san carlo borromeo

(1538 - 1584)

 

Ci sono nella storia della Chiesa pagine oscure e dolorose che fanno soffrire i cristiani e danno argomento a chi vuole negarne l’origine divina.

Non si tratta soltanto dei gravi peccati storici dei figli della Chiesa, per i quali  Papa Giovanni Paolo II ha chiesto ripetutamente perdono, ma anche di quegli episodi o costumi nei quali l’elemento umano ha prevaricato in maniera intollerabile.

Pensiamo, ad esempio, ai tempi in cui si ammettevano vocazioni forzate allo stato clericale o religioso, ai secoli in cui erano quasi giustificati il nepotismo dei papi e il lusso sfrenato dell’alto clero.

E tuttavia chi legge attentamente anche queste pagine di storia ecclesiastica non può negare che, a tratti, si resta abbagliati da certe luci improvvise che irraggiano proprio da queste oscure vicende.

 

Siamo a metà del secolo XVI: il Concilio di Trento è stato interrotto già da una decina d’anni senza essere riuscito a varare la sospirata riforma della Chiesa. A Roma, proprio i nipoti del più severo Pontefice riformatore (Paolo IV, Carafa) si sono macchiati di innominabili delitti e, alla morte di questo Papa, si trascina uno dei più lunghi e contrastati conclavi della storia (durerà quasi quattro mesi). Finalmente, alla sera del Natale del 1559, i cardinali s’accordano sul nome del Card. Gian Angelo Medici, di origine lombarda, sulle cui intenzioni riformatrici non mancano dubbi.

Il giorno stesso della sua elezione, il nuovo Pontefice – che ha preso il nome di Pio IV – chiama a Roma i due giovani nipoti preferiti: Federigo e Carlo Borromeo.

Federigo, il primogenito di 25 anni, viene nominato comandante in capo dell’esercito pontificio.

Carlo, il secondogenito, viene nominato Segretario di Stato (il primo della storia a ricevere questo titolo); e, oltre ad essere segretario, è anche nominato Amministratore dello Stato Pontificio, Referendario della Segnatura Apostolica, titolare e beneficiario di numerose Abbazie, Amministratore perpetuo dell’Arcidiocesi di Milano, Governatore delle legazioni pontificie di Bologna, delle Romagne e delle Marche; Protettore del Portogallo, dell’Austria e della Svizzera e di numerosi Ordini religiosi.

Inoltre, il giorno stesso dell’incoronazione del Pontefice, Carlo è preconizzato Cardinale.

Ebbene: Carlo ha soltanto 21 anni e non è nemmeno prete, anche se – essendo il cadetto di una nobile famiglia di Arona – è stato inesorabilmente avviato alla carriera ecclesiastica fin dall’infanzia e porta l’abito talare dall’età di sette anni.

 

A Roma questo nipote colmato di privilegi inauditi, di onori e oneri smisurati, non riscuote molta simpatia: Carlo è un giovanotto piuttosto alto, dal volto sgraziato, dal naso eccessivamente pronunciato, chiuso di carattere, impacciato nella parola.

Qualcuno mette in giro la voce che non sia nemmeno molto intelligente.

Il giovane Cardinale conduce una vita fastosa, adatta al suo rango: ha a disposizione 150 domestici in elegante livrea di velluto nero; possiede le più belle carrozze e i migliori cavalli di Roma; è appassionato di caccia e di cani; è abile nel gioco degli scacchi; ama la musica e suona il violoncello. Ha fondato un’Accademia notturna (“Notti Vaticane”) in cui, assieme ad amici intellettuali, si diletta in conversazioni letterarie e filosofiche, come ogni buon principe rinascimentale.

In breve Carlo riesce a sistemare tutta la numerosa parentela e, per via di matrimoni, la famiglia Borromeo s’imparenta con le più antiche famiglie italiane (con i Colonna, i Della Rovere, i Gonzaga, i Trivulzio) e con altri nobili casati europei.

Tuttavia Carlo è di costumi irreprensibili; anche se è diventato il Cardinale più ricco di Roma, conduce una vita onesta e utilizza generosamente i suoi beni per dotare la città di opere pubbliche (acquedotti, ospedali e simili).

 

Contro ogni attesa il nuovo Pontefice si mostrò deciso a riaprire il Concilio di Trento e a condurlo a buon fine, anche se non era facile accordare tutti i governanti d’Europa, il cui consenso era necessario, per le molteplici implicazioni e connessioni allora esistenti tra la vita ecclesiale e la politica delle diverse nazioni.

Si trattava di mettere d’accordo tra loro personalità difficili come l’imperatore Ferdinando di Germania, Filippo II di Spagna, Francesco II di Francia, oltre agli altri principi o duchi italiani di Firenze, Venezia, Genova, Napoli…

Non era allora pensabile aprire un Concilio Ecumenico senza il previo assenso dei vari principi ai quali spettava concedere permessi e salvacondotti, o senza tener conto delle ferree direttive che ognuno intendeva impartire ai vescovi delle rispettive zone.

