Eros e Agape: distinzione e complementarità nella visione cristiana
Prof. Igor
Kowalewski
La prima (e ultima –
per il momento) enciclica di questo pontificato ci ha mostrato la svolta e
continuità nel magistero pontificio. Giovanni Paolo II ha parlato più o meno
quattro anni dell’amore coniugale nelle sue catechesi di mercoledì all’inizio
degli anni Ottanta. Il discorso sul sesso, sulla nudità, tutto quanto che
avrebbe suscitato non poca resistenza mediale del mondo, fu pronunciato nel
contesto delle catechesi, che sempre sono un atto di trasmissione della fede
nella comunità di fede, che è la Chiesa. Successivamente apparve Familiaris consortio in cui si trattava
dell’amore, della famiglia, della trasmissione della vita. Con tutto ciò,
Giovanni Paolo II si è sempre manifestato un filosofo, uno che guarda l’ultima
ragione dell’essere e dei fenomeni. E adesso abbiamo un nuovo papa, un papa
teologo, uno che parte dalla Rivelazione, dall’ascoltare la Parola di Dio. Per
questo rispetto profondo della parola, un approccio filologico, che non è stato
estraneo neppure a Giovanni Paolo, è per eccellenza un cenno importante
dell’enciclica. La molteplicità dei termini, la ricchezza delle espressioni, il
significato dei sinonimi – tutto questo
ci aiuta a vedere un quadro integrale, a penetrare e comprendere il disegno di
Dio riguardo a noi, alla nostra vita.
Che cos’è dunque
eros? All’amore tra uomo e donna, che non
nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo s’impone all’essere umano,
l’antica Grecia ha dato il nome di eros (3). Il Santo Padre citando
Nietzsche descrive poi la critica al cristianesimo al riguardo. La sua apologia
dell’amore carnale, sensibile si fonda sul fatto di dover purificare, guarire
l’amore, renderlo più umano, cioè razionale e disciplinato.
E qui abbiamo un
punto cruciale. Quale sarà la ricezione dell’enciclica nella Chiesa e nel
mondo? Questo dipende dalla nostra antropologia: dal nostro vedere uomo, noi
stessi. Chi è uomo, perché ama, qual è la sua vocazione? Il mondo di oggi concepisce
amore come una realizzazione di se stesso. Nel mondo siamo diventando sempre
più potenti e quasi onnipotenti con lo sviluppo della tecnica, della medicina
nella continua crescita della ricercata qualità di vita. Siamo diventati oggi,
come mai prima, ciascuno – dio della propria vita. Ciascuno, nel insuperabile
individualismo, stabilisce per sé il bene e il male. Ogni uomo sa, che soffrire
è male per lui, quindi scappa la sofferenza, e se la subisce volontariamente,
lo fa per qualche valore, per i suoi “valori”, che ha; noi potremmo dire per i
suoi idoli, cui serve, i quali si trovano al posto di Dio vero. In tale
situazione la felicità è sempre cercare se stesso, realizzarsi, il crescere,
gonfiarsi il proprio io. Allora eros è sempre egoista, l’orgasmo è lo scopo
della vita, e felicità sarebbe stata nell’orgasmo eterno. Però l’uomo si rende
conto della sua limitatezza, della sua impotenza di mantenersi al vertice del
piacere, alla sua insaziabile trascendenza di se stesso. L’uomo non può trovare
il senso della vita solo all’interno di se stesso, perciò è insaziabile. Non
può raggiungere un orgasmo perenne, sperimenta frustrazione e depressione. Il
suo slancio indomato lo fa soffrire più di prima. Questa situazione e ben
descritta nel primo capitolo della lettera ai Romani.
Nel frattempo c’è un
altro dramma dell’uomo di oggi. In una parola questo è la fede. Se Dio non c’è,
uomo è destinato a essere dio della sua vita. Uomo vive, come se Dio non ci
fosse, e anche se ci fosse, non importa… Però questo atteggiamento ha un'altra
dimensione: se Dio è cattivo, se mi fa soffrire, se non fa la mia volontà, tale
Dio non esiste. Uomo può uccidere Dio nel suo cuore. Così uomo rimane senza
fede, cioè senza teologia, e con un falso concetto di se stesso. Appunto scrive
il Papa nel numero otto, passando ad un altro capitolo: La novità della fede biblica si manifesta soprattutto in due punti, che
meritano di essere sottolineati: l’immagine di Dio e l’immagine dell’uomo.
