INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Aula della Benedizione
Giovedì, 26 febbraio 2009
1) Santo Padre, sono Don
Gianpiero Palmieri, parroco della parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali.
Volevo rivolgerle una domanda sulla missione evangelizzatrice della comunità
cristiana e, in particolare, sul ruolo e sulla formazione di noi presbiteri
all'interno di questa missione evangelizzatrice.
Per spiegarmi, parto da un episodio
personale. Quando, giovane presbitero, ho cominciato il mio servizio pastorale
nella parrocchia e nella scuola, mi sentivo forte del bagaglio degli studi e
della formazione ricevuta, ben radicato nel mondo delle mie convinzioni dei
miei sistemi di pensiero. Una donna credente e saggia, vedendomi in azione,
scosse la testa sorridendo e mi disse: don Gianpiero, quand'è che metti i
pantaloni lunghi, quand'è che diventi uomo? È un episodio che m'è rimasto nel
cuore. Quella donna saggia cercava di spiegarmi che la vita, il mondo reale,
Dio stesso, sono più grandi e sorprendenti dei concetti che noi elaboriamo. Mi
invitava a mettermi in ascolto dell'umano per cercare di capire, per
comprendere, senza aver fretta di giudicare. Mi chiedeva di imparare a entrare
in relazione con la realtà, senza paure, perché la realtà è abitata da Cristo
stesso che agisce misteriosamente nel suo Spirito. Di fronte alla missione
evangelizzatrice oggi noi presbiteri ci sentiamo impreparati e inadeguati,
sempre con i calzoni corti. Sia sotto l'aspetto culturale — ci sfugge la
conoscenza attenta delle grandi direttrici del pensiero contemporaneo, nelle
sue positività e nei suoi limiti — e soprattutto sotto l'aspetto umano.
Rischiamo sempre di essere troppo schematici, incapaci di comprendere in
maniera saggia il cuore degli uomini di oggi. L'annuncio della salvezza in Gesù
non è anche l'annuncio dell'uomo nuovo Gesù, il Figlio di Dio, nel quale anche
la nostra umanità povera viene redenta, resa autentica, trasformata da Dio?
Allora la mia domanda è questa: condivide questi pochi pensieri? Nelle nostre
comunità cristiane viene tanta gente ferita dalla vita. Quali luoghi e modi
possiamo inventarci per aiutare nell'incontro con Gesù l'umanità degli altri? E
anche come costruire in noi preti un'umanità bella e feconda? Grazie, Santità!
R. Grazie! Cari confratelli, innanzitutto
vorrei esprimere la mia grande gioia di essere con voi, parroci di Roma: i miei
parroci, siamo in famiglia. Il Cardinale Vicario ci ha detto bene è che un
momento di riposo spirituale. E in questo senso sono anche grato che posso
iniziare la Quaresima con un momento di riposo spirituale, di respiro
spirituale, nel contatto con voi. E ha anche detto: stiamo insieme perché voi
potete raccontarmi le vostre esperienze, le vostre sofferenze, anche i vostri
successi e gioie. Quindi non direi che qui parla un oracolo, al quale voi
chiedete. Siamo invece in uno scambio familiare, dove per me è anche molto
importante, tramite voi, conoscere la vita nelle parrocchie, le vostre
esperienze con la Parola di Dio nel contesto del nostro mondo di oggi. E vorrei
così imparare anch'io, avvicinarmi alla realtà dalla quale chi è nel Palazzo
Apostolico è anche un po' troppo distante. E questo è anche il limite delle mie
risposte. Voi vivete nel contatto diretto, giorno per giorno, con il mondo di
oggi; io vivo in contatti diversificati, che sono molto utili. Per esempio,
adesso ho avuto la visita «ad limina» dei Vescovi della
Nigeria. E ho potuto
vedere così, tramite le persone, la vita della Chiesa in un Paese importante
dell'Africa, il più grande, con 140 milioni di abitanti, un grande numero di
cattolici, e toccare le gioie e anche le sofferenze della Chiesa. Ma per me
questo è ovviamente un riposo spirituale, perché è una Chiesa come la vediamo
negli Atti degli Apostoli. Una Chiesa dove c'è la fresca gioia di aver trovato
Cristo, di aver trovato il Messia di Dio. Una Chiesa che vive e cresce ogni
giorno. La gente è gioiosa di trovare Cristo. Hanno vocazioni e così possono
dare, nei diversi Paesi del mondo, sacerdoti fidei donum. E vedere che
non c'è solo una Chiesa stanca, come si trova spesso in Europa, ma una Chiesa
giovane, piena di gioia dello Spirito Santo, è certamente un rinfresco
spirituale. Ma è anche importante per me, con tutte queste esperienze
universali, vedere la mia Diocesi, i problemi e tutte le realtà che vivono in
questa Diocesi.
In questo senso, in sostanza, sono
d'accordo con lei: non è sufficiente predicare o fare pastorale con il bagaglio
prezioso acquisito negli studi della teologia. Questo è importante e fondamentale,
ma deve essere personalizzato: da conoscenza accademica, che abbiamo imparato e
anche riflettuto, in visione personale della mia vita, per arrivare alle altre
persone. In questo senso vorrei dire che è importante, da una parte,
concretizzare con la nostra esperienza personale della fede, nell'incontro con
i nostri parrocchiani, la grande parola della fede, ma anche non perdere la sua
semplicità. Naturalmente parole grandi della tradizione — come sacrificio di
espiazione, redenzione del sacrificio del Cristo, peccato originale — sono oggi
come tali incomprensibili. Non possiamo semplicemente lavorare con formule
grandi, vere, ma non più contestualizzate nel mondo di oggi. Dobbiamo, tramite
lo studio e quanto ci dicono i maestri della teologia e la nostra esperienza
personale con Dio, concretizzare, tradurre queste grandi parole, così che
devono entrare nell'annuncio di Dio all'uomo nell'oggi.
E, direi, dall'altra parte, non dovremmo
coprire la semplicità della Parola di Dio in valutazioni troppo pesanti di
avvicinamenti umani. Mi ricordo un amico che, dopo aver ascoltato prediche con
lunghe riflessioni antropologiche per arrivare insieme al Vangelo, diceva: ma
non mi interessano questi avvicinamenti, io vorrei capire che cosa dice il
Vangelo! E mi sembra spesso che invece di lunghi cammini di avvicinamento,
sarebbe meglio — io l'ho fatto quanto ero ancora nella mia vita normale — dire:
questo Vangelo non ci piace, siamo contrari a quanto dice il Signore! Ma che
cosa vuole dire? Se io dico sinceramente che a prima vista non sono d'accordo,
abbiamo già l'attenzione: si vede che io vorrei, come uomo di oggi, capire che
cosa dice il Signore. Così possiamo senza lunghi circuiti entrare nel vivo
della Parola. E dobbiamo anche tener presente, senza false semplificazioni, che
i dodici apostoli erano pescatori, artigiani, di questa provincia, la Galilea,
senza particolare preparazione, senza conoscenza del grande mondo greco e
latino. Eppure sono andati in tutte le parti dell'impero, anche fuori l'impero,
fino all'India, e hanno annunciato Cristo con semplicità e con la forza della
semplicità di quello che è vero. E mi sembra anche questo importante: non
perdiamo la semplicità della verità. Dio c'è e Dio non è un essere ipotetico,
lontano, ma è vicino, ha parlato con noi, ha parlato con me. E così diciamo
semplicemente che cosa è e come si può e si deve naturalmente spiegare e
sviluppare. Ma non perdiamo il fatto che noi non proponiamo riflessioni, non
proponiamo una filosofia, ma proponiamo l'annuncio semplice del Dio che ha
agito. E che ha agito anche con me.
