DON CARLO
GNOCCHI
(1902- 1956)
Perfino i compagni di seminario dicevano che Carlo Gnocchi era “un prete nato”, e non solo nel senso che mostrava una particolare inclinazione alla preghiera e ai valori dello spirito, ma perché lo vedevano interamente proteso alla missione che lo attendeva: capace di donarsi a Dio e agli uomini, interessato allo studio delle materie letterarie e teologiche (diventerà tra l’altro un eccellente scrittore), appassionato di arte, di musica e di alpinismo, ma soprattutto dotato di uno sguardo positivo e accogliente –pur senza complicità alcuna– nei riguardi del mondo.
Non erano tempi facili quelli tra le due guerre mondiali: i preti erano particolarmente malvisti. “Erano anni – racconterà poi il Card. Giovanni Colombo che fu compagno di seminario di Gnocchi – in cui una veste talare non poteva comparire in pubblico senza essere insultata”. Se a ciò si aggiunge l’educazione piuttosto rigida e chiusa allora impartita nei seminari, si capisce come tutto l’insieme non facilitava, nei giovani sacerdoti, la capacità di dialogo e di simpatia nei riguardi di coloro che pur dovevano evangelizzare.
Era facile che i preti assumessero atteggiamenti di reazione e di difesa.
Gnocchi sembrava invece che
avesse “il dono particolare di capire gli
uomini in mezzo ai quali viveva o doveva vivere”: sentiva che era giunto il
tempo di un nuovo dialogo: “nuova
apologetica, nuovo affetto, nuova manifestazione”.
Con queste premesse divenne un prete particolarmente amato dai ragazzi e dai giovani, e ricco di iniziative a loro favore.
Passarono così, nella costruzione e animazione di fiorenti oratori parrocchiali, i suoi primi dieci anni di sacerdozio.
Nel 1936, il santo Card. Schuster lo nomina direttore spirituale del prestigioso Istituto Gonzaga: circa mille allievi, dalle elementari alle medie superiori, e Don Carlo diventa così un educatore, anche dal punto di vista della preparazione culturale: s’interessa di pedagogia, studia e legge tutto ciò che riesce a trovare sull’argomento, poi entra autorevolmente nel dibattito con scritti suoi.
Nel 1937 pubblica “Educazione del cuore, dall’infanzia al matrimonio” .
“C’è troppo panico – scrive – nel campo degli educatori cattolici. Di fronte a un mondo che sfoggia tutta la falsa e inebriante opulenza della vita, molti si impoveriscono, si rannicchiano nel proprio guscio, e si abbandonano alle geremiadi e alle invettive”.
Parla di “ristagno educativo”; spiega che, se gli educatori cristiani continueranno a lamentarsi e a isolarsi, i giovani scapperanno a gambe levate; insiste che tutta l’età giovanile è un dramma d’amore che dev’essere approfondito e dilatato coinvolgendo tutti gli interessi dei ragazzi.
Intanto il Cardinale gli affida anche la guida spirituale degli Universitari, soprattutto di quelli della “Cattolica”.
Nel 1939 gli muore la mamma. Ed è per lui un evento di importanza capitale, perché così resta assolutamente solo al mondo.
Bisogna qui ricordare che il papà era morto di silicosi (faceva il marmista) quando Carlo non aveva ancora cinque anni, e che gli erano già morti di tubercolosi due fratelli maggiori: uno ancora adolescente, l’altro a vent’anni.
Sono dati biografici importanti, perché è su questa situazione (e non su pretese simpatie fasciste) che si radica la decisione di Don Gnocchi di arruolarsi volontario, come cappellano militare sul fronte greco-albanese, quando l’Italia entra in guerra, il 10 giugno 1940.
«Quando è morta mia madre – racconterà lui stesso a un suo giovane confratello – non ho più avuto il coraggio di entrare nella casa (dove viveva la mamma, N.d.R.). Mi sono sentito solo. L’unico frammento di casa erano i miei giovani. Quando loro sono stati mobilitati per la Grecia, il Signore mi ha fatto capire che l’unica mia casa era là dove andavano loro».
Quell’anno universitario infatti è stato chiuso anticipatamente, e molti dei suoi “ragazzi” sono stati chiamati alle armi.
Comincia la sua vicenda con gli
alpini, di cui ammira profondamente la dedizione e la capacità di
sacrificio: «L’eroico è per loro normale.
Lo straordinario è ordinario... Potessi imparare anch’io dai miei alpini questa
virtù sublime: di rendere naturale e quasi inavvertito il sacrificio!».