Nel cristianesimo
c’è una perfezione dell’eros. Concepito come un’attrazione, uno slancio, un
desiderio, infine un amore ascendente, si realizza nel amore coniugale, che è
il sacramento, vuol dire segno efficace dell’amore di Cristo alla Chiesa, di
Dio all’umanità, che si fa reciproco. Questo amore è anche agape: amore di
Cristo, che non cerca il suo interesse, non cerca se stesso, non pensa a se
stesso, è tutto “per” l’altro. Il santo amore, che è dare la propria vita,
affinché gli altri la ricevano (Quando noi moriamo, voi ricevete la vita – dice
san Paolo). L’amore che non ha paura del morire, di dare la vita. Questo amore
di Cristo inoltre è “paziente, benigno, non è invidioso, non si vanta, non si
gonfia, non manca di rispetto, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell’ingiustizia, ma si compiace alla verità. Tutto copre, tutto
crede, tutto spera, tutto sopporta. Non avrà mai fine (cf. 1 Cor 13, 4-8).
Nell’amore degli sposi cristiani se vedono tutti e due aspetti dell’amore.
L’esperienza dei tantissimi mariti e mogli credenti è che il matrimonio
cristiano non si fonda sull’attrazione fisica, si fonda sul perdono quotidiano!
Ogni giorno gli sposi debbono morire per se stessi, per i figli, e da qui nasce
la vita, di ciò si nutre l’amore, si sperimenta che Cristo è risorto! Ma se non
c’è Gesù Cristo in mezzo agli sposi, non possono amarsi, non possono essere
aperti alla vita, non possono essere un sacramento, un icona di Cristo che amò
la Chiesa e ha dato Se Stesso per lei. Uno slancio, una gelosia, un desiderio
di amare, di conquistare il cuore di colui che si ama, che dall’oggetto divento
una persona, un soggetto – questo eros è anche proprietà dell’amore di Dio
verso il suo popolo infedele e povero, il popolo più piccolo della terra, più
miserabile e disgraziato: popolo degli schiavi usciti dall’Egitto, popolo pieno
di ciechi e storpi, sordi e muti. Dio si lo fa una sposa adornata, per ammirare
la sua bellezza, per dire nel Cantico dei cantici: tota pulchra es amica mea!
Questo amore
ascendente e discendente è qualcosa talmente grande, perché appartiene alla
stessa natura di Dio. Deus caritas est,
ed ha impronto questo desiderio nella natura della sua creatura più nobile.
Siamo stati creati per amore, per uscire da noi stessi, per dare la vita. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo
in dono. Certo, l’uomo può – come ci dice il Signore – diventare sorgente dalla
quale sgorgano fiumi di acqua viva. Ma per diventare una tale sorgente, egli
stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è
Gesù Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di Dio (7). Come non
ricordarci il dialogo di Cristo con la Samaritana, la prima evangelizzatrice
dei pagani, che dice “dammi quest’acqua!” Perché uomo è insaziabile nella sua
affettività malata. Uomo vuole essere amato, vuole ricevere, prendere in
continuazione, non vuole dare, perché non può! E’ destinato a vivere per se
stesso, dopo aver perduto il legame con il suo Creatore, e condannato ha
succhiare amore, come un lattante, ha bisogno di trovarsi un cordone ombelicale,
da dove pompare amore, affetto, perciò tutto mette in funzione di se stesso,
tutti gli uomini che incontra vuole sottomettere a questo scopo, vuole essere
amato e vuole guadagnare questo affetto, diventandone schiavo, perdendo la
libertà. In conseguenza non è libero, non sa relazionarsi con i fratelli e
sorelle, perché non è libero. Non può dire la verità per paura di perdere
l’amore delle persone, si costruisce delle amicizie, relazioni d’amore o domina
altre persone, perché non ha conosciuto un amore gratuito. E’ sola la fede
della Chiesa, la fede viva, che gli dà questa certezza: Dio ti ama, Cristo ha
dato la vita per te, puoi amare! Puoi amare, dare la vita, smettere di pensare
solo a te stesso, perché c’è Uno che ti ama gratuitamente, Uno che ti ama,
quando sei suo nemico, quando lo uccidi, quando sei un peccatore. Puoi essere
libero, avere la pace dentro di te, non aver paura di restare solo, di perdere
l’affetto della gente, perché Cristo ti ha perdonato e ti vuole guarire nella
Chiesa. Uno che ha questa fede, può amare, può vere l’acqua dentro di sé, può
diventare un fonte per gli altri. Puoi essere prete, puoi essere catechista,
puoi essere marito o moglie, padre o madre. Puoi dare, perché hai ricevuto.
