in senso proprio: "tuttavia i battezzati in queste comunità sono dal battesimo incorporati a Cristo e, perciò, sono in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa" (n. 17).
2. Per quanto riguarda la relazione tra Chiesa e Regno di Dio e di Cristo la Dichiarazione afferma che la Chiesa è il regno di Cristo già presente "in germe e in inizio" nella storia, anche se il suo compimento e la sua piena realizzazione avverrà soltanto alla fine dei tempi (n. 18). Questa affermazione si oppone a quelle tesi che vorrebbero negare o svuotare l'intima connessione tra Cristo, il Regno e la Chiesa. Ci si riferisce qui a quelle posizioni cosiddette "regnocentriche", che riducono il Regno a semplici progetti umanitari e socio-economici. Invece, il Regno, di cui la Chiesa si fa annunciatrice e portatrice nella storia, porta una liberazione globale da ogni tipo di male. Tale Regno non può essere mai disgiunto dall'annuncio del mistero salvifico di Cristo e della sua Chiesa. Una "Chiesa per gli altri" non può essere disgiunta dal "Cristo per gli altri" e quest'ultimo non può essere ridotto a semplice testimone della bontà di Dio. Il mistero della redenzione di Cristo è l'attuazione nella storia del Regno di Dio in tutta la sua pienezza e ampiezza. Per cui sono contrarie alla fede cattolica quelle posizioni che "negano l'unicità del rapporto che Cristo e la Chiesa hanno con il Regno di Dio" (DI n. 19).
3. In corrispondenza con l'universalità salvifica del mistero di Cristo, la Dichiarazione ribadisce la necessità della Chiesa per la salvezza dell'umanità. Nel disegno di Dio, la Chiesa, in quanto "sacramento universale di salvezza" (LG n. 48) e in quanto intimamente unita a Cristo suo capo, ha un'imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo.
A proposito delle concrete modalità di attuazione di questo influsso salvifico, la Dichiarazione afferma: "Circa il modo in cui la grazia salvifica di Dio, che è sempre donata per mezzo di Cristo nello Spirito ed ha un misterioso rapporto con la Chiesa, il Concilio Vaticano II si limitò ad affermare che Dio la dona "attraverso vie a lui note"" (DI n. 21). Tuttavia, è contraria alla fede cattolica considerare la Chiesa come una via di salvezza accanto ad altre, costituite dalle altre religioni, le quali quindi sarebbero complementari alla Chiesa o sostanzialmente equivalenti ad essa. Contro una mentalità relativistica che appiattisce l'originalità della fede cristiana, la Dichiarazione riafferma la Chiesa come strumento di salvezza per tutta l'umanità: "Se è vero che i seguaci delle altre religioni possono ricevere la grazia divina, è pure certo che oggettivamente si trovano in una situazione gravemente deficitaria se paragonata a quella di coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi salvifici" (DI n. 22).
Per questo anche nel dialogo interreligioso conserva tutta la sua pienezza la missio ad gentes, che non è prevaricazione assolutistica e fondamentalistica, ma rispetto della verità del mistero salvifico di Cristo e obbedienza al suo comando di annunciare e di testimoniare il vangelo a tutte le creature (Mt 28,19-20). La parità, come indispensabile presupposto del dialogo, riguarda la pari dignità personale degli interlocutori e non i contenuti. Il cristiano in dialogo non può nascondere o tacere la verità della sua fede fondata sul mistero di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato.
8. Consacrati nella verità: l'identità riaffermata
Come si vede, la Dichiarazione non dice cose nuove. Tutto è infatti ripreso dal magistero conciliare e postconciliare della Chiesa. Riafferma, però, con un linguaggio chiaro e preciso, alcuni elementi dottrinali centrali dell'identità cattolica, spesso smarriti o negati da tesi ambigue o erronee. La ricerca teologica non viene fermata; essa resta aperta ed "è invitata ad esplorare se e come anche figure ed elementi positivi di altre religioni rientrino nel piano divino di salvezza" (DI n. 14). Il dialogo ecumenico e il dialogo interreligioso devono proseguire la loro strada e "maturare soluzioni conformi al dato di fede e rispondenti alle urgenze culturali contemporanee" (DI n. 3). La Dichiarazione ha inteso chiudere solo quelle strade che portano a vicoli ciechi.
Non si può dubitare, quindi, dell'utilità teologica e pastorale di un tale documento, che offre ai fedeli una indispensabile griglia di lettura e di valutazione critica sia degli atteggiamenti sia delle pubblicazioni che oggi affollano il mercato della teologia delle religioni. Alla luce della identità si possono individuare e respingere ipotesi e anche progetti pastorali avventurosi, che potrebbero snaturare la fede cristiana.
