Prof. Gary Devery, Sydney
La centralità dell’amore nella
fede cristiana
Nella lettera enciclica Deus Caritas
Est, Papa Benedetto XVI tesse una tela armonica di alcuni temi centrali del
Concilio Vaticano II, in un linguaggio e stile a lui propri. A questo proposito,
è interessante andare a rivedere i capitoli scritti quarant’anni fa dal giovane
teologo Ratzinger sul Dei Verbum per
l’edizione di Vorgrimler de I documenti
del Concilio Vaticano II[1]:
vi si ritrova il medesimo vigore e la medesima risonanza della prima enciclica
di Papa Ratzinger.
Mi sembra che l’“amore divino” venga interpretato dall’enciclica come la
chiave ermeneutica del mistero della fede cristiana: chi è Dio, chi è l’uomo,
qual’è il significato dell’esistenza umana, cos’è la Chiesa, qual’è la sua
missione nel mondo?
Il mistero di Dio rivela il mistero
dell’uomo
La centralità dell’amore nel mistero
di Dio
Nel suo commento all’articolo 2 del Dei
Verbum, Ratzinger spiega che la rivelazione, essenzialmente, è un dialogo. Il
linguaggio usato dal Dei Verbum è un
linguaggio dialogico. Dio “parla ad amici”, Dio “vive tra loro”, li invita e li
porta in fratellanza.[2]
Papa Benedetto XVI sottolinea che, “con la centralità dell’amore, la fede
cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e, al
contempo, ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza”(1).[3]
Per spiegare questo concetto, ci riporta alla realtà dialogica quotidiana del
credente ebreo, che esprime il cuore della propria esistenza nella preghiera
dello Shemà: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno
solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con
tutte le forze” (Dt 6,4-5). Papa Benedetto XVI descriverà in seguito la Bibbia
come “la storia d’amore” in cui Dio “ci viene incontro, cerca di conquistarci” (17).
In questa “storia d’amore”, Dio si rivela un amante appassionato dell’uomo.
Osea ed Ezechiele non rifuggono da un’ardita iconografia erotico-nuziale nella
descrizione dell’amore di Dio per Israele. In quest’amore, l’eros è unito all’agape e va al di là della semplice gratuità. È anche un amore che
perdona. Papa Benedetto XVI aggiunge che quest’amore è tale da “da rivolgere
Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia” (10). Dio non
ripudia l’uomo per il suo “adulterio”, ma avvia un nuovo dialogo d’amore con
Israele: “Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?”
(Osea 11:8).
Questa rivelazione di Dio come amante dell’umanità, che si rivolge contro
la sua stessa giustizia, raggiunge la sua pienezza in Gesù Cristo. Papa
Benedetto XVI osserva che “la verà novità del Nuovo Testamento” non consiste
tanto in nuovi concetti o nuovi modi di esprimere chi sia Dio, quanto “nella
figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti — un realismo
inaudito” (12). In questa storia d’amore della storia della salvezza, Dio, in
Gesù Cristo, cerca la “pecorella smarrita”, “l’umanità sofferente e perduta”
(12). Nella croce si rivela la profondità dell’amore di Dio e la definizione di
quest’amore. Dio si rivolta contro sé stesso e “si dona per rialzare l'uomo e
salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al
fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr. 19, 37), comprende ciò
che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: ‘Dio è amore’ (1 Gv 4, 8)” (12).
La centralità dell’amore nel mistero
dell’uomo come imagine di Dio
La rivelazione contenuta nella fede biblica ci presenta una nuova
percezione dell’uomo nel contesto del mistero di Dio: Dio è l’amante
dell’umanità. La filosofia umana non può concepire questa verità. Papa
Benedetto XVI fa presente che Aristotele, all’apice della filosofia greca,
riconobbe che Dio “è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell'amore —
come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha
bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata” (9). Secondo la Bibbia, Dio
amante è l’immagine sulla quale fu creato l’uomo. La solitudine di Adamo, il
primo uomo, è un dono di Dio ad Adamo, in quanto semina nella natura umana il
desiderio di trascendere sé stessa e cercare l’altro. L’uomo è chiamato a
divenire amante come il suo creatore. Solo nell’unione dei due, Adamo ed Eva,
uomo e donna, nel loro divenire uno nell’amore, si compie l’umanità (11). In
questa comunità d’amore, il matrimonio monogamico “diventa l’icona del rapporto
di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura
dell’amore umano” (11).