Dice di sentirsi “umiliato” davanti alla generosità dei suoi ragazzi, ma lui rischia la vita anche per i nemici: quando vede cadere davanti a sé il tenente del reparto che li ha attaccati, si getta tra le pallottole e mette in salvo il ferito.
Nel 1941 torna in patria, profondamente disgustato dagli orrori che ha visto accadere dopo la conclusione della campagna di Grecia, contro i civili.
Nel 1942 viene richiamato per la campagna di Russia come cappellano della Divisione Tridentina attestata sul Don.
Quando venne l’inverno fu l’orrore. E si cominciò a parlare di ritirata. Accogliendo e confortando un giovane cappellano, in crisi spirituale per quell’inferno voluto dagli uomini, Don Carlo gli disse: «Stiamo vivendo lo sgomento della vigilia di un ripiegamento. Le prospettive sono spaventose... Chi ci può aiutare, se non il Signore? Ma chi lo può rendere presente tra questi ragazzi se non la nostra fede, la nostra speranza, e la nostra carità?».
Il dramma si mutò in tragedia quando, il 17 gennaio del 1943, la Divisione ricevette l’ordine di sganciarsi dal nemico e di ritirarsi: significò dover ripiegare per settecento chilometri, spezzando per undici volte il cerchio di ferro che i russi sempre di nuovo stringevano loro intorno, marciando per diciassette giorni e spesso anche di notte, con una temperatura di 40 gradi sotto zero, quasi senza viveri e con scarse munizioni.
Più tardi, Don Carlo racconterà l’immane sventura, che costò 85.000 morti, in un suo libro intitolato: Cristo tra gli alpini.
Scrisse: «Ho visto l’uomo nudo... spogliato di ogni ritegno e convinzione, in totale balìa degli istinti più elementari...»: un pezzo di pane conteso a colpi di baionetta, il calcio dei fucili che si abbatteva sulle mani dei feriti che tentavano di aggrapparsi alle slitte stracariche, il posto al riparo nell’isba ottenuto uccidendo il commilitone arrivato per primo.
E anche quando non c’era l’orrore
degli istinti scatenati, c’era quello dell’impotenza assurda: «Impossibilità di soccorrere, non avere più
una benda per una ferita, non avere più la forza di stendere la mano a un
compagno che si trascina carponi dietro la colonna, un po’ d’acqua per un
morente, un pezzo di pane per un
esausto, e –peggio ancora– non avere
neppure più la facoltà di commuoversi e di soffrire... Nulla è più
agghiacciante di questo impietramento e
quasi morte interiore...».
Eppure, si assisteva anche a prodigi di fede e di carità che facevano diga all’orrore: tutti sapevano che restare in colonna era quasi l’unica speranza di sopravvivere, e bisognava rendersi sordi all’invocazione dei feriti che non volevano morire soli. A rischiare continuamente la vita, fermandosi presso i morenti, era Don Carlo, anch’egli sfinito.
Perse così una giornata di marcia rispetto alla colonna degli italiani e finì, guardato con sospetto, tra soldati ungheresi ugualmente disfatti che lo lasciarono morire, svenuto di stanchezza sulla neve. Lo salvò per caso –non si sa come– una slitta di italiani che giungeva in forte ritardo.
Racconterà però d’essere sempre rimasto assieme a “un compagno invisibile”: Cristo.
A Cristo dedicherà pagine di ardore mistico, descrivendo il Cappellano (cioè, lui stesso) che marcia in mezzo ai suoi alpini portando però con sé Gesù Eucaristia: pagine che sembrerebbero letteratura, se non descrivessero l’esperienza personale di quest’umile prete:
«Quando, nelle notti passate all’addiaccio, immense e rotte dagli incubi, hai la fortuna di portare Cristo, Egli ti si addormenta leggermente sul cuore e –senza irriverenza– ti vien fatto di pensare al privilegio incomparabile della Vergine Maria... Ed è Lui, e non, come credi, il colpo di fucile solitario e quasi sacrilego, che ti sveglia all’aurora... E non hai spesso “sentito” che, al cadere dell’interminabile giorno, anche il tuo invisibile e presente Compagno accusava la tua stessa fatica e quella dei tuoi soldati...? Non ti è forse avvenuta nella allucinazione della stanchezza e nella luce spettrale del tramonto, la felice e breve illusione di sorprendere, con un tuffo dolce e acuto del sangue, la figura di Lui, piegata sotto lo zaino affardellato, e ugualmente incolonnata nella lenta teoria degli alpini?».