E non era facile ricucire i legami tra la Santa Sede e i vari regnanti, dopo che il focoso Paolo IV se li era inimicati quasi tutti.

Germania e Francia s’erano già schierate a difesa dei protestanti (molto numerosi nei loro regni) e minacciavano ostruzionismi e ritorsioni, e la Spagna era decisa ad imporre una Chiesa fortemente nazionalizzata.

 

Carlo Borromeo, che aveva fatto solo studi di Diritto, ma non corsi di filosofia e di teologia, non poteva certo offrire al Concilio la sua competenza dottrinale, ma mise a disposizione una straordinaria abilità di mediatore e di tessitore, tra la volontà del Pontefice e quella dei numerosi e litigiosi interlocutori: si trattava di mettere d’accordo tra loro sovrani, nunzi apostolici, ambasciatori, legati del Concilio e padri conciliari.

Durante i due anni che furono necessari per la preparazione della terza fase del Concilio di Trento, e durante i due anni della sua celebrazione, ogni trattativa, ogni missiva passò letteralmente tra le mani del giovane Cardinale segretario.

Ogni giorno partivano da Roma e giungevano da Trento corrieri con una valigia di corrispondenza, tanto che l’Arcivescovo di Francia ironizzava aspramente sul fatto che “lo Spirito Santo (che avrebbe dovuto guidare il Concilio) era costretto a viaggiare ogni giorno in valigia da Roma a Trento”.

Ma perfino queste battute ironiche dicono l’incredibile dedizione e il servizio alla Chiesa che il Cardinal Borromeo riuscì a garantire per diversi anni.

 

Le questioni più brucianti erano allora quelle della riforma del clero e dei vescovi. Qualcuno, tra i padri conciliari, storceva il naso a sentir parlare di riforma anche per il Papa e per i cardinali, finché un santo Vescovo presente, amico del Borromeo, sbottò in aula a dire che “proprio gli illustrissimi cardinali avevano bisogno di un’illustrissima riforma”.

Carlo era troppo intelligente per non capire che molte delle questioni agitate a Trento lo toccavano personalmente. Bruciava nella sua coscienza non tanto la vita fastosa che conduceva, quanto la percezione del danno grave che facevano alla Chiesa i vescovi che non risiedevano da anni nelle proprie diocesi, lasciandovi  qualche amministratore privo di vera autorità pastorale, e lui – pur risiedendo a Roma e lavorando da Cardinale segretario – era addirittura Arcivescovo di una delle più vaste e importanti diocesi: quella di Milano!

 

Sapeva di dovere scegliere, non appena si fosse chiuso il Concilio, e vi era sinceramente disposto.

Per una conversione più totale e radicale, invece, Dio si servì di una durissima sofferenza, con la quale parlò non soltanto alla sua intelligenza, ma anche al suo cuore.

Proprio in quei mesi di vorticosa attività e di discussioni infinite, il fratello Federigo, comandante delle milizie pontificie, capo della famiglia Borromeo, anch’egli insignito d’innumerevoli titoli e di beni, si ammalò per una febbre d’ignota natura. Non sembrava una malattia preoccupante, ma dopo una settimana – proprio il giorno in cui Filippo II di Spagna gli faceva pervenire la nomina a principe – moriva tra le braccia di Carlo, lasciandolo erede anche del suo ricco patrimonio, in beni e titoli nobiliari.

Alla costernazione del Pontefice e dei dignitari, seguì la persuasione che ormai toccava al secondogenito prendere in mano le sorti della famiglia Borromeo: del resto Carlo non era ancora stato ordinato prete; bastava che rinunciasse ai titoli strettamente ecclesiastici ed ereditasse gli onori e i compiti del fratello scomparso.

Il Papa stesso era favorevole a tale soluzione.

Ma proprio allora Carlo decise di rompere gli indugi: si fece immediatamente ordinare prete e celebrò la sua prima messa il 15 agosto 1563, sulla tomba dell’apostolo Pietro.

Divenne così il Cardinale riformatore.

 

Cominciò a ridurre il suo fastoso seguito: più di ottanta domestici furono licenziati, ma ognuno ricevette in dono dai dodicimila ai quindicimila ducati (una cifra enorme per quel tempo). Rinunciò ad ogni fasto nel vestito, nelle carrozze, nella mensa, nelle feste, nelle relazioni sociali.

Mantenne lo stretto indispensabile per il decoro dovuto al suo ufficio (certo, compatibilmente con la mentalità di quel secolo fastoso).

Non mancarono le calunnie e gli sberleffi: chi diceva che il Borromeo era diventato improvvisamente spilorcio; chi sussurrava ch’era affetto da manie rigoriste.

