LA DIGNITÀ UMANA
E LA FRATERNITÀ DEGLI UOMINI SONO REALTÀ
"META-GENETICHE"
Prof. Alfonso Carrasco Rouco
Facoltà di Teologia "San Dámaso"
Madrid
La dignità e la fraternità umana sono radicate certamente nel fatto stesso di essere uomo, di appartenere alla razza umana, e non sono concesse da alcuna decisione o accordo politico. La sua dignità viene all'uomo per natura, non per l'appartenenza ad un determinato corpo sociale.
Tuttavia, sbagliano coloro che pretendono di spiegare geneticamente la dignità e la fraternità, vale a dire, partendo da un pensiero "naturalistico" che riconosce come reali soltanto le leggi naturali osservate dalla scienza empirica e che vorrebbero spiegare così il mondo intero e, pertanto, anche all'uomo.
In questa prospettiva, l'umanità è vista come una componente aggiuntiva – magari marginale o perfino destabilizzante - del processo evolutivo naturale, e il suo linguaggio, la sua conoscenza o le sue valutazioni morali - la sua cultura - sono spiegati come espressioni solo dei suoi dinamismi biologici, come frutto dell'interrelazione tra la sua genetica e il suo ambiente.
L'uomo viene ridotto così ad una specie animale evoluta. La sua conoscenza del mondo, la sua percezione del bene e del male, la sua libertà o la sua dignità sarebbero mere espressioni dell'informazione genetica e delle esigenze biologiche proprie della sua specie, e mancherebbero di qualunque universalità; non implicherebbero una conoscenza vera del mondo, una comprensione autentica della razionalità che guida il movimento degli altri esseri dell'universo a partire dalle loro differenti basi biologiche.
Questa apparente umiltà rende impossibile stabilire una relazione con la natura che non sia quella che più convenga alla sopravvivenza umana e canonizzi così il suo utilizzo: il suo essere proprio - vero e buono - non può più essere conosciuto dall'uomo, che vedrà in essa solo risorse di cui disporre nella misura della loro forza e convenienza.
D'altra parte, questa riduzione antropologica implica anche una mancata valorizzazione della libertà umana, perché il criterio dell'azione dell'uomo può essere ormai solo quello della specie - cioè, della società e, in realtà, del potere dominante in essa - e non quello dell'io individuale, l'affermazione della cui singolarità e dignità non avrebbe alcuna base reale o, meglio ancora, sarebbe dannosa e contraria al bene dell'insieme. Ciò significa, in concreto, la scomparsa del riconoscimento della dignità del prossimo e il fondamento di criteri d’azione radicalmente utilitaristici. La fraternità non può reggersi su questa base, in cui ogni "tu" è solo un esemplare in più di una specie "umana”.
Queste impostazioni "naturalistiche" nascondono un'opzione di fondo sulla relazione dell'uomo col mondo, nella quale si gioca coscientemente ed esplicitamente la sua relazione con Dio: l'uomo non può pensare se stesso come "immagine di Dio" e coronamento della creazione. Davanti all'evidenza della razionalità del mondo, che si regge sulle proprie "leggi naturali" non costituite dall'uomo - come è stato reso evidente dalla crisi ecologica -, non si arriva alla conclusione del riconoscimento di questa razionalità come segno del Logos creatore, bensì della presentazione del mondo come qualcosa di non dominabile e, pertanto, alieno alla ragione umana – intesa sempre in modo strumentale.
Si giunge così alla conclusione contraria a quella che ci si attendeva all’inizio del cammino filosofico moderno: che il mondo diventerebbe trasparente agli occhi della ragione (Cartesio), che convertirebbe questo sapere in potere (Bacone), dando all'uomo la signoria sul mondo. Tuttavia, nonostante ciò, non si porta a termine un rinnovamento della comprensione della ragione, ma si mantiene un orizzonte positivista, a costo di rompere la relazione dell'uomo col mondo.
In effetti, questa teoria "naturalistica" non solo di fatto contraddice il progresso dell'intelligenza scientifica del mondo e perde la possibilità di affermare la libertà, la dignità e la fraternità umane, ma neanche riesce a rinunciare adeguatamente alla signoria, alla gerarchia umana sull'universo, come sarebbe sua pretesa. Infatti, la riduzione dell'uomo a un sottoprodotto dell'evoluzione non decentra l'uomo rispetto alla sua relazione col cosmo, ma lo spinge a recludersi in se stesso, in modo che non possa riconoscere nessun altro criterio di azione al di fuori della propria convenienza biologica; in realtà, così facendo, si centra completamente l'uomo su se stesso, rompendo ogni relazione di senso col mondo.
Arrivati a questo punto, per comprendere che l'uomo non può pensare il cosmo partendo da se stesso e dal proprio potere, che deve rispettare la natura riconoscendo l'intelligenza iscritta in essa, che deve anche rispettare la dignità umana e riconoscerla nei suoi fratelli, forse non rimangono molte altre strade che accettare il Logos creatore, causa dell'esistenza, razionalità e bontà propria di tutte le cose, alla cui immagine deve riferirsi l'uomo nella sua relazione con il mondo.
Al centro del dibattito non si colloca, dunque, la genetica, bensì la relazione dell'uomo con Dio, già decisa nella concezione della ragione dell'uomo, della sua relazione col mondo. Si comprende, per questo, che attualmente possa subire variazioni l'antica formula laica "niente cambia, benché Dio non esista" e sia possibile affermare che "se Dio esiste, la nostra ragione non può capirlo". La cosa certa è, in realtà, che la nostra ragione, creata dal Logos divino a sua immagine, è aperta alla verità di tutte le cose e al loro fondamento ultimo, il Mistero creatore, rivelato da Gesù Cristo come pienezza eterna di verità e di amore.