E racconta dell’ufficiale che passando frettoloso gli chiede:
– «Hai il Signore?»
– «Sì».
– «Dammelo da baciare».
Commenta: «Così vai, e non sai bene se sia Egli che porta te o tu che porti Lui».
Fu proprio mentre marciava, tra tante orribili disgrazie, ma sempre in compagnia della grazia del suo Cristo, che cominciò ad intuire la svolta necessaria che la sua vita avrebbe avuto.
Il fatto è che tra tutte le immagini di indicibile sofferenza che ogni giorno era costretto a contemplare, una soprattutto gli si imprimeva nell’anima: erano gli occhi disperati di chi non ce la faceva più a proseguire.
«Un mese di marce e di combattimenti. Ridotti a larve umane, gli occhi
di febbre, le barbe incolte, le coperte in
capo, stracci ai piedi e bastoni tra le mani. Taglieggiati dal cielo e
dalla terra. “In via di annientamento”,
come dicevano con atroce efficacia i bollettini russi di quei giorni.
E molti andavano lentamente alla deriva di quella marea scomposta di sbandati, uscivano barcollando ai
margini delle colonne, perdevano terreno, si accasciavano lungo le piste, si
rialzavano ebbri di freddo, di stanchezza, di fame, per trascinarsi ancora un
poco (qualcuno a quattro mani, come gli animali!) e poi si abbandonavano perdutamente alla neve... Ma quei loro
occhi d’angoscia impotente, come potrò dimenticarli? Gli occhi allucinati e
imploranti, coi quali, accasciati per terra, seguivano la colonna dei
superstiti dilungarsi funerea e senza speranza verso l’orizzonte lontano e
indifferente, verso la patria, verso la libertà, verso la casa...».
Don Carlo porterà con sé, dalla Russia, due ricordi di cui non riuscirà a liberarsi mai più perché vi riconoscerà sempre una indicazione di Dio.
Anzitutto: «Ho sempre nel cuore, fermi, aperti, pungenti, gli occhi dei miei
morti».
Poi anche la responsabilità delle parole di conforto con cui li aveva lasciati.
«Chi penserà ai miei figli?» gli avevano detto spesso piangendo i morenti. E Don Carlo aveva risposto: «Ci penserò io».
Altre volte aveva detto: «Ci penserà la Provvidenza», ma le cose non cambiavano, perché –si diceva– «adesso bisogna dare alla Provvidenza nome e cognome».
Comincerà a sentirsi un po’ acquietato solo il giorno in cui avrà raccolto in una delle sue case i primi cinquanta orfani dei suoi alpini. Allora, al vedere quei poveri bimbi dormienti, sprofondati nei loro bianchi e soffici lettini, gli parrà d’avere dato un po' di conforto ai suoi alpini affondati tra la neve.
«Lo sguardo dei miei perduti ho sempre portato desto e conturbante
nell’anima, fino a pochi giorni or sono, soffrendone come di un debito insoluto
verso la morte, sostenendone il peso come di una oscura colpa personale. Ma ora
non più. L’altra sera, una chiara e
fredda sera invernale, spazzata dal
vento, i miei piccoli, gli orfani dei
miei alpini, dormivano tutti naufragati nei grandi letti bianchi... E i miei
morti finalmente riposavano in pace».
Spesso, quando si parla di coloro che sono sopravvissuti a un qualche orrore, si dice che essi non riescono a perdonarsi il fatto di vivere, e trascinano gli anni in un insopprimibile e impotente senso di colpa. Don Carlo ha mostrato che c’è infatti un solo modo di sopravvivere con dignità: consacrare la vita ad amare ciò che i caduti hanno amato.
Tornò dunque in Italia, a guerra finita, e lui stesso non sapeva come avesse fatto a sopravvivere. E tornò deciso a “buttarsi allo sbaraglio” su quella che chiamava “la frontiera della vita”.
La situazione in patria era tale che egli ebbe l’impressione di essere di nuovo accerchiato: sentiva fino in fondo all’anima il dovere di denunciare gli orrori della guerra, e di opporsi ai resti della dittatura nazi-fascista, ma in quell’epoca bastava questo perché i rossi pretendessero a forza di arruolarti tra le loro file, come se fosse necessario scegliere tra due mali.