Un celebre letterato del tempo, Annibal Caro, scriveva sprezzantemente ad un familiare: “Da Roma non so che notizie darvi, se non che quell’acconciastagni e candelieri (cioè: qualcosa come “sacrestano di bassa categoria”) ha cominciato a riformarla interamente; e Roma non basta al suo zelo: vuol fare altrettanto al mondo intero!”.

Anche l’ambasciatore di Venezia – con più sottigliezza ed elegante malizia – scriveva ad un amico che lo sollecitava per ottenere a Roma qualche posto ben remunerato: “Ormai qui non si viene per pascere, ma per pregare…”.

Ma saprà anche onestamente riconoscere che “il Cardinal Borromeo è più efficace lui solo nella città di Roma, che non tutti i decreti del Concilio messi assieme”.

 

La verità era che il Card. Borromeo aveva ormai scelto definitivamente la sua “Cattedra”.

Nell’uso ecclesiastico la “cattedra” è il luogo elevato, da cui Papi e Vescovi governano e insegnano.

Per il Borromeo la “cattedra” scelta – la più onorifica – era ormai la Croce di Cristo: se Gesù aveva scelto di istruirci e governarci dalla sconvolgente altezza della Croce, allo stesso modo dovevano comportarsi i suoi ministri.

Cominciò dunque a leggere il Vangelo in ginocchio e a perdersi in tanta amorosa contemplazione, a vivere in maniera frugale e a dedicarsi perfino a penitenze esagerate.

Ma niente sembrava ormai esagerato all’amore che sentiva dentro per il suo Signore e Maestro: anche le penitenze più austere, che altro erano se non la possibilità umile di esperimentare qualcosa di ciò che Egli ha patito per la nostra salvezza? Che altro erano, se non il mezzo per potere imparare, per poterne parlare con un minimo d’esperienza?

 

Intanto premeva presso lo zio Papa per ottenere il permesso di abbandonare Roma, per poter raggiungere la sua Diocesi.

Si preparò intensamente all’Ordinazione Episcopale e la ricevette il 7 Dicembre 1563, festa di S. Ambrogio.

Ma poté partire definitivamente solo nel 1566, tante erano le urgenze di servizio, che lo tenevano avvinto alla curia romana.

Viaggiò, attraversando tutta l’Italia settentrionale, nella sua qualità di Legato Pontificio, dotato cioè di pieni poteri, che esercitò per cercare di migliorare la vita cristiana di quelle regioni, almeno nei limiti concessi ad una breve visita, ma rifuggendo da accoglienze fastose e rifiutando di abitare nei castelli o nelle dimore sontuose degli innumerevoli parenti.

 

Entrò a Milano con ogni solennità, montato su un cavallo bianco, e accompagnato da una massa di gente incontenibilmente festosa: volutamente aveva fatto in modo che la cavalcatura del governatore spagnolo fosse al seguito.

Era da più di 70 anni che la città aspettava d’aver un Vescovo che decidesse finalmente di risiedere in Diocesi, e in tutti quegli anni l’unica autorità presente in città - quella del Governatore appunto - aveva spadroneggiato in ogni campo.

Nella sua prima predica in Duomo commentò le parole dette da Gesù ai discepoli all’inizio dell’ultima cena: “Ho desiderato ardentemente di poter mangiare questa Pasqua con voi”, e la gente capì che quel giovane Arcivescovo che non aveva ancora ventisette anni – già carico di esperienza ecclesiale, per altro – aveva deciso di spendere per loro tutta la sua vita, da vero servitore della Chiesa.

Nella casa arcivescovile, chiamò un centinaio di persone a condividere la sua vita e il suo lavoro: tutti esclusivamente appartenenti al clero, impegnandoli in una forma di vita comunitaria e quasi regolare (nella preghiera, nel cibo, negli orari).

Aveva fatto preparare il palazzo arcivescovile in modo che gli appartamenti e le sale di rappresentanza mantenessero il decoro e il lusso dovuto ad un Arcivescovo (non mancavano certo quadri, tappezzerie e mobili lussuosi!), ma per accedere all’appartamento privato del Cardinale, bisognava salire una ripida scaletta che portava agli abbaini: là, in due piccole fredde stanze, egli poteva ritirarsi, pregare, studiare, preparare gli interventi richiesti dal suo alto ministero.

 

Quando morirà, l’inventario dei mobili elencherà: una cassa di noce, un pagliericcio coperto di tela, due cuscini, due sgabelli, una credenza, un orologio, un tavolo di noce a colonnette; e i quadri sono tutti raffigurazioni di episodi della Passione: un Gesù agonizzante, l’ascesa al calvario, l’incoronazione di spine… Un solo quadro fuori tema: un ritratto di Tommaso Moro, il nobile cancelliere inglese che aveva saputo umilmente seguire le orme di Gesù avviato al martirio.