Dato l'odierno clima di relativismo religioso e spesso anche di rigetto delle principali verità della nostra fede, quali l'incarnazione e il mistero di Dio Trinità, la riaffermazione autoritativa dell'universalità salvifica di Cristo e della Chiesa offre al fedele una luce sicura nel suo cammino di fedeltà e di testimonianza al vangelo. La Dichiarazione, infatti, termina con il richiamo alla rivelazione di Cristo come vera stella di orientamento dell'intera umanità: "La Verità, che è Cristo, si impone come autorità universale. Il mistero cristiano, infatti, supera ogni barriera di tempo e di spazio e realizza l'unità della famiglia umana" (DI n. 23).
In tal modo la Dichiarazione disincaglia il dialogo interreligioso dal pericolo di una religiosità universale indifferenziata, con un minimo comune denominatore, e lo riporta invece sulla via della verità, nella carità, nella libertà e nel rispetto della propria e dell'altrui identità: "La Chiesa, infatti, guidata dalla carità e dal rispetto della libertà, dev'essere impegnata primariamente ad annunciare a rutti gli uomini la verità, definitivamente rivelata dal Signore, e a proclamare la necessità della conversione a Gesù Cristo e dell'adesione alla Chiesa attraverso il Battesimo e gli altri sacramenti, per partecipare in modo pieno alla comunione con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo" (DI n. 22).
Il dialogo interreligioso non è una trattativa diplomatica, né una imposizione forzata di determinate concezioni religiose, né un depotenziamento o uno svilimento della realtà cristiana. Il Cristianesimo senza il mistero dell'Incarnazione e senza il mistero salvifico della Chiesa perderebbe il suo vero volto. E il dialogo interreligioso perderebbe il suo elemento qualificante: la vera identità degli interlocutori.
A ragione San Giovanni della Croce così ribatteva a chi voleva trovare verità salvifiche al di fuori della rivelazione di Gesù:
"Invero il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: Se io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri [...]. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui dicendo [...] Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo, cessai di istruire e rispondere in queste maniere e commisi tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare".22
È quanto affermò il Concilio Vaticano II nella dichiarazione sulla libertà religiosa: "Noi crediamo che questa unica vera religione sussiste ("subsistere credimus") nella chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato il compito di diffonderla a tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: "Andate dunque, ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato" (Mt 28,19-20). E tutti quanti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua chiesa e, una volta conosciuta, ad abbracciarla e custodirla".23
Fu questa la preghiera di Gesù al Padre a favore dei suoi discepoli: "Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità" (Gv 17,19).
9. La vita in Cristo, primo compito della catechesi contemporanea
La Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede interpella in modo determinante la catechesi ecclesiale, soprattutto nel suo fondamentale compito di far maturare la fede in Cristo. In questo è in linea perfetta con il nuovo Direttorio Generale della Catechesi (1997), che presenta la catechesi ecclesiale non solo come una trasmissione di nozioni, quanto soprattutto come esperienza di comunione con Gesù: "Lo scopo definitivo della catechesi è di mettere qualcuno non solo in contatto, ma in comunione, in intimità con Gesù Cristo" (DGC n. 80). E continua: "Tutta l'azione evangelizzatrice è intesa a favorire la comunione con Gesù Cristo. A partire dalla conversione "iniziale" di una persona al Signore, suscitata dallo Spirito Santo mediante il primo annuncio, la catechesi si propone di dare un fondamento e far maturare questa prima adesione. Si tratta, allora, di aiutare colui che si è appena convcrtito a "... conoscere meglio questo Gesù, al quale si è abbandonato: conoscere il suo "mistero", il regno di Dio che egli annuncia, le esigenze e le promesse contenute nel suo messaggio evangelico, le vie che egli ha tracciato per chiunque lo voglia seguire". Il Battesimo, sacramento mediante il quale "siamo resi conformi a Cristo", sostiene con la sua grazia quest'opera della catechesi" (DGC n. 80).
Si tratta di una vera e propria esperienza spirituale: "La comunione con Gesù Cristo, per la sua stessa dinamica, spinge il discepolo a unirsi con tutto ciò con cui lo stesso Gesù Cristo era profondamente unito: con Dio, suo Padre, che lo aveva inviato nel mondo, e con lo Spirito Santo, che gli dava l'impulso per la missione; con la Chiesa, suo corpo, per la quale si donò, e con gli uomini, suoi fratelli, la cui sorte ha voluto condividere" (DGC n. 81).
Il Direttorio riassume poi i sei compiti fondamentali di questa catechesi, sostanzialmente cristologico-trinitaria.
Essa anzitutto deve favorire la conoscenza delle verità della fede: "La catechesi deve condurre [...] a "comprendere progressivamente tutta la verità del progetto divino", introducendo
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GIOVANNI DELLA CROCE, Salita del Monte Carmelo, 2,22,5.23
CONCILIO VATICANO II, Dich. Dignitatis humanae, n. 1.
i discepoli di Gesù Cristo nella conoscenza della Tradizione e della Scrittura, la quale è la "scienza sublime di Cristo" (Fil 3,8)" (DGC n. 85).
Deve poi educare alla celebrazione liturgica: "La comunione con Gesù Cristo conduce a celebrare la sua presenza salvifica nei sacramenti e, particolarmente, nella Eucaristia"(ib.).