Puoi condividere senza paura di perdere. Puoi svuotarti, subire una kenosi,
puoi essere cristiano, come il Figlio di Dio – umile servo di Jahvè. L’amore è
vocazione universale di persona umana. Il Santo Padre cita Virgilio, un pagano
considerato profeta per aver annunziato l’avvenire della era nuova: novus ordus saeclorum (a prescindere dal
dollaro americano che porta su di sé queste parole!). Dice il grande poeta
romano: Omnia vincit amor, || et nos cedamus amori. Queste parole ci parlano della nostra vocazione. Per i
cristiani è ovvio, che l’amore di Cristo, la sua santa umiltà ha vinto il
mondo, con la sua superbia.
E’ chiaro che amore
è un dono. Dio nel suo disegno che tutti gli uomini si salvino e vengano alla
verità ha voluto che ricevessimo questo dono da Lui, ha voluto che sperimentassimo
una precarietà di questo dono che portiamo in vasi di creta. E qui affrontiamo
un altro mistero imperscrutabile, mistero dell’elezione. ”O inaestimabilis dilectio caritatis!” canta la Chiesa nella notte
di Pasqua. “Dilezione” proviene dall’elezione. Dio ha scelto coloro che
potranno vivere secondo il comandamento nuovo “amatevi gli uni gli altri, come
io vi ho amati”. Amare nella dimensione della croce, amare sì che altro ti
distrugge e tu lo ami nonostante tutto, amare come Cristo ha amato Giuda, tocca
ai cristiani, che sono eletti dal mondo. E’ questa la vocazione fondamentale
della Chiesa – essere il Corpo di Cristo, che si può toccare, in ogni
generazione. La Chiesa salva il mondo dando la vita per il mondo, come fece
Cristo. E’ questo il cristianesimo: far vedere alla gente che vive oggi nel
mondo, che questa è la unica verità – Gesù Cristo morto sulla croce e risorto.
La carità nella Chiesa oppure la carità della Chiesa rispetto al mondo è
primariamente di mostrare tale amore, di dire la verità. Altrimenti la Chiesa
si perderebbe nel mondo, se si adeguasse alla sua mentalità. Tutta la dottrina
sociale della Chiesa si fonda sull’amore. Se non c’è amore, se non c’è perdono,
è possibile tutto: per cercare giustizia si può fare scioperi, fare lotta di classi.
Se non c’è Dio, uomo vive solo di pane, e quindi va dato il pane alla gente in
abbondanza. Ma la carità della Chiesa è tutt’altra cosa. La Chiesa deve
annunciare Gesù Cristo al mondo. Questa carità di Cristo ci spinge, dice san
Paolo.
Non è facile questo
discorso oggi. Il mondo vive una vita diversa. Affrontiamo oggi un’apostasia di
Europa, una nascita della società post-cristiana, uno sviluppo del mondo
globalizzato con una prospettiva della laicità e pluralità che non sembra che
dia una convivenza pacifica tra le varie culture, razze e continenti.
Perversioni sessuali, corruzione del denaro, mancato progresso umanitario –
tutto questo può considerarsi dei segni del tramonto di civiltà. Per la visione
cristiana della storia non esiste tuttavia un pessimismo storico. La storia che
viviamo è la storia di salvezza. I nostri nomi sono inseriti nel libro della
vita, tra tante genealogie ed elenchi biblici c’è posto per i nostri nomi, c’è
spazio per la nostra storia. Dio conosce tutto, anche il futuro condizionato
dalla nostra libertà, e Dio non sbaglia neppure nei particolari. Si apre una
nuova prospettiva per la Chiesa. Il Concilio ecumenico Vaticano secondo, preso
nell’ermeneutica della riforma, non quella di discontinuità, dice apertamente,
che la Chiesa è un sacramento, un segno e strumento della salvezza, una luce
che brilla per le nazioni, un sale che si scioglie per dare sapore alla vita
nel mondo, un lievito che da crescita alla massa del mondo. La missione della
Chiesa non può, non è mai potuta cambiarsi: annunziare il vangelo; questa
missione appartiene alla sostanza della Chiesa, non è un optional. Questa è la
carità: annunziare la Parola, celebrare i sacramenti, servire i più deboli. Il
Signore della storia, quando verrà, “li metterà a sedersi e li sevirà” (Lc
12,37) nel banchetto escatologico che pregustiamo nell’Eucaristia. Cristo, il
Pane vivo, si spezza per noi, si distrugge per amore e ci fa unico corpo della
Chiesa, e toccandolo il mondo può trovare Cristo, vedere il Suo volto, prendere
speranza.