 

In pubblico Carlo Borromeo appariva sempre in vesti cardinalizie (dicevano di lui che “non si scardinalava mai”); in privato portava una semplice tonaca nera alla maniera dei gesuiti.

E l’apparente contrasto tra le manifestazioni pubbliche e lo stile privato garantiva saggiamente che la sua personale umiltà di vita e di cuore non servissero di pretesto a chi avesse voluto sminuire il compito autorevole che gli era stato assegnato.

Il segretario ci ha tramandato, a questo proposito, un toccante episodio che risale agli ultimi anni della sua vita:

“Occorse una volta a Caprino nel Bergamasco, essendo io in visita col Cardinale, che una notte voltandosi per il pagliericcio dov’esso dormiva, gli cadde la veste nella lampada, onde tutta si macchiò. La mattina, havendomi lui al solito chiamato a studiare, finito lo studio gli domandai per che causa tanto puzzasse quella veste d’olio. Mi raccontò egli humanissimamente come era stato il fatto. Io gli replicai che sarebbe stato bene mandare quella veste a Milano e fargli cavare la macchia, e farne portare fuori un’altra per servizio di sua Signoria Illustrissima. Rispose sorridendo il Signor Cardinale a me: e qual altra, se non ne ho altra? Un’altra n’havevo, ma la portai quattordici anni o più, e l’ho data per amor di Dio. Questa m’ha da durare sino alla morte, perché questa reputo che sia la propria veste mia, che le altre rosse o morelle che porto, sono vesti non mie, ma della dignità cardinalizia…”.

Cominciò così – con tutta la forza della sua dignità e con tutta l’umiltà della sua persona – ad essere il pastore vigile e instancabile della sua vastissima Diocesi che comprendeva tutta la Lombardia e si estendeva fin dentro le valli svizzere, nelle quali contava almeno 56 parrocchie.

L’intera popolazione non raggiungeva i 600.000 abitanti, e Milano ne contava circa 180.000. Le parrocchie della diocesi erano circa 753 e i membri del clero erano circa 2000.

Cominciò col ristabilire la propria autorità davanti allo strapotere delle autorità civili.

Tale strapotere s’era fatto negli anni talmente forte che correva ancora a Milano il ricordo beffardo (risalente ad un secolo prima) di quando il duca Gian Maria Visconti, nell’intento di sostenere le sue imprese belliche, aveva proibito che nei suoi territori si pronunciasse la parola “pace”, tanto che perfino i preti durante la Messa dovevano abolirla e non dire: “Signore, donaci la pace”, ma “Donaci, Signore, tranquillità”.

 Milano aveva perso la sua indipendenza nel 1535: alla morte di Francesco II Sforza, il ducato era diventato una provincia dell’impero di Carlo V e, mancando un Vescovo residente, il governatore spagnolo s’era abituato a dettar leggi su tutto.

Il primo serio conflitto scoppiò quando il nuovo Arcivescovo pretese che si mettesse un freno al carnevale cittadino che ormai cominciava a Natale e culminava nella prima Domenica di Quaresima, divenuta il giorno più chiassoso e volgare, travolgendo ogni tradizione liturgica e ogni pudore.

Carlo venne accusato d’essere un moralista, e di voler togliere al popolo i suoi legittimi spassi. E certo può fare allegria pensare a gente in maschera, tra giostre, balli, fiere e tornei, per otto-dieci settimane all’anno, ma fa anche molta tristezza quando ci si rende conto che quello era (ed è ancor oggi, in forme più diffuse e sofisticate) un modo volgare per tenere la gente schiava ed estranea a se stessa e ai suoi veri interessi.

In realtà la questione del carnevale si trascinava dietro mille altre pretese che le autorità civili vantavano su patronati e benefici, su conventi e monasteri, e perfino su questioni pastorali.

Quattro governatori spagnoli si succedettero a Milano al tempo del Cardinal Borromeo e, con i primi tre, la guerra fu senza esclusioni di colpi: il più testardo di questi giunse fino a fare esporre sulla porta delle chiese un bando in cui l’Arcivescovo veniva definito “uomo ignorante e scandaloso, immeritevole di fiducia, sospetto al sovrano, ingiusto, temerario, privo di criterio, e indegno della sua patria (cioè: della Spagna!)”.

Carlo si vide costretto a scomunicarlo. Ma poi quando l’altezzoso spagnolo giunse sul letto di morte volle essere assistito solo da quel testardo e santo Arcivescovo.

Una lotta ancora più grave fu quella con cui Carlo si oppose alla decisione di Filippo II di istituire a Milano un tribunale della inquisizione spagnola, notoriamente la più feroce e alle dirette dipendenze del monarca, che se ne serviva non solo per difendere la fede, ma a scopi politici, estendendo a dismisura quei poteri che nell’inquisizione ecclesiastica (romana) erano molto controllati.