E poi per la contestualizzazione
culturale, romana — che è assolutamente necessaria — direi che il primo aiuto è
la nostra esperienza personale. Non viviamo sulla luna. Sono un uomo di questo
tempo se io vivo sinceramente la mia fede nella cultura di oggi, essendo uno
che vive con i mass media di oggi, con i dialoghi, con le realtà dell'economia,
con tutto, se io stesso prendo sul serio la mia esperienza e cerco di
personalizzare in me questa realtà. Così siamo proprio nel cammino di farci
capire anche dagli altri. San Bernardo di Chiaravalle ha detto nel suo libro di
considerazioni al suo discepolo Papa Eugenio: considera di bere dalla tua
propria fonte, cioè dalla tua propria umanità. Se sei sincero con te e cominci
a vedere con te che cosa è la fede, con la tua esperienza umana in questo
tempo, bevendo dal tuo proprio pozzo, come dice san Bernardo, anche agli altri
puoi dire quanto si deve dire. E in questo senso mi sembra importante essere
attenti realmente al mondo di oggi, ma anche essere attenti al Signore in me
stesso: essere un uomo di questo tempo e nello stesso tempo un credente di
Cristo, che in sé trasforma il messaggio eterno in messaggio attuale.
E chi conosce meglio gli uomini di oggi
che il parroco? La canonica non è nel mondo, è invece nella parrocchia. E qui,
dal parroco, vengono gli uomini spesso, normalmente, senza maschera, non con
altri pretesti, ma nella situazione della sofferenza, della malattia, della
morte, delle questioni in famiglia. Vengono nel confessionale senza maschera,
con il loro proprio essere. Nessun'altra professione, mi sembra, dà questa
possibilità di conoscere l'uomo com'è nella sua umanità e non nel suo ruolo che
ha nella società. In questo senso, possiamo realmente studiare l'uomo come è
nella sua profondità, fuori dai ruoli, e imparare anche noi stessi l'essere
umano, l'essere uomo sempre alla scuola di Cristo. In questo senso direi che è
assolutamente importante imparare l'uomo, l'uomo di oggi, in noi e con gli
altri, ma anche sempre nell'ascolto attento al Signore e accettando in me il
seme della Parola, perché in me si trasforma in frumento e diventa comunicabile
agli altri.
2) Sono Don Fabio Rosini, parroco di
Santa Francesca Romana all'Ardeatino. A fronte dell'attuale processo di
secolarizzazione e delle sue evidenti ricadute sociali ed esistenziali, quanto
mai opportunamente abbiamo, a più riprese, ricevuto dal Suo magistero, in
mirabile continuità con quello del suo venerato Predecessore, l'esortazione
all'urgenza del primo annuncio, allo zelo pastorale per l'evangelizzazione o
rievangelizzazione, all'assunzione di una mentalità missionaria. Abbiamo
compreso quanto sia importante la conversione dell'azione pastorale ordinaria,
non più presupponendo la fede della massa e accontentandoci di curare quella
porzione di credenti che persevera, grazie a Dio, nella vita cristiana, ma
interessandoci, più decisamente e più organicamente, delle molte pecore
perdute, o perlomeno disorientate. In molti e con diversi approcci, noi presbiteri
romani abbiamo cercato di rispondere a questa oggettiva urgenza di rifondare o,
addirittura, spesso fondare la fede. Si stanno moltiplicando le esperienze di
primo annuncio e non mancano risultati anche molto incoraggianti. Personalmente
posso constatare come il Vangelo, annunciato con gioia e franchezza, non tarda
a guadagnare il cuore degli uomini e delle donne di questa città, proprio
perché esso è la verità e corrisponde a ciò di cui più intimamente ha bisogno
la persona umana. La bellezza del Vangelo e della fede, infatti, se presentati
con amorevole autenticità, sono evidenti da se stessi. Ma il riscontro
numerico, talvolta sorprendentemente alto, non garantisce di per sé la bontà di
un'iniziativa. La storia della Chiesa, anche recente, non manca di esempi. Un
successo pastorale, paradossalmente, può nascondere un errore, una stortura di
impostazione, che magari non appare immediatamente. Ecco perché vorrei
chiederle: quali devono essere i criteri imprescindibili di questa urgente
azione di evangelizzazione? Quali sono, secondo lei, gli elementi che
garantiscono di non correre invano nella fatica pastorale dell'annuncio a
questa generazione a noi contemporanea? Le chiedo umilmente di segnalarci, nel
suo prudente discernimento, i parametri da rispettare e da valorizzare per
poter dire di compiere un'opera evangelizzatrice che sia genuinamente cattolica
e che porti frutto nella Chiesa. La ringrazio di cuore per il suo illuminato
magistero. Ci benedica.
R. Sono contento di sentire che si fa
realmente questo primo annuncio, che si va oltre i limiti della comunità
fedele, della parrocchia, alla ricerca delle cosiddette pecore sperdute; che si
cerca di andare verso l'uomo d'oggi che vive senza Cristo, che ha dimenticato
Cristo, per annunciargli il Vangelo. E sono felice di sentire che non solo si
fa questo, ma che si conseguono anche dei successi numericamente confortanti.
Vedo, quindi, che voi siete capaci di parlare a quelle persone nelle quali si
deve rifondare, o addirittura fondare, la fede.
Per questo lavoro concreto, io non posso
dare ricette, perché sono diverse le strade da seguire, a seconda delle
persone, delle loro professioni, delle varie situazioni. Il catechismo indica l'essenza di quanto annunciare. Ma è chi
conosce le situazioni che deve applicare le indicazioni, trovare un metodo per
aprire i cuori ed invitare a mettersi in cammino con il Signore e con la
Chiesa.
Lei parla dei criteri di discernimento
per non correre invano. Vorrei innanzitutto dire che tutte e due le parti sono
importanti. La comunità dei fedeli è una cosa preziosa e non dobbiamo
sottovalutare — anche guardando ai tanti che sono lontani — la realtà positiva
e bella che costituiscono questi fedeli, i quali dicono sì al Signore nella
Chiesa, cercano di vivere la fede, cercano di andare sulle orme del Signore.
Dobbiamo aiutare questi fedeli, come abbiamo detto già poco fa rispondendo alla
prima domanda, a vedere la presenza della fede, a capire che non è una cosa del
passato, ma che oggi mostra la strada, insegna a vivere da uomo. È molto
importante che essi trovino nel loro parroco realmente il pastore che li ama e
che li aiuta a sentire oggi la Parola di Dio; a capire che è una Parola per
loro e non solo per persone del passato o del futuro; che li aiuta, ancora,
nella vita sacramentale, nell'esperienza della preghiera, nell'ascolto della
Parola di Dio e nella vita della giustizia e della carità, perché i cristiani
dovrebbero essere fermento nella nostra società con tanti problemi e con tanti
pericoli ed anche tanta corruzione che esiste.