La filosofia non può rivelare all’uomo la sua natura più profonda. È nel
rapporto d’amore tra Dio ed Israele (9) che viene trasmesso il dono della
Torah. Ed è questo che “apre gli occhi a Israele sulla vera natura dell'uomo e
gli indica la strada del vero umanesimo”. Nella sua fedele risposta alla Torah
scritta in fondo al suo cuore, l’uomo “sperimenta se stesso come colui che è
amato da Dio e scopre la gioia nella verità, nella giustizia”. L’uomo entra in
dialogo con il dono d’amore di Dio: “Chi altri avrò per me in cielo? Fuori di
te nulla bramo sulla terra... Il mio bene è stare vicino a Dio (Sal 73 [72], 25. 28)”(9).
Con il suo stile unico e peculiare, Papa Benedetto XVI esprime il tema
antropologico e cristologico centrale già enucleato nell’articolo 22 di Gaudium et Spes, nel quale si legge che “Cristo, che è il nuovo Adamo,
proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente
l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione”. Solo nella rivelazione di Gesù Cristo e della
Croce, solo nella contemplazione del suo fianco squarciato, si rivela il
mistero della dignità e della vocazione dell’uomo: l’uomo è chiamato ad essere
amante nella dimensione della Croce. È da questa verità che prende inizio il
viaggio dell’uomo sulla strada aperta da Cristo, “un cammino di ascesa, di
rinunce, di purificazioni e di guarigioni” (5). È un “esodo permanente dall'io
chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così
verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio” (6). È il cammino “che
attraverso la croce lo conduce alla resurrezione: il cammino del chicco di
grano che cade nella terra e muore e così porta molto frutto” (6). Questa
storia d’amore tra Dio e l’uomo (17) porta alla comunione della volontà, del
pensiero e del sentimento: la volontà di Dio non sarà più una volontà estranea
imposta all’uomo dall’esterno. È il santo che che ha fatto suoi i desideri, lo
spirito e la volontà di Cristo che diventa senza sforzo amante del prossimo
nella dimensione della Croce: “Così non si tratta più di un ‘comandamento’ dall’esterno
che ci impone l'impossibile, bensì di un'esperienza dell'amore donata dall’interno,
un amore che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri”
(18).
Papa Benedetto XVI conclude la prima parte dell’enciclica sottolineando che
è quest’amore condiviso che fa crescere l’amore ed unifica l’umanità. È un
processo “che ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa
diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia ‘tutto in tutti’ (1 Cor 15, 28)” (18). Il
superamento delle divisioni, tuttavia, non avviene nel vuoto: quest’ultima
riflessione ci offre la transizione alla seconda sezione dell’enciclica e alla
missione della Chiesa. La Chiesa è chiamata a dare un segno di amore ed umanità
e ad avvicinare l’umanità all’unione con Dio.
La centralità dell’amore nel mistero
della Chiesa e dell’Eucaristia
Nella parte centrale dell’enciclica, Papa Benedetto XVI ci invita a
contemplare il fianco squarciato di Cristo. Entriamo così nel mistero di Dio
che è amore: “a partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo
vivere e del suo amare” (12). Quest’amore, definito nel corpo e sangue di Gesù,
è al contempo la fonte e l’apice del nostro amore. La comunione e l’unità, il
superamento delle barriere e delle divisioni a cui è chiamata l’umanità, perché
Dio è amore, si alimentano dello sguardo al fianco squarciato di Cristo. “A
questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura attraverso l’istituzione
dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena” scrive Papa Benedetto XVI (13).
L’Eucaristia diviene fonte di comunionie (koinonia).
Per sua natura, l’Eucaristia ha carattere sociale, in quanto “l’unione con
Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona … La
comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l’unità
con tutti i cristiani.” (14) La centralità dell’amore nel mistero della Chiesa
trova piena espressione nell’Eucaristia. Papa Benedetto XVI scrive: “Nel
‘culto’ stesso, nella comunione eucaristica è contenuto l’essere amati e l’amare
a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si traduca in amore
concretamente praticato è in se stessa frammentata” (14).
La centralità dell’amore nella
missione della Chiesa nel mondo
È l’amore di Cristo sperimentato nell’Eucaristia che spinge i cristiani
all’esercizio della carità nel mondo. È un amore “che cerca il bene integrale
dell’uomo” (19). Quest’attività del cristiano emana dalla sua identità
battesimale profetica, sacerdotale e regale. Alimenta la triade di attività che
è essenziale alla vita della Chiesa e di ogni cristiano: la proclamazione della
parola di Dio, la celebrazione dei sacramenti (particolarmente l’Eucaristia) ed
il servizio della carità.
Papa Benedetto XVI menziona tre volte queste attività agli articoli 17, 19,
20, 22, 25 e 32. Negli ultimi tre, enfatizza che il servizio della carità ha
pari dignità rispetto agli altri due compiti del cristiano: tutti e tre i
compiti sono essenziali alla natura della Chiesa. Perché, dunque, tanta enfasi?