L’inquisizione romana non poteva occuparsi dei non credenti (ebrei o infedeli), non accettava mai denunce anonime, non ammetteva processi sommari, era mite nelle pene e facile a concedere il perdono. Tutti limiti che l’inquisizione spagnola, alle dirette dipendenze del sovrano, travolgeva in maniera crudele e temibile.

Carlo si era già opposto ai tentativi di Filippo II di fondare a Milano un suo tribunale d’inquisizione quand’era ancora a Roma. Continuò ad opporsi negli anni a venire, resistendo perfino a certe debolezze del Papa che a volte sembrava pronto a cedere alle richieste spagnole (altri dicono che il Papa cedeva solo perché era sicuro che poi Carlo si sarebbe opposto…).

A piegarsi, davanti alla fama di santità del Borromeo, sarà alla fine lo stesso Filippo II che da Madrid manderà un nuovo governatore, ingiungendogli di fare da “ministro” all’Arcivescovo e affermando perfino che “il re di Spagna sarebbe troppo felice se tutte le città del suo regno avessero dei vescovi simili a quello di Milano”.

 

Altrettanto epiche furono le lotte che Carlo dovette sostenere con alcune potenti istituzioni religiose della città, particolarmente corrotte, come la collegiata dei canonici della Scala e l’ordine religioso degli Umiliati, i quali giunsero a ordire un attentato: prezzolarono un sicario, un certo Donato Farina, che s’introdusse nella cappella dell’Arcivescovo e gli sparò una archibugiata alle spalle, mentre era inginocchiato in preghiera davanti all’altare.

 

Nessuno riuscì a capire come poté Carlo restare illeso, dato che il colpo era partito da distanza ravvicinata, e la veste cardinalizia sulle spalle dell’Arcivescovo risultava addirittura bruciata, e anche questo contribuì ad aumentare la sua fama.

 

Certamente Carlo dava prova di una severità inusuale, deciso com’era ad estirpare ogni abuso: interveniva sullo stile di vita del clero e dei religiosi; interveniva in tema di moralità familiare e sociale; dava prescrizioni a riguardo della vita sacramentale e spirituale dei singoli.

A lasciarlo fare – dicevano – avrebbe trasformato la sua Diocesi in un’immensa abbazia, nella quale la vita sarebbe stata tutta scandita in ritmi di preghiera e di lavoro, di sobrietà e di carità.

Soprattutto le domeniche dovevano essere interamente destinate alla preghiera e alla formazione spirituale.

Ma come dargli torto, quando si leggono le raccomandazioni che egli era costretto a fare spiegando ai fedeli che in Chiesa si devono “evitare canzonacce, risate, discorsi fatui e osceni…”, o quando si sofferma a descrivere i comportamenti rozzi, volgarmente teatrali, umanamente insopportabili di tanti predicatori, o quando amaramente constata che “le bettole sono sempre più piene e le chiese sempre più vuote”?

Carlo si era reso subito conto che nel suo popolo la fede c’era ed era ben radicata da secoli, ma le conseguenze pedagogiche, anche le più elementari, se n’erano andate per la lunga negligenza dei pastori, per l’assenza dei vescovi e l’incuria di preti e religiosi.

C’erano da correggere abusi inveterati in parrocchie, conventi, e varie istituzioni ecclesiastiche; c’erano da riformare usi liturgici superati o corrotti; c’erano da riprendere la predicazione e la catechesi al popolo, trascurata da lunghissimo tempo.

Cominciò a celebrare uno dopo l’altro Sinodi Diocesani e Consigli Provinciali, legiferando su tutto ciò che riguardasse la dignità del culto dovuto a Dio e della vita cristiana della gente.

Da tempo immemorabile le chiese erano in abbandono: i templi erano trascurati e inospitali; le canoniche cadenti e mal frequentate; gli arredi sacri vecchi o insufficienti; i tabernacoli sporchi e disadorni; i riti sacri sciatti e approssimativi; la predicazione rara e involgarita; i monasteri e i conventi rilassati e, a volte, perfino corrotti.

I preti trascuravano il loro ministero e molti si dedicavano a ben altre e immorali occupazioni. Pare che in Lombardia girasse un detto crudele: “Se vuoi andare all’inferno, fatti prete”.

Borromeo volle riformare tutto, sistematicamente, inesorabilmente. Diede prescrizioni sulla bellezza delle vesti liturgiche, lo scintillare dei vasi sacri, la preziosità dei marmi, l’armonia delle musiche, il decoro dei dipinti, l’aggiornamento degli archivi, l’esattezza dei registri, indicando perfino la forma e il numero dei candelieri con cui si dovevano adornare gli altari.