In questo modo credo che essi possano
anche interpretare un ruolo missionario «senza parole», poiché si tratta di
persone che vivono realmente una vita giusta. E così offrono una testimonianza
di come sia possibile vivere bene sulle strade indicate dal Signore. La nostra
società ha bisogno proprio di queste comunità, capaci di vivere oggi la
giustizia non solo per se stessi ma anche per l'altro. Persone che sappiano
vivere, come abbiamo sentito oggi nella prima lettura, la vita. Questa lettura
all'inizio dice: «Scegli la vita»: è facile dire sì. Ma poi prosegue: «La tua
vita è Dio». Quindi scegliere la vita è scegliere l'opzione per la vita, che è
l'opzione per Dio. Se ci sono persone o comunità che fanno questa scelta
completa della vita e rendono visibile il fatto che la vita che hanno scelto è
realmente vita, rendono una testimonianza di grandissimo valore.
E vengo a una seconda riflessione. Per
l'annuncio abbiamo bisogno di due elementi: la Parola e la testimonianza. È
necessaria, come sappiamo dal Signore stesso, la Parola che dice quanto lui ci
ha detto, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo, la
strada che ci si apre davanti. Si tratta, quindi, di un annuncio nel presente,
come lei ha detto, che traduce le parole del passato nel mondo della nostra
esperienza. È una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, dare, con la
testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia solo come una
bella filosofia, o come una bella utopia, ma piuttosto come realtà. Una realtà
con la quale si può vivere, ma non solo: una realtà che fa vivere. In questo
senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente, come sottofondo
della Parola, dell'annuncio, sia di grandissima importanza. Con la Parola
dobbiamo aprire luoghi di esperienza della fede a quelli che cercano Dio. Così
ha fatto la Chiesa antica con il catecumenato, che non era semplicemente una
catechesi, una cosa dottrinale, ma un luogo di progressiva esperienza della
vita della fede, nella quale poi si dischiude anche la Parola, che diventa
comprensibile solo se interpretata dalla vita, realizzata dalla vita.
Quindi mi sembra importante, insieme con
la Parola, la presenza di un luogo di ospitalità della fede, un luogo in cui si
fa una progressiva esperienza della fede. E qui vedo anche uno dei compiti
della parrocchia: ospitalità per quelli che non conoscono questa vita tipica
della comunità parrocchiale. Non dobbiamo essere un cerchio chiuso in noi
stessi. Abbiamo le nostre consuetudini, ma dobbiamo comunque aprirci e cercare
di creare anche vestiboli, cioè spazi di avvicinamento. Uno che viene da
lontano non può subito entrare nella vita formata di una parrocchia, che ha già
le sue consuetudini. Per costui al momento tutto è molto sorprendente, lontano
dalla sua vita. Quindi dobbiamo cercare di creare, con l'aiuto della Parola,
quello che la Chiesa antica ha creato con i catecumenati: spazi in cui
cominciare a vivere la Parola, a seguire la Parola, a renderla comprensibile e
realistica, corrispondente a forme di esperienza reale. In questo senso mi
sembra molto importante quanto lei ha accennato, cioè la necessità di collegare
la Parola con la testimonianza di una vita giusta, dell'essere per gli altri,
di aprirsi ai poveri, ai bisognosi, ma anche ai ricchi, che hanno bisogno di
essere aperti nel loro cuore, di sentir bussare al loro cuore. Si tratta dunque
di spazi diversi, a seconda della situazione.
Mi pare che in teoria si possa dire poco,
ma l'esperienza concreta mostrerà le strade da seguire. E naturalmente —
criterio sempre importante da seguire — bisogna essere nella grande comunione
della Chiesa, anche se forse in uno spazio ancora un po' lontano: e cioè in
comunione con il vescovo, con il Papa, in comunione così con il grande passato
e con il grande futuro della Chiesa. Essere nella Chiesa cattolica, infatti,
non implica soltanto essere in un grande cammino che ci precede, ma significa
essere in prospettiva di una grande apertura al futuro. Un futuro che si apre
solo in questo modo. Si potrebbe forse proseguire nel parlare dei contenuti, ma
possiamo trovare un'altra occasione per questo.
3) Padre Santo, sono Don Giuseppe
Forlai, vicario parrocchiale presso la parrocchia di San Giovanni Crisostomo,
nel settore nord della nostra Diocesi. L'emergenza educativa, di cui
autorevolmente la Santità Vostra ha parlato, è anche, come tutti sappiamo,
emergenza di educatori, particolarmente credo sotto due aspetti. Prima di
tutto, è necessario avere un occhio maggiore sulla continuità della presenza
dell'educatore-prete. Un giovane non stringe un patto di crescita con chi se ne
va dopo due o tre anni, anche perché già impegnato emotivamente a gestire
relazioni con genitori che lasciano casa, nuovi partner della mamma o del papà,
insegnanti precari che ogni anno si danno il cambio. Per educare bisogna stare.
La prima necessità che sento è, dunque, quella di una certa stabilità sul luogo
dell'educatore-sacerdote. Secondo aspetto: credo che la partita fondamentale
della pastorale giovanile si giochi sul fronte della cultura. Cultura intesa
come competenza emotivo-relazionale e come padronanza delle parole che i
concetti contengono. Un giovane senza questa cultura può diventare il povero di
domani, una persona a rischio di fallimento affettivo e un naufrago nel mondo
del lavoro. Un giovane senza questa cultura rischia di rimanere un non credente
o, peggio ancora, un praticante senza fede perché l'incompetenza nelle
relazioni deforma la relazione con Dio e l'ignoranza delle parole blocca la
comprensione dell'eccellenza della parola del Vangelo. Non basta che i giovani
riempiano fisicamente lo spazio dei nostri oratori per passare un po' di tempo
libero. Vorrei che l'oratorio fosse un luogo dove si impara a sviluppare
competenze relazionali e dove si riceve ascolto e sostegno scolastico. Un luogo
che non sia il rifugio costante di chi non ha voglia di studiare o di
impegnarsi, ma una comunità di persone che elaborino quelle domande giuste che
aprono al senso religioso e dove si faccia la grande carità di aiutare a
pensare. E qui si dovrebbe anche aprire una seria riflessione sulla
collaborazione tra oratori e insegnanti di religione. Santità, ci dica una
parola autorevole in più su questi due aspetti dell'emergenza educativa: la
necessaria stabilità degli operatori e l'urgenza di avere educatori-sacerdoti
culturalmente capaci. Grazie.
R. Allora, cominciamo con il secondo
punto. Diciamo che è più ampio e, in un certo senso, anche più facile.
Certamente un oratorio nel quale si fanno solo dei giochi e si prendono delle
bevande sarebbe assolutamente superfluo. Il senso di un oratorio deve realmente
essere una formazione culturale, umana e cristiana di una personalità, che deve
diventare una personalità matura. Su questo siamo assolutamente d'accordo e, mi
sembra, proprio oggi c'è una povertà culturale dove si sanno tante cose, ma
senza un cuore, senza un collegamento interiore perché manca una visione comune
del mondo. E, perciò, una soluzione culturale ispirata dalla fede della Chiesa,
dalla conoscenza di Dio che ci ha donato, è assolutamente necessaria. Direi
proprio questa è la funzione di un oratorio: che uno non solo trovi possibilità
per il tempo libero ma soprattutto trovi formazione umana integrale che rende
completa la personalità.
E, quindi, naturalmente il sacerdote come
educatore deve essere egli stesso formato bene e essere collocato nella cultura
di oggi, ricco di cultura, per aiutare anche i giovani a entrare in una cultura
ispirata dalla fede. Aggiungerei, naturalmente, che alla fine il punto di
orientamento di ogni cultura è Dio, il Dio presente in Cristo. Vediamo come
oggi ci sono persone con tante conoscenze, ma senza orientamento interiore.