Entrò comunque nella resistenza, dedicandosi, assieme a un confratello più giovane, al salvataggio di ebrei, di rifugiati, di ricercati politici, procurando loro documenti falsi e guidandoli nella fuga verso la Svizzera.
Quando arrestarono il giovane
prete suo collaboratore, che stava cercando di salvare due ebrei, gli disse: “Ora siamo amici davvero”.
Dopo un po’ arrestarono anche lui e lo rinchiusero a S. Vittore. Venne liberato solo per l’intervento del Card. Schuster.
I fatti di piazzale Loreto (l’uccisione del Duce, di Claretta Petacci, e di alcuni gerarchi e l’oltraggio ai cadaveri), a cui si trovò costretto ad assistere, lo disgustarono: «Mi è costato di più che la campagna di Russia», disse.
Intanto sogna sempre la sua missione che comincia ad avviarsi quando si fa nominare cappellano e Direttore dell’ Istituto Grandi Invalidi di Guerra di Arosio, un’opera risalente alla prima guerra mondiale, non molto efficiente.
Sistema un’ala della casa, e comincia a raccogliere mutilatini. Il primo, un piccino senza gambe, lo trova che gioca per terra tra le baracche dei sinistrati di Via Argonne.
Quando lo prende in braccio sa che la sua missione è cominciata. Da allora sarà “Don Carlo dei mutilatini”.
Comincia ad accogliere anche gli orfani dei suoi Alpini, ma anche quelli dei fascisti repubblichini uccisi dai partigiani.
A chi fa delle rimostranze
ribatte: «I bambini sono tutti uguali, e
non devono pagare per le colpe dei padri!».
Gira tra paesi, fino nei villaggi di montagna, a rintracciare i bambini orfani e mutilati, su una vecchia motoretta, finché non chiede alla Fiat una giardinetta a prezzo di favore. Gliela regalano, perché già comincia a spargersi la voce di ciò che quel prete va realizzando.
Ed esige aiuti dal Governo.
La situazione in Italia era allora paradossale: per gli orfani erano previsti sussidi dello Stato, ma i mutilatini non rientravano in nessuna delle categorie previste: eppure i bambini gravemente segnati dalla guerra erano circa 15.000, la maggior parte destinati all’accattonaggio.
E c’erano inoltre, in quel dopo guerra, centinaia e centinaia di bambini che si ferivano ancora giocando con ordigni bellici che trovavano nei prati e nei fossi: almeno duemila vittime tra la fine della guerra e il 1952, senza che né il governo né la scuola facessero nulla per sensibilizzare le famiglie al problema.
Bisognerà aspettare la denuncia
contenuta in un bel documentario di De Sica e Zavattini (intitolato «I bambini ci giocano»), perché gli italiani comincino a prendere
coscienza di ciò che Don Gnocchi andava da tempo gridando: «La
guerra continua, e continuerà sino al giorno in cui resterà sepolto nella terra
uno solo dei terribili ordigni seminati su tutte le strade d’Europa».
Ma il problema dei “piccoli mutilati” non riusciva ad avere la giusta risonanza.
Allora, unendo assieme carità e fantasia, Don Carlo immagina una strana manifestazione internazionale: un monoplano da 125 cavalli cercherà di battere il record mondiale di volo senza scalo attraversando l’Atlantico per portare ai nostri emigrati il messaggio dei mutilatini.
L’aereo, che si chiama “l’Angelo dei bimbi”, farà tappa prima a Madrid e poi a Dakkar e da qui spiccherà il volo per la traversata dell’oceano, atterrerà a Porto Natal in Brasile, e poi toccherà Rio de Janeiro, San Paolo e Buenos Aires..
.
Don Carlo trova i piloti, i finanziatori dell’impresa e ottiene il patrocinio dell’ACI, del Rotary, del Touring Club, e la collaborazione della RAI.
Le associazioni di industriali
e commercianti danno il loro contributo
e dovunque a Milano si vendono le relative cartoline-ricordo.
Il record è battuto e il piccolo aereo viene accolto trionfalmente. Quando giunge a Buenos Aires la folla nel suo entusiasmo si impadronisce di un ala, e il monoplano malridotto viene solennemente collocato nel museo nazionale della capitale argentina.
Così, tra articoli di giornali e ricevimenti trionfali, il problema dei mutilatini ebbe finalmente risonanza nazionale e internazionale, anche se economicamente i risultati furono inferiori al previsto.
Bisogna anche dire che Don Gnocchi non voleva solo quel che bastava ad aprire le solite case di assistenza, come già facevano altri istituti religiosi.