Che importava se alcuni lo chiamavano per disprezzo “il Cardinale sacrestano”? Carlo aveva genialmente intuito che un vero popolo cristiano non crede solo con la testa, ma anche col suo corpo, con gli occhi, con le mani…

 

Pian piano riorganizzò la sua Diocesi in maniera capillare, creandosi una fitta rete di responsabili e di educatori che facevano capo soltanto a lui.

Costruì in primo luogo dei seminari che dovevano garantire un clero rinnovato secondo i decreti del concilio di Trento e chiamò a dirigerli i Gesuiti, l’Ordine più “intellettuale” del tempo.

Volle che si erigessero delle “librerie comuni” in tutte le chiese collegiate, a vantaggio della formazione permanente del clero. E giunse fino a dotar il suo seminario di una stamperia, cosa quasi incredibile per i tempi, in modo che i preti potessero disporre di testi spirituali a buon mercato.

Fece costruire collegi per l’educazione dei giovani nobili, e collegi per dare alloggio e nutrimento ad universitari meritevoli, ma privi di mezzi adeguati (celebre resterà l’almo collegio Borromeo di Pavia). Fece costruire a sue spese la sede dell’Università di Bologna; chiese ai Gesuiti di aprire un’Università a Milano, e dotò anche questa di un adeguato collegio universitario. E un altro collegio fece edificare ad Ascona, sul confine svizzero.

L’istruzione era allora prevista solo per i nobili; per i figli del popolo la società non prevedeva nulla. Così Carlo decise di supplire, nei limiti del possibile, all’inesistente sistema pubblico di qualsivoglia istruzione: volle che ogni parrocchia avesse la sua “scuola di dottrina cristiana”, nella quale si cominciava con l’imparare a leggere, scrivere e far di conto, tanto che le prime pagine del catechismo erano dedicate all’alfabeto e ai primi rudimenti di matematica.

Alla morte di Carlo queste scuole saranno circa 540, con 40.098 iscritti.

Splendido è poi il principio pedagogico che Carlo dava a genitori e maestri: “Recta filiorum educatio, eorum ad Christum adductio” (“La buona educazione dei figli è quella che li conduce a Cristo”).

Stabilì anche presso ogni collegiata un magister scholasticus, un sacerdote che godeva di un beneficio, ma con l’impegno di insegnare a tutti i fanciulli della zona gratis et amore Dei.

Curò poi l’istituzione e la diffusione delle “Confraternite del SS. Sacramento”, che restituivano “dignità e cuore” alla vita liturgica delle parrocchie e davano nutrimento sostanzioso alla devozione dei fedeli.

 

L’Arcivescovo non era certo amato per le sue severità e i suoi rimproveri, ma era immensamente amato per la sua carità: ed era a partire da essa che il popolo intuiva la bontà che dovevano avere anche le sue prescrizioni.

Per suo impulso era nata in città una rete di opere di carità: case per orfani, case per mendicanti, case per ragazze prive di protezione sociale, case per donne vedove o abbandonate dal marito, case per convalescenti, case per dementi, case per i senzatetto, per i pellegrini e i forestieri

Ed ad ogni istituto dava regole magnanime. Così all’ospedale dei mendicanti prescriveva: “Vi si alloggerà ogni sorta di poveri, così milanesi, come forestieri, huomini, donne et figlioli, poiché la carità non ha differentia de nationi et siamo tutti fratelli nel Signore. Li forestieri poi et d’altre diocesi s’indirizzeranno alla loro patria con quello aiuto che si potrà, però non violentandoli, perché sono fratelli et membra del Signore”.

E ogni Vescovo delle diocesi metropolitane era invitato ad istituire un Monte di Pietà per combattere la piaga dell’usura.

 

Quando nel 1570 scoppiò una tragica carestia, turbe di contadini affamati si riversarono a Milano per contendere ai cittadini quel po’ di cibo che restava. Al centro della città sostava una folla di pezzenti. Tutti sapevano che i portici dell’Arcivescovado erano stati trasformati in cucine da campo, dov’era sempre possibile avere un piatto caldo di riso e legumi. Ed ogni giorno venivano sfamati non meno di tremila poveri.

Intanto Carlo faceva tenere aperti i cantieri per il grande seminario che stava costruendo in modo da poter dare lavoro ad un numero sempre maggiore di derelitti.

S’interessò perfino di favorire nuove coltivazioni di mais, una pianta da poco giunta in Europa che apportò notevoli benefici, tanto che il popolo per riconoscenza chiamò quella nuova pianta “carlone”, in suo onore.

 

Sei anni dopo, terribile e ricorrente, comparve la peste. I morti si contarono a centinaia al giorno e raggiunsero una cifra che fu calcolata tra i tredicimila e i diciassettemila.

Il lazzaretto di Porta Orientale si riempì di pietà e di orrore e, quando fu saturo, fuori delle porte della città, cominciarono a proliferare baracche di malati e moribondi.