Così la scienza può essere anche pericolosa per l'uomo, perché senza
orientamenti etici più profondi, lascia l'uomo all'arbitrio e, quindi, senza
gli orientamenti necessari per divenire realmente un uomo. In questo senso, il
cuore di ogni formazione culturale, così necessaria, deve essere senza dubbio
la fede: conoscere il volto di Dio che si è mostrato in Cristo e così avere il
punto di orientamento per tutta l'altra cultura, che altrimenti diventa
disorientata e disorientante. Una cultura senza conoscenza personale di Dio e
senza conoscenza del volto di Dio in Cristo, è una cultura che potrebbe essere
anche distruttiva, perché non conosce gli orientamenti etici necessari. In
questo senso, mi sembra, abbiamo noi realmente una missione di formazione
culturale e umana profonda, che si apre a tutte le ricchezze della cultura del
nostro tempo, ma dà anche il criterio, il discernimento per provare quanto è
cultura vera e quanto potrebbe divenire anti-cultura.
Molto più difficile per me è la prima
domanda — la domanda è anche a Sua Eminenza — cioè la permanenza del giovane
sacerdote per dare orientamento ai giovani. Senza dubbio una relazione
personale con l'educatore è importante e deve avere anche la possibilità di un
certo periodo per orientarsi insieme. E, in questo senso posso, essere
d'accordo che il sacerdote, punto di orientamento per i giovani, non può
cambiare ogni giorno, perché così perde proprio questo orientamento. D'altra
parte, il giovane sacerdote deve anche fare delle esperienze diverse in
contesti culturali diversi, proprio per arrivare, alla fine, al bagaglio culturale
necessario per essere, come parroco, punto di riferimento per lungo tempo alla
parrocchia. E, direi, nella vita del giovane le dimensioni del tempo sono
diverse dalla vita di un adulto. I tre anni, dall'anno sedicesimo al
diciannovesimo, sono almeno così lunghi e importanti come gli anni tra i
quaranta e i cinquanta. Proprio qui, infatti, si forma la personalità: è un
cammino interiore di grande importanza, di grande estensione esistenziale. In
questo senso, direi che tre anni per un vice parroco è un bel tempo per formare
una generazione di giovani; e così, dall'altra parte, può anche conoscere altri
contesti, imparare in altre parrocchie altre situazioni, arricchire il suo
bagaglio umano. Questo è sempre un tempo non tanto breve per una certa continuità,
un cammino educativo dell'esperienza comune, dell'imparare l'essere uomo.
Peraltro, come ho detto, nella gioventù tre anni sono un tempo decisivo e
lunghissimo, perché qui si forma realmente la personalità futura. Mi sembra,
quindi, che si potrebbero conciliare i due bisogni: da una parte, che il
sacerdote giovane abbia possibilità di esperienze diverse per arricchire il suo
bagaglio di esperienza umana; dall'altra, la necessità di stare un determinato
tempo con i giovani per introdurli realmente nella vita, per insegnare loro a
essere persone umane. In questo senso, penso a una conciliabilità dei due
aspetti: esperienze diverse per un giovane sacerdote, continuità
dell'accompagnamento dei giovani per guidarli nella vita. Ma non so che cosa il
Cardinale Vicario ci potrà dire in questo senso.
Cardinale Vicario:
Padre Santo, naturalmente condivido
queste due esigenze, la composizione tra le due esigenze. A me sembra, per quel
poco che ho potuto conoscere, che a Roma in qualche modo si conservi una certa stabilità
dei giovani sacerdoti presso le parrocchie per almeno alcuni anni, salvo
eccezioni. Possono sempre esserci delle eccezioni. Ma il vero problema talvolta
nasce da gravi esigenze o da situazioni concrete, soprattutto nelle relazioni
tra parroco e vicario parrocchiale — e qui tocco un nervo scoperto — e poi
anche dalla scarsezza di giovani sacerdoti. Come ho avuto anche modo di dirle
quando mi ha ricevuto in udienza, uno dei gravi problemi della nostra Diocesi è
proprio il numero delle vocazioni al sacerdozio. Personalmente sono convinto
che il Signore chiama, che continua a chiamare. Forse noi dovremmo fare anche
di più. Roma può dare vocazioni, le darà, sono convinto. Ma in tutta questa
complessa materia talvolta interferiscono molti aspetti. Sicuramente una certa
stabilità credo sia stata garantita e anche io, per quello che potrò, nelle
linee che ci ha indicato il Santo Padre, mi regolerò.
4) Santità, sono Don Giampiero
Ialongo, uno dei tanti parroci che svolge il suo ministero nella periferia di Roma,
fisicamente a Torre Angela, al confine con Torbellamonaca, Borghesiana, Borgata
Finocchio, Colle Prenestino. Periferie, queste, come tante altre, spesso
dimenticate e trascurate dalle istituzioni. Sono felice che questo pomeriggio
ci abbia convocato il presidente del Municipio: vedremo che cosa potrà
scaturire da questo incontro con la municipalità. E, forse, più di altre zone
della nostra città, le nostre periferie avvertono veramente forte il disagio
che la crisi economica internazionale inizia proprio a far pesare sulle
condizioni concrete di vita di non poche famiglie. Come Caritas parrocchiale,
ma soprattutto anche come Caritas diocesana, portiamo avanti tante iniziative
che sono volte prima di tutto all'ascolto, ma anche poi a un aiuto materiale, concreto,
verso quanti — senza distinzione di razza, di culture, di religioni — a noi si
rivolgono. Nonostante ciò, ci andiamo sempre più rendendo conto che ci troviamo
dinanzi una vera e propria emergenza. Mi sembra che tante, troppe persone — non
solo pensionati ma anche chi ha un regolare impiego, un contratto a tempo
indeterminato — trovino grandi difficoltà a far quadrare il proprio bilancio
familiare. Pacchi-viveri, come noi facciamo, un po' di indumenti, talvolta dei
concreti aiuti economici per pagare le bollette o l'affitto, possono essere sì
un aiuto ma non credo una soluzione. Sono convinto che come Chiesa dovremmo
interrogarci di più su cosa possiamo fare, ma ancor più sui motivi che hanno
portato a questa generalizzata situazione di crisi. Dovremmo avere il coraggio
di denunciare un sistema economico e finanziario ingiusto nelle sue radici. E
non credo che dinanzi a queste sperequazioni, introdotte da questo sistema,
basti soltanto un po' di ottimismo. Serve una parola autorevole, una parola libera,
che aiuti i cristiani, come già in qualche modo ha detto, Santo Padre, a
gestire con sapienza evangelica e con responsabilità i beni che Dio ha donato e
ha donato per tutti e non solo per pochi. Questa parola, come già ha fatto
altre volte — perché altre volte abbiamo ascoltato la sua parola su questo —
sarei desideroso di ascoltare ancora una volta in questo contesto. Grazie,
Santità!
R. Innanzitutto vorrei ringraziare il
Cardinale Vicario per la parola di fiducia: Roma può dare più candidati per la
messe del Signore. Dobbiamo soprattutto pregare il Signore della messe, ma
anche fare la nostra parte per incoraggiare i giovani a dire sì al Signore. E,
naturalmente, proprio i giovani sacerdoti sono chiamati a dare l'esempio alla
gioventù di oggi che è bene lavorare per il Signore. In questo senso, siamo
pieni di speranza. Preghiamo il Signore e facciamo il nostro.