Ad ampie pennellate, Sua Santità spiega come la diakonia avesse creato delle strutture ecclesiastiche sin dai primi
tempi della vita della Chiesa. Queste strutture si sono trasformate in opere
caritative ben organizzate, nel corso dei secoli. Menziona altresì, per ben due
volte, l’imperatore Giuliano l’Apostata (†363), che tentò di replicare questo
sistema di carità organizzata. L’imperatore Giuliano l’Apostata voleva così, se
non altro, neutralizzare l’attrazione esercitata dalla Chiesa sul popolo e
reintrodurre il paganesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano.
Se ne parla per la prima volta nell’articolo 24, per sottolineare come
persino i pagani fossero rimasti impressionati dall’efficienza di queste opere
di carità ed avessero capito che fosse necessario imitarle, se si voleva
competere con la forza d’attrazione morale del Cristianesimo. L’imperatore
Giuliano l’Apostata torna ad essere menzionato nell’articolo 31, dopo
un’analisi dei cambiamenti sociali e politici nel mondo a partire dal
diciannovesimo secolo e dopo un’analisi della risposta della Chiesa a questi
cambiamenti nella sua dottrina e pratica sociale.
Il fatto che il Papa attribuisca al servizio di carità pari importanza
rispetto alla predicazione della Parola di Dio e alla celebrazione dei
sacramenti, nonché la duplice menzione di Giuliano l’Apostata, indicherebbero
che il Papa desidera almeno riaffermare l’impegno della Chiesa nel campo della
carità organizzata. È una necessità che deriva dalla preminenza che è venuto
assumendo lo Stato come la forma di governo più diffusa nel mondo. Lo Stato ha
soprattutto radici cristiane ed ha ereditato un sistema che prevede che sia lui
ad occuparsi della previdenza sociale dei cittadini. Ciò potrebbe
potenzialmente costituire una minaccia, volontaria o meno, per la popolarità
della Chiesa. Il sistema di previdenza sociale statale, infatti, replica e s’ispira
al sistema di carità organizzata della Chiesa. Il pericolo è che si generi una
certa inerzia tra i cristiani.
Papa Benedetto XVI riconosce che il giusto ordinamento della società
dovrebbe restare compito dello Stato e non è di pertinenza della Chiesa. Con la
propria dottrina sociale, la Chiesa assiste lo Stato e vuole “servire la
formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la
percezione delle vere esigenze della giustizia” (28), mentre “il compito
immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece proprio dei
fedeli laici” (29).
La Chiesa non concorre con lo Stato nella previdenza sociale. Lo Stato e la
Chiesa collaborano, rispettando le proprie singolarità: “in questa situazione
sono nate e cresciute, tra le istanze statali ed ecclesiali, numerose forme di
collaborazione che si sono rivelate fruttuose” (30).
La Chiesa non deve perdere di vista ciò che è essenziale alla propria
natura: “Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo
opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora
collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo
quello che corrisponde alla sua natura. La Chiesa non può mai essere dispensata
dall'esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra
parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di
ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà
sempre bisogno dell’amore” (29).
L’amore occupa un posto centrale nella fede cristiana. L’enciclica
individua tre caratteristiche fondamentali di questa carità cristiana: a) “la
carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una
determinata situazione, costituisce la necessità immediata”; b) deve essere
“indipendente da partiti ed ideologie” e venire da una persona che abbia
contemplato il fianco squarciato di Cristo, che abbia un “cuore che vede”; c) è
libera e non fa parte di una strategia di proselitismo. Viene esercitata in
quanto “testimonianza credibile di Cristo” (31).
Queste tre tipologie di carità vanno esercitate con umiltà, un’umiltà che
deriva dalla contemplazione del posto assunto da Cristo sulla croce: Egli si è abbassato
alla condizione più umile. Il cristiano crede in quest’amore di Cristo, in
virtù del quale Gesù non si è considerato superiore a noi peccatori, ma ha
sacrificato la propria vita; il cristiano, pertanto, non si considera superiore
agli altri. I cristiani scoprono che possono amare gli altri senza sforzo,
perché è l’amore di Cristo che li “spinge” (36).
I cristiani credono che Dio ci abbia amati per primi ed attingono forza per
il loro servizio di carità dal continuo dialogo d’amore della preghiera.
Nell’enciclica, Papa Benedetto XVI ci rammenta della recente testimonianza
eroica della Beata Teresa di Calcutta, che ci ha dimostrato che “il tempo
dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce all'efficacia ed
all'operosità dell'amore verso il prossimo, ma ne è in realtà l'inesauribile
sorgente” (36).