La cambiale che lui aveva firmato in bianco, davanti ai suoi alpini morenti, esigeva tutto. Diceva che gli altri assistevano «la vita che c’era», mentre lui si era impegnato a recuperare e intensificare «anche la vita che non c’era», ricercando e valorizzando «tutti i frammenti di vita».
Intendeva dire che a servizio dei suoi mutilatini voleva non solo la carità (che ospita, nutre, e fa crescere col suo calore), ma anche la scienza con tutte le sue possibilità: medicina, chirurgia, ortopedia, fisioterapia dovevano dare il loro contributo perché quelle vite fossero recuperate nella maniera più alta possibile e in tutte le manifestazioni.
Voleva anche laboratori di ricerca, scuole, possibilità di reinserire i ragazzi disabili nel vivo della società.
E questa era solo la prima parte del progetto, quella per così dire naturale, ma essa doveva procedere di pari passo e bene intrecciata con quella soprannaturale, e senza soluzione di continuità.
Ciò che i teologi elaboravano in quegli anni nelle loro scuole (l’insegnamento cioè che natura e soprannatura sono sì distinte tra loro, ma ambedue fanno parte indissolubilmente dell’unico ordine soprannaturale, voluto da Dio) Don Carlo lo intuiva e lo applicava praticamente quando pensava la sua opera e ne immaginava la realizzazione.
Diceva che era suo compito “dedicarsi alla vita, ad ogni briciolo di vita, ad ogni forma di vita, sia sul piano naturale che su quello soprannaturale”.
L’aspetto soprannaturale riguardava soprattutto questa sua profonda convinzione: il dolore degli uomini deve essere tutto convogliato verso il dolore redentivo di Cristo; solo in questo modo esso diventa salvifico, acquista senso e non va perduto.
E tuttavia non tutto il dolore è uguale: ciò che vale per ogni sofferenza umana – perché in essa c’è sempre qualcosa di sacro – vale infinitamente di più per il dolore innocente, il dolore dei piccoli, appunto, che soffrono per le colpe degli altri.
Don Gnocchi si serviva di una
immagine impressionante per la sua vivezza, quando scriveva: «Direi –se mi si passa la crudezza del riferimento alla trasfusione
fisica del sangue – che non ogni sangue umano è del gruppo fisico di quello di
Cristo».
Intendeva dire che tutto il sangue degli uomini, una volta sparso, confluisce “nel fiume redentore del sangue di Cristo”, ma che il sangue degli innocenti è un’altra cosa: è un sangue più simile a quello di Gesù, proprio perché sparso da chi non ha colpe personali da espiare.
Il sangue degli innocenti insomma è sangue di piccoli agnelli, simile a quello di Gesù che noi, appunto, invochiamo con le parole: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi”.
Don Carlo aveva trovato negli scritti di S. Francesco di Sales una antica tenera leggenda e la raccontava volentieri per spiegare il suo pensiero.
Narrava dunque il Santo che anticamente si credeva esistesse un piccolo uccello capace di guarire l’uomo dalla itterizia:
“Quando un malato di questo male si stende sotto un albero in preda al suo dolore, allora il piccolo
volatile si mette a guardarlo intensamente e ne prova tanta compassione che le
sue penne cominciano a prendere il colore triste di quella malattia, mentre a
poco a poco si va sbiancando la pelle dell’uomo malato; e quando costui ha
riacquistato la bianchezza della salute, allora l’uccellino intona un
canto di mesto saluto, e va a morire
lontano, per non essere visto da alcuno”.
La favola che S. Francesco di Sales aveva applicato a Gesù, Don Gnocchi la applicava anche ai suoi mutilatini che soffrivano e morivano per aver assorbito il nostro male.
Ma anche questa vita soprannaturale dei suoi piccoli malati non doveva essere sciupata, ma potenziata e fatta crescere.
Chiedeva: «Di questa massa di dolore innocente, così intima, così pura, quanta
parte è andata a Cristo e all’umanità? E quanta parte, al contrario, è andata perduta, perché nessuno si è curato
adeguatamente di indirizzarla verso la sua meta naturale che è Cristo?».
Non occorre che siamo noi a spiegare come ciò debba accadere, perché Don Gnocchi ha lasciato il racconto della sua personale esperienza:
«Dopo lo scoppio della bomba, Marco, l’unico superstite dei quattro
bambini che ignari e spensierati giocavano
su di un campo minato, era stato immediatamente sottoposto
all’intervento chirurgico: amputazione delle gambe, estrazione del bulbo
oculare e regolarizzazione delle vaste ferite che ne crivellavano il fragile
corpo palpitante.