La catechesi deve inoltre far maturare e rafforzare gli abiti virtuosi del battezzato mediante una coerente e illuminata formazione morale: "La catechesi deve, pertanto, trasmettere ai discepoli gli atteggiamenti propri del Maestro. Questi intraprendono così un cammino di trasformazione interiore, nel quale, partecipando al mistero pasquale del Signore, "passano dall'uomo vecchio all'uomo nuovo in Cristo". Il Discorso della Montagna, nel quale Gesù riprende il decalogo e gli imprime lo spirito delle beatitudini, è un riferimento indispensabile nella formazione morale, oggi tanto necessaria" (ib.).24
La catechesi deve promuovere l'educazione alla preghiera: "La comunione con Gesù Cristo conduce i discepoli ad assumere l'atteggiamento orante e contemplativo che ebbe il Maestro. Imparare a pregare con Gesù è pregare con i medesimi sentimenti con i quali figli si rivolgeva al Padre: l'adorazione, la lode, il ringraziamento, la confidenza filiale, la supplica, l'ammirazione per la sua gloria" (DGC n. 85). Si ricupera qui l'aspetto contemplativo dell'essere cristiani, che comporta formazione continua ed esperienza di fede radicale in Dio e nella sua presenza provvedente nella nostra esistenza e nella storia dell'umanità. È un richiamo imprescindibile a una catechesi attenta a questa dimensione orante, che tanto affascina l'uomo contemporaneo in cerca di interiorità, di silenzio, di armonia con la natura, di contatto mistico con l'Assoluto.
Oltre alla riproposizione di queste finalità classiche - si vedano, ad esempio, le quattro parti in cui è suddiviso il Catechismo della Chiesa Cattolica - il Direttorio avanza altre due finalità di innegabile rilevanza per l'identità cristiana oggi: l'educazione alla vita comunitaria e alla missione.
La catechesi, infatti, deve educare alla vita comunitaria, sull'esempio di Gesù: "La vita cristiana in comunità non s'improvvisa e bisogna educare ad essa con cura. Per questo apprendimento, l'insegnamento di Gesù sulla vita comunitaria, riportato dal Vangelo di Matteo, richiede alcuni atteggiamenti che la catechesi dovrà favorire: lo spirito di semplicità e di umiltà [...], la sollecitudine per i più piccoli [...], l'attenzione speciale verso coloro che si sono allontanati [...], la correzione fraterna [...], la preghiera in comune [...], il mutuo perdono [...]. L'amore fraterno unifica tutti questi atteggiamenti [...]" (DGC n. 86).
La catechesi, infine, deve iniziare alla missione: "Gli atteggiamenti evangelici che Gesù suggerì ai suoi discepoli, quando li iniziò alla missione, sono quelli che la catechesi deve alimentare: andare in cerca della pecora smarrita; annunziare e sanare nello stesso tempo; presentarsi poveri, senza oro né bisaccia; saper assumere il rifiuto e la persecuzione; porre la propria fiducia nel Padre e nel sostegno dello Spirito Santo; non attendersi altro premio che la gioia di lavorare per il Regno" (DGC n. 86).
I quattro grandi capitoli di ogni catechesi - conoscere, celebrare, agire, pregare - vengono così completati dall'esperienza della comunione e dell'impegno apostolico. Questi ultimi due compiti non sono appendici ma apporti sostanziali a quella verifica esistenziale
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Si apre qui il vastissimo campo della educazione del battezzato a vivere in armonia la lex credenti e la lex agendi, riconoscendo Gesù come il suo unico Maestro di comportamento e la sua dottrina come la luce che illumina il suo pellegrinaggio terreno con il suo salutare splendore di verità.
della conversione continua a Gesù, vissuta nella condivisione ecclesiale e nella testimonianza apostolica.
Una catechesi completa e aggiornata può far fronte senza difficoltà e con profitto sia alla sfida delle altre religioni sia al conseguente impegno del dialogo ecumenico e interreligioso.
Vorrei concludere con due citazioni. La prima di San Paolo:
"Temo però che, come il serpente nella sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo. Se infatti il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi o se si tratta di ricevere uno spirito diverso da quello che avete ricevuto o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo. Ora io ritengo di non essere in nulla inferiore a questi "superapostoli"! E se anche sono un profano nell'arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come vi abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a tutti" (2Cor 11,3-6).
La seconda citazione viene presa dal "Grande Catechismo" di Martin Luterò (1529), il quale, commentando il terzo articolo del Credo, sulla Chiesa, scriveva: "Là dove, infatti, non si predica Cristo, non v'è alcuno Spirito santo che crea, chiama e raccoglie la chiesa, al di fuori della quale nessuno può venire a Cristo Signore".25
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25 M. LUTERÒ, Opere scelte. 1. Il Piccolo Catechismo. Il Grande Catechismo (1529), Torino, Clau-diana 1998, p. 239.
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