Adesso questa questione che tocca il
nervo dei problemi del nostro tempo. Io distinguerei due livelli. Il primo è il
livello della macroeconomia, che poi si realizza e va fino all'ultimo
cittadino, il quale sente le conseguenze di una costruzione sbagliata.
Naturalmente, denunciare questo è un dovere della Chiesa. Come sapete, da molto
tempo prepariamo un'Enciclica su questi punti. E nel cammino lungo vedo com'è
difficile parlare con competenza, perché se non è affrontata con competenza una
certa realtà economica non può essere credibile. E, d'altra parte, occorre
anche parlare con una grande consapevolezza etica, diciamo creata e svegliata
da una coscienza formata dal Vangelo. Quindi bisogna denunciare questi errori
fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane,
gli errori nel fondo. Alla fine, è l'avarizia umana come peccato o, come dice
la Lettera ai Colossesi, avarizia come idolatria. Noi dobbiamo denunciare
questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell'immagine
di Dio con un altro Dio, «mammona». Dobbiamo farlo con coraggio ma anche con
concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con
conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto
fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è
necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti.
Qui siamo al punto forte: esiste
realmente il peccato originale? Se non esistesse potremmo far appello alla
ragione lucida, con argomenti che a ognuno sono accessibili e incontestabili, e
alla buona volontà che esiste in tutti. Semplicemente così potremmo andare
avanti bene e riformare l'umanità. Ma non è così: la ragione — anche la nostra
— è oscurata, lo vediamo ogni giorno. Perché l'egoismo, la radice
dell'avarizia, sta nel voler soprattutto me stesso e il mondo per me. Esiste in
tutti noi. Questo è l'oscuramento della ragione: essa può essere molto dotta,
con argomenti scientifici bellissimi, e tuttavia è oscurata da false premesse.
Così va con grande intelligenza e con grandi passi avanti sulla strada
sbagliata. Anche la volontà è, diciamo, curvata, dicono i Padri: non è
semplicemente disponibile a fare il bene ma cerca soprattutto se stesso o il
bene del proprio gruppo. Perciò trovare realmente la strada della ragione,
della ragione vera, è già una cosa non facile e si sviluppa difficilmente in un
dialogo. Senza la luce della fede, che entra nelle tenebre del peccato
originale, la ragione non può andare avanti. Ma proprio la fede trova poi la
resistenza della nostra volontà. Questa non vuol vedere la strada, che
costituirebbe anche una strada di rinuncia a se stessi e di una correzione
della propria volontà in favore dell'altro e non per se stessi.
Perciò occorre, direi, la denuncia
ragionevole e ragionata degli errori, non con grandi moralismi, ma con ragioni
concrete che si fanno comprensibili nel mondo dell'economia di oggi. La
denuncia di questo è importante, è un mandato per la Chiesa da sempre. Sappiamo
che nella nuova situazione creatasi con il mondo industriale, la dottrina
sociale della Chiesa, cominciando da Leone XIII, cerca di fare queste denunce — e non solo le
denunce, che non sono sufficienti — ma anche di mostrare le strade difficili
dove, passo per passo, si esige l'assenso della ragione e l'assenso della
volontà, insieme alla correzione della mia coscienza, alla volontà di
rinunciare in un certo senso a me stesso per poter collaborare a quello che è
il vero scopo della vita umana, dell'umanità.
Detto questo, la Chiesa ha sempre il
compito di essere vigilante, di cercare essa stessa con le migliori forze che
ha le ragioni del mondo economico, di entrare in questo ragionamento e di
illuminare questo ragionamento con la fede che ci libera dall'egoismo del
peccato originale. È compito della Chiesa entrare in questo discernimento, in
questo ragionamento, farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e
internazionali, per aiutare e correggere. E questo non è un lavoro facile,
perché tanti interessi personali e di gruppi nazionali si oppongono a una
correzione radicale. Forse è pessimismo, ma a me sembra realismo: fino a quando
c'è il peccato originale non arriveremo mai a una correzione radicale e totale.
Tuttavia dobbiamo fare di tutto per correzioni almeno provvisorie, sufficienti
per far vivere l'umanità e per ostacolare la dominazione dell'egoismo, che si
presenta sotto pretesti di scienza e di economia nazionale e internazionale.
Questo è il primo livello. L'altro è
essere realisti. E vedere che questi grandi scopi della macroscienza non si
realizzano nella microscienza — la macroeconomia nella microeconomia — senza la
conversione dei cuori. Se non ci sono i giusti, anche la giustizia non c'è.
Dobbiamo accettare questo. Perciò l'educazione alla giustizia è uno scopo
prioritario, potremmo dire anche la priorità. Perché san Paolo dice che la
giustificazione è l'effetto dell'opera di Cristo, non è un concetto astratto,
riguardante peccati che oggi non ci interessano, ma si riferisce proprio alla
giustizia integrale. Dio solo può darcela, ma ce la dà con la nostra
cooperazione su diversi livelli, in tutti i livelli possibili.
La giustizia non si può creare nel mondo
solo con modelli economici buoni, che sono necessari. La giustizia si realizza
solo se ci sono i giusti. E i giusti non ci sono se non c'è il lavoro umile,
quotidiano, di convertire i cuori. E di creare giustizia nei cuori. Solo così
si estende anche la giustizia correttiva. Perciò il lavoro dei parroco è così
fondamentale non solo per la parrocchia, ma per l'umanità. Perché se non ci
sono i giusti, come ho detto, la giustizia rimane astratta. E le strutture
buone non si realizzano se si oppone l'egoismo anche di persone competenti.
Questo nostro lavoro, umile, quotidiano,
è fondamentale per arrivare ai grandi scopi dell'umanità. E dobbiamo lavorare
insieme su tutti i livelli. La Chiesa universale deve denunciare, ma anche
annunciare che cosa si può fare e come si può fare. Le conferenze episcopali e
i vescovi devono agire. Ma tutti dobbiamo educare alla giustizia. Mi sembra che
sia ancora oggi vero e realistico il dialogo di Abramo con Dio (Genesi, 18,
22-33), quando il primo dice: davvero distruggerai la città? forse ci sono
cinquanta giusti, forse dieci giusti. E dieci giusti sono sufficienti per far
sopravvivere la città. Ora, se mancano dieci giusti, con tutta la dottrina
economica, la società non sopravvive. Perciò dobbiamo fare il necessario per
educare e garantire almeno dieci giusti, ma se possibile molti di più. Proprio
con il nostro annuncio facciamo sì che ci siano tanti giusti, che sia realmente
presente la giustizia nel mondo.
Come effetto, i due livelli sono
inseparabili. Se, da una parte, non annunciamo la macrogiustizia quella micro
non cresce. Ma, d'altra parte, se non facciamo il lavoro molto umile della
microgiustizia anche quella macro non cresce. E sempre, come ho detto nella mia
prima Enciclica, con tutti i sistemi che possono crescere nel mondo, oltre la
giustizia che cerchiamo rimane necessaria la carità. Aprire i cuori alla
giustizia e alla carità è educare alla fede, è guidare a Dio.