Lo vidi qualche tempo dopo l’operazione, quando ancora le medicazioni quotidiane lo facevano
tanto soffrire e gli domandai: “Quando ti strappano le bende, ti frugano nelle
ferite e ti fanno piangere, a chi
pensi?”. “A nessuno”, mi rispose con una punta di meraviglia nella voce.
Ma tu non credi che ci sia qualcuno a cui potresti offrire il tuo dolore, per
amore del quale tu dovresti reprimere i lamenti e inghiottire le lacrime, e che
potrebbe aiutarti a sentire meno il tuo dolore?».
Ma il bambino continuava a non capire. E Don Carlo comprese che gli educatori non facevano bene il loro lavoro.
Basta riflettere: non si trattava di chiedere al bambino una forza d’animo disumana; si trattava di dare significato a ciò che comunque tutti chiedevano loro.
Ai piccoli martoriati tutti dicevano, sempre e comunque, di farsi forza, di avere pazienza, di non piangere, ecc. ecc. Nessun adulto sta accanto a un bambino dolorante senza dirgli queste e altre simili parole con cui vorrebbe confortarlo.
A volte –notava Don Carlo– certi adulti ricorrevano “ad autentiche fandonie e fanfaluche per calmare, distrarre o illudere il dolore dei bimbi” .
Certo nessuno può pretendere di spiegare a un bambino innocente perché soffre, ma è triste che nessuno gli spieghi per Chi soffrire e con Chi soffrire.
Il prete ebbe cioè la certezza che, a riguardo della grande massa di dolore innocente lasciata dalla guerra, ci fosse in atto “un dissennato dispendio”.
Cominciò allora a stendere un breve trattato su “La pedagogia del dolore innocente”.
Scriveva: «La pedagogia cristiana del dolore tende anzitutto a insegnare ai bimbi che il dolore non si deve tenerlo
per sé, ma bisogna farne dono agli altri, e il dolore ha un grande potere sul
cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti».
Lui chiedeva ai suoi mutilatini di offrire il dolore delle loro medicazioni per qualche persona cara, per la conversione del babbo, per un missionario lontano, per la fine di una guerra nel mondo, per un compagno più povero e disgraziato, per un delinquente di cui parlavano i giornali, per le intenzioni del Papa, e si accorgeva che i bambini imparavano a soffrire con una loro sconvolgente, sacra dignità.
Così insegnava loro che, quando nella messa il prete metteva qualche goccia d’acqua nel calice, dovevano presentare a Gesù le loro sofferenze, ed esse si sarebbero mescolate con le Sue come l’acqua si confonde col vino.
Era il 1950 e Don Carlo doveva essere ricevuto dal Papa Pio XII. Gli portava in dono un monogramma del nome di Cristo (composto con due stampelle incrociate sormontate da una corona, per indicare la nobiltà del dolore), tutto fatto di minuscole perline.
Il Pontefice gradì molto il regalo simbolico che era una teologia del dolore in miniatura.
Ma si mise a piangere quando Don Carlo gli spiegò che ogni perlina era stata meritata da qualche mutilatino, sopportando in silenzio e senza pianto una dolorosa medicazione o una operazione chirurgica: e quel ricacciare le lacrime e i lamenti era il modo con cui avevano liberamente accettato il dolore e l’avevano offerto per le intenzioni del Papa.
Interessante era, intanto, osservare l’altro versante di questa teologia che legava assieme in un unico progetto ciò che era naturale e ciò che era soprannaturale.
Se ai mutilatini bisognava garantire il meglio di tutto (nel campo della scienza, delle arti pedagogiche, della formazione intellettuale, della maturazione spirituale), ciò voleva dire che, a questo tutto, dovevano concorrere tutti: come c’erano gli aspetti naturali e quelli soprannaturali, così (con la stessa logica) ci doveva essere l’aiuto dello Stato e quello della Chiesa, le energie economiche e organizzative dell’uno e le energie umane e divine dell’altra.
Per questo Don Carlo non voleva fondare un istituto di carità, un’opera assistenziale condotta solo con i criteri della generosità e del volontariato: voleva un’opera garantita e sostenuta dallo Stato in tutto ciò che questo era in grado di offrire, e garantita e sostenuta dalla Chiesa in tutto ciò che essa era in grado di donare.