Come d’abitudine le autorità civili e i nobili fuggirono; i medici si aggiravano guardinghi, distribuendo medicine e consigli a distanza; i sani si asserragliarono nelle loro case, evitando in ogni modo di uscirne; e la città si trovò abbandonata in mano ai monatti che raccoglievano cadaveri e si dedicavano ai loro turpi traffici.

O almeno così sarebbe stato se l’Arcivescovo non si fosse esposto per primo, esigendo dai suoi preti una generosità senza misure, e costringendo anche le poche autorità civili ancora presenti a fare il loro dovere.

Ogni giorno si aggirava per le strade della città, visitava malati e moribondi. Solo per lui si aprivano ancora le porte delle case e ne usciva un qualche rivolo di carità, in elemosine e mezzi di sostentamento, destinati ai più derelitti.

 

L’Arcivescovo non aveva certo conoscenze maggiori di quante ne avessero gli scienziati del suo tempo: allora nessuno sapeva dir nulla di preciso né sulla causa del morbo, né sui rimedi per debellarlo.

Ma intanto egli donava alla gente quel che meglio sapeva: spiegava loro che c’era una certa parentela tra la peste che distruggeva i corpi e quella che distruggeva le anime e che la stessa misericordia di Dio, che salvava le anime,  poteva salvare anche i corpi.

Chiedeva perciò la conversione del cuore, suggeriva preghiere e celebrazioni liturgiche, organizzava processioni e riti d’espiazione…

Già allora subì la critica di chi gli rimproverava di favorire il contagio organizzando quegli assembramenti, e c’era forse qualcosa di vero, ma Carlo sapeva che non basta evitare il contagio dei corpi quando vengono meno le ragioni del vivere ed esplodono tra i superstiti gli istinti più bestiali e gli egoismi più feroci.

Non serve a molto inculcare la paura e la prevenzione del contagio, quando i familiari abbandonano i loro stessi cari al primo sospetto, e tutti si asserragliano nelle loro case estirpandosi dal cuore ogni istinto di umana solidarietà.

Del resto è sorprendente, anche ai nostri giorni, la saggezza con cui l’Arcivescovo cercò di valorizzare tutte le conoscenze scientifiche di cui allora poté disporre. S’intrattenne ripetutamente sull’argomento con i più celebri clinici dell’università di Pavia e studiò personalmente i migliori testi di medicina che riuscì a procurarsi.

Le disposizioni igieniche che egli diede ai suoi collaboratori sono quanto di più saggio si potesse allora prevedere: esigeva che tutti si lavassero e cambiassero le vesti dopo ogni contatto con i malati, e perfino quando distribuiva del denaro faceva collocare le monete in vasi di aceto.

Giunse fino a lanciare la scomunica contro coloro che facevano mercato delle vesti appartenute agli appestati.

Spiritualmente s’era preparato facendo testamento e lasciando suo erede l’Ospedale Maggiore.

Aveva già donato tutti i tessuti, anche quelli preziosi, conservati negli armadi del palazzo arcivescovile, compresi paramenti rossi, verdi e viola, perché se ne facessero abiti e coperte per i malati. Aveva fatto vendere tutta l’argenteria, e mandato al lazzaretto perfino il suo povero letto.

Quando la peste finì, erano morte circa ventimila persone, ma nessun collaboratore dell’Arcivescovo era stato contagiato.

Chi non vuole ammettere il miracolo, deve almeno ammettere la saggezza delle norme igieniche da lui severamente inculcate. Dicono che si deve alle sue prescrizioni il fatto che le vittime furono meno della metà di quelle che si ebbero a Venezia, in circostanze analoghe.

 

Dopo essersi estenuato con l’assistenza agli appestati, Carlo continuò ad estenuarsi nelle sue interminabili visite pastorali: visite a tutta la Diocesi che allora si addentrava nel Veneto, nel Piemonte, nella Svizzera: non c’è paesino sperduto che egli non abbia visitato almeno due volte. A questo s’aggiungeva la sua responsabilità di metropolita di una provincia ecclesiastica comprendente altre quindici diocesi, ch’egli dovette pure visitare.

Ogni visita durava circa tre mesi, e il santo raggiungeva anche le parrocchie più lontane. Una delle visite più faticose fu nel 1580 quella alla diocesi di Brescia dove fu accolto – dice il cronista – “con manifestazioni di gioia infinite e splendide”, tra le quali non mancavano conversioni clamorose di eretici notori, pacificazioni di odii inveterati, pentimenti di briganti e banditi. Una notte fu costretto dal maltempo a pernottare in una osteria di Martinengo, ritrovo abituale di un gruppo di banditi; fu tale l’incanto della sua severa dolcezza che decisero di cambiar vita e di confessarsi tutti dal santo Arcivescovo. Faticarono solo a superare il rispetto umano, perciò stabilirono che avesse a confessarsi per primo chi perdeva al gioco della morra. E a perdere, con la relativa penitenza, fu giustamente il loro capo. Abbiamo ancora una lettera con cui Carlo li raccomanda al prevosto di Crema perché li aiuti a tener fede al proposito di cambiar vita.