5) Santo Padre, sono Don Marco
Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Ambrogio. Quando ero in formazione
non mi rendevo conto, come ora, dell'importanza della liturgia. Certamente le
celebrazioni non mancavano, ma non capivo molto come essa sia «il culmine verso
cui tende l'azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua energia»
(Sacrosanctum Concilium, 10). La consideravo, piuttosto, un fatto tecnico
per la buona riuscita di una celebrazione o una pratica pia e non piuttosto un
contatto con il mistero che salva, un lasciarsi conformare a Cristo per essere
luce del mondo, una fonte di teologia, un mezzo per realizzare la tanto
auspicata integrazione tra ciò che si studia e la vita spirituale. D'altro
canto pensavo che la liturgia non fosse strettamente necessaria per essere
cristiani o salvi e che bastasse sforzarsi di mettere in pratica le
Beatitudini. Ora mi chiedo cosa sarebbe la carità senza la liturgia e se senza
di essa la nostra fede non si ridurrebbe ad una morale, un'idea, una dottrina,
un fatto del passato e noi sacerdoti non sembreremmo più insegnanti o
consiglieri che mistagoghi che introducano le persone nel mistero. La stessa
Parola di Dio è un annuncio che si realizza nella liturgia e che con essa ha un
rapporto sorprendente: Sacrosanctum Concilium 6; Praenotanda del Lezionario 4 e 10. E pensiamo
anche al brano di Emmaus o del funzionario etiope (Atti, 8). Perciò arrivo alla
domanda. Senza nulla togliere alla formazione umana, filosofica, psicologica,
nelle università e nei seminari, vorrei capire se la nostra specificità non
richieda una maggiore formazione liturgica, oppure se l'attuale prassi e
struttura degli studi già soddisfino sufficientemente la Costituzione Sacrosanctum Concilium 16, quando dice che la liturgia va computata tra
le materie necessarie e più importanti, principali, e va insegnata sotto
l'aspetto teologico, storico, spirituale, pastorale e giuridico e che i
professori delle altre materie abbiano cura che la connessione con la liturgia
risulti chiara. Ho fatto tale domanda perché, prendendo spunto dal proemio del
decreto Optatam totius, mi sembra che le molteplici azioni della Chiesa
nel mondo e la nostra stessa efficacia pastorale, dipendano molto
dall'autocoscienza che abbiamo dell'inesauribile mistero del nostro essere
battezzati, crismati e sacerdoti.
R. Dunque, se ho capito bene, si tratta
della questione: quale sia, nell'insieme del nostro lavoro pastorale,
molteplice e con tante dimensioni, lo spazio e il luogo dell'educazione
liturgica e della realtà del celebrare il mistero. In questo senso, mi sembra,
è anche una questione sull'unità del nostro annuncio e del nostro lavoro
pastorale, che ha tante dimensioni. Dobbiamo cercare che cosa è il punto
unificante, affinché queste tante occupazioni che abbiamo siano tutte insieme
un lavoro del pastore. Se ho capito bene, lei è del parere che il punto
unificante, che crea la sintesi di tutte le dimensioni del nostro lavoro e
della nostra fede, potrebbe proprio essere la celebrazione dei misteri. E,
quindi, la mistagogia, che ci insegna a celebrare.
Per me è importante realmente che i
sacramenti, la celebrazione eucaristica dei sacramenti, non sia una cosa un po'
strana accanto a lavori più contemporanei come l'educazione morale, economica,
tutte le cose che abbiamo già detto. Può accadere facilmente che il sacramento
rimanga un po' isolato in un contesto più pragmatico e divenga una realtà non
del tutto inserita nella totalità del nostro essere umano. Grazie per la
domanda, perché realmente noi dobbiamo insegnare a essere uomo. Dobbiamo
insegnare questa grande arte: come essere un uomo. Questo esige, come abbiamo
visto, tante cose: dalla grande denuncia del peccato originale nelle radici
della nostra economia e nei tanti rami della nostra vita, fino a concrete guide
alla giustizia, fino all'annuncio ai non credenti. Ma i misteri non sono una
cosa esotica nel cosmo delle realtà più pratiche. Il mistero è il cuore dal
quale viene la nostra forza e al quale ritorniamo per trovare questo centro. E
perciò penso che la catechesi diciamo mistagogica è realmente importante.
Mistagogica vuol dire anche realistica, riferita alla vita di noi uomini di
oggi. Se è vero che l'uomo in sé non ha la sua misura — che cosa è giusto e che
cosa non lo è — ma trova la sua misura fuori di sé, in Dio, è importante che
questo Dio non sia lontano ma sia riconoscibile, sia concreto, entri nella
nostra vita e sia realmente un amico con il quale possiamo parlare e che parla
con noi. Dobbiamo imparare a celebrare l'Eucaristia, imparare a conoscere Gesù
Cristo, il Dio con il volto umano, da vicino, entrare realmente con Lui in
contatto, imparare ad ascoltarLo e imparare a lasciarLo entrare in noi. Perché
la comunione sacramentale è proprio questa interpenetrazione tra due persone.
Non prendo un pezzo di pane o di carne, prendo o apro il mio cuore perché entri
il Risorto nel contesto del mio essere, perché sia dentro di me e non solo
fuori di me, e così parli dentro di me e trasformi il mio essere, mi dia il
senso della giustizia, il dinamismo della giustizia, lo zelo per il Vangelo.
Questa celebrazione, nella quale Dio si
fa non solo vicino a noi, ma entra nel tessuto della nostra esistenza, è
fondamentale per poter realmente vivere con Dio e per Dio e portare la luce di
Dio in questo mondo. Non entriamo adesso in troppi dettagli. Ma è sempre
importante che la catechesi sacramentale sia una catechesi esistenziale.
Naturalmente, pur accettando e imparando sempre più l'aspetto misterico — là
dove finiscono le parole e i ragionamenti — essa è totalmente realistica,
perché porta me a Dio e Dio a me. Mi porta all'altro perché l'altro riceve lo
stesso Cristo, come me. Quindi se in lui e in me c'è lo stesso Cristo, anche
noi due non siamo più individui separati. Qui nasce la dottrina del Corpo di
Cristo, perché siamo tutti incorporati se riceviamo bene l'Eucaristia nello
stesso Cristo. Quindi il prossimo è realmente prossimo: non siamo due «io»
separati, ma siamo uniti nello stesso «io» di Cristo. Con altre parole, la
catechesi eucaristica e sacramentale deve realmente arrivare al vivo della
nostra esistenza, essere proprio educazione ad aprirmi alla voce di Dio, a
lasciarmi aprire perché rompa questo peccato originale dell'egoismo e sia
apertura della mia esistenza in profondità, tale che possa divenire un vero
giusto. In questo senso, mi sembra che tutti dobbiamo imparare sempre meglio la
liturgia, non come una cosa esotica, ma come il cuore del nostro essere
cristiani, che non si apre facilmente a un uomo distante, ma è proprio,
dall'altra parte, l'apertura verso l'altro, verso il mondo. Dobbiamo tutti
collaborare per celebrare sempre più profondamente l'Eucaristia: non solo come
rito, ma come processo esistenziale che mi tocca nella mia intimità, più che
ogni altra cosa, e mi cambia, mi trasforma. E trasformando me, dà inizio anche
alla trasformazione del mondo che il Signore desidera e per la quale vuol farci
suoi strumenti.
6) Beatissimo Padre, sono padre Lucio
Maria Zappatore, carmelitano, parroco della parrocchia di santa Maria Regina
Mundi, a Torrespaccata.
Per giustificare il mio intervento, mi
riallaccio a quanto lei ha detto domenica scorsa, durante la preghiera
dell'Angelus, a
proposito del ministero petrino. Lei ha parlato del ministero singolare e
specifico del vescovo di Roma, il quale presiede alla comunione universale
della carità. Io le chiedo di continuare questa riflessione allargandola alla
Chiesa universale: qual è il il carisma singolare della Chiesa di Roma e quali
sono le caratteristiche che fanno, per un dono misterioso della Provvidenza,
unica al mondo? L'avere come vescovo il Papa della Chiesa universale, cosa
comporta nella sua missione, oggi in particolare? Non vogliamo conoscere i
nostri privilegi: una volta si diceva: Parochus in urbe, episcopus in orbe; ma
vogliamo sapere come vivere questo carisma, questo dono di vivere come preti a
Roma e cosa si aspetta lei da noi parroci romani.
Fra pochi giorni lei si recherà al
Campidoglio per incontrare le autorità civili di Roma e parlerà dei problemi
materiali della nostra città: oggi le chiediamo di parlare a noi dei problemi
spirituali di Roma e della sua Chiesa. E, a proposito della sua visita al
Campidoglio, mi sono permesso di dedicarle un sonetto in romanesco, chiedendole
la compiacenza di ascoltarlo.
Er Papa che salisce al Campidojo / è
un fatto che te lassa senza fiato / perchè 'sta vortas sòrte for dar sojo, / pe
creanza che tiè 'n bon vicinato. / Er sindaco e la giunta con orgojo / jànno
fatto 'n invito , er più accorato, / perchè Roma, se sà, vojo o nun vojo /nun
po' fa' proprio a meno der papato. / Roma, tu ciài avuto drento ar petto / la
forza pè portà la civirtà. / Quanno Pietro t'ha messo lo zicchetto / eterna Dio
t'ha fatto addiventà. / Accoji allora er Papa Benedetto / che sale a beneditte
e a ringrazià!
R. Grazie. Abbiamo sentito parlare il
cuore romano, che è un cuore di poesia. È molto bello sentir parlare un po' in
romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano.
Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani. È un
carisma naturale che precede quelli ecclesiali.
La sua domanda, se ho capito bene, si
compone di due parti. Anzitutto, cosa è la responsabilità concreta del vescovo
di Roma oggi. Ma poi lei estende giustamente il privilegio petrino a tutta la
Chiesa di Roma — così era considerato anche nella Chiesa antica — e chiede
quali siano gli obblighi della Chiesa di Roma per rispondere a questa sua
vocazione.
Non è necessario sviluppare qui la
dottrina del primato, la conoscete tutti molto bene. Importante è soffermarci
sul fatto che realmente il Successore di Pietro, il ministero di Pietro,
garantisce l'universalità della Chiesa, questa trascendenza di nazionalismi e
di altre frontiere che esistono nell'umanità di oggi, per essere realmente una
Chiesa nella diversità e nella ricchezza delle tante culture.
Vediamo come anche le altre comunità
ecclesiali, le altre Chiese avvertano il bisogno di un punto unificante per non
cadere nel nazionalismo, nell'identificazione con una determinata cultura, per
essere realmente aperti, tutti per tutti e per essere quasi costretti ad
aprirsi sempre verso tutti gli altri. Mi sembra che questo sia il ministero
fondamentale del Successore di Pietro: garantire questa cattolicità che implica
molteplicità, diversità, ricchezza di culture, rispetto delle diversità e che,
nello stesso tempo, esclude assolutizzazione e unisce tutti, li obbliga ad
aprirsi, ad uscire dall'assolutizzazione del proprio per trovarsi nell'unità
della famiglia di Dio che il Signore ha voluto e per la quale garantisce il
Successore di Pietro, come unità nella diversità.
Naturalmente la Chiesa del Successore di
Pietro deve portare, con il suo vescovo, questo peso, questa gioia del dono
della sua responsabilità. Nell'apocalisse il vescovo appare infatti come angelo
della sua Chiesa, cioè un po' come l'incorporazione della sua Chiesa, alla
quale deve rispondere l'essere della Chiesa stessa. Quindi la Chiesa di Roma,
insieme con il Successore di Pietro e come sua Chiesa particolare, deve
garantire proprio questa universalità, questa apertura, questa responsabilità
per la trascendenza dell'amore, questo presiedere nell'amore che esclude particolarismi.
Deve anche garantire la fedeltà alla Parola del Signore, al dono della fede,
che non abbiamo inventato noi ma che è realmente il dono che solo da Dio stesso
poteva venire. Questo è e sarà sempre il dovere, ma anche il privilegio, della
Chiesa di Roma, contro le mode, contro i particolarismi, contro
l'assolutizzazione di alcuni aspetti, contro eresie che sono sempre
assolutizzazioni di un aspetto. Anche il dovere di garantire l'universalità e
la fedeltà all'integralità, alla ricchezza della sua fede, del suo cammino
nella storia che si apre sempre al futuro. E insieme con questa testimonianza
della fede e dell'universalità, naturalmente deve dare l'esempio della carità.
Così ci dice sant'Ignazio, identificando
in questa parola un po' enigmatica, il sacramento dell'Eucaristia, l'azione
dell'amare gli altri. E questo, per tornare al punto precedente, è molto
importante: cioè questa identificazione con l'Eucaristia che è agape, è carità,
è la presenza della carità che si è donata in Cristo. Deve sempre essere
carità, segno e causa di carità nell'aprirsi verso gli altri, di questo donarsi
agli altri, di questa responsabilità verso i bisognosi, verso i poveri, verso i
dimenticati. Questa è una grande responsabilità.
Al presiedere nell'Eucaristia segue il
presiedere nella carità, che può essere testimoniata solo dalla comunità
stessa. Questo mi sembra il grande compito, la grande domanda per la Chiesa di
Roma: essere realmente esempio e punto di partenza della carità. In questo
senso è presidio della carità.
Nel presbiterio di Roma siamo di tutti i
continenti, di tutte le razze, di tutte le filosofie e di tutte le culture.
Sono lieto che proprio il presbiterio di Roma esprima l'universalità,
nell'unità della piccola Chiesa locale la presenza della Chiesa universale. Più
difficile ed esigente è essere anche e realmente portatori della testimonianza,
della carità, dello stare tra gli altri con il nostro Signore. Possiamo solo
pregare il Signore che ci aiuti nelle singole parrocchie, nelle singole comunità,
e che tutti insieme possiamo essere realmente fedeli a questo dono, a questo
mandato: presiedere la carità.
7) Santo Padre, sono padre Guillermo
M. Cassone, della comunità dei padri di Schoenstatt a Roma, vicario
parrocchiale nella parrocchia dei santi Patroni d'Italia, San Francesco e Santa
Caterina, in Trastevere.
Dopo il Sinodo sulla Parola di Dio, riflettendo sulla Proposizione 55, «Maria Mater Dei et Mater fidei», mi sono
chiesto come migliorare il rapporto fra la Parola di Dio e la pietà mariana,
sia nella vita spirituale sacerdotale e sia nell'azione pastorale. Due immagini
mi aiutano: l'annunciazione per l'ascolto, e la visitazione per l'annuncio.
Vorrei chiederle, Santità, di illuminarci con il suo insegnamento su questo
tema. La ringrazio per questo dono.