Ma a questo scopo lo Stato, per primo, doveva riuscire a liberarsi da certi impacci giuridici e legalistici e da certe logiche di mercato. (Dicono che Don Carlo abbia anticipato di decenni l’idea del non-profit).
Così, per fondare la Pro infantia mutilata, nel 1948, volle ed ottenne sia l’appoggio del Capo dello Stato, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Enti e Fondazioni internazionali, che l’appoggio della Segreteria di Stato Vaticana: nei suoi intenti era una Federazione che avrebbe dovuto raccogliere e organizzare tutti gli istituti che si occupavano di minori disabili e, in genere, dei minori in difficoltà, compresi i bambini mulatti (bambini nati da cosiddetti “amori di guerra” e rifiutati alla nascita).
Cominciarono a nascere vari collegi disseminati nella penisola, e tutti ruotavano attorno a quello di Parma dove spesso risiedeva Don Gnocchi: un collegio che comprendeva al suo interno un centro ortopedico e chirurgico da cui passavano tutti i mutilatini, in modo che fosse garantita a ciascuno sia l’assistenza chirurgica (che, data l’età dei pazienti, doveva essere continuata nel tempo), sia la programmazione personalizzata dell’assistenza necessaria ad ognuno. Poi i piccoli tornavano nei diversi collegi di origine.
Spesso il Governo siglava sì accordi e convenzioni, ma poi si limitava a cedere al prete vecchie strutture fatiscenti che erano state pensate per invalidi adulti; e lo colmava anche di lodi e di consigli, ma la legge per riconoscere la pensione ai piccoli invalidi, presentata già nel 1948, era ancora ferma, e gli aiuti in denaro scarseggiavano.
Nel 1950 lo Stato italiano, sotto pressione delle sinistre e dei liberali –senza tener conto di ciò che solo Don Gnocchi aveva insegnato e realizzato– varò una legge che affidava tutta l’assistenza dei mutilatini alla Opera Nazionale Invalidi di Guerra, il vecchio organismo da cui non ci si poteva spettare altro che la completa burocratizzazione dell’impresa, con la rovina di tutte le preoccupazioni pedagogiche e cristiane che avevano fino allora animato Don Carlo.
Unico spiraglio concesso dalla legge era il fatto che l’ Opera poteva collaborare con altri enti riconosciuti.
In tale spiraglio, senza perdere tempo in lamenti e recriminazioni, Don Gnocchi si insinuò con tutto il suo impeto travolgente: dopo alcuni mesi sedeva già nel Consiglio di Amministrazione dell’Opera, che poco dopo cedeva alla Pro Infanzia mutilata tutte le sue competenze verso i minori.
Nacque così la Fondazione Pro Juventute, legalmente riconosciuta dal Presidente della Repubblica.
Essa doveva occuparsi primariamente dei bambini lesionati in guerra, ma poi anche di quelli poliomelitici (in media 3000 fanciulli colpiti ogni anno, tra il 1934 e il 1954) e perfino della “gioventù povera e bisognosa in genere”, con precedenza assoluta per i più miseri.
Più ci si allontanava dalla guerra e dalle sue sventure, più il problema dei poliomelitici diventava dominante.
Collegi, convitti, centri sanitari, palestre, scuole di ogni ordine e grado, e istituti professionali, officine differenziate...: Don Carlo si rivelò instancabile nel suo peregrinare per tutta Italia, cercando sempre di esigere strutture e programmi qualificati.
La sua sofferenza era che, per dirigere tutte le opere che gli nascevano tra le mani, doveva chiedere aiuto all’una o all’altra congregazione religiosa, con la quale, dopo i primi accordi, entrava in rotta di collisione, dato che pochi riuscivano a tenere il suo passo e a soddisfare le sue esigenze: se gli davano educatori, voleva che prendessero anche la qualifica di operatori sanitari e viceversa... , se c’era gente brava a guarire il corpo, voleva che fosse brava a guarire anche la psiche, e poi anche lo spirito e viceversa. Lui era tutto intero, e faceva fatica a immaginare tutte le “divisioni” e le “distinzioni” che spesso gli uomini si portano dentro, anche con le migliori intenzioni.
Pensò perfino di fondare lui due
Congregazioni religiose (una maschile e una femminile) per avere uomini e donne
fatti secondo il suo desiderio, e secondo le esigenze di quell’apostolato così
complesso, ma concluse che non aveva le doti per fare il Fondatore.