Dovunque arrivava gli occorrevano ore e ore per riuscire a distribuire la comunione a tutti coloro che volevano riceverla dalle sue mani. E quando giunse a Castiglione delle Stiviere poté dare la prima comunione anche al piccolo Luigi Gonzaga.

 

“Era come se un Apostolo di Gesù Cristo fosse ritornato sulla terra”, dicevano i testimoni, per spiegare quell’enorme afflusso di popolo e quell’entusiasmo di conversioni. Si piegavano perfino paesi interi che da tempo vivevano in stato di ribellione contro il proprio Vescovo, come accadde in una località della Valcamonica.

 

Viaggiava abitualmente a cavallo, a volte anche di notte, percorrendo le distanze nel più breve tempo possibile. Prendeva riposo solo nelle canoniche o nei conventi, evitando palazzi nobiliari. A volte, nell’attraversare valichi montani, dovette dar prova di buone doti di alpinismo, che vengono ancora celebrate in certe canzoni popolari. E non mancarono preoccupanti disavventure di viaggio o vere e proprie disgrazie dalle quali usciva miracolosamente incolume.

Insomma la fama di Carlo fu tale che ancor oggi non c’è quasi chiesa dell’Italia settentrionale e della Svizzera italiana che non abbia  un oratorio o una cappella o un altare o un quadro o una statua, a lui dedicati. Eppure sul suo stemma cardinalizio alla fine aveva lasciato una sola parola: “Humilitas” ( “Umiltà”)!

 

Intanto Carlo era diventato ancora più povero e penitente, ammesso che ciò fosse stato possibile.

Pregava lungamente e intensamente, dormiva su della paglia, mangiava pochissimo, indossava vesti logore e lavorava ininterrottamente. A volte, quando lo chiamavano per cena, diceva: “Troppo presto!”, indicando che aveva ancora del lavoro da sbrigare. Lasciavano passare qualche ora, poi lo richiamavano. “Ora è troppo tardi!”, diceva con un sorriso umile e un po’ malizioso, e si apprestava a prendere quel po’ di riposo che si concedeva. Non voleva mai che gli si scaldasse il letto e diceva che “c’era un modo facile per trovare il letto caldo: quello di andarci quando per la lunga veglia il nostro corpo è più freddo del letto”. Non era masochismo: semplicemente Carlo ricordava i lunghi anni passati tra gli agi e le ricchezze (quando si dilettava di caccia, di giochi di società e di violoncello), e non gli sembrava mai d’aver appreso abbastanza l’arte di assomigliare al suo Signore Crocifisso. Si confessava ogni giorno e trovava sempre qualche peccato su cui piangere.

Un giorno in cui, distribuendo la comunione, gli cadde in terra una particola, si punì per quella negligenza con una settimana di digiuno e restando quattro giorni senza celebrare.

Certo a noi sembra uno scrupolo esasperato, ma che cosa sarà sembrato ad uno che viveva soltanto d’amore per il Crocifisso e l’Eucaristia?

A chi gli rimproverava le troppe penitenze rispondeva: “La candela per dar luce agli altri deve consumare se stessa… Così dobbiamo fare noi”.

La fama delle sue penitenze s’era così diffusa che da ogni parte gli giungevano inviti alla moderazione. Perfino il Papa gli inviò un Breve (addirittura un documento ufficiale) per obbligarlo a curarsi la salute. Ma giunse troppo tardi.

Quando spirò – dopo una breve agonia passata a contemplare con estrema commozione i quadri della passione di Cristo che aveva in camera e che aveva fatto disporre attorno al suo letto – Carlo Borromeo aveva soltanto 46 anni.

Dicono che le sue ultime parole furono: “Guarda, Signore, sto arrivando…”.

Quando a tarda sera del 3 novembre 1584 dall’alto del Duomo risuonarono i funebri rintocchi, nella piazza dell’arcivescovado si riversò un fiume di gente: uomini, donne bambini, preti e religiosi cercavano di invadere la casa arcivescovile per raggiungere il loro padre e pastore. Tutti volevano “vedere il santo”.

 

Nessun Vescovo aveva mai suscitato nel popolo tanto affetto e tanta venerazione, quanta ne aveva suscitato Carlo Borromeo, nonostante la sua inflessibilità (che pure sapeva essere dolce). Lo chiamavano “Padre dei poveri”.

Perfino le autorità civili si videro costrette a scrivere a Roma, inviando le condoglianze al Papa e dichiarando che Carlo aveva saputo acquistarsi a Milano (queste le loro esatte parole) “un amore incredibile”.