R. Mi sembra che lei ci abbia dato anche
la risposta alla sua domanda. Realmente Maria è la donna dell'ascolto: lo
vediamo nell'incontro con l'Angelo e lo rivediamo in tutte le scene della sua
vita, dalle nozze di Cana, fino alla croce e fino al giorno di Pentecoste,
quando è in mezzo agli apostoli proprio per accogliere lo Spirito. È il simbolo
dell'apertura, della Chiesa che attende la venuta dello Spirito Santo.
Nel momento dell'annuncio possiamo
cogliere già l'atteggiamento dell'ascolto — un ascolto vero, un ascolto da
interiorizzare, che non dice semplicemente sì, ma assimila la Parola, prende la
Parola — e poi far seguire la vera obbedienza, come se fosse una Parola
interiorizzata, cioè divenuta Parola in me e per me, quasi forma della mia
vita. Questo mi sembra molto bello: vedere questo ascolto attivo, un ascolto
cioè che attira la Parola in modo che entri e diventi in me Parola,
riflettendola e accettandola fino all'intimo del cuore. Così la Parola diventa
incarnazione.
Lo stesso vediamo nel Magnificat.
Sappiamo che è un tessuto fatto di parole dell'Antico Testamento. Vediamo che
Maria realmente è una donna di ascolto, che conosceva nel cuore la Scrittura.
Non conosceva solo alcuni testi, ma era così identificata con la Parola che le
parole dell'Antico Testamento diventano, sintetizzate, un canto nel suo cuore e
nelle sua labbra. Vediamo che realmente la sua vita era penetrata della Parola;
era entrata nella Parola, l'aveva assimilata ed era divenuta vita in sé,
trasformandosi poi di nuovo in Parola di lode e di annuncio della grandezza di
Dio.
Mi sembra che san Luca, riferendosi a
Maria, dica almeno tre volte, forse quattro volte, che ha assimilato e
conservato nel suo cuore le Parole. Era, per i Padri, il modello della Chiesa,
il modello del credente che conserva la Parola, porta in sé la Parola; non solo
la legge, la interpreta con l'intelletto per sapere cosa è stata in quel tempo,
quali sono i problemi filologici. Tutto questo è interessante, importante, ma è
più importante sentire la Parola che va conservata e che diventa Parola in me,
vita in me e presenza del Signore. Perciò mi sembra importante il nesso tra
mariologia e teologia della Parola, del quale anche hanno parlato i Padri
sinodali e del quale parleremo nel documento post-sinodale.
È ovvio: Madonna è parola dell'ascolto,
parola silenziosa, ma anche parola della lode, dell'annuncio, perché la Parola
nell'ascolto diventa di nuovo carne e diventa così presenza della grandezza di
Dio.
8) Santo Padre, sono Pietro Riggi e
sono un salesiano che opera al Borgo ragazzi Don Bosco, le volevo chiedere: il Concilio Vaticano II ha portato tante importantissime novità nella
Chiesa, ma non ha abolito le cose che già vi erano. Mi sembra che diversi
sacerdoti o teologi vorrebbero far passare come spirito del Concilio ciò che
invece non c'entra con il Concilio stesso. Ad esempio le indulgenze. Esiste il
Manuale delle indulgenze della Penitenzieria apostolica, attraverso le
indulgenze si attinge al tesoro della Chiesa e si possono suffragare le anime
del Purgatorio. Esiste un calendario liturgico in cui si dice quando e come si
possono lucrare le indulgenze plenarie, ma tanti sacerdoti non ne parlano più,
impedendo di fare arrivare suffragi importantissimi alle anime del Purgatorio.
Le benedizioni. Vi è il Manuale delle benedizioni in cui si prevede la
benedizione di persone, ambienti, oggetti e prefino di alimenti. Ma molti
sacerdoti sconoscono queste cose, altri le ritengono preconciliari, così
mandano via quei fedeli che chiedono quello che per diritto dovrebbero avere.
Le pratiche di pietà più conosciute. I
primi venerdì del mese non sono stati aboliti dal Concilio Vaticano II, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, oppure,
addirittura, ne parlano male. Oggi vi è un senso di avversione a tutto questo,
perché le vedono antiche e dannose, come cose vecchie e preconciliari, mentre
ritengo che tutte queste preghiere e pratiche cristiane sono attualissime e
molto importanti, che vanno riprese e spiegate adeguatamente al Popolo di Dio,
nel sano equilibrio e nella verità a completezza del Vaticano II.
Volevo anche chiederle: una volta lei
parlando di Fatima ha detto che vi è un legame tra Fatima e Akita, le
lacrimazioni della Madonna in Giappone. Sia Paolo VI che Giovanni Paolo II hanno celebrato a Fatima una messa solenne ed
hanno utilizzato lo stesso brano della sacra Scrittura, Apocalisse 12, la donna
vestita di sole che lotta una battaglia decisiva contro il serpente antico, il
diavolo, satana. C'è affinità tra Fatima e Apocalisse 12?
Concludo: l'anno scorso un sacerdote
le ha regalato un quadro, io non so dipingere ma volevo anch'io farle un
regalo, così ho pensato di farle dono di tre libri che ho scritto di recente,
spero che le piacciano.
R. Sono realtà delle quali il Concilio non ha parlato, ma che suppone come realtà nella
Chiesa. Esse vivono nella Chiesa e si sviluppano. Adesso non è il momento per
entrare nel grande tema delle indulgenze. Paolo VI ha riordinato questo tema e ci indica il filo per capirlo. Direi che si
tratta semplicemente di uno scambio di doni, cioè quanto nella Chiesa esiste di
bene, esiste per tutti. Con questa chiave dell'indulgenza possiamo entrare in
questa comunione dei beni della Chiesa. I protestanti si oppongono affermando
che l'unico tesoro è Cristo. Ma per me la cosa meravigliosa è che Cristo — il
quale realmente è più che sufficiente nel suo amore infinito, nella sua
divinità e umanità — voleva aggiungere, a quanto ha fatto lui, anche la nostra
povertà. Non ci considera solo come oggetti della sua misericordia, ma ci fa
soggetti della misericordia e dell'amore insieme con Lui, quasi che — anche se
non quantitativamente, almeno in senso misterico — ci volesse aggiungere al
grande tesoro del corpo di Cristo. Voleva essere il Capo con il corpo. E voleva
che con il corpo fosse completato il mistero della sua redenzione. Gesù voleva
avere la Chiesa come suo corpo, nel quale si realizza tutta la ricchezza di
quanto ha fatto. Da questo mistero risulta proprio che esiste un tesaurus
ecclesiae, che il corpo, come il capo, dona tanto e noi possiamo avere
l'uno dall'altro e possiamo donare l'uno all'altro.
E così vale anche per le altre cose. Per
esempio, i venerdì del sacro Cuore: è una cosa molto bella nella Chiesa. Non
sono cose necessarie, ma cresciute nella ricchezza della meditazione del
mistero. Così il Signore ci offre nella Chiesa queste possibilità. Non mi
sembra adesso il momento di entrare in tutti i dettagli. Ognuno può più o meno
capire cosa è meno importante di un'altra; ma nessuno dovrebbe disprezzare
questa ricchezza, cresciuta nei secoli come offerta e come moltiplicazione
delle luci nella Chiesa. Unica è la luce di Cristo. Appare in tutti i suoi
colori e offre la conoscenza della ricchezza del suo dono, l'interazione tra
capo e corpo, l'interazione tra le membra, così che possiamo essere veramente
insieme un organismo vivente, nel quale ognuno dona a tutti, e tutti donano il
Signore, il quale ci ha donato tutto se stesso.
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