Aveva appena 53 anni, ed era lanciato in un incredibile vortice di realizzazioni che avevano ormai risonanza internazionale, quando un tumore allo stomaco lo fermò.
Venne ricoverato a Milano nella clinica Columbus, dove c’era sempre una stanza gratuita a disposizione di un sacerdote indigente –e tale era sempre rimasto Don Carlo, anche se tra le sue mani passavano milioni: erano tutti dei suoi bambini malati.
La camera diventò metà di un costante pellegrinaggio di visitatori, fin quando Don Carlo chiese all’Arcivescovo Montini di vietare le visite a tutti i laici: voleva prepararsi all’incontro con Dio, nel silenzio e nella preghiera.
«Sono un prete –spiegò– e voglio morire da prete».
E quando Montini gli disse: “Dimmi quello che posso fare per te, qualunque cosa”, Don Carlo chiese di poter avere, fino alla morte, la compagnia di Don Giovanni, il sacerdote suo amico da tanti anni.
Una sera di gennaio del 1956, Don
Carlo dice al suo confratello: “Non puoi
stare qui anche stanotte?”. “Don Carlo –
risponde costui – sono già le 9, tra
poco dormirai e domani mattina alle 8 sarò di nuovo qui, perché vuoi che
resti?”.
E Don Carlo, umilissimamente, in
dialetto: “Ho paura”.
Aveva visto orrori su orrori in guerra, aveva rischiato la morte mille volte, aveva affrontato difficoltà di ogni genere e lottato senza stancarsi; ora aveva paura come uno dei suoi bambini e si confortava con la preghiera, con la fotografia della mamma che aveva voluto subito sul comodino e stringendo il Crocifisso che lei gli aveva lasciato.
Dopo l’ultima visita tutti notarono che Mons. Montini, uscendo dalla camera dell’infermo, piangeva. “Come sei importante – gli disse l’amico prete rientrando – per te piange perfino l’Arcivescovo!». E Don Carlo rispose: «Non piange perché sono importante. Piange perché sono un uomo che muore».
Dalla tipografia, accelerando i tempi, riuscirono a fargli avere la prima copia del suo ultimo libro: “Pedagogia del dolore innocente”. E, guardandolo, Don Carlo adorava il misterioso disegno di Dio che faceva coincidere quell’ultimo messaggio lanciato al mondo con la richiesta, fatta proprio a lui!, di purificarsi nel supremo dolore della morte.
Intanto un gruppo di mutilatini era andato in pellegrinaggio a Lourdes per chiedere il miracolo della sua guarigione. Quando tornarono era già morto. Una mutilatina che aveva partecipato al pellegrinaggio ha raccontato il suo intimo colloquio col defunto: “Mi sono ribellata, sono tornata in Chiesa da sola e gli ho detto: “Ma allora, tutte le nostre preghiere non sono servite a niente? Ci hai insegnato a offrire il dolore, dicendoci che esso è una forza potente presso Dio...!”. Sono rimasta un attimo a piangere, ma poi l’ ho sentito che mi diceva: “Adesso sono con voi più di prima”».
E ancora la bambina non sapeva fino a che punto questo fosse vero. Allora la legge italiana non permetteva i trapianti in nessun caso. E questo aveva sempre angustiato Don Carlo che, al vedere tanti mutilatini ciechi, aveva sempre sognato di poter ridare loro la vista.
La proposta di legge per permettere il trapianto di cornee era ferma da cinque anni in Parlamento.
Prima di morire Don Carlo chiede all’amico prete e al Direttore dell’Istituto Oftalmico di Milano di sfidare la legge: trapianteranno le sue cornee, una su un bambino abruzzese che si è bruciato gli occhi con la calce viva, una su una bimba trevigiana che è rimasta cieca per malattia dopo la nascita.
Il clamore suscitato dal fatto convinse il Parlamento italiano ad approvare la legge.
Per i funerali, qualcuno poneva il problema di sapere quale fosse la Chiesa di Don Carlo, dato che non ne aveva una sua. L’Arcivescovo Montini ribatté: «La sua Chiesa è il Duomo di Milano».
Durante la celebrazione, il
porporato chiamò uno dei mutilatini: «Vieni
–gli disse– parla tu...».
E il bambino spiega ai fedeli che gremiscono il Duomo: «Io prima gli dicevo: “Ciao Don Carlo!”. Adesso gli dico: «Ciao San Carlo!». Fu forse la prima volta nella storia che i fedeli in Duomo